Giovedi, 21 Agosto 2025

     

 

 

editore: APN ong - c.f. 97788610588

Presidente: Ing. Maurizio Scarponi 

Presidente onorario: Prof. emerito Gianluigi Rossi 

sede legale Via Ulisse Aldrovandi 16 00195 Roma Italia 

associata UNAR-USPI-CNR 

www.silkstreet.it 

Direttore responsabile: dott.ssa Emanuela Scarponi, giornalista 

registrato presso Tribunale di Roma - settore Stampa

n. 111/2019 del 1 agosto 2019

ufficio stampa: Emanuela lrace, Maria Pia Bovi, Roberto Pablo Esparza, Andrea Menaglia,  Mark Lowe 

www.africanpeoplescientificnews.it   

registrato presso Tribunale di Roma-settore Stampa 202/2015 2 Dicembre 2015 

Direttore Scientifico: Ing. Maurizio Scarponi, iscritto Albo speciale 

ISSN : 2283-5041

www.notiziedventiroma.it   

registrato presso Tribunale di Roma - settore Stampa n.  140/24 ottobre 2019

direttore responsabile:               Emanuele Barrachìa 

 

 

 

         

 

 

 

AFRICANPEOPLE ONG

 

24h PRESS AGENCY AFRICANPEOPLE

 

AFRICANPEOPLE SCIENTIFIC NEWS

 

NOTIZIE D'EVENTI ROMA PRESS

 

Sidebar

Off-Canvas Sidebar

The new Off-Canvas sidebar is designed for multi-purposes. You can now display menu or modules in Off-Canvas sidebar.

  • Home
  • Radio news
  • WebTV
  • Prima pagina
  • AfricanPeople O.N.G.

IL PIANO MATTEI: UN PO’ DI STORIA di Alessandra Di Giovambattista

IL PIANO MATTEI: UN PO’ DI STORIA
di Alessandra Di Giovambattista

06-03-2024

 

La recente approvazione del DL n. 161 del 15 novembre 2023 in tema di partenariato tra Italia ed alcuni paesi dell’Africa, ha riportato alla memoria la figura di Enrico Mattei, con riferimento ai principi ispiratori delle sue politiche industriale ed economico-sociale estera nell’ambito del mercato degli idrocarburi.
La figura storica di Enrico Mattei è stata dibattuta; chi lo ha considerato un geniale economista, che ha svolto la sua attività anche in un’ottica di giustizia sociale, chi invece lo ha ritenuto un incapace, imbroglione e truffatore da strapazzo (come lo definì Indro Montanelli sul Corriere della Sera), il simbolo negativo della politica italiana e del capitalismo di Stato. Anche di recente, alcuni politici italiani hanno espresso pareri negativi sul suo operato, guidati più da un atteggiamento a favore delle privatizzazioni e a tutela dei propri interessi che da una reale analisi delle capacità manageriali e dei risultati positivi raggiunti da Mattei e dalle sue strategie politico-economiche.
Ed invece è opportuno recuperare l’immagine di Mattei quale imprenditore italiano che ha saputo contrastare le pressioni interne ed estere in nome di un patriottismo che guardava all’Italia come una Nazione che doveva e poteva risorgere dalle ceneri della seconda guerra mondiale. Di fatto il primo presidente dell’Ente Nazionale Idrocarburi (ENI), da lui fondato nel 1953, è sempre stato un personaggio scomodo; pieno di intuizioni, di iniziative volte a valorizzare lo sfruttamento, il trasporto, l’impiego estensivo del metano che le grandi compagnie petrolifere preferivano bruciare in aria o abbandonare sui terreni perché troppo costoso da gestire con ingenti danni anche dal punto di vista ambientale. Il ruolo di ENI e della Società Nazionale Metanodotti (Snam) sul mercato del metano ha consentito all’Italia, nel 1960, di ridurre notevolmente le importazioni di gas naturale liquefatto dalla Russia rafforzando la capacità di rigassificazione. Ciò ha sottolineato la valenza strategica delle società sotto il controllo pubblico a fronte di chi ne voleva la privatizzazione nell’ottica di una non ben mai chiarita e verificata concorrenza di mercato, di cui oggi noi tutti paghiamo le conseguenze con bollette che sembra non si arrestino nella corsa al rincaro. La sua azione fu meritoria anche nella strategia politica e industriale verso i paesi produttori di idrocarburi in cui operava ENI e le sue controllate; la strategia era quella di garantire un pieno diritto allo sfruttamento delle risorse prelevate nei propri territori destinando parte dei proventi alla crescita interna dei paesi africani. L’approccio di Mattei era quello dell’avvio di un processo di affrancamento dalle potenze coloniali e dalle grandi compagnie petrolifere essenzialmente franco-anglo-americane che ne rappresentavano la longa manus.
Enrico Mattei, dopo un’iniziale militanza nel partito fascista, divenne, durante la seconda guerra mondiale, un comandante partigiano e fu insignito anche della medaglia d’oro; può essere considerato un protagonista fondamentale del boom economico nonché artefice della politica estera italiana, nel periodo post bellico, grazie al rilievo che l’ENI guadagnò in ambito internazionale.
Ma andiamo con ordine: dopo la fine della seconda guerra mondiale Enrico Mattei fu nominato commissario dell’Agenzia Generale Italiana Petroli (AGIP), una struttura fascista (costituita nel maggio del 1926) e non più operativa, con il compito specifico di liquidare l’AGIP, vendendo gli immobili e tutte le attività al primo offerente per alleggerire lo Stato da un peso considerato inutile. Mattei dopo aver accettato l’incarico di liquidatore si convinse che era necessario per l’Italia recuperare un piano energetico per la ricostruzione e lo sviluppo del Paese; così, aiutato dai dipendenti ripristinò i vecchi impianti, riportò al lavoro molti operai, in totale disaccordo con le direttive impartite dal Governo. Dopo pochi anni furono scoperti dei giacimenti di metano nella provincia di Lodi e di lì a poco Mattei iniziò un’azione di modernizzazione dello Stato con cui attraverso una rete capillare di metanodotti si rifornivano le case e le industrie con un combustibile a basso prezzo. L’Agip iniziò anche a produrre liquigas per le cucine domestiche e si dotò di camioncini per raggiungere anche i piccoli comuni di montagna; creò le stazioni di servizio, i motel Agip, i bar. Nel 1953 Enrico Mattei costituì l’ENI e fu eletto primo presidente; in breve l’Ente si sarebbe trasformato in un colosso internazionale grazie alla sua politica industriale innovativa. Egli guardò con interesse l’Africa, in particolare l’Algeria tra la metà degli anni 50 e l’inizio degli anni 60, dove sostenne anche la causa dell’indipendenza algerina dal governo di Parigi. Ma c’è di più; Enrico Mattei volle trasformare l’ENI in una realtà con valenza mondiale nel settore degli idrocarburi per contrastare la politica oligopolistica delle c.d. “sette sorelle”, cioè le multinazionali petrolifere essenzialmente anglo-americane: Exxson, Mobil, Shell, Chevron, Gulf, Texaco, BP. Questo cartello trattava con i Governi dei paesi produttori di materie prime con un atteggiamento ancorato al colonialismo; Mattei invece trovò un modo innovativo di coinvolgere i Paesi nell’attività estrattiva creando società miste tra ENI e governi locali; in tal modo contribuiva a migliorare le condizioni di vita dei popoli africani e ne incrementava l’occupazione. La formula Mattei poteva quindi essere riassunta come “Africa per l’Africa” dove predominava la collaborazione rispetto al bieco sfruttamento. L’obiettivo di Mattei era estrarre ed utilizzare le materie prime dei paesi produttori e nel contempo svilupparne la commercializzazione affinché il continente africano crescesse e prosperasse grazie all’uso delle proprie risorse; in particolare l’accesso all’energia avrebbe contribuito a portare sviluppo e stabilità. Nacque così anche la formula di distribuzione degli utili dove ai paesi produttori si riconosceva il 75% degli utili, mentre il 25% andava ad ENI e ciò restituiva il giusto compenso ai paesi africani e medio orientali in un’ottica di una graduale e ordinata crescita di territori con culture e tradizioni proprie. Mattei con questa nuova formula aveva ottenuto concessioni in Somalia, Egitto, Marocco, Libia, Sudan, Tunisia ed Iran. Inoltre, nel 1960 sottoscrisse un accordo con la Russia per un’ingente fornitura di greggio a prezzi molto bassi e ciò segnò l’inizio di una collaborazione commerciale proficua tra ENI e Russia che prevedeva anche l’esportazione di tubi della Findesit, macchine Fiat, cavi Pirelli, tubi e fertilizzanti azotati. In pochi anni l’Agip e l’ENI divennero dei colossi economici e rivestirono un ruolo fondamentale nella ricostruzione, nella crescita e nello sviluppo economico dell’Italia.
Tutto ciò si poteva ricondurre al pensiero illuminato di Enrico Mattei, che seppur ambizioso, vantava mire non personali ma volte allo sviluppo ed al benessere collettivo per sostenere l’Italia nella ricostruzione post bellica. Mattei insieme ad altri esponenti interni al partito della Democrazia Cristiana (DC) propendevano per una sorta di pacifismo cristiano che doveva contrastare i retaggi colonialisti e la forte presenza statunitense che intendeva permeare tutto il modo con le sue logiche spiccatamente capitaliste e il suo predominio nell’Alleanza Atlantica (NATO). Nel corso della cerimonia per il conferimento della laurea honoris causa in economia e commercio ad Urbino (nel 1959), Enrico Mattei sottolineò il ruolo strategico dell’impresa pubblica, nell’ottica dell’interventismo statale di stampo Keynesiano visto come motore dell’economia in periodi di recessione, con ciò contestando il puro liberismo di importazione angloamericana; in quell’occasione fu emblematica la sua frase in cui sottolineò che non avrebbe voluto vivere da ricco in un paese povero!
Mattei si mosse nell’ambito del modello di sviluppo economico misto, basato sull’intervento pubblico nell’economia, così come in precedenza era successo per la creazione dell’Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI nel 1933) - che si fece carico del sostegno e della rinascita del sistema industriale italiano - dell’Istituto Mobiliare Italiano (IMI nel 1936) – che operò nel credito mobiliare, applicando la separazione tra credito bancario a breve e a lungo termine, a ridosso della crisi delle banche italiane che avevano finanziato le imprese industriali oltre i limiti consentiti dalla natura dei fondi da esse raccolti - e degli altri enti a partecipazione statale che divennero imprenditori seguendo le regole di mercato. Mattei con la sua impronta fece dell’ENI più di un’industria: un luogo dove al fianco delle attività produttive in campo petrolifero si svolgeva anche una vera e propria politica estera. Naturalmente come per qualunque situazione si possono intravedere anche zone d’ombra: per Mattei tutto contribuiva al raggiungimento dei sui scopi, anche la costituzione di fondi neri per il pagamento dei politici, gli affari con il mondo arabo e con l’Unione Sovietica in piena guerra fredda. ENI fu un’azienda pubblica anomala ed in alcuni casi spregiudicata, ma forse questo approccio era necessario in quel momento in cui venivano a delinearsi i potenti attori del mondo, che ancora oggi dominano, in alcuni casi anche in modo arrogante.
Il modello conosciuto come la “terza via” si basava su un’armoniosa sintesi tra privato e pubblico, dove le direttive di politica economica, essendo in mano al Governo - composto allora da politici che sentivano la responsabilità sociale in un modo abbastanza diverso da quelli di oggi - contrastavano i desideri e gli interessi del mercato e delle parti private che detenevano il potere finanziario. In una parola si cercava di mantenere i pilastri dello Stato sociale a tutela dei più deboli; tuttavia nel tempo è prevalsa la spinta alle privatizzazioni che si sono concretizzate in tagli alla sanità, alla pubblica istruzione, ed agli altri servizi sociali che di fatto non hanno contribuito a diminuire il livello delle spese pubbliche ma al contrario hanno foraggiato clientele e interessi personali e creato malcontento nella società. Secondo la visione di Mattei l’ENI doveva essere il braccio operativo dell’Italia per garantire la sicurezza energetica ed il bene comune della Nazione e questo si dimostrò fondamentale durante il boom economico. Mattei vedeva, nelle materie prime e in particolare nell’energia, il vero motore dell’economia e delle relazioni internazionali; il tutto ben distante da ogni pseudo ideale di pace, libertà e democrazia portato avanti dai paesi come Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti D’America ed oggi possiamo aggiungere anche Cina ed India. A questo si unì la chiara volontà di emergere come Paese industrializzato al pari degli altri paesi occidentali, non soggiogato dalla sconfitta della seconda guerra mondiale. Mattei sostenne che la posizione italiana, dopo il trattato di pace, fosse analoga a quella dei paesi del terzo mondo dove i paesi occidentali ne possono depredare le risorse senza favorirne lo sviluppo socio-economico. Quindi Mattei scelse la via del partenariato escludendo atteggiamenti colonialisti tipici delle grandi potenze che sfruttano territori e persone senza offrire possibilità di sviluppo, acuendo anzi i problemi di convivenza tra culture, religioni e tradizioni sostanzialmente molto diverse; ne vediamo oggi le tristi conseguenze. Fondamentalmente il pensiero storico economico di Mattei si può così riassumere: alla necessità di materie prime per uno Stato deve farsi fronte con una politica di partenariato, di accordi da sottoscrivere con i paesi detentori di tali risorse, offrendo loro, così, la possibilità di un equilibrato sviluppo.

