Zambia
Lo Zambia si trova nell'Africa meridionale ed il suo territorio è dato in maggior parte da altopiani sui 1.000-1.500 metri d'altezza; l'economia di questo Paese è incentrata sullo sfruttamento delle risorse del sottosuolo (rame in primo luogo) e sull'agricoltura di piantagione.
Forma di governo Repubblica presidenziale
Superficie 752.612 Km²
Popolazione 19.611.000 ab. (censimento 2022)
Densità 26 ab/Km²
Capitale Lusaka (2.204.000 ab., 3.270.000 aggl. urbano)
Moneta Kwacha dello Zambia
Indice di sviluppo umano 0,565 (154° posto)
Lingua Inglese (ufficiale), idiomi bantu regionali
Speranza di vita M 60 anni, F 66 anni
Lo Zambia, nella zona Sud dell'Africa, è un Paese senza sbocco sul mare caratterizzato da un territorio impervio e diverse specie di animali. Qui si trovano numerosi parchi e zone safari. Al confine con lo Zimbabwe sorgono le famose Cascate Vittoria, che gli indigeni chiamano Mosi-oa-Tunya, "il fumo che tuona". Le cascate si gettano per 108 m nel Batoka Gorge, provocando una caratteristica nebbiolina fatta di piccole gocce d'acqua. Poco dopo le cascate, il fiume Zambesi è attraversato da un ponte che offre una vista spettacolare.
Confini:
Repubblica Democratica del Congo
NORD
Tanzania aNORD-EST
Malawi adEST
Mozambico aSUD-EST
Zimbabwe, Botswana e Namibia aSUD
Angola a OVEST
Il confine fra Zambia e Botswana, lungo il fiume Zambesi, è il più corto al Mondo, dato che misura appena 150 metri; nel 2021 è stata completata la costruzione del Ponte Kazungula, che collega direttamente i due Paesi e che ha sostituito il servizio di traghetti precedentemente in funzione
Buona parte del territorio dello Zambia è caratterizzato dall'alternarsi di una serie di altopiani, con altezze in genere di poco superiori ai mille metri; questi sono interrotti da valli fluviali, zone collinari e modeste catene montuose che in poche occasioni superano, ma non di molto, i duemila metri, specialmente verso il confine nord-orientale col Malawi, dove troviamo le cime più elevate del Paese, nelle Mafinga Hills (2.339 m. come altezza massima).
Lo Zambia è abbastanza ricco di acque, sia per quanto riguarda i fiumi, che per quel che concerne i laghi; lo Zambesi (2.700 Km in totale) è di gran lunga il fiume principale (quarto per lunghezza in Africa), dato che raccoglie buona parte delle acque del Paese, esso nasce nello Zambia, ma dopo poche decine di chilometri entra in Angola, prima di ritornare in Zambia e segnare poi a sud una parte del confine con la Namibia ed interamente quelli con Botswana (150 metri soltanto in realtà) e Zimbabwe, quindi entra in Mozambico e si getta infine nell'Oceano Indiano; Kafue (1.600 Km) e Luangwa (800 Km) sono invece i corsi d'acqua più lunghi a scorrere interamente nel Paese, entrambi sono affluenti dello Zambesi.
Nella parte nord-orientale del Paese sono presenti diversi bacini lacustri naturali, a partire dal Lago Tanganica (2.100 Km² la parte dello Zambia, 32.893 Km² in totale), il secondo più grande dell'Africa, di cui lo Zambia ha però solo l'estremità meridionale; più ad ovest troviamo poi il Lago Mweru (5.120 Km² in totale), condiviso con la Rep. Democratica del Congo ed il poco profondo (appena 5 metri al massimo) Lago Mweru Wantipa (1.500 Km²); abbiamo inoltre, circa 200 chilometri più a sud, il Lago Bangweulu (3.000 Km²), altro bacino con profondità modeste, ma che durante la stagione delle piogge si espande nelle vicine zone paludose fino ad un massimo di circa 15.000 Km²; importante infine per motivi energetici il Lago Kariba (5.580 Km² in totale), bacino artificiale diviso con lo Zimbabwe.
Lo Zambia è uno dei Paesi africani senza sbocchi sul mare, ma ha comunque diverse isole nei laghi appena citati, spesso vere e proprie oasi per la fauna selvatica, le maggiori sono Kilwa nel Lago Mweru e Mbabala nel Bangweulu, più altre nel Kariba, originatesi in contemporanea alla nascita di questo bacino artificiale.
Il clima è tropicale, temperato in buona parte del Paese dall'altitudine e vede la successione di due stagioni, una secca fra Aprile ed Ottobre ed una umida e piovosa fra Novembre e Marzo, con temperature medie comprese fra i 15°C di Luglio ed i 23°C di Ottobre e Novembre per quanto riguarda la capitale, che sorge a quasi 1.300 metri d'altezza; le precipitazioni sono nel complesso discrete, maggiori nell'area più settentrionale dello Zambia e più ridotte a sud-ovest dove troviamo zone più aride.
Lo Zambia è suddiviso a livello amministrativo in 10 province ed ha un tasso di urbanizzazione del 40%, in leggera crescita negli ultimi anni; il centro urbano più importante è la capitale Lusaka (2.204.000 ab., 3.270.000 aggl. urbano), l'altra zona più popolata è quella mineraria vicina alla Repubblica Democratica del Congo, a nord di Lusaka, dove si trovano Kitwe (662.000 ab.) e Ndola (625.000 ab.), le altre due città che superano il mezzo milione di abitanti.
Nel Paese vivono una settantina di gruppi etnici differenti, quasi tutti di origine bantu (90%), di questi i più numerosi sono i Bemba (21%), i Tonga (13,5%) ed i Chewa (7,5%), vi sono poi piccole minoranze europee ed asiatiche; lo Zambia dal 1996 è costituzionalmente una Nazione cristiana, in maggior parte protestante (75%) ed in misura minore cattolica (20%), anche se diverse persone praticano tuttora riti animisti tradizionali, mentre il 2% è musulmano.
Nell'Africa meridionale lo Zambia è il Paese che presenta la maggiore diversità di fauna ed inoltre ha ancora ampie zone modificate nel tempo solo marginalmente dall'uomo, può inoltre contare su paesaggi notevoli, primo fra tutti quello delle Cascate Vittoria lungo il corso dello Zambesi.
Nel periodo 1852-56 Livingstone esplorò l'entroterra africano, scoprendo, lungo il corso del fiume Zambesi, le cascate Vittoria, cui diede il nome dell'allora regina d'Inghilterra. Livingstone fu uno dei primi europei a fare un viaggio transcontinentale attraverso l'Africa. Lo scopo del suo viaggio era di aprire nuove vie commerciali e di accumulare informazioni utili sul continente africano. In particolare, Livingstone era un sostenitore delle missioni e del commercio nell'Africa centrale. Tornò in Inghilterra per ottenere un sostegno a queste sue idee e per pubblicare un libro sui suoi viaggi. Fu in questo periodo che si dimise dalla società missionaria alla quale apparteneva.
Livingstone ritornò in Africa a capo di una spedizione con lo scopo di esplorare il fiume Zambesi. Mentre esplorava lo Zambesi, le missioni da lui volute in Africa centrale e orientale si estinsero in modo disastroso, con quasi tutti i missionari morti di malaria o di altre malattie. Il fiume Zambesi si rivelò essere non navigabile per lunghi tratti, a causa di una serie di cateratte e rapide che Livingstone non era riuscito a esplorare nei suoi viaggi precedenti.
L'artista Thomas Baines fu cacciato dalla spedizione con l'accusa di furto, che egli respinse sempre con vigore. Ad eccezione di un ingegnere di nome George Rae, gli altri occidentali o morirono o rinunciarono. Mary, la moglie di Livingstone, morì il 27 aprile 1862 di malaria cerebrale, ma Livingstone continuò le sue esplorazioni e infine tornò in Inghilterra nel 1864. La spedizione fu considerata un fallimento da molti giornali britannici del tempo e Livingstone ebbe grosse difficoltà a raccogliere fondi per esplorare ulteriormente l'Africa.
Nel marzo 1866 Livingstone tornò in Africa, in Tanganica, da dove cominciò a cercare la sorgente del Nilo. Richard Francis Burton, John Hanning Spekee Samuel Baker avevano in precedenza quasi correttamente identificato sia il lago Alberto sia il lago Vittoria come sorgenti, ma la questione era ancora dibattuta. Nel cercare la sorgente del Nilo, Livingstone si spinse in realtà troppo ad ovest, fino a raggiungere il fiume Lualaba, che altro non è che la parte iniziale del fiume Congo, ma che egli erroneamente considerò essere il Nilo.
La missione del 1866 alla ricerca della sorgente del Nilo aveva una durata prevista di due anni; ne passarono cinque e non si avevano più sue notizie da molto tempo e molti pensarono fosse morto.