Dettagli
Emanuela Scarponi logo
06 Marzo 2024

IL MICROCREDITO E LA TEORIA DI MUHAMMAD YUNUS IL BANCHIERE DEI POVERI. di Alessandra Di Giovambattista

IL MICROCREDITO E LA TEORIA DI MUHAMMAD YUNUS IL BANCHIERE DEI POVERI.

di Alessandra Di Giovambattista

 21-04-2024

All’inizio del mese di novembre del 2022 (nello specifico il 7 e l’8 novembre) il Premio Nobel per la pace  2006, il professor Muhammad Yunus – meglio conosciuto come il banchiere dei poveri - ha parlato di fronte ad una platea composta da imprenditori impegnati in ambito sociale, politici, manager, esponenti delle organizzazioni non governative (ONG) ed accademici, riunita presso l’Università di Torino in occasione del Global Social Business Summit. Questo momento di confronto, che rappresenta il vertice mondiale della comunità degli operatori in ambito sociale, è nato per dialogare, condividere le idee e cooperare nella ricerca di soluzioni che possano contribuire a risolvere le sfide socio-ambientali del nostro tempo; l’evento è organizzato, dal 2009, dal Grameen Creative Lab e dallo Yunus Centre e il promotore di tutto questo è proprio il premio Nobel per la pace il Prof. Muhammad Yunus. L’approccio centrale è stato riflettere sull’impatto che le aziende del terzo settore, in particolare le imprese sociali, possono avere nel cercare di raggiungere la pace tra i popoli. I temi caldi hanno riguardato il settore tecnologico come elemento strategico per combattere la povertà, creare opportunità di lavoro, promuovere l’inclusione economica e proteggere il clima; tutti temi che dovrebbero contribuire a far trovare equilibri tra Popolazioni e Stati al fine di promuovere la cultura delle pace e della crescita equa ed inclusiva. Sono argomenti fondamentali per cercare di far sviluppare le economie in modo responsabile, verso l’ambiente e le persone, riconoscendo un ruolo predominante alle imprese sociali le quali si pongono obiettivi umani di sviluppo e di miglioramento delle condizioni socio-economiche, ben distanti dal semplice e bieco interesse economico-finanziario e dalla logica del tornaconto.

Muhammad Yunus è conosciuto come l’ideologo del “microcredito” nonché di un modello di impresa che non si basa esclusivamente e prevalentemente sul profitto, bensì sull’interesse ed il benessere collettivo, il tutto affiancato da un approccio di finanza etica ed economia sostenibile. La teoria del “microcredito” si basa sul riconoscimento e la concessione di piccoli prestiti onerosi destinati alle persone più povere che altrimenti non avrebbero la possibilità di accedere a forme tradizionali di credito, perché queste ultime si fondano sulla presentazione ed accettazione, da parte delle banche, di adeguate garanzie personali o reali.

È così che nel 1983 Yunus fondò la Grameen Bank (nella lingua del Bangladesh significa “banca del villaggio”, intesa come banca rurale), ed iniziò a fare concorrenza alle banche presenti sul territorio del Bangladesh concedendo prestiti a persone sprovviste di garanzie. Nessuno poteva aspettarsi un successo; ed invece i prestiti furono rimborsati con un tasso molto più alto delle medie registrate negli istituti di credito tradizionali ed oggi la banca conta circa 2.500 filiali in tutto il mondo. Attorno ad essa ruotano fondazioni, associazioni no profit ed ONG che finanziano e supportano progetti di microcredito e sviluppo nella ricerca – come ha dichiarato il fondatore Yunus - di un’economia a tre zeri: zero disoccupazione, zero povertà, zero emissioni di CO2.

Ma partiamo dall’inizio: Muhammad Yunus nasce il 28 giugno del 1940 a Chittagong, il più importante centro economico del Bangladesh. La nazione si forma nel 1971 rivendicando la sua autonomia nei confronti del Pakistan, che a sua volta era stato creato dalla divisione, per motivi religiosi, dalla Repubblica dell’India (infatti la repubblica del Pakistan è a maggioranza musulmana, mentre la Repubblica indiana è a maggioranza induista). Egli si reca negli stati Uniti per i suoli studi economici presso la Vanderbilt University e nel 1972 torna nella sua città natale accettando la posizione di professore associato alla Chittagong University, ricoprendo contestualmente anche l’incarico di direttore del dipartimento di economia.

Il suo Paese è uno dei più poveri e sovrappopolati dell’Asia e nel 1974 viene colpito da una pesante carestia; lungo le strade della sua città è un susseguirsi di poveri, mendicanti, senza tetto. Ovunque si giri lo sguardo si vede solo tanta miseria; decide allora di recarsi direttamente nei villaggi limitrofi alla sua città per parlare direttamente con le persone e cercare di capire le ragioni effettive della loro grande povertà. Si fa aiutare anche dai suoi studenti e presso il villaggio di Jobra censisce 42 famiglie che hanno richiesto prestiti per poter iniziare una piccola attività produttiva. Scopre così che l’esposizione debitoria di quel campione di persone ammonta a 856 taka che in valuta bengali corrisponde a circa 27 dollari!

Ma quindi quale è il problema? Di fatto le persone non riescono ad ottenere credito dalle banche tradizionali in quanto non dispongono di adeguate garanzie e quindi per aprire una piccola attività artigianale, agricola o commerciale, che offra loro un minimo di sostentamento, sono costretti a rivolgersi a soggetti benestanti che si comportano da sfruttatori, prestando denaro ad usura. Ma leggiamo un passo della sua esperienza con Sufia Begum, abitante del villaggio di Jobra, direttamente dal suo libro scritto nel 2008 (“Un mondo senza povertà”, M. Yunus, edito da Feltrinelli): “Lei fabbricava con notevole abilità funzionali ed eleganti sgabelli di bambù nella fangosa aia della sua abitazione. Eppure, anche in questo caso per qualche ragione tutta la sua dura fatica non riusciva a tirar fuori la famiglia dalla povertà. Parlandole, finalmente riuscii a capire perché. Come quasi tutti nel villaggio, Sufia si faceva anticipare dagli strozzini locali il denaro che le serviva per comprare il bambù per gli sgabelli, e lo strozzino le dava il denaro solo se lei acconsentiva a consegnargli tutta la produzione al prezzo che lui stabiliva. Grazie a questo infame accordo e agli alti interessi che doveva pagare sul prestito, tutto quello che le restava erano solo due penny per una giornata di lavoro.”

All’esito della sua indagine conclude che lui stesso, chiedendo un prestito di poco meno di ventisette dollari, potrebbe salvare dall’usura ben 42 famiglie; da qui quindi la sua intuizione: offrire lui stesso delle garanzie per procurarsi del denaro per iniziare un processo virtuoso di credito. Infatti la radicata convinzione degli istituti bancari risiede nel pensare che le persone povere non restituiscano i prestiti ottenuti in quanto non presentano adeguate garanzie. Quindi Yunus si rivolge direttamente alla banca locale alla quale chiede un prestito di 10.000 taka, circa 300 dollari - che suddivide in tanti micro prestiti a favore dei poveri del villaggio di Jobra - e per il quale la banca chiede le garanzie personali del professore stesso. L’esperimento funziona e dimostra che la maggioranza delle persone che hanno ottenuto il micro-prestito lo ha restituito alla scadenze preordinate pagando anche gli interessi!

Così nel 1977, dopo un incontro con il direttore di banca della Bangladesh Kristi Bank, Yunus riesce ad aprire a Jobra una succursale della stessa banca con l’intento di continuare ad erogare micro-credito alle persone meno abbienti. Tuttavia le resistenze dovute ai secolari preconcetti bancari ed alla convinzione che l’esperimento sia andato bene esclusivamente per il carisma del professore, inducono Yunus a fondare lui stesso una banca con il focus esclusivo sui clienti poveri a cui prestare, senza garanzie reali e senza espletare pratiche legali, piccole somme di denaro capaci tuttavia di aiutare lo sviluppo di un’iniziale idea produttiva.

Nasce così nel 1983 la Grameen Bank, che eroga microcredito nella formulazione pensata dal Prof. Yunus e che offre una visione diversa di povertà e una terapia finanziaria atta a contrastarla, e che si basa su queste caratteristiche: la centralità della donna, il prestito di gruppo (ricordiamo che Grameen in lingua locale significa villaggio), la mancanza di garanzia di qualunque tipo, l’inesistenza di strumenti giuridico-legali, la fiducia nei confronti dei debitori e il concetto di reciprocità di aiuto e di circolarità del credito. Nella sua mission si riconosce anche un approccio completamente diverso da quello delle banche tradizionali; queste cercano di attirare i clienti ricchi ed affidabili, la Grameen Bank, al contrario, pone il suo obiettivo sulla concessione di finanziamenti alle persone povere che non hanno da offrire garanzie reali o personali.

Così impostata la banca, nel tempo, espande i prodotti finanziari da offrire ai suoi clienti e propone fondi assicurativi, leasing per l’acquisto di beni ammortizzabili e prodotti di risparmio. Ma un altro elemento abbastanza imprevedibile è legato al fatto che la maggior parte dei clienti beneficiari del micro credito sono donne (per il 90% circa); questo dato è abbastanza inaspettato se si pensa che il Bangladesh è un paese di religione musulmana, dove le donne vengono poste in una posizione di subordinazione rispetto agli uomini. In una società patriarcale le donne non possono chiedere prestiti, neanche quelle che si trovano in una posizione economica agiata in quanto soggette, in ogni caso, all’autorizzazione da parte di mariti, padri e fratelli.

In tale contesto socio culturale è evidente che la banca di Yunus abbia dovuto contrastare anche molte critiche ed ostacoli da parte: della componente maschile della società che iniziava a sentirsi travolta da una sorta di emancipazione femminile con la conseguente perdita di controllo e di assoggettamento economico sulle donne; degli usurai che sono stati spiazzati nei loro affari, dai guadagni facili ed illegali, in quanto la maggior parte dei clienti veniva loro sottratta; infine dai capi religiosi che iniziavano a veder minati i principi sui quali si basa la propria religione.

Ma dopo diversi anni forse l’attacco peggiore che sta subendo il Prof. Yunus è quello che lo ha coinvolto ad inizio del 2024 in uno scandalo legato alla violazione di alcune leggi sul lavoro da parte di una sua azienda, la Grameen Telecom (la più grande compagnia di comunicazioni del Bangladesh) e per il quale, insieme a tre dei suoi collaboratori è stato condannato a sei mesi di carcere. È stato iniziato anche un altro processo a suo carico per evasione fiscale e corruzione; in totale più di cento accuse da cui doversi difendere. Ma dietro questo attacco c’è chi ipotizza, e forse senza sbagliare, motivi politici; infatti il prof. Yunus è inviso all’attuale governo del Bangladesh che, attraverso la presidente Sheikh Hasina, lo ha accusato di approfittare dei poveri; ma i due in realtà sono rivali e l’attuale presidente ha intensificato la repressione del dissenso politico durante il periodo antecedente le elezioni. La sentenza e le accuse contro il professore sono state considerate un attacco politico ai principi della libertà e dei diritti umani: il prof. Yunus si può a ben ragione considerare colui che ha contribuito in modo importante al tentativo di crescita del proprio Paese, offrendo un futuro dignitoso a coloro che altrimenti non avrebbero avuto mezzi per il sostentamento quotidiano. Anche Amnesty international è scesa in campo in difesa del premio Nobel e più di 160 grandi personalità internazionali, tra cui Barak Obama, e circa 100 premi Nobel hanno pubblicato una lettera congiunta in cui si denunciano le continue molestie giudiziarie nei confronti di Yunus, e si afferma di temere per la sua sicurezza e libertà.

La storia purtroppo si ripete nel tempo: l’essere umano accecato dal potere e dall’ambizione agisce iniquamente ed utilizza tutte le armi contro lo slancio generoso ed altruistico di poche persone lungimiranti e sapienti che provano a risollevare le sorti dei più deboli e dei più poveri, convinti che le cose possano cambiare in favore di forme di collettività basate su principi di giustizia sociale!



Dettagli
Emanuela Scarponi logo
21 Aprile 2024

IL SOCIAL BUSINESS: UN NUOVO PARADIGMA DI IMPRESA di Alessandra Di Giovambattista

IL SOCIAL BUSINESS: UN NUOVO PARADIGMA DI IMPRESA

di Alessandra Di Giovambattista

 20-05-2024

Quando il Prof. Muhammad Yunus iniziò ad insegnare economia nell’Università di Chittagong (nel Bangladesh, suo Paese natale) era convinto di spiegare ai suoi giovani studenti delle teorie economiche che sarebbero state in grado di dare risposte e soluzioni ai problemi quotidiani che si fossero presentati ad aziende e singoli: agricoltori, professionisti, artisti, commercianti. Tuttavia, quando si prese del tempo per vedere sul campo e testare le condizioni di vita dei suoi connazionali, si accorse che ovunque guardasse c’era solo miseria. Secondo la sua testimonianza rilasciata nel suo libro “Il banchiere dei poveri” (edito da Feltrinelli, 2004), avvertiva come se stesse girando un film; la sua aula universitaria era un palcoscenico che tentava di dare risposte, ma che il più delle volte restituiva solo illusioni e teorie vacue ed inattuabili.