In realtà era vivo, malato e debilitato dai viaggi e dall’ennesima malaria, scriveva lettere per mettersi in contatto con la madrepatria, che però non arrivavano ai destinatari, o che comunque non le condividevano. Solo uno dei suoi 44 dispacci arrivò fino a Zanzibar.
Nel 1869 il direttore e fondatore del New York Herald incaricò Henry Morton Stanley di “trovare Livingstone”, intuendo la notevole portata di un articolo sul ritrovamento dell’esploratore.
Stanley non era mai stato in Africa, ma si organizzò e in breve partì per il continente. Fece una prima sosta in Egitto, dove era appena stato inaugurato il Canale di Suez. In una lettera mandata al giornale scrisse: «Se è vivo, sentirete quel che ha da dire. Se è morto, lo troverò e vi porterò le sue ossa».
Henry Morton Stanley trovò Livingstone nella città di Ujiji, sulle sponde del lago Tanganica il 10 novembre 1871 dove, secondo le ultime informazioni di cui era entrato in possesso, poteva trovarlo.
Trovò il famoso esploratore circondato da molte persone incuriosite dall’arrivo di un altro bianco. Secondo quello che Stanley scrisse in seguito nel libro How I Found Livingstone[2] (che nella versione italiana è Come ritrovai Livingstone in Africa centrale), così si svolse il primo colloquio tra i due esploratori:
«Dr Livingstone, I presume?»
«Il dr. Livingstone, presumo»
(chiese Stanley)
()
«Yes, I feel thankful that I am here to welcome you.»
()
«Sì, e sono grato di essere qui a darvi il benvenuto»
(rispose Livingstone)
Questo episodio è rimasto famoso per le parole con le quali si dice che Stanley abbia per la prima volta salutato Livingstone: i due erano gli unici due europei in Africa nel raggio di centinaia di chilometri e si salutarono come se si vedessero a un ricevimento. Un episodio riportato in seguito più volte come esempio di quanto la formale e seria morale vittoriana fosse compenetrata e assimilata nel popolo britannico.
I dubbi sul fatto che quell’incontro sia avvenuto in quel modo, con quelle esatte parole, hanno diverse motivazioni: principalmente perché nel diario di Livingstone non se ne fa menzione; inoltre è un po' sospetto che dal diario di Stanley manchino proprio le pagine su quel momento, forse perché strappate. Secondo gli appunti di Livingstone ci sono i motivi per credere che l'incontro fosse avvenuto anche un po' di tempo prima, ovvero negli ultimi giorni di ottobre.
Stanley si unì a Livingstone e i due per un anno continuarono insieme a esplorare il nord del Tanganica, poi Stanley partì. Chiese più volte a Livingstone di andarsene con lui, ma il dottore, a dispetto delle sue sollecitazioni, era determinato a non lasciare l'Africa fino a quando la sua missione non fosse stata completata. Dopo essersene andato, Stanley s'impegnò perché all'esploratore arrivassero provviste e medici, ma nel 1873 Livingstone morì in Zambiadi malaria e per una emorragia interna. Gli furono tolti sangue e viscere, lo coprirono di sale, facendolo seccare al sole e poi fu portato per oltre mille miglia dai suoi leali assistenti Chumah e Susi fino a Zanzibar. Infine la salma ritornò in Inghilterra per essere sepolta nell'abbazia di Westminster; il suo cuore venne invece sepolto nel luogo dov'era morto, sul lago Bangweulu, a Chitombal.
Durante i suoi viaggi percorse un totale di quasi 50 000 chilometri, una distanza superiore alla lunghezza dell’Equatore.
Fu il primo occidentale a raggiungere le cascate Vittoria, nominate così da lui in omaggio alla regina britannica di allora.
UIII
Fu il primo occidentale ad attraversare l’Africa in orizzontale, dall’odierna Angola fino al Mozambico.
Attraversò per due volte la regione desertica del Kalahari, di cui la seconda con la moglie e alcuni bambini piccoli.
Trovò la sorgente del fiume Congo.
Mappò il corso del fiume Zambesi e fornì svariate informazioni su luoghi di cui l'Europa non sapeva nulla.
La ricerca di Livingstone da parte di Stanley viene rappresentata nel film Stanley and Livingstone (L'esploratore scomparso) di Henry King del 1939, con Spencer Tracy nel ruolo di Stanley.
La storia del rapporto tra Livingstone e Stanley è raccontata nel film per la televisione di Simon Langton del 1997 Forbidden Territory: Stanley's Search For Livingstone (in versione italiana: Terra proibita: in cerca di Livingstone).