La realtà quotidiana si distaccava dalle fredde equazioni ed equivalenze che la scienza economica offriva, e le teorie apparivano solo dottrine infarcite di grandi e vuoti pensieri e conclusioni spesso non verificabili! Ma come è possibile che un’equazione possa andare bene per ogni società e risolvere problemi che prima di tutto sono vissuti sulla pelle di ogni singolo, unico ed irripetibile? Non si trattava di studiare l’atomo o l’andamento di un fenomeno, ma si trattava di capire le reazioni umane a certe sollecitazioni quali la povertà, l’emarginazione, la miseria, la disuguaglianza di genere, e proporre soluzioni.

Il prof. Yunus trovò la risposta, valida per l’ambiente in cui viveva, nel ripensare i presupposti per la concessione dei prestiti di modico importo a favore delle classi più povere. Quella di Yunus è stata una guerra combattuta per ricercare risposte ben oltre le mere soluzioni economiche: prima di tutto è stata una vittoria sull’emarginazione e la sudditanza delle donne rispetto al mondo maschile, una rivoluzione quindi non solo economica ma prima di tutto sociale e religiosa. Il ripristino dell’equità e della giustizia calma gli impulsi violenti che si innescano quando si è di fronte a scelte che implicano la sopravvivenza. Ecco perché le sue teorie economiche hanno meritato il premio Nobel per la pace: la pace si costruisce prima di tutto in capo ad ogni singola persona che sa di poter ricevere e dare rispetto e poter contare sulle proprie capacità, vedendosi riconosciuto il valore e la dignità del proprio lavoro che gli garantisca una vita serena ed accettabile per sé e la propria famiglia. In tal modo si esclude ogni forma di neo schiavismo che sembra potersi leggere nelle situazioni attuali se solo si guarda alle condizioni estreme in cui vivono uomini e donne dei paesi c.d. del terzo mondo. Un terzo mondo fatto di territori ricchi di materie prime che però, per assurdo, vengono sfruttate dalle nazioni potenti della terra che inquinano e inventano guerre e inducono gli abitanti autoctoni a migrare dalle proprie terre alla ricerca di maggior fortuna.

Così, in risposta alla richiesta di aiuto da un’infinità di poveri della sua Nazione, nacque la Grameen Bank - che concedeva piccoli prestiti per iniziare attività economiche, viste in un contesto economico di rispetto e di sostenibilità (il c.d. “social business”) - che riuscì a dare una spallata alla logica adottata dagli istituti di credito tradizionali che basano la concessione dei finanziamenti sul possesso di garanzie reali e personali. Sempre nel libro citato Yunus evidenzia che l’idea della sua banca è partita dall’operare al contrario rispetto a quanto facevano le banche tradizionali: i dipendenti passavano la maggior parte del loro tempo nei villaggi, conoscevano e parlavano con le persone povere e a queste proponevano determinate modalità di credito in ragione delle singole necessità e situazioni.

Questo approccio, che potrebbe tranquillamente convivere con quello delle banche tradizionali, ricorda molto l’insegnamento dell’economista E. F. Schumacher, pensatore della teoria del “Piccolo è Bello” dove occorre restituire l’economia nelle mani dell’uomo; essa deve essere al servizio delle sue necessità e non deve valere il viceversa: l’economia per l’uomo e non l’uomo per l’economia. Deve così instaurarsi una spirale virtuosa dove non esiste prevaricazione e dove tutti hanno un proprio, meritato posto. Ma una banca basata su questa nuova mentalità ha incontrato molte difficoltà; leggiamo dalle dirette parole di Yunus, tratte dal citato libro, le problematiche riscontrate: “Fin quasi dal suo nascere Grameen ha suscitato aspre controversie. Da sinistra la si accusava di far parte di un complotto americano per introdurre il capitalismo tra i poveri; si diceva che il suo vero scopo era quello di distruggere qualsiasi prospettiva di rivoluzione futura togliendo ai poveri la disperazione e la rabbia. Un professore comunista mi ha detto: “In realtà non fate altro che dare ai poveri qualche briciola di oppio, così non si lasceranno coinvolgere in questioni politiche più grandi. Con i vostri micro-niente li mettete a dormire, che stiano tranquilli e non facciano rumore. Voi uccidete il fervore rivoluzionario dei poveri, siete nemici della rivoluzione”. Da destra, i capi conservatori musulmani ci accusavano di voler distruggere la nostra cultura e la nostra religione…....Non sono un capitalista secondo la concezione semplicistica di chi ragiona in termini di sinistra e di destra, ma credo nel potere del capitale nel quadro di un’economia di mercato. Sono profondamente convinto che fare l’elemosina ai poveri non sia un gesto risolutivo; significa soltanto ignorare i loro problemi e farli volutamente incancrenire. Un povero in buona salute non vuole né ha bisogno di elemosina. Dargli un sussidio significa aumentare la sua miseria, uccidendone lo spirito d’iniziativa e togliendogli il rispetto di sé stesso. Non sono i poveri a creare la povertà, bensì le strutture sociali e le politiche da esse adottate. Se si modificano le strutture, come stiamo facendo in Bangladesh, la vita dei poveri ne sarà di conseguenza modificata. L’esperienza ci ha dimostrato che, con l’aiuto di un capitale finanziario anche limitato, i poveri sono capaci di produrre profondi cambiamenti nella loro vita.”

Quindi la banca ha rappresentato un cambio di mentalità e di pensiero che ha provocato un ripensamento anche nell’approccio al contrasto della povertà da parte delle associazioni umanitarie e delle organizzazioni internazionali, contrastando anche ogni forma di ideologia politica. Occorre partire dal concetto che ogni essere umano, anche se povero, sa svolgere un lavoro, una qualsiasi attività per la quale si sente più portato ed ha più capacità; non è necessario insegnare, a tutti i costi, un’attività nuova, voler esportare esperienze professionali e lavorative, il c.d. know how, che spesso confligge con la cultura e la tradizione della persona. Un’attività basata su tali presupposti ha un’alta probabilità di fallimento perché il lavoratore si vede proiettato in una realtà produttiva che non comprende e non sente sua, spesso si trova a produrre beni che non potrà o non vorrà mai acquistare. Il lavoratore deve poter amare il proprio lavoro, deve poter contare su un aiuto finanziario iniziale e sulle proprie forze in modo da saper contrastare i meccanismi delle insolvenze e del pagamento dei debiti.

Questo è in realtà il microcredito, così come pensato da Yunus: una piccola somma iniziale che dà la scintilla per l’avvio di un’attività economica che permette all’essere umano di poter credere ed investire su sé stesso. Lo sviluppo dal basso permette alle persone di affrancarsi da ogni forma di schiavitù e di assoggettamento e crea una spirale positiva di benessere che conduce alla pace interiore ed al rispetto. L’equità porta con sé lo sviluppo del processo di democratizzazione della società e la garanzia della tutela dei diritti umani. Il microcredito è stato così riconosciuto come una “forza liberatrice in società dove le donne, in particolare, devono lottare contro condizioni economiche e sociali repressive” (questa citazione è una parte della motivazione con cui è stato conferito il Nobel per la pace). Nello specifico gran parte della popolazione era esclusa dai circuiti economico-finanziari tradizionali; eppure in società povere bastavano davvero pochi dollari per iniziare delle attività produttive che creassero un iniziale piccolo surplus che di fatto ha permesso di sviluppare idee imprenditoriali che altrimenti non sarebbero mai state realizzate. Yunus è riuscito ad infrangere le basi economiche tradizionali del prestito fino allora conosciute per le quali non era possibile finanziare persone che non fossero state in grado di fornire adeguate garanzie di restituzione. Fatto sta che il modello finanziario di Yunus è stato esportato in altre Nazioni, a partire da quelle con un gran numero di poveri, quali il Pakistan, il Sudafrica, il Perù, ma dopo la crisi nel 2008 anche in Paesi sviluppati dove il tasso di povertà rialzava prepotentemente la testa, quali gli Stati Uniti e in Europa.

L’idea di un’impresa sostenibile, di un social business, è ora un caso didattico studiato in diverse facoltà di management, ma il valore più importante, ad essa riconducibile, è l’aver rappresentato una rivoluzione sociale che ha visto l’inizio dell’emancipazione di tante donne in società discriminanti, dove è migliorato anche il tasso di scolarizzazione dei figli, si è iniziato a garantire servizi sanitari e sociali e si è ridotto lo spazio lasciato all’integralismo religioso penalizzante specialmente per le donne. Anche nelle nostre realtà vediamo come sia difficile, per queste ultime e per i giovani, poter ottenere credito dalle banche; in tal modo si disperdono energie e si pregiudicano opportunità economiche, derivanti da idee imprenditoriali innovative, che non trovano spazio nel mercato dei capitali.

Anche in Italia è iniziato un processo di “social business” cioè di concessione di piccoli prestiti da parte di banche dedicate, come Banca Etica che collabora con Permicro, un operatore specializzato nel microcredito, che concede prestiti di modesto importo a soggetti deboli che, non avendo adeguate e sufficienti garanzie da presentare alle banche tradizionali, non potrebbero ottenere credito per iniziare una propria autonoma attività lavorativa. Nel nostro Paese sono presenti istituzioni che permettono, attraverso un percorso di finanza etica, l’inclusione sociale di soggetti (donne, giovani, spesso extra comunitari, o con ridotta capacità lavorativa o con anzianità lavorativa pregressa ma non ancora in età pensionabile, con situazioni sociali difficili) che, opportunamente seguiti e formati, vengono avviati ad intraprendere nuove piccole attività aziendali. Per soggetti si intendono sia persone fisiche sia imprese, queste ultime ovviamente di piccole dimensioni ed in una fase di inizio attività. I prestiti concedibili alle persone fisiche devono essere giustificati da motivazioni valide e meritevoli e sono per importi non superiori a 15.000 euro, rimborsabili in rate mensili per una durata che va da 1 a 6 anni; inoltre bisogna avere la cittadinanza italiana o comunque è obbligatoria la residenza, o il domicilio in Italia ed il permesso o la carta di soggiorno. Per le imprese il microcredito è dedicato a coloro che desiderano avviare o sviluppare una piccola attività imprenditoriale ma non sono soggetti c.d. affidabili dal circuito dei finanziamenti erogati dalle banche tradizionali. In tal caso l’importo massimo concedibile è di non più di 25.000 euro, rimborsabile in rate mensili di modico importo, durata dai 2 ai 6 anni, con garanzie aggiuntive da parte del Fondo di garanzia per le piccole medie imprese e del Fondo Europeo per gli investimenti. È inoltre previsto un percorso di accompagnamento per la redazione del progetto economico finanziario (c.d. business plan), per sostenere l’attività nella fase iniziale, cioè di start up, e per il monitoraggio durante tutta la durata del finanziamento.

di Alessandra Di Giovambattista

Dettagli
Emanuela Scarponi logo
20 Maggio 2024

UN ECONOMISTA FUORI DAL CORO: ERNST FRIEDRICH SCHUMACHER di Alessandra Di Giovambattista

UN ECONOMISTA FUORI DAL CORO: ERNST FRIEDRICH SCHUMACHER

di Alessandra Di Giovambattista

 16-05-2024

«Al giorno d'oggi soffriamo di un'idolatria quasi universale per il gigantismo. Perciò è necessario insistere sulle virtù della piccola dimensione, almeno dovunque essa sia applicabile” questa è una delle frasi più significative che si possono leggere nel libro “Piccolo è bello” di Ernst Friedrich Schumacher, detto Fritz (Mursia editore, 2011).

Egli nacque nel 1911 a Bonn, in Germania; figlio di un professore di economia, intraprende egli stesso studi economici prima presso l’università di Bonn poi a Londra e a Cambridge dove conosce Jhon Maynard Keynes (padre della teoria macroeconomica) ed Arthur Cecil Pigou (fondatore dell’economia del benessere). Con una borsa di studio prosegue i suoi studi a New York presso la Columbia University dove approfondisce le teorie sulle banche e la finanza ed ottiene una cattedra temporanea alla Scuola di scienze bancarie della Columbia University. Rientrato in Germania sposa una ricca donna della borghesia tedesca ma, non volendo aderire al partito nazista decide di trasferirsi in Inghilterra dove, grazie alle conoscenze della moglie, viene assunto alla Unilever, multinazionale della produzione dei detergenti chimici e degli alimenti preconfezionati, ancora oggi presente sul mercato.

Durante la seconda guerra mondiale Schumacher viene internato in una fattoria isolata nel Northamptonshire in quanto considerato un “infiltrato”; è qui che inizia ad apprezzare il contatto con la terra ed il lavoro manuale. Tuttavia in ambito locale continua a divulgare le sue teorie basate essenzialmente sulla nazionalizzazione dell’industria pesante e sulla pianificazione economica in vista della ricostruzione post bellica; è in questo periodo che le sue idee vengono notate da J. M Keynes il quale riconosce le capacità e l’intelligenza del giovane economista tedesco.

Finito il conflitto ottiene diversi incarichi di Governo finalizzati all’organizzazione ed alla ripresa finanziaria ed economica del Regno Unito. Fu consulente economico dell’ente di gestione dell’estrazione del carbone dopo la nazionalizzazione delle miniere, il National Coal Board. Tuttavia per Schumacher è anche un periodo di analisi interiore: pratica yoga, si interessa di astrologia e misticismo, segue l’alimentazione vegetariana, è sempre stato incline agli approfondimenti spirituali e contrario al materialismo, all’agnosticismo ed al capitalismo. Si avvicina al pensiero filosofico di Gandhi e ne risulta fortemente influenzato; inizia ad esporre l’idea che se l’umanità continuerà a consumare risorse non rinovabili si troverà ben presto priva di materie prime necessarie per la vita.