Il personaggio di Livingstone ha un ruolo nel film Le montagne della luna di Bob Rafelson (1990), in cui accredita
l'esordiente Richard Francis Burton (1821-90) presso la Royal Geographical Society.
Nel film Guida galattica per autostoppisti il protagonista, Arthur Dent, interpretato da Martin Freeman, si traveste da Livingstone per andare alla festa in maschera dove conosce per la prima volta altri 2 protagonisti: Trillian McMillan e Zaphod Beeblebrox.
Chi era livingstone
Livingstone era nato a Blantyre, nel mezzo della Scozia, nel 1813. Secondo di sette figli, già a dieci anni fu mandato a lavorare in cotonificio, dove il suo compito era stare sdraiato sotto ai macchinari per unire tra loro i fili di tessuto che si rompevano. Era un ragazzino ed era un lavoraccio, ma quel cotonificio era comunque migliore di altri perché, dopo i suoi lunghi turni, gli permetteva di frequentare una scuola. Il giovane Livingstone si appassionò allo studio, imparò il latino, mise da parte qualche soldo e si iscrisse all’università di Glasgow per studiare medicina.Intanto, era diventato anche un convinto cristiano, cosa che lo indusse a fare il missionario. La sua idea iniziale era di andare a evangelizzare in Asia, ma la prima delle due guerre dell’oppio, combattuta tra il 1839 e il 1842, gli fece cambiare piani. Partì quindi per l’Africa e nel 1841 arrivò a Città del Capo, nell’odierno Sudafrica.
Tuttavia, come ha raccontato Historic UK, il suo obiettivo non era solo convertire quanti più africani possibile. «Puntava anche a scoprire la sorgente del Nilo Bianco (a quella del più piccolo Nilo Azzurro già ci era arrivato un secolo prima un altro scozzese)». Non trovò mai la sorgente, e pare peraltro sia stato un missionario di scarsissima efficacia. Ma fu comunque un grande esploratore, forse il più grande tra quelli che nell’Ottocento andarono in Africa, e per una bizzarra via traversa fu comunque responsabile della diffusione del cristianesimo in una zona del continente.
Da esploratore Livingstone fece tre grandi viaggi, durante i quali percorse un totale di quasi 50mila chilometri, una distanza superiore alla lunghezza dell’equatore. Fu il primo occidentale a raggiungere quelle che scelse di chiamare Cascate Vittoria in omaggio alla regina britannica di allora. Fu, sempre per quanto ne sappiamo, il primo occidentale ad attraversare l’Africa in orizzontale, dall’odierna Angola fino a quello che oggi è il Mozambico. Attraversò per due volte la regione desertica del Kalahari (la seconda delle quali con la moglie e alcuni bambini piccoli), trovò la sorgente del fiume Congo e, da ottimo cartografo quale era, mappò il corso del fiume Zambesi e fornì svariate informazioni su luoghi di cui l’Europa non sapeva nien«Non è esagerato dire» ha scritto Historic UK «che i primissimi astronauti che andarono sulla Luna conoscevano più cose su quel posto di quante non ne sapessero gli esploratori vittoriani sul centro dell’Africa».
In riferimento invece alle attività di proselitismo di Livingstone, qualche anno fa BBC scrisse: «le stime sul numero delle persone che convertì durante i tre decenni passati in Africa variano da uno a nessuno, e la variazione dipende dal fatto che Livingstone stesso rinnegò la persona che aveva convertito giusto qualche mese dopo averla battezzata». Il convertito era Sechele, leader di una tribù in cui Livingstone andò come missionario. Pare che si guadagnò le simpatie di Sechele dopo aver causato involontariamente la morte di un suo rivale, donandogli polvere da sparo, insegnandogli poi a scrivere e convincendolo a convertirsi.
Emersero però due problemi. Il primo era che Livingstone era contrario alla pratica di riti propiziatori per invocare la pioggia, e sembra che quello fosse un periodo di siccità e che proprio Sechele fosse solito guidare quei rituali. Il secondo era che Sechele palesò una certa insofferenza all’idea di rinunciare a quattro delle sue cinque mogli. Livingstone desistette e rinnegò la conversione di Sechele.
Oltre che per le esplorazioni e le mancate conversioni, Livingstone è noto perché – seppur con certe incoerenze e con una mentalità da uomo del suo tempo – era contrario alla schiavitù. Cercava comunicazione e collaborazione con le popolazioni indigene e credeva nella sostituzione della schiavitù con pratiche commerciali meno disumane. Un suo motto, tra l’altro scritto vicino al suo monumento nei pressi delle Cascate Vittoria era: «cristianità, commercio e civilizzazione».