È così che negli anni settanta iniziano a diffondersi, specialmente nel mondo anglosassone, le sue idee fortemente critiche verso le economie occidentali e favorevoli alle tecnologie basate sulle capacità umane, decentralizzate e rispettose della persona. Sono teorie in contrasto sia con il suo stesso pensiero iniziale sia con il pensiero dominante post bellico basato sulla crescita economica come fattore unico di sviluppo sociale. A causa di questi conflitti, dovuti ai suoi ripensamenti in ambito scientifico, decise di andare a lavorare in Birmania (attuale Myanmar) come consulente per lo sviluppo economico; qui però si trovò in contrasto con le teorie portate avanti dall’economista statunitense Robert Nathan (allievo di Simon Smith Kuznets - economista di origine ebraica, ma nato in Bielorussia - conosciuto per i suoi studi sul rapporto tra disuguaglianze sociali e crescita economica) inviato per studiare e proporre l’approccio più utile per favorire lo sviluppo economico della Birmania. Mentre Nathan e Kuznets proponevano di impiantare in Oriente il modello economico americano, Schumacher capì che la cultura e le abitudini di vita del popolo Orientale sono totalmente diverse da quelle proposte dall’Occidente. Egli era convinto che il semplice aiuto da parte delle economie occidentali non sarebbe servito a ridurre le disuguaglianze sociali in ambienti poveri, anzi avrebbe prodotto fratture e spaccature ancora più profonde perché la forbice della disuguaglianza avrebbe allargato ancora di più il divario: da una parte i ricchi che si riconoscono anche nelle tradizioni e nei consumi occidentali - perché potrebbero aver vissuto in contesti diversi da quelli di origine (ad esempio per studio o per lavoro) - dall’altra le persone povere che non conoscono usi e costumi diversi da quelli originari e che quindi non sono inclini all’acquisto di beni e servizi non rispondenti ai bisogni nascenti della propria cultura e dal proprio stile di vita. Inoltre l’economia occidentale, che sin dall’origine ha posto molta enfasi sull’espansione illimitata dei consumi, conduce ad un modello di vita materialista che confligge con la tradizione anche religiosa dei paesi orientali dove, specialmente in quelli in cui si seguono gli insegnamenti del Mahatma Ghandi, l’economia si considera al servizio delle persone e non il viceversa.

Le sue idee, in contrasto con il pensiero occidentale, non furono accolte e così decise di scrivere diversi articoli su come si imposta l’economia in un paese Buddista (Economics in a Buddhist Country) sulla cui base scriverà il libro “Piccolo è bello”. In esso si possono leggere concetti derivanti dalla filosofia di Ghandi in cui l’economia è un aspetto inseparabile della cultura di una società e del suo sentire filosofico. La ricetta, secondo Schumacher, non è portare l’uomo alla tecnologia concentrata in un determinato luogo spesso alienante (le fabbriche gigantesche ed altamente inquinanti) - costringendo le popolazioni a migrare dai propri territori di origine – bensì è introdurre tecniche e strumenti di lavoro (meglio descritti nel concetto di “tecnologia intermedia” che sviluppa durante un viaggio professionale in India) che permettono di migliorare le condizioni di vita senza rinunciare alle proprie tradizioni e senza produrre danni incalcolabili sull’ambiente. Solo così si potrà avere equilibrio e pace tra le diverse forme di vita: vegetale, animale ed umana. Queste le nuove modalità di crescita per le economie in via di sviluppo (take off): rispetto delle tradizioni e dell’ambiente per un progresso che sia il più compatibile con la cultura e le tradizioni della popolazione. Nel 1964 presenta le sue teorie di sviluppo sociale, basate sulla tecnologia intermedia, durante una conferenza presso l’Università di Cambridge; tuttavia le sue idee, contrastanti con i nascenti fenomeni del consumismo e dell’accentramento delle produzioni e delle risorse (economie di scale e dimensione), vengono criticate fortemente ed accantonate dagli economisti dell’epoca.

Sarà solo nel 1973 che riuscirà a trovare un editore disposto a pubblicare il suo libro “Piccolo è bello”, una raccolta di suoi articoli e riflessioni maturate in un ventennio di studi e di ricerche sul campo. Il suo scritto sarà un best seller, specialmente negli Stati Uniti dove sarà preso a base dei nascenti studi fondati sullo sviluppo sostenibile, sul rispetto dell’ecologia e dell’essere umano; può a ben ragione essere considerato il padre dell’economia sostenibile (c.d. green economy). Fritz Schumacher morì il 4 settembre del 1977 in Svizzera durante una serie di conferenze sull’economia e lo sviluppo sostenibile. Autore di altri libri di successo riuscì a coniugare la scienza economica con la religione anzi fu particolarmente attratto dalla speculazione interiore in ambito spirituale. A partire dal 1950 il suo pensiero fu molto influenzato dalle encicliche presentate da Papa Leone XIII (Rerum Novarum - 15 maggio del 1891) e Papa Giovanni XXIII (Mater et Magistra – 15 maggio del 1961) che provavano a dare un significato religioso e spirituale alle nuove teorie ed ai nuovi stili di vita. Fu influenzato anche dal pensiero di economisti e filosofi cattolici quali Gilbert Keith Chesterton, Hilaire Belloc e Vincent McNabb. Una nota particolare che esprime la crescita interiore, oltre a quella più specifica di tipo economico, caratterizzata dall’attenzione dei suoi scritti verso la centralità dell’uomo, risiede nella sua conversione al cattolicesimo, avvenuta nel 1971.

 

Fritz Schumacher, studioso delle possibilità di crescita dei Paesi in via di sviluppo (ma non solo) formula le sue teorie economiche innovative, per il mondo occidentale, ma ben radicate nel sentire e nella cultura dei paesi Orientali, che troveranno riscontro, come modalità di approccio con le persone e le società, anche nelle applicazioni e negli approfondimenti proposti dell’economista Muhammad Yunus premio Nobel per la pace nel 2006. Questi implementa in Bangladesh, sua Nazione di origine, le teorie sul microcredito che nascono e si sviluppano attraverso l’analisi della realtà quotidiana, intervistando i poveri presenti sul territorio, e cercando di comprendere di cosa avesse davvero bisogno la società in quello specifico momento.

Un’economia al servizio dell’uomo e non il contrario: questo dovrebbe essere il paradigma alla base dello studio delle teorie economiche, dove poi ogni società va analizzata nei suoi riflessi socio-culturali e solo successivamente si può adattare la teoria economica a lei più confacente. La collettività non è composta da automi ma da esseri viventi, con proprie profonde radici, che non possono essere obbligati a fare scelte e a tenere comportamenti identici e pedissequamente applicati con le stesse modalità con cui si applicano nel mondo occidentale o in qualunque altra Nazione. Occorre sottolineare la necessità del rispetto per tutte le espressioni naturali sia ambientali sia umane ma, per questo, occorre esercitare grande dominio sui propri connaturati istinti egoistici spesso esaltati da atteggiamenti di sequela verso soggetti ben pagati (i c.d. influencer) dalle potenti aziende multinazionali che inducono al consumismo globalizzato che distacca da ogni identità, prima di tutto umana, sociale e culturale. È anche sul campo delle scelte per la soddisfazione dei bisogni che si gioca il conflitto contro i potenti della Terra: occorre ripensare l’economia e collocarla in un quadro che rispetti la sostenibilità umana ed ambientale, contro ed al di là di ogni particolare ed autonomo interesse economico e finanziario.

 

Dettagli
Emanuela Scarponi logo
16 Maggio 2024

LE DONNE: UN FATTORE VINCENTE DEL MICROCREDITO IN BANGLADESH di Alessandra Di Giovambattista

LE DONNE: UN FATTORE VINCENTE DEL MICROCREDITO IN BANGLADESH

di Alessandra Di Giovambattista

 27-04-2024

L’economista Muhammad Yunus, fondatore della Grameen Bank, ha reso - così come si legge nella motivazione del conferimento del premio Nobel per la pace del 2006 - “Il microcredito uno strumento sempre più importante nella lotta alla povertà. La Grameen Bank è fonte di ispirazione e di modelli per le numerose istituzioni del settore del microcredito che sono nate in ogni parte del mondo”. Attraverso l’osservazione diretta della vita sociale ed economica degli abitanti poveri di un villaggio limitrofo a Chittagong, città del Bangladesh dove egli insegnava economia, si rende conto che il sistema bancario di fatto impedisce agli emarginati di riscattarsi dalla loro condizione di povertà. Il sistema bancario è organizzato in maniera tale da escludere ogni forma di credito a chi non presenti adeguate garanzie; compreso questo Yunus organizza una banca che esce fuori da questo schema, capace di organizzare il credito in modo diverso rispetto al pensiero ed alla metodologia tradizionale: fonda così la Grameen Bank – prima come filiale di una banca già esistente, poi come istituto autonomo - che in lingua originale del Bangladesh significa banca di villaggio (anche traducibile in rurale).

I punti di forza di questo nuovo istituto di credito sono riconducibili a quattro pilastri:

  • la componente femminile costituisce il 99% circa della clientela della banca; le donne si organizzano in gruppi in modo da incentivarsi l’una con l’altra nella restituzione del debito e da formare una rete di contatti in caso di difficoltà. Questo approccio offre delle garanzie sulla restituzione del credito e sulla credibilità delle donne affidatarie del prestito: in tal modo esse riescono ad assumere un ruolo di fondamentale importanza nell’economia familiare, divenendo piccole artigiane ed imprenditrici, riuscendo anche a riscattarsi socialmente;

  • la scadenza massima del credito concesso è di un anno; la restituzione avviene periodicamente, con cadenza settimanale, a rate fisse pertanto non elevate singolarmente che assicurano un tasso di restituzione pari a circa il 98% (performance mai riuscita in una banca tradizionale, anche se bisogna evidenziare che i presupposti sono totalmente diversi);

  • le singole debitrici, versando una parte dei loro redditi in quote di capitale della banca, divengono anche socie dell’istituto e possono eleggere alcuni membri del direttivo;

  • l’affrancamento dagli strozzini di migliaia di piccoli imprenditori ed artigiani che riescono a creare una propria attività redditizia con somme di denaro ridotte e che cercano di liberarsi da un peso sociale, economico e politico posto dalle classi dominanti.

Il nuovo sistema organizzato da Yunus ha un inaspettato successo, e la Grameen Bank apre nuove filiali in altre Nazioni tra cui le Filippine, gli Stati Uniti d’America e il Sudafrica. È così che l’economista, nel 2006, viene insignito del premio Nobel per la pace per il suo impegno nella lotta alla povertà ed all’emarginazione. Questi sono gli elementi base della sua nuova teoria economica di Business sociale: fede nelle capacità umane e solidarietà nell’ambito aziendale. Quindi un paradigma che vede l’uomo al centro dell’economia, del benessere, dello sviluppo, con istinti egoistici (così difficili da scardinare) calibrati però da slanci generosi di solidarietà e nella ricerca di un comune benessere attraverso la creazione di imprese con finalità sociali. Lo stesso Yunus definisce il business sociale come “un tipo di impresa che pone al centro del proprio operato le piaghe sociali, economiche e ambientali con cui la specie umana si trova costretta a convivere da lungo tempo: fame, mancanza di case, malattie, inquinamento, ignoranza. Per affrontarle e risolverle” (dal suo libro: “Si può fare! Come il business sociale può creare un capitalismo più umano”, Milano, Feltrinelli, 2010). Quindi porre l’essere umano al centro di tutto, con un particolare interesse per i giovani e per la sostenibilità, garantendo un’attenzione al prossimo non più da delegare ad enti umanitari ed assistenziali; un’azienda che sappia reinvestire il surplus nell’attività stessa, per il benessere complessivo, pronta ad agire a supporto dei più deboli nei momenti di difficoltà.

A conti fatti, in Bangladesh, nei primi anni di attività della banca, sono stati concessi prestiti di piccolo importo a circa 9 milioni di persone, di cui il 97% donne, ottenendo la restituzione del debito con un tasso che non è mai andato al di sotto del 98%! Ma la vera battaglia, in un paese musulmano, è stata combattuta in favore delle donne, a cui si è dato credito, non solo finanziario ma soprattutto umano; il prestito al mondo femminile, regolarmente restituito, ha permesso di attivare un percorso circolare virtuoso di finanziamento, e ciò ha rappresentato un buon esempio che si potrebbe seguire per uscire dalla fascia di povertà.

La banca per il microcredito funziona sulla base di gruppi di reciproco sostegno; in particolare sono gruppi formati da cinque persone, per il 96% donne, e ad ognuno di essi viene concesso un prestito. Un ulteriore prestito viene negato qualora all’interno del gruppo vi siano soggetti non affidabili; si crea così una corresponsabilità che crea onestà e solidarietà tra i singoli, spinge alla restituzione del prestito ed all’efficienza dell’attività svolta. Si genera una responsabilità di gruppo che incrementa non solo l’efficacia dell’impresa organizzata dai singoli componenti, ma migliora anche i risultati economico-finanziari della banca; un modello di circolarità finanziaria che si auto alimenta. Hanno così potuto partecipare a questo programma le donne che fino ad allora si vedevano negati i prestiti da parte degli istituti bancari tradizionali - ma non certo da parte degli usurai! - vuoi per ragioni di politica bancaria, per tradizione o per motivazioni religiose. È così che più della metà dei clienti finanziati dalla Grameen Bank sono usciti dalla povertà estrema, facendo registrare miglioramenti nei parametri che consentono di stimare il benessere di una società; in particolare le variabili rilevanti sono quelle che monitorano la frequenza scolastica dei figli, il numero dei pasti al giorno (che sono saliti a tre per tutti i componenti della famiglia), l’installazione dei servizi igienici nelle abitazioni, l’acqua potabile, la capacità di rimborsare settimanalmente un prestito di circa 300 taka (cioè di circa 8 dollari), l’accesso alle cure sanitarie. In tal modo la banca ha esportato il proprio modello in altri Paesi fino ad arrivare nei ghetti di Chicago! Yunus aveva da subito privilegiato le donne nella concessione dei prestiti perché aveva constatato, nelle sue ricerche, che erano più affidabili rispetto agli uomini: non usavano i prestiti per giocare d’azzardo, per acquistare alcool, fumo o altre attività ricreative, ed erano più precise nel rimborsare i prestiti alle scadenze. La nuova formula di concessione di piccoli prestiti frazionati, in modo da suddividere in rischio per cercare di annullarlo, ha rappresentato non solo una rivoluzione economica, ma soprattutto sociale: ha contribuito all’emancipazione delle donne in società nelle quali esse subiscono continue discriminazioni di tipo religioso, politico, culturale. Milioni di famiglie hanno migliorato le proprie condizioni di vita e ciò ha avuto come conseguenza anche una modernizzazione delle collettività che erano rette ancora da principi arcaici di sottomissione delle donne.

In un’intervista del 2015, Yunus ha dichiarato che, fino a quella data, più di 170 milioni di donne hanno ricevuto un prestito e nel 2014 la Grameen Bank a fronte di 1,5 miliardi di dollari concessi sotto forma di prestiti, ha ricevuto depositi sui conti di risparmio per un uguale importo. Ciò ha significato che non solo il prestito è stato tutto restituito ed ha fruttato interessi per la banca, ma i soggetti che lo hanno ricevuto hanno potuto non solo provvedere alla proprie spese correnti, ma hanno anche destinato una parte del ricavato al risparmio, che se ben gestito, per effetto del moltiplicatore bancario (capace di far girare più volte il denaro presente nei depositi attraverso continue concessioni di prestiti) può diventare a sua volte motore di sviluppo e di crescita. In tal modo il Bangladesh ha raggiunto l’obiettivo di ridurre della metà la povertà presente nel Paese, ed ha dimostrato che anche le persone povere sono in grado di possedere la loro banca e di avere successo. Ricordiamo infatti che le persone, in maggioranza donne, che prendono prestiti, diventano anche socie della banca stessa e nel 2015 la proprietà della banca era per il 75% in mano ai soggetti affidati. Dal 2016 il Governo possiede il 6% della proprietà mentre il rimanente 94% è in mano ai clienti finanziati; nel corso degli anni sono state aperte 2.185 filiali in 69.140 villaggi bengalesi.

Secondo Yunus, l’ingresso dello Stato nella banca potrebbe creare problemi nel futuro a causa di possibili ingerenze politiche. Nel 2011 Yunus è stato estromesso dalla Banca e alcuni ritengono che ciò sia la risultante di una campagna politica nata dopo le tensioni avutesi nel 2007 tra il fondatore stesso ed il premier bengalese Sheikh Hasina. In quell’anno infatti a seguito di un atto di golpe militare, Yunus manifestò la volontà di creare un movimento politico; questo fu sufficiente per l’allora classe politica, tutt’ora al governo, per considerarlo un contendete del potere. Così sono state lanciate contro il premio Nobel accuse di corruzione, per lo più infondate, con l’unico scopo di voler gettare ombra su un economista che è riuscito a creare le basi per combattere la povertà in un paese sottosviluppato dove forse, a qualcuno, fa gioco mantenere masse di persone allo stato di indigenza e di ignoranza. D’altronde, come per le guerre, ci sono spesso influenti soggetti, non numerosi, che hanno il solo obiettivo di guadagnare o di far arricchire, in questo caso, gli enti della cooperazione internazionale che affrontano il problema della povertà con pseudo azioni volte solo a movimentare ingenti masse di denaro e con l’obiettivo di continuare a mantenere una grande parte della popolazione nell’indigenza, perché anche questo può essere un fattore di ricchezza per pochi malevoli, potenti soggetti!



Dettagli
Emanuela Scarponi logo
27 Aprile 2024

IL POTERE DELLA COMUNICAZIONE: H. MARSHALL McLUHAN di Alessandra Di Giovambattista

IL POTERE DELLA COMUNICAZIONE: H. MARSHALL McLUHAN

di Alessandra Di Giovambattista

 22-05-2024

Con il passare del tempo dalla società dell’informazione - che si è sviluppata essenzialmente attraverso messaggi monodirezionali, utilizzando i media tradizionali quali giornali, riviste, libri - si è passati alla società della comunicazione; ma che significa comunicare? Facendoci aiutare dal dizionario della lingua italiana, possiamo dire, in modo molto sintetico, che il senso più comune del termine lo ritroviamo nell’attività di relazione con la quale si intende far partecipe uno o più soggetti di un proprio pensiero, di uno stato d’animo, di un’emozione, di una notizia, di un fatto, dove si dà rilievo ad una relazione complessa e pluridirezionale, tra più persone, che può generare rapporti, partecipazioni e reazioni unilaterali o reciproche. Grazie allo sviluppo degli studi in ambito socio-psicologico possiamo identificare la comunicazione come un processo creato dallo scambio di messaggi attraverso un canale, secondo un preciso codice, tra sistemi della stessa natura o di natura differente (tra esseri umani, animali, macchine). Nella scienze umane e sociali oltre alla comunicazione verbale si riconosce anche una comunicazione non verbale fatta da un insieme di segnali che vanno oltre l’uso del solo apparato fonatorio (segnali mimici, tattili, espressioni dello sguardo, che coinvolgono l’abbigliamento e la postura, ecc). A ciò si aggiunga l’importanza del mezzo attraverso cui si diffonde la comunicazione; oggi essenzialmente ritroviamo i mezzi di comunicazione di massa (i c.d. mass media) che identifichiamo nella televisione, nella stampa, nel cinema, nella radio, ed oggi, più che mai, nelle reti di comunicazione digitale, i c.d. social network, dove il soggetto è spesso, allo stesso tempo, fonte e destinatario di informazioni.

La rivoluzione informatica ha modificato notevolmente il modo di comunicare, creando nuovi spazi di relazione che coinvolgono spesso soggetti di diversa età, cultura, estrazione sociale, etnia, credo, e rendendo liquida la società che spesso non distingue più il mondo reale da quello virtuale. I social rappresentano delle vere e proprie strutture sociali dove si affrontano e si confrontano tecnologia, umanità, partecipazione, interazione, conflitto. Alcuni sociologi definiscono la rete sociale, i c.d. social network, un unico grande mezzo dove i produttori di notizie, opinioni, pensieri, emozioni, espressioni sono al contempo anche i fruitori, a differenza dei mezzi di informazione tradizionali in cui la relazione avviene essenzialmente tra parti in posizioni contrapposte. Inoltre, in tale rete, la comunicazione risulta così poco trasparente che è molto facile cadere preda di soggetti con intenzioni non sempre positive e meritevoli che si fingono quello che non sono, cercando di offrire un’immagine di sé che sia la migliore possibile o comunque quella che gli altri si aspettano di vedere. Sicuramente l’uso delle strumentazioni informatiche (come la ragnatela mondiale informatica il c.d. World Wide Web - cioè il prefisso www con cui facciamo precedere le nostre ricerche sul web - ed i social network) - con i relativi programmi, applicazioni e software - ha reso anche più difficile la tutela della propria sfera personale, la c.d. privacy, e la difesa del diritto all’oblio. Quest’ultimo è la richiesta della rimozione delle informazioni personali dalla pubblica circolazione. Si capisce bene come poter esercitare tale diritto sia davvero difficile in un mondo digitale dove le notizie permangono in modo stabile; non è sufficiente la cancellazione ma è necessaria l’eliminazione della possibilità che esse vengano ripubblicate da terzi, circostanza quest’ultima sempre possibile. Infatti mentre la notizia apparsa sui media tradizionali è strettamente legata ai limiti dello strumento sulla quale è stata divulgata (esempio la stampa), nel mondo digitale le informazioni possono essere memorizzate e condivise con molta facilità di modo che le notizie di fatto rimangono nello spazio di archiviazione (c.d. Cloud) per tempi illimitati e senza poter sapere se e come siano state memorizzate, duplicate e pubblicate.

Ciò detto, in generale, si può comunque evidenziare il rapporto che si instaura tra comunicazione e potere e di fatto, in tale relazione, si riscontra una duplice accezione: da un lato si ha una relazione diretta tra comunicazione e poteri politici, economici, religiosi, i quali utilizzano i media per raggiungere i propri obiettivi e sovente per imbrigliare la libera informazione. Dall’altro lato il potere insito nella comunicazione stessa che si divide in: conoscenza di informazioni che possono essere usate o meno (perché anche il silenzio su una determinata notizia rappresenta un’espressione di gestione del potere; si pensi al c.d. segreto di Stato) e modalità e capacità di divulgazione, che riconducono all’ampiezza dei mezzi utilizzati i quali se più diffusivi, sono più potenti. Quindi possiamo riconoscere una espressione di potere nell’avere notizie e nel gestirle attraverso i vari strumenti di comunicazione; questo aspetto, che ha condotto alla definizione dell’informazione come quarto potere (che si aggiunge a quelli costituzionalmente individuati: legislativo, esecutivo, giudiziario), chiarisce la concreta possibilità di come la comunicazione possa contribuire alla formazione dell’opinione pubblica. Tuttavia occorre sottolineare come tra le istituzioni, l’ambiente vi sia di fatto un processo di osmosi bidirezionale; la società influenzata dalle istituzioni e le istituzioni influenzate dalla società e in questo processo si colloca il flusso di informazioni gestito dalla comunicazione che in sé è solo uno strumento. Semmai il problema risiede nell’utilizzo e nella reale capacità dell’uomo di volersi mantenere intellettualmente libero; infatti negli Stati totalitari si assiste ad un uso della comunicazione come strumento di propaganda, per formare le coscienze ed alienare le menti con la finalità di ottenere il consenso da parte della collettività. Di fatto la comunicazione è in grado di organizzare il pensiero dei soggetti e in tal modo viene vista dai poteri statali ed amministrativi che tentano di soggiogarla al servizio di interessi peculiari, distaccandola dal suo originario ruolo di strumento al servizio della collettività. Quindi il potere della comunicazione si ritrova nella possibilità del soggetto che detiene l’informazione di comunicarla, magari attraverso manipolate frapposizioni e velature, o non comunicarla affatto.

Con riferimento al secondo aspetto relativo alle modalità e capacità di divulgazione delle informazioni ci si ricollega agli strumenti che si possono utilizzare, dalla stampa, alla televisione, fino ad arrivare ai fenomeni odierni dei social network che raggiungono enormi masse di soggetti. Un’analisi interessante del problema è fornita da Marshall McLuhan - filosofo, sociologo, critico letterario, professore di origine canadese (1911 – 1980) - che ha voluto ripercorrere la storia dell’umanità analizzando lo sviluppo dei mezzi di comunicazione. Utilizzando tale prospettiva egli ha notato che le strutture delle società ed i loro usi e costumi, sono stati determinati dall’evoluzione degli strumenti di comunicazione. La sua interpretazione storica degli effetti prodotti dalla comunicazione sui singoli e sulla collettività nel suo insieme, ruota intorno all’idea che è lo strumento utilizzato per diffondere la notizia che produce effetti sui soggetti destinatari, non già il contenuto dell’informazione fornita. È sua la frase in cui si riconosce nel “mezzo il messaggio”, così come, per analogia, si può dire che è la scienza economica che definisce le relazioni sociali.

Quindi il potere della comunicazione non risiede solo nel soggetto che detiene le informazioni, ma anche nel tipo di strumento che viene utilizzato e dalla sua capacità evolutiva e di sviluppo nel tempo. Si è passati quindi dalla comunicazione verbale (le prime società in cui gli oratori avevano un importante compito divulgativo) a quella scritta (attraverso i libri e la stampa), fino ad arrivare agli strumenti radio-televisivi ed informatici. Questi strumenti rappresentano il prodotto culturale e scientifico di società che sono passate dalle prime forme di villaggio (preistorico), alle città, fino ad arrivare al famoso “villaggio globale”. Quest’ultima locuzione è un ossimoro, una contraddizione in termini, costruito da McLuhan proprio per rappresentare lo stridore del contesto attuale dove il villaggio fa riferimento ad un nucleo ristretto di soggetti, mentre l’aggettivo globale coinvolge la totalità del territorio, pertanto ha un significato planetario. Con ciò il sociologo canadese intende sottolineare come la comunicazione con strumenti informatici di fatto abbia abbattuto le frontiere dello spazio, in quanto l’informazione percorre tutto il globo, e del tempo, poiché l’informazione viaggia in tempo reale (velocità quasi istantanea). Ma già prima di McLuhan si parlava di “villaggio” con riferimento al potere dei media; il sociologo Robert. E, Park nel 1923 definisce “villaggio” anche i grandi agglomerati urbani nei quali iniziano a circolare le notizie attraverso i giornali, che rappresentano, per l’epoca, una nuova forma di comunicazione. Così come nei piccoli centri tutti si conoscono, con l’avvento dei quotidiani anche nelle grandi città è possibile sapere cosa accade e quindi ci si sente come in un villaggio dove il pettegolezzo e l’opinione pubblica rappresentano le forze di controllo sociale. L’analisi di McLuhan si basa sulla divisione della storia in tre periodi, con riferimento alle diverse tipologie di comunicazione: tradizione orale che riporta alle società chiuse ed acritiche, dove si apprende attraverso il linguaggio e l’ascolto; scrittura e stampa che modificano le modalità di conoscenza spostando l’attenzione dall’ascolto alla vista, alla lettura – sostituendo così l’orecchio con l’occhio – ed incentivando la comunicazione tra individui, la speculazione e la razionalità; era elettronica dove i media riescono a coinvolgere l’intero globo nei problemi di soggetti posti in differenti luoghi e in tal modo, come paradosso, si ottiene un ritorno ai contatti iniziali del villaggio dove tutti sapevano tutto ciò che avveniva intorno a loro.