Anche dopo essere diventato famoso e assai richiesto quando gli capitava di tornare nel Regno Unito, Livingstone continuò a viaggiare e nel 1866 partì per una nuova spedizione verso la sorgente del Nilo Bianco. La missione aveva una durata prevista di due anni, ma ne passarono cinque senza sue notizie e molti pensarono fosse morto. In realtà era vivo, anche se malato e debilitato dai viaggi e dall’ennesima malaria. Scriveva pure lettere, che però non arrivavano ai destinatari, o che comunque non le condividevano.
Chi era Stanley
Arrivò invece da lui Stanley, dopo una vita altrettanto movimentata.
Henry Morton Stanley era nato a a Denbigh, nel nord del Galles, nel 1841, l’anno in cui Livingstone partiva per la prima volta per l’Africa. Allora, però, Stanley si chiamava John Rowlands. Ebbe un’infanzia difficile e un’adolescenza non semplice, e a 17 anni trovò lavoro su una nave diretta verso l’America. Una volta arrivato prese piuttosto alla lettera il concetto di “farsi una nuova vita” e sostennedi essere Henry Morton Stanley, il figlio adottivo di un mercante di cotone. Il mercante esisteva davvero, ma non è certo che i due si siano mai incontrati né tantomeno che l’avesse adottato.
L’uomo ormai noto come Henry Morton Stanley finì a combattere nella Guerra di secessione americana, prima con i Confederati e poi con gli unionisti. Dopodiché disertò, fece il marinaio, abbandonò la nave, girò il West e finì a fare il giornalista. Nel 1869 il direttore e fondatore del New York Herald gli disse di “trovare Livingstone”, intuendo la notevole portata di un articolo sul ritrovamento dell’esploratore.
Stanley, che non era mai stato in Africa, si organizzò e partì per il continente, tra l’altro con una prima sosta in Egitto, dove era stato inaugurato il canale di Suez. In una lettera mandata al giornale scrisse: «Se è vivo, sentirete quel che ha da dire. Se è morto, lo troverò e vi porterò le sue ossa».
Dopo un viaggio assai complesso, tra l’ottobre e il novembre 1871 Stanley arrivò, insieme a quel che restava della sua spedizione, nei pressi del lago Tanganica, dove secondo le ultime informazioni che aveva raccolto poteva trovarsi Livingstone.
In effetti c’era, circondato dalle molte persone incuriosite dall’arrivo di un altro bianco. Secondo quanto Stanley avrebbe scritto in seguito, prima per il New York Herald e poi nel libro How I Found Livingstone (che nella versione italiana è Come ritrovai Livingstone in Africa centrale), le prime parole le disse lui. Le pronunciò motivate dall’emozione, dalla deferenza e dall’imbarazzo nel non sapere se abbracciare o meno l’oggetto delle sue ricerche, e furono appunto «Doctor Livingstone, I presume». «Doctor Livingston, suppongo». «Sì, e sono grato di poter essere qui ad accoglierla» rispose Livingstone.
I dubbi sul fatto che quell’incontro avvenne in quel modo, con quelle esatte parole, hanno diverse ragioni. Anzitutto, nel diario di Livingstone non se ne fa menzione. Inoltre è quantomeno sospetto che dal diario di Stanley manchino, forse perché strappate, le pagine su quel momento. Stando agli appunti di Livingstone ci sono inoltre motivi per credere che l’incontro avvenne anche un po’ prima, negli ultimi giorni di ottobre.
Sta di fatto che Stanley trovò Livingstone. I due si fecero compagnia per un po’ e, per quanto lo consentivano le precarie condizioni del secondo, fecero pure qualche giro nei dintorni. Stanley lo invitò a tornare in Europa con lui, ma Livingstone restò lì. Andandosene, Stanley si adoperò perché a Livingstone arrivassero provviste e medicine.
Livingstone morì meno di due anni dopo, a sessant’anni, nel maggio del 1873. Quelli che erano stati i suoi assistenti gli tolsero sangue e viscere, lo coprirono di sale, lo fecero seccare al sole e lo portarono fino a Londra, dove è sepolto a Westminster Abbey.
Stanley tornò, raccolse i frutti del suo grande scoop e descrisse Livingstone con ammirazione e rispetto. «Suo è l’eroismo degli spartani, sua l’inflessibilità dei romani, sua è la perenne risolutezza degli anglosassoni», scrisse.