Oggi il concetto di villaggio globale porta indubbiamente al fenomeno della globalizzazione, dove ciò che accade in qualsiasi angolo della terra diviene, in pochi istanti, di dominio pubblico e ciò in qualsiasi ambito: politico, sociale, culturale, economico. In tale conteso e tenendo sempre a mente la visione di McLuhan, le sole notizie che devono essere divulgate sono quelle “cattive”, quelle che descrivono calamità, disastri, disuguaglianze ed iniquità, perché si deve alzare il livello di responsabilità dei soggetti. Ma a lungo andare ciò determina frustrazione ed impotenza ed il sentirsi tutti nello stesso ambiente genera una sorta di sensazione di massificazione dei problemi ed anche delle soluzioni, offrendo una visione di “omologazione” e di favore verso gli approcci monocratici: unici problemi, uniche soluzioni, assenza di differenze e di prospettive diversificate; è forse proprio con riferimento all’analisi delle problematiche che occorre assumere un atteggiamento critico rispetto alla “globalizzazione”. McLuhan evidenziava che i media elettronici hanno abolito sia il tempo sia lo spazio, discostandoci da ogni ripartizione dei ruoli e dai singoli punti di vista; ne emerge così un’omologazione delle opinioni. Questa tematica è davvero molto delicata se si pensa che oggi attraverso i social abbiamo masse di persone che si schierano a favore o contro una determinata situazione creando spesso un atteggiamento di “gogna mediatica”, a volte anche creata ad arte, che può indurre alla disperazione il soggetto che vede sé stesso, le sue opinioni e le sue vicende diventare da private a pubbliche con grandi difficoltà di chiarimento e di difesa: una sorta di impossibilità di tutela della propria privacy, del proprio individuale pensiero, lasciando così ampio spazio al pensiero unico. Occorre porre molta attenzione a tale processo che se portato avanti senza il costante nutrimento della nostra anima e del senso critico e la civile e rispettosa difesa del proprio individuale pensiero potrebbe divenire pericoloso ed irreversibile!



Dettagli
Emanuela Scarponi logo
22 Maggio 2024

TRAGHETTATI NELL’IMPENSABILE: LA FINESTRA DI OVERTON di Alessandra di Giovambattista

TRAGHETTATI NELL’IMPENSABILE: LA FINESTRA DI OVERTON

di Alessandra di Giovambattista

 30-05-2024

Nell’universo del potere politico e della comunicazione sociale, uno degli argomenti che più incuriosisce, intriga e purtroppo preoccupa è la finestra di Overton; in estrema sintesi essa palesa una strategia psico-sociologica che tende alla percezione prima, ed alla persuasione poi, di idee ancora non presenti in una collettività ma di cui se ne vuole l’adesione nell’immediato futuro. Il padre di tale teoria di ingegneria sociale fu il sociologo statunitense Joseph P. Overton (ingegnere e studioso di diritto; 1960 – 2003) che lavorò dapprima nel Centro studi statunitense Mackinac Center for Public Policy (associazione senza scopo di lucro che analizza le politiche pubbliche a tutto tondo) e successivamente ne divenne il vice presidente. Morì in circostanza tragiche, in un incidente aereo alla guida di un ultraleggero; tuttavia prima di morire era riuscito a rendere pubblica la sua teoria circa gli effetti sulla popolazione dei “centri di influenza del pensiero” ideando uno schema di ingegneria psico-sociale che porta il suo nome: la finestra di Overton (The Overton window).

Per comprendere la sua teoria occorre immaginare le idee, presenti in una determinata società e in un preciso momento, come flussi che attraversano liberamente una ipotetica finestra. Il fatto che tali idee passino attraverso questa finestra è legato all’accettazione di esse da parte della maggioranza delle persone; se un’idea non passa, cioè non fluisce attraverso la finestra e - con un’immagine molto fisica - si scontra sul suo telaio, è perché non è popolare e quindi è considerata inaccettabile. Tuttavia la posizione della finestra non è fissa, ma scorre nel tempo, così come non è fisso il suo telaio che può ampliarsi o restringersi in modo da aumentare o ridurre il flusso di idee considerate ammissibili. Quindi la finestra di Overton è un modello che rappresenta le idee e le teorie presenti ed accettate da una collettività in uno specifico momento: al centro della finestra si trovano le idee più condivise ed accettate, mentre andando verso i lati si incontrano le ipotesi meno popolari, fino ad arrivare a quelle definite come “impensabili ed inaccettabili”.

Overton ha evidenziato che negli Stati Uniti, ma anche altrove, sono state costruite campagne a favore di idee non accettate e considerate inammissibili attraverso un percorso graduale in cui è stato possibile individuare delle precise fasi che conducono, alla fine, alla persuasione delle masse da parte dei poteri politico economici. Esso rappresenta quindi uno dei modi tramite il quale si rendono progressivamente possibili i cambiamenti nell’opinione pubblica al fine di far accettare pienamente delle nuove idee - al momento attuale non volute, impensabili e respinte - e trasformarle in leggi. Tuttavia la problematica più rilevante, e forse più allarmante, riguarda il fatto che spesso le nuove impostazioni nascono da un gruppo molto ristretto di soggetti i quali saranno anche i beneficiari esclusivi dei vantaggi rivenienti dalle novità, a discapito del resto della collettività.

Ma vediamo come funziona effettivamente questa strategia di comunicazione politico sociale che si muove percorrendo specifici stadi, seguendo un percorso che avvicina la collettività all’obiettivo passo dopo passo, somministrando, quasi giornalmente, piccole dosi di indottrinamento. All’inizio del percorso l’idea che si vuole introdurre risulta assurda, immorale o vietata (fase dell’inconcepibile/impensabile). Il gradino successivo è rappresentato da un iniziale dibattito riservato a ristretti circoli di c.d. “esperti” (scienziati, giuristi, medici, storici, economisti, ingegneri, ecc) che iniziano a divulgare l’idea attraverso convegni e dibattiti; si costituiscono anche organizzazioni o associazioni a favore del pensiero innovativo (fase del radicale dove cioè il nuovo pensiero rimane vietato ma iniziano a crearsi delle eccezioni). Il terzo stadio coinvolge i mezzi di comunicazione di massa che iniziano un pubblico dibattito ma ne parlano inserendo dei distinguo nell’ambito della discussione, cercando di coniare anche terminologie nuove e meno dirette ed impattanti rispetto al problema iniziale - che si percepiva come inconcepibile – e mettendo in evidenza anche i precedenti storici (fase dell’accettabile). Il passo successivo vede coinvolti alcuni studiosi ed esperti che hanno il compito di iniziare a presentare l’idea come accettabile solo in casi di estrema necessità o di eccezionalità; è in questo momento che viene infranto il velo dell’impensabile o impossibile (fase in cui l’idea diventa ragionevole). Da qui in poi l’argomento fa il suo ingresso in dibattiti sempre più ampi dove partecipano anche persone non esperte, opinionisti e persone comuni; si girano film o spot pubblicitari e incominciano a separarsi i gruppi in favorevoli, contrari o disinteressati. Personaggi famosi dello spettacolo, dello sport, della moda e gli influencer iniziano a schierarsi, peraltro sottolineando il concetto di relatività dello pseudo diritto, della libertà a tutti i costi di seguire qualsiasi idea anche qualora fosse estremamente aberrante, con la finalità di indurre la maggioranza a ritenere accettabile e condivisibile il nuovo pensiero. A questo punto il dibattito acquisterà una valenza politica: si chiederà al mondo politico di normare la nuova fattispecie (fase popolare). L’ultima fase vede la formazione di gruppi di potere che liberalizzano e legittimano del tutto l’iniziale idea considerata inconcepibile, ed anzi stigmatizzano i contrari accusandoli di intolleranza e di arretratezza culturale, dando luogo a dibattiti polemici; si promulgano leggi che consentono di insegnare nelle scuole le nuove impostazioni per far entrare definitivamente la nuova idea nel pensiero comune e di massa, in un percorso che porta verso forme di pensiero unico (fase politica della legalizzazione in cui la nuova idea diviene dogma).

La sequenza delle varie fasi evidenzia un percorso che va oltre il lavaggio del cervello; utilizzando sottili tecniche psico-sociologiche si induce il soggetto a ritenere che sia egli stesso ad avere quella determinata idea, e che il potere politico l’ha solo esplicitata e resa fruibile: è di fatto una manipolazione della coscienza di massa. Anzi alcune volte, attraverso la connivenza di personaggi che hanno molta popolarità ma davvero poco spessore umano e culturale, si fingono dei dibattiti, anche degli scontri estremi, con parti ben organizzate per trainare l’opinione pubblica verso ciò che il potere effettivamente vuole. In questo teatrino di assurdità, sarebbe interessante indagare, in modo approfondito, sui processi e gli stimoli psicologici che inducono la collettività a farsi trascinare da personaggi anche abbastanza discutibili, in una sorta di cieco e superficiale atteggiamento di affidamento.

Quindi la teoria di Overton sottolinea che in un determinato periodo si apre una finestra che, attraverso le fasi viste, può far fluire ed accettare idee o fatti sociali che altrimenti non sarebbero mai stati legittimati. Inoltre questa strategia offre una falsa visione del soggetto di potere che sembrerebbe trainato dagli eventi ma che in realtà ne è il subdolo sostenitore e se non avesse proceduto in questo modo non avrebbe potuto raggiungere l’obiettivo prefissato in quanto avrebbe potuto perdere il consenso sociale perché accusato di estremismo.

Ciò detto gli spunti di riflessione sono tanti; nell’esaminare quanto accaduto negli ultimi decenni potremmo identificare diverse situazioni che hanno visto il passaggio attraverso le varie fasi ipotizzate da Overton, dove si è premuto l’acceleratore soprattutto sul senso di urgenza e sullo screditamento delle notizie e delle informazioni non allineate ai centri di potere (spesso troppo rapidamente e volutamente identificate come fake news): crisi economiche, problemi climatici, questioni biologico-sanitarie, conflitti sociali, frequenti riforme della scuola. Dobbiamo riconoscere che l’esplicitazione di questa architettura sociale apre la mente allo smascheramento del processo di formazione e manipolazione dell’opinione pubblica; con la dovuta attenzione e con spirito critico è possibile comprendere la strategia che il potere politico ed economico usa e che si cela dietro il flusso di opinioni guidate da mass media, influencer e soggetti noti alla maggioranza del pubblico che, il più delle volte e a caro prezzo, si rendono disponibili ai potenti di turno. Di fatto negli anni più recenti abbiamo assistito, in modo più o meno esplicito, alla legittimazione di pensieri ed idee che hanno contribuito a distaccare e a porre in conflitto le generazioni (giovani contro adulti ed anziani e viceversa), a creare caos sociale, ad omologare costumi, radici, culture, gusti dei diversi popoli, appiattendo ed anestetizzando il pensiero dei singoli individui (il grande responsabile si può individuare nel processo di globalizzazione, anch’esso il prodotto dello svolgersi delle fasi individuate da Overton). Se volessimo vedere le persone dall’alto, senza troppo coinvolgimento emotivo, forse vedremmo una massa indistinta ed acritica di soggetti indotti tutti a pensare alla stesso modo, dove scatta la gogna mediatica e si viene emarginati se non ci si adegua a quello che il potere vorrebbe divenisse il pensiero unico: si assiste ad una sorta di demonizzazione delle idee opposte, che sono invece, se civilmente esposte e discusse, alla base del progresso umano (la teoria filosofica della tesi, antitesi, sintesi, produce un processo di crescita del pensiero, della mente e del cuore).

È netta la percezione che oggi si può avere circa la volontà dei centri di influenza del pensiero (centri di potere) di allontanare i giovani, che rappresentano la vera risorsa del futuro, dalle loro famiglie (e viceversa) e renderli il più possibile ignoranti, ma allo stesso tempo infarciti di nozionismo; solo così il popolo diventa manovrabile, perde le sue radici ed il senso di verità e di realtà. Far credere che la scienza e la tecnologia debbano avere il predominio rispetto alla spiritualità, al calore umano ed alla condivisione, è un’impostura. L’uomo è corpo, psiche e anima è una realtà complessa che non può sopravvivere in un mondo di solitudine e di materialismo. Oggi si condividono le informazioni e le notizie a distanza di migliaia di chilometri ma non ci si accorge della sofferenza e del disagio all’interno della propria famiglia. Emerge così un forte senso di individualismo ed egoismo - ci si distacca da una visione di collettività e di socialità - atteggiamenti che traghettano l’uomo verso forme di potere monocratico e verso linguaggi ed atteggiamenti di odio e di violenza.

L’essere umano preso nella sua solitudine è molto più vulnerabile e soggiogabile; se invece si organizza in gruppo può trasformarsi o in una belva violenta, se si nutre di rabbia e risentimento e fa il gioco del potere che intende dominare le masse (il famoso “branco”), oppure in un fascio di luce, in una guida per coloro che si sentono disorientati, se si nutre di sentimenti di condivisione e di fratellanza (le “comunità”). È allora abbastanza evidente che l’essere umano è il prodotto di ciò di cui si alimenta: il pensiero, l’anima, la coscienza se ascoltano e vivono “il bene”, i messaggi spirituali e filosofici (purché siano a favore dell’uomo e ne esaltino i sentimenti di solidarietà e amicizia fraterna), saranno in grado di creare un percorso di condivisione e di serenità. È evidente che occorre anche creare l’ambiente adatto - ognuno di noi è parte della collettività - ma purtroppo se non ci si rende conto di essere diventati tutti dei burattini sarà difficile smascherare i centri di potere; più passa il tempo e più sembra che questa deriva verso il pensiero unico sia inarrestabile. Occorre reagire: creare una coscienza critica e tentare di vedere in realtà chi e cosa ci sia dietro alle informazioni, rifiutare di essere traghettati verso forme di pensiero violente, cattive e buie che l’uomo saggio non può condividere, è necessario cercare di speculare e di approfondire le problematiche; è faticoso ma illumina la mente! Lavorare interiormente - aumentando le conoscenze e incentivando la riflessione, la lettura e l’ascolto - potrà forse aiutare ad arginare il “culto della superficialità e del relativismo” così vivo, purtroppo, nella società odierna.

A questo punto si pone una domanda d’obbligo: quello che oggi e quotidianamente pensiamo è frutto di un individuale, ed originale processo del nostro pensiero o siamo piuttosto imbrigliati in una strategia di manipolazione di massa?

 

Dettagli
Emanuela Scarponi logo
30 Maggio 2024

LA RESPONSABILITÀ D’IMPRESA, UN MODO PER CONTRASTARE LE DISUGUAGLIANZE di Alessandra Di Giovambattista

LA RESPONSABILITÀ D’IMPRESA, UN MODO PER CONTRASTARE LE DISUGUAGLIANZE

di Alessandra Di Giovambattista

 23-06-2024

La responsabilità sociale dell’impresa è oggi un approccio sempre più presente all’interno delle modalità di scelta e di gestione delle strategie aziendali. Viene definita nel mondo anglosassone come Corporate Social Responsability (CSR) e si basa sull’impegno da parte delle imprese di scegliere comportamenti etici che siano in grado di contribuire a garantire la sostenibilità dell’azienda nel lungo termine e contestualmente a sviluppare il livello di benessere della società. Infatti da un lato si assiste ad un miglioramento della reputazione dell’impresa, dall’altro alla costruzione di un clima e di un ambiente lavorativo più sostenibile e meno ostile a vantaggio di tutti i portatori di interessi aziendali (i c.d. stakeholders): dai lavoratori, ai fornitori, ai clienti, agli investitori, alla collettività nel suo complesso. La responsabilità sociale d’impresa è la filosofia che muove il nuovo sistema di sviluppo sociale ed ambientale del tessuto imprenditoriale (definito dai parametri relativi all’ambiente, all’impatto sociale e ai principi di governo aziendale, meglio conosciuti come sistema ESG: Environmental, Social e Governance), che permette alle aziende di coniugare obiettivi di massimizzazione del profitto con quelli di rispetto delle esigenze sociali ed ambientali della comunità su cui agisce l’azienda. L’obiettivo principale è la sostenibilità economica che implica non solo il rispetto di condizioni economico-finanziarie, ma soprattutto di standards qualitativi di vita che permettano di garantire performances ambientali, sociali e di governo aziendale alla luce anche degli obiettivi indicati nell’agenda 2030 delle Nazioni Unite. Quest’ultima è un programma che comprende diversi obiettivi di sviluppo comuni, che quindi riguardano tutti i Paesi, e tra i più impegnativi ricordiamo: la lotta alla povertà, l’eliminazione della fame e il contrasto al cambiamento climatico.

Già da queste brevi note si evidenzia l’attenzione di tale approccio alle concrete ricadute delle azioni aziendali sul territorio e sulle persone. In particolare l’analisi va esplicitata: con riferimento all’ambiente, considerato come il territorio in cui l’impresa opera e che deve essere preservato e difeso da azioni di depauperamento incontrollato ed inefficiente delle risorse, dall’inquinamento del terreno e delle falde acquifere – con una particolare attenzione alla gestione del ciclo dei rifiuti e del loro processo di riciclo - dalla deforestazione e dall’inquinamento dell’aria. Con riferimento alle ricadute sociali, intese sia come relazioni tra lavoratori all’interno dell’azienda (nel rispetto dei diritti e dei doveri, della politica retributiva e di garanzia delle singole peculiarità senza disparità di genere e cercando di attuare modalità di inclusione, della sicurezza e della salute degli ambienti lavorativi) e tra tutti gli stakeholders sia come relazioni tra l’azienda e il contesto sociale in cui si trova (rispetto della legislazione vigente in un determinato territorio, delle tradizioni, della cultura, dell’equità e della giustizia sociale, dei diritti umani). Con riferimento alla gestione del governo aziendale, della sua organizzazione dirigenziale e delle strategie che devono essere rispettose della legalità normativa, deontologica ed etica (contrasto della corruzione, delle connivenze di tipo malavitoso, delle pratiche di concorrenza sleale, adeguatezza delle retribuzioni, ecc.), basata comunque sull’analisi continua dei risultati economico-finanziari per garantire il più alto grado di efficacia ed efficienza possibili (alla ricerca delle migliori pratiche e performances in un determinato ambito che vengono comunemente definite come best practises).

Nonostante la bontà dei presupposti, il capitolo sulla responsabilità d’impresa è rimasto finora inattuato dalla gran parte delle aziende; il grande problema in tale ambito lo si può riscontrare nel fatto che l’insieme dei programmi e degli obiettivi, nonché le modalità sul come raggiungerli, sono in realtà criteri e pratiche di tipo volontaristico, per le quali non sono state previste sanzioni qualora non si seguano le indicazioni fornite. Tuttavia la responsabilità d’impresa nasce come un impegno necessario e pressante a cui tutte le aziende non dovrebbero sottrarsi almeno in ragione di un obbligo derivante da un contratto sociale, da una sorta di dovere sia etico sia funzionale che restituisce il giusto peso e la giusta collocazione alle aziende incardinate in un contesto di economia a servizio dell’uomo, che deve veder garantito il diritto al futuro per sé e per le prossime generazioni.

Negli anni passati l’Unione Europea si era limitata a varare dei piani mentre, di recente, il 24 maggio del corrente anno, ha formalmente adottato una direttiva – in attesa di firma e pubblicazione - ultima tappa di un lungo processo decisionale, concernente il dovere di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità. In particolare l’atto si rivolge alle aziende di grandi dimensioni a tutela dei diritti umani e di protezione dell’ambiente al fine di arginare gli impatti negativi delle politiche di produzione e prevedere delle forme di responsabilità. L’impegno ed i doveri si estendono non solo all’azienda specifica ma anche alle sue affiliate e comunque ai soggetti inseriti nella rete di attività complessiva. Dovranno pertanto essere implementati sistemi di indicatori (che verifichino i parametri visti sopra e indicati come ESG che sono già contemplati dalla direttiva sulla definizione del sistema di indicatori per verificare la sostenibilità aziendale, cioè la CSRD – Corporate Sustainability Reporting Directive) che monitoreranno, anche attraverso la rendicontazione, l’impatto delle aziende sull’ambiente, sui diritti umani e sugli standard sociali. Questi sistemi di indicatori basati sul controllo delle azioni aziendali, affinché non si peggiori la situazione ambientale esistente, permetteranno di monitorare, prevenire ed eventualmente sanare le violazioni dei diritti umani o i danni ecologici prodotti. Nel caso di trasgressioni le imprese dovranno adottare misure atte a mitigare, arrestare o prevenire impatti negativi e potranno essere ritenute responsabili dei danni causati e conseguentemente chiamate al risarcimento.

In tale ampio contesto, si vuole qui approfondire un aspetto che si reputa basilare per la buona riuscita degli intenti che si desiderano raggiungere con tali direttive; in particolare ci si vuole interrogare su come l’attività d’impresa - agendo sul livello di diseguaglianza tra soggetti, ma anche con riferimento all’ambiente in termini di utilizzo di risorse e ricadute negative – possa, se ben manovrata, contrastare le disparità. In particolare risulta interessante indagare su come il governo di impresa rappresenti un tema di approfondimento in termini di giustizia sociale. Questo aspetto rischia però di essere incompreso qualora si consideri il governo aziendale esclusivamente basato sul concetto di efficienza (e non anche sul concetto di efficacia che per sua natura abbraccia temi che vanno ben oltre il semplice utilitarismo economico-finanziario) dove non possono trovare posto i presupposti su cui si basa la giustizia sociale.

Cerchiamo di fare chiarezza: un sistema aziendale, in quanto presente su un determinato territorio, si incardina in uno specifico contesto ambientale, giuridico, sociale; quindi una delle prime analisi che l’azienda effettua nella fase iniziale previsionale, in fase cioè di business plan, è sicuramente l’esame del territorio e delle normative alla ricerca del miglior rapporto tra opportunità, diseconomie e rendimento del capitale. Quindi un esame preventivo circa la libertà di accesso alle risorse espresse in termini di disponibilità di capitale finanziario, umano, sociale, di diritti di proprietà e di uso. Tali elementi di analisi prodromica sono alla base delle concrete possibilità di svolgimento dell’attività da parte dell’azienda in quanto la distribuzione del reddito tra i diversi fattori della produzione, dipende anche e soprattutto dalle condizioni socio-politiche, organizzative e di mercato presenti su un determinato territorio ed in un determinato momento. Pertanto le condizioni presenti definiscono ed influiscono sulle scelte strategiche aziendali; il tutto, se ci si sofferma un attimo, ci aiuta a comprendere il fenomeno delle delocalizzazioni aziendali verso Paesi in via di sviluppo dove, essendo spesso del tutto inesistente ogni forma di garanzia dei diritti, le aziende possono muoversi liberamente ed in modo spregiudicato.

Connesso a tali aspetti c’è poi quello relativo all’imposizione fiscale, anche essa rappresenta una delle variabili che determinano le scelte strategiche dell’impresa. Quest’ultima in particolare è molto sensibile alle politiche di redistribuzione reddituale in quanto è attraverso la politica fiscale che si attuano le modalità di tassazione dei contribuenti e si garantiscono le misure di benessere sociale attraverso sussidi e trasferimenti. In ultima istanza una delle variabili più attenzionate sarà il reddito effettivo netto, cioè disponibile dopo l’imposizione, che residua per ogni singolo contribuente che sia consumatore e quindi elemento della componente aggregata della domanda di beni e servizi, sia produttore e pertanto componente dell’offerta di beni e servizi.

L’approccio della responsabilità aziendale si presenta quindi necessario, in questa fitta rete di connessioni, per indagare sulla filiera produttiva e sulle sue ricadute in termini ambientali, sulle politiche sociali e retributive poste in atto dall’impresa per escludere comportamenti che violino il giusto compenso retributivo, attraverso pratiche di sfruttamento dei singoli addetti, e le norme di diritto sindacale e del lavoro necessarie per garantire la sicurezza e l’igiene dell’ambiente lavorativo, per verificare la tutela del diritto dei minori a non essere utilizzati come forza lavoro, e per contrastare ogni forma di emarginazione di genere, di etnia, di religione, di inclinazione sessuale. Sarà inoltre importante vigilare sul rispetto delle norme sulla concorrenza del mercato per evitare comportamenti che utilizzino politiche dei prezzi aggressive, sfruttamento sotto costo di materie prime e pratiche di corruzione per ottenere vantaggi e benefici amministrativi e/o politici.

In sintesi si auspica che il controllo della responsabilità sociale dell’impresa possa essere un primo passo per provare a coniugare l’attività aziendale con la giustizia sociale, provando cioè ad uscire da un mero concetto utilitaristico di efficienza (con tutte le ricadute negative in termini di incontrollato sfruttamento dei fattori della produzione) e cercando di ampliare lo sguardo e l’analisi verso forme di ampia efficacia che permettano cioè il raggiungimento di fini sociali, ambientali, giuridici, politici, basati sull’equità sociale. Posto in questo ambito risulta abbastanza evidente come il governo di impresa, attraverso questa nuova prospettiva, possa divenire oggetto di indagine e di concreta garanzia di politiche per la giustizia sociale e l’equità che tendano a contrastare le disuguaglianze pur nel rispetto delle strategie di efficacia aziendale.

A ben vedere questa impostazione non fa altro che potenziare i principi già esistenti nel concetto di economicità aziendale per i quali l’azienda, come organismo vivente complesso, costituito essenzialmente da esseri umani, ha come finalità l’equilibrio di tutte le risorse impiegate e la loro equa retribuzione e distribuzione, per poter garantire la sua sopravvivenza nel tempo. Ma ci si domanda: di fronte allo sfruttamento incontrollato di persone, materie prime ed ambiente potrà l’azienda sopravvivere nel futuro, nel tempo? E gli esseri umani in questo contesto, dove di collocano? La partita si gioca su una riflessione molto più ampia dove fare impresa non è un processo fine a sé stesso, ma è piuttosto una modalità attraverso la quale si esprime la creatività, la tenacia, la capacità umana che deve avere come primo presupposto il benessere condiviso e la speranza di futuro, per tutti.