Nel 1873 tornò in Africa, sempre per conto del New York Herald, come corrispondente di guerra. Dopodiché fu a sua volta esploratore, da un certo punto in poi per conto di Leopoldo II del Belgio, aprendo quindi la strada – non è chiaro quanto volontariamente o quanto invece suo malgrado – alla violenta colonizzazione belga di ampie zone dell’Africa. Gli ultimi anni della sua vita li passò tra Regno Unito, Stati Uniti e Australia, e morì a Londra nel 1904.
Sechele, invece, vide Livingstone per l’ultima volta nel 1852. Lo incontrarono alcuni anni dopo alcuni missionari arrivati nell’odierno Zimbabwe, piuttosto sorpresi nel vedere che molte persone già conoscevano preghiere e riti cristiani. «Sechele li aveva battuti sul tempo», come scrisse BBC. Convinto della sua personale via al cristianesimo aveva infatti continuato a praticare, convincendo sempre più persone, di sempre più tribù, a fare lo stesso. Alla sua morte, nel 1892, aveva un seguito – religioso, ma non solo – di circa 30mila persone.
Intervento dell’ambasciatore dello Zambia in Italia in occasione dell’incontro organizzato
da African People Publisher del 17 febbraio 2024 dr.ssa Patricia Kondolo.
"Buon pomeriggio a tutti e grazie di questa opportunità di dire qualche parola sullo Zambia.
Prima che io inizi a raccontarvi qualcosa, permettetemi di ringraziare la dottoressa
Emanuela Scarponi per il suo lavoro come editore di African People Ong Publisher. Siamo
particolarmente onorati che oggi lei abbia dedicato allo Zambia uno spazio nella sua
review sui Paesi e le popolazioni dell’Africa.
È un onore per me e un privilegio, come ambasciatore dello Zambia in Italia, dire qualche
parola questo pomeriggio riguardo al turismo. So che è stato già spiegato tutto ciò che
c’era da spiegare, ma vorrei dire qualche parola in più riguardo ad alcuni aspetti che
desidero enfatizzare. Prima però, consentitemi di ringraziare anche l’ambasciatore del
turismo dello Zambia, dr.ssa Michelina Gabriè Sunquest, che noi chiamiamo “Mutinta”,
avendole dato un nome nella nostra lingua perché la consideriamo come una di noi.
Questo non è il momento per un lungo intervento, perché so che il Paese è stato già
introdotto e presentato, tuttavia vorrei giusto evidenziare alcune caratteristiche che
rendono lo Zambia un Paese unico.
Prima di tutto, lo Zambia è un Paese pacifico e stabile, non solo rispetto alla regione
sudafricana, ma anche all’Africa in generale. La gestione politica del Paese ha un buon
andamento: nella nostra breve storia, che dura da soli 60 anni, abbiamo avuto sette
Presidenti e sempre transizioni pacifiche da una amministrazione all’altra. Riteniamo che
questo sia di vitale importanza per generare un ambiente inclusivo e una crescita stabile
nel settore del turismo.
In quest’ottica il vostro investimento nel campo del turismo è sicuro. Inoltre, il Governo
della Repubblica dello Zambia offre incentivi a persone di nazionalità straniera nel settore
del turismo, quali ad esempio vacanze esentasse.
Lo Zambia è anche un Pase che è unico dal punto di vista della bellezza naturalistica,
come sono sicura avrete già evinto dalle fotografie che sono state mostrate.
Essendo un Paese con un ricco patrimonio culturale e con una fauna selvatica
diversificata, offre abbondanti opportunità per viaggiatori avventurosi, per persone
desiderose di trascorrere una vacanza serena e per esploratori curiosi.
Lo Zambia vanta una delle più spettacolari meraviglie naturali del Mondo, le cascate
Victoria, che sono molto belle. Sono sicura che chi di voi è stato in Zambia, sarà andato a
visitarle. Penso che valga la pena prendersi del tempo per esplorarle. Le cascate Victoria,
che sono una delle sette meraviglie naturali del Mondo, sono parte del patrimonio
dell’umanità protetto dall’UNESCO.
Lo Zambia ospita molti fiumi e laghi e possiede le più ampie risorse di acqua dolce nel sud
dell’Africa: il 40 per cento dell’acqua interna dell’Africa del sud è nello Zambia.
A parte le Cascate Vittoria, lo Zambia è ricco anche di parchi naturali nazionali e riserve,
come il Kafue National Park, il Lower Zambezi National Park e il South Luangwa National
Park, solo per menzionarne alcuni, in cui i turisti possono avventurarsi in indimenticabili
safari e incontrare i Big Five nel loro habitat naturale. I Big Five, come saprete, sono il
leone, il leopardo, il rinoceronte, l’elefante africano e il bufalo africano.
Un altro aspetto che, almeno per me, è estremamente importante è la popolazione e la
sua cultura. Al riguardo, annualmente abbiamo molteplici cerimonie tradizionali che
attraggono i media internazionali, turisti locali e stranieri. Queste cerimonie, ciascuna
significativamente importante nella preservazione della cultura, contribuiscono al settore
turistico e offrono uno spaccato delle diversificate tradizioni e della varietà di costumi che
rendono lo Zambia realmente unico.
Un altro aspetto che contraddistingue lo Zambia è che il nostro è un turismo sostenibile. In
qualità di custode dell’ambiente, lo Zambia riconosce l’importanza di preservare le proprie
risorse naturali per le generazioni future. Sua eccellenza il dottor Hakainde Hichilema,
presidente della Repubblica dello Zambia, dopo essersi insediato nel 2021, ha creato il
Ministero della green economy e dell’ambiente, per sostenere l’intenzione dello Zambia di
avanzare proseguendo su un percorso di crescita ecosostenibile. La visione del Ministero,
che lavora mano nella mano con il Ministero del turismo, è di promuovere una green
economy intelligente.
Signore e signori, nel guardare al futuro, lo Zambia, con il suo potenziale illimitato, con la
sua vasta bellezza e la sua popolazione amichevole e ospitale, dovrebbe essere la vostra
prima scelta nell’individuare una destinazione in Africa. Per far sì che questa visione dello
Zambia come destinazione di prima scelta diventi realtà, dobbiamo lavorare tutti insieme
per promuovere le attrazioni uniche del Paese e investire nelle strutture turistiche.
Permettetemi di concludere chiedendovi di unirvi a me nell’esplorare e promuovere lo
Zambia come una delle vostre mete turistiche favorite. Che voi siate agenti di viaggio o
tour operator, che stiate cercando una partnership nello Zambia, che siate vacanzieri,
avventurieri o appassionati di cultura, lo Zambia ha qualcosa da offrire ad ognuno di voi.
Come diremmo in una delle più comuni lingue del nostro Paese: “zikomo”, grazie.
Intervista di Michelina Gabriè Sunquest, console onorario del turismo dello Zambia in Italia, :
Cosa consiglierebbe di andare a visitare ad un turista, se lei dovesse andare in
vacanza in Zambia cosa andrebbe a vedere?
R. Qui accanto a me c’è il collega che risponderà a tutte le domande, ma per quanto
riguarda la sua domanda la risposta ovvia sono le cascate vittoria, quello è decisamente
un “must”. Altre attrazioni turistiche sono le riserve. La particolarità che differenzia lo
Zambia dagli altri Paesi è che da noi gli animali sono veramente nel loro habitat naturale,
in quanto queste zone non sono state commercializzate.
Un';altra cosa che farei è assistere alle cerimonie tradizionali che hanno luogo durante
gran parte dell’anno. Nello Zambia abbiamo 72 dialetti, perciò in diverse regioni del Paese
troverete differenti tradizioni culturali. Indipendentemente da quando andrete a visitare lo
Zambia, troverete sicuramente qualche cerimonia cui assistere in una delle regioni del
Paese.
Queste sono solo alcune delle cose che consiglierei, ma di cose da fare in Zambia ce ne
sono molte altre.
SUICIDIO ASSISTITO, EUTANASIA, CURE PALLIATIVE: RIFLESSIONI
di Alessandra Di Giovambattista
Si vorrebbe proporre ora, dopo averne parlato con finalità conoscitive in precedenti articoli, una riflessione sul suicidio assistito, sull’eutanasia e le cure palliative. Il tema è delicato e complesso e non si ha la pretesa di volerlo esaustivamente approfondire, ma è forte la spinta interiore, dettata dall’amore alla vita che ognuno di noi sente, almeno istintivamente.
Coloro che hanno a cuore la propria esistenza in genere sono persone che hanno ricevuto amore e quindi sanno cosa vuol dire quel benessere interiore, quel calore che ti viene da dentro che ti fa stare bene e ti fa andare avanti anche nel dolore, consapevole che in fondo al tunnel ci sarà la luce. Questa si chiama speranza, una delle virtù teologali che rendono l’uomo libero e coraggioso di accettare le sfide più ardue, nella sicurezza che alla fine ci sarà amore, per la vita eterna: è indubbio che questa è una visione esclusivamente spirituale della vita.