Dettagli
Emanuela Scarponi logo
23 Giugno 2024

LA PERSECUZIONE DEI CRISTIANI NEL MONDO di Alessandra Di Giovambattista

LA PERSECUZIONE DEI CRISTIANI NEL MONDO

di Alessandra Di Giovambattista

 

07-07-2024

Oggi si fa un gran dire di libertà e tutela dei diritti umani e tra questi, in tutte le Costituzioni dei paesi c.d. democratici, è protetto il diritto di libertà di professare la propria religione. Questa è forse una delle forme di espressione di indipendenza più importanti e così intima per la quale l’uomo dovrebbe esigere la tutela più completa e senza alcuna riserva o rinuncia.

Tuttavia si assiste a ben altri scenari: tra le religioni più perseguitate al mondo troviamo quella cristiana. Per assurdo è la religione basata sull’amore verso il prossimo e su una speranza di vita ultraterrena, eterna, che però ha sempre incontrato l’ostilità del mondo esterno. Sin dall’inizio le prime comunità cristiane, secondo quanto dichiarato negli scritti del Nuovo Testamento (i Vangeli e gli Atti degli Apostoli), hanno subito atti persecutori in principio da parte degli ebrei; ricordiamo infatti che furono le autorità ebraiche di Gerusalemme a tentare con tutti i mezzi di ostacolare la divulgazione e la predicazione del Vangelo, cioè della nuova e promettente notizia. Uno dei più grandi apostoli del Cristianesimo, Paolo di Tarso, era egli stesso, all’inizio, un membro della setta ebraica dei Farisei e come tale un fervente ed accanito persecutore della nuova Chiesa di Gesù Cristo. Le persecuzioni da parte degli ebrei sono testimoniate anche dallo storico Flavio Giuseppe in occasione della morte per lapidazione, decretata dal Sinedrio per mezzo del sommo sacerdote ebreo Anone, di San Giacomo il Maggiore.

Successivamente, intorno all’anno 64 d.c. iniziarono le persecuzioni più crude e violente da parte dell’impero romano, nella persona di Nerone - la cui testimonianza viene resa anche dallo storico e politico Tacito - che accusò i cristiani di aver appiccato l’incendio che distrusse gran parte della città di Roma. Secondo la tradizione storica i più importanti apostoli, S. Pietro e S. Paolo, trovarono la morte nella città eterna durante queste prime persecuzioni. Nel 112 iniziarono le persecuzioni da parte di Traiano e nel 250 da parte di Decio ma, sicuramente la più cruenta fu quella organizzata da Diocleziano. Con lui si verifica l’ultima sopraffazione dei cristiani che per la sua crudezza e violenza fu definita la grande persecuzione. La motivazione di questi secoli di oppressione va ricercata nella caratteristica di religione monoteista che contrastava con quella politeista della religione romana ufficiale, di cui l’imperatore era il garante, nonché nei suoi principi di base che la riconducevano più ad una devozione irrazionale, quasi magica, che l’impero intendeva contrastare fortemente, così come testimoniano gli scritti di Plinio il Giovane.

Oggi, a distanza di millenni, l’organizzazione non governativa Porte Aperte ONG (Open Doors) che aiuta e supporta i cristiani perseguitati a causa della loro fede, registra un peggioramento delle condizioni dei cristiani nel mondo a ragione del loro credo. Il triste primato spetta alla Corea del Nord, ma il più alto numero di omicidi e rapimenti si registra in Nigeria, mentre in India si procede al più alto numero di arresti. Nel suo rapporto annuale, la World Watch List 2024, i dati - presentati alla Camera dei Deputati e studiati da circa quattromila persone tra esperti e ricercatori che prendono in esame le “Chiese storiche” - parlano chiaro: sono oltre 365 milioni i cristiani nel modo che subiscono un alto livello di persecuzione a causa della religione professata. In particolare il fenomeno nella sua complessità riguarda circa il 14%, ma in Africa si sale al 20% ed in Asia a circa il 40%. Il periodo analizzato va dall’ottobre 2022 al settembre 2023 e da esso emerge il più alto tasso di persecuzione, peraltro in costante crescita, da quando 31 anni fa si iniziò l’analisi e lo studio del fenomeno da parte dell’organizzazione Open Doors che redige annualmente il report.

In valori assoluti l’aumento dei cristiani perseguitati, rispetto agli anni precedenti, si attesta su 5 milioni di soggetti per i quali la vita privata, familiare, politica, religiosa e sociale, analizzata attraverso specifici indicatori, è nettamente peggiorata, così come è peggiorato l’indicatore di violenza verso i cristiani.

In questa triste lista, la Corea del Nord è il paese in cui la persecuzione viene definita a livello estremo, e sin dal 2002 in questa nazione è praticamente impossibile professare la fede cristiana; seguono la Somalia, la Libia, l’Eritrea e lo Yemen dove i cristiani presenti se scoperti, in quanto professano nel segreto il proprio culto, rischiano la pena capitale.

Il secondo paese dove più cruenta è la persecuzione è la Nigeria dove i cristiani subiscono violenze da parte dei gruppi jihadisti; questi sono gruppi di terroristi di matrice islamista che utilizzano metodi violenti ed omicidi per imporre l’islamismo radicale. Il numero di cristiani uccisi in questa nazione, nell’anno analizzato nella ricerca, è di 4.118 cristiani rispetto ad un totale mondiale di 4.998 unità, pari quindi a circa l’82,4% del totale di vittime. Da sottolineare che il numero delle vittime cristiane è però diminuito rispetto al precedente anno in cui furono uccisi 5.621 fedeli; tuttavia secondo degli approfondimenti svolti dalla citata Porte Aperte ONG il calo si è riscontrato nel periodo antecedente le elezioni in Nigeria; in quel periodo le uccisioni si sono fermate per poi riprendere dopo il voto. In questo Paese è alto anche il numero dei rapimenti; tuttavia in tutta la fascia sub Sahariana se ne registrano numerosi a causa della presenza dei gruppi terroristi islamisti.

Segue il Pakistan che rappresenta un luogo dove i cristiani subiscono violenze, così come il Sudan e l’Iran; l’Afghanistan ha diminuito le persecuzioni poiché in gran parte i fedeli cristiani sono fuggiti e quindi è sfumata l’attenzione dei terroristi verso di loro.

Sul versante della numerosità dei cristiani arrestati a causa del proprio credo il primato spetta all’India, con un numero pari a 2.332 su un totale di 4.125 (con una percentuale pari a circa il 56,5%) seguita dall’Eritrea con 400 arresti, Cuba con 75 arresti ed il Nicaragua con 60 arresti. Quest’ultimo ha incrementato le azioni di limitazione di vita dei cristiani, attraverso l’aumento degli arresti, da quando governa Ortega. Si annoverano anche la Siria e l’Arabia Saudita tra i Paesi in cui la persecuzione ha raggiunto livelli estremi e si esprime attraverso la privazione della libertà.

Tuttavia le forme di violenza si riscontrano non solo nei confronti delle persone ma anche nei confronti dei luoghi di culto; sono stati infatti circa 15.000 gli attacchi e le profanazioni di Chiese ed aumentano le violenze personali ai ministri di culto, alle persone ed alle attività economiche. Inoltre la persecuzione può assumere molte forme, dai brutali attacchi compiuti dai già citati terroristi ed estremisti islamici ma anche dai regimi comunisti (e non mancano atti di violenza anche da parte dei seguaci dell’induismo e del buddismo), alle minacce, alle estorsioni, ai rapimenti, alle conversioni forzate, ai ricatti basati sulla negazione dei diritti e la limitazione delle libertà, ai linciaggi.

Sulla base di queste informazioni, veritiere in quanto provenienti dai vescovi e dai ministri di culto che operano ogni giorno in quei territori pericolosi, potremmo provare ad imbastire delle riflessioni. Sempre secondo i citati reports annuali presentati dalla citata ONG, i fedeli cristiani sono in netto calo in tutti i Paesi del vicino e medio oriente, ma in particolare sono in via di sparizione in Iraq. Quindi una prima conseguenza che si può rilevare è l’ondata migratoria di questi fedeli verso Paesi dove è professata la religione cristiana. Inoltre nei paesi intransigenti ed estremisti la conversione al cristianesimo da religioni diverse, principalmente quella musulmana, viene identificata come crimine di apostasia per il quale è prevista la pena di morte.

Il silenzio di tutto il mondo - ed in particolare dell’Unione Europea dove addirittura nel 2015 nella città di Göteborg in Svezia, dove è forte il reclutamento Jihadista, case e negozi dei cristiani sono state segnate con la lettera “N” di Nazareno, così come fatto anche dall’Isis e imbrattate con frasi come “convertitevi o morirete” - di fronte a tutta questa violenza gratuita è sconcertante. La religione che porta avanti la condivisione, l’amore, l’accoglienza, la fratellanza viene emarginata e diviene oggetto di offese e violenze; la conseguenza immediata ci porta a vedere che il pensiero che si sta diffondendo è quello che si traduce in una espressione di intolleranza verso l’atteggiamento pacifico in quanto si vuole infiammare il mondo con la violenza e la guerra. Questo potrebbe essere il gioco dei potenti mercanti di armi ma anche di chi vuole instaurare regimi politici di terrore e dittatoriali dove la libertà di scelta e di pensiero, capisaldi del cristianesimo, sono destabilizzanti e contrari al pensiero unico.

Tutte le forme di violenza verso l’uomo sono allora consentite per raggiungere scopi immorali e per instaurare un clima di terrore dove poter governare indisturbati, complice anche il relativismo imperante dove tutti possono fare tutto in ragione di una non ben definita e accettabile libertà di pensiero e di azione, dove il bene non esiste più e quindi neanche il suo contrario in quanto l’uomo è il dominatore dell’universo ed il suo agire libero di fare qualunque cosa, anche di compiere qualsiasi atrocità.

Ma mi domando: di quale uomo si sta parlando? Quello della rivoluzione francese, quello del fascismo e del nazismo, quello dei regimi comunisti, quello dei governi islamici, quello che ha dato ordine di sganciare la bomba atomica? Questi sono i modelli che finora è stato capace di produrre l’uomo che nel corso di tutta la storia ha seminato odio e terrore e se non fosse stato per i valori cristiani di amore e non violenza che hanno dato il fondamento alla cultura europea - che pur nelle situazioni altalenanti di bene e di male ha saputo far pendere la bilancia verso il bene, almeno se confrontata con le attuali situazioni di estrema violenza a cui assistiamo oggi – forse il nostro pianeta avrebbe già collassato in una spirale di odio senza ritorno. Vista l’indifferenza politica mondiale e della componente giovanile, la continua defezione soprattutto da parte dei paesi di tradizione cristiana come il nostro – ai cui principi dovremmo almeno riconoscere il valore della nostra cultura e della situazione sociale finora guadagnata e che invece sembrano ormai in preda ad una deriva senza alcuna razionale motivazione se non per moda o per sequela di soggetti che mirano alla proprie personali e malvagie ambizioni - ed anche il plauso da parte di alcuni sedicenti intellettuali scientisti, dobbiamo pensare di aver imboccato una strada senza ritorno?

 

Dettagli
Emanuela Scarponi logo
07 Luglio 2024

Altri articoli...

  1. L’ECONOMIA COME STRUMENTO DEL POTERE di Alessandra Di Giovambattista
  2. UNA BREVE INTRODUZIONE DELLA TECNOLOGIA BLOCKCHAIN di Alessandra Di Giovambattista
  3. LA CRISI DEI MUTUI SUBPRIME DEL 2007: APPROFONDIMENTI di Alessandra Di Giovambattista
  4. DALLA CREAZIONE DELLE ZONE ECONOMICHE SPECIALI ALLA ZONA ECONOMICA SPECIALE PER IL MEZZOGIORNO di Alessandra Di Giovambattista
Pagina 17 di 56
  • Inizio
  • Indietro
  • 12
  • 13
  • 14
  • 15
  • 16
  • 17
  • 18
  • 19
  • 20
  • 21
  • Avanti
  • Fine
  1. Sei qui:  
  2. Home

Più letti

Giovedì, 03 Maggio 2018
read
Venerdì, 10 Maggio 2019
Exco fiera di Roma
Lunedì, 07 Ottobre 2019
La primavera di Belgrado
Martedì, 14 Maggio 2019
Exco 2019 15-16.17 maggio 2019
Lunedì, 09 Dicembre 2019
Progetto Africa di Emanuela Scarponi

Ultime news

Giovedì, 24 Luglio 2025
“Ruolo della innovazione nelle relazioni tra Europa e Cina”. Acura di Bruno Grassetti
Lunedì, 07 Luglio 2025
OSTIA ANTICA FESTIVAL AFRICA EXPRESS
Mercoledì, 02 Luglio 2025
Domenica 7 settembre 2025 sala Roma ONG Africanpeople la rentree re
Mercoledì, 18 Giugno 2025
Riflessioni e possibilità di cooperazione e di scambi culturali tra Cina ed Italia e nell'ambito dell'Unione Europea, tra PMI italiane ed europee ed imprese cinesi, alla luce del nuovo scenario internazionale.”.
Giovedì, 29 Maggio 2025
belt and road cooperation center
Copyright © 2025 silkstreet. Tutti i diritti riservati. Project informatica virtualproject.it. Joomla! è un software libero rilasciato sotto licenza GNU/GPL.
Bootstrap is a front-end framework of Twitter, Inc. Code licensed under Apache License v2.0. Font Awesome font licensed under SIL OFL 1.1.