Tuttavia volendo dare un significato più razionale alla vita ed al suo valore, anche nella sofferenza e nel dolore, occorre soffermarsi sull’aspetto istintivo che hanno tutti gli esseri viventi: la conservazione e la difesa della propria vita e di quella delle persone care. L’essere umano aggiunge a questo approccio istintivo anche la tutela e la cura dei più fragili, mosso da sentimenti di compassione. È quindi capace di interagire con gli altri, ed anzi per l’uomo è una necessità il relazionarsi con il prossimo perché solo così prende consapevolezza di sé e dell’ambiente in cui vive. Ma il valore della comunità e della condivisione viene esaltato quando l’essere umano è affetto da una condizione di malattia infausta: per chi è circondato da affetti sinceri l’avvicinarsi della morte risulta meno opprimente rispetto a chi si trova in totale solitudine. Solo nel rapporto con gli altri si misura l’amore donato e ricevuto e quando si è soli si perde il valore della vita, ci si sente avulsi dalla realtà e rifiutati perché malati e non più utili alla comunità, in una parola si prova disperazione. È lo stato d’animo di chi non ha più speranza, di chi è oppresso da un inconsolabile sconforto e da abbattimento psicologico e morale dovuto alla solitudine; in tal caso si è facile preda dei più nefasti e oscuri pensieri.
Ed è forse proprio qui che si gioca la partita: in un mondo che ha perso ogni prospettiva e forma di affetto - dove si vive alla giornata, dove conta il numero di persone che ti seguono (followers) qui, ora, oggi, senza una aspettativa di futuro che non sia il solo denaro, dove non servono gli affetti ma solo il saldo del conto bancario, dove per soddisfare il personale potere su persone e cose si è capaci di scatenare guerre e violenze, dove i bambini non conoscono più l’affetto e la dedizione dei genitori, dove gli strumenti elettronici hanno preso il posto delle relazioni interpersonali in una sconsiderata esaltazione dell’intelligenza artificiale - forse si perde il senso della vita. Nel mondo odierno sembra non esserci più posto per la solidarietà, la condivisione, la compassione; ognuno è preso dalle proprie problematiche ed anche in famiglia si soffre sempre più di solitudine; è quest’ultima che porta alla disperazione e spinge a credere che non ci siano soluzioni ai problemi. Quando si è gravemente malati la solitudine gioca un ruolo fondamentale; ci si sente isolati e non accolti; come dice Papa Francesco ci si sente scartati, quindi non solo improduttivi ma anche consumatori di risorse che potrebbero essere destinate per obiettivi economicamente più “meritevoli e convenienti”!
E’ quando non si è amati e non si ama che ci si sente soli, e sopravviene lo è sconforto, e in fondo al tunnel c’è solo un buio ancora più oscuro senza speranza di cambiamento e di vita. È in questa situazione che l’uomo getta la spugna, perde il senso del combattimento dell’esistenza che ha invece come obiettivo l’intento di cercare di migliorare le proprie e le altrui condizioni in uno slancio di generosa e collettiva condivisione del bene. Perde l’essenza della vita che non è solo capacità di produrre, di essere attivi, di avere un bell’aspetto estetico ma è soprattutto capacità di generare affetto e amore verso le persone che ti circondano, anche se si è diventati più deboli e fragili.
Diventa allora indispensabile sostenere il malato, non permettere che rimanga in balia della solitudine; è quando ci si sente abbandonati che diventa più facile e comprensibile esprimere la propria disarmante decisione di mollare tutto. In condizioni di sconforto è determinante offrire una possibilità di scelta che conduca prima di tutto ad esperire le cure palliative che rappresentano la sola attuale possibilità di affrontare la malattia con dignità e con minor grado di sofferenza, accompagnando il malato al suo finale traguardo terreno.
Dopo di che si può dire che potrebbero aprirsi due vie: una più spirituale in cui si accetta la morte aiutati da farmaci che leniscono il dolore e tengono sotto controllo la sofferenza a livelli di umana sopportazione, l’altra che segue l’istinto più naturale in cui, per paura della sofferenza, si sceglie il suicidio assistito (che nella nostra attuale giurisprudenza prevede i seguenti requisiti: il malato sia capace di intendere e di volere, presenti una patologia irreversibile, fonte di gravi sofferenze fisiche o psichiche, e che dipenda da trattamenti di sostentamento vitale), volendo assolutamente escludere l’eutanasia attiva che rappresenta la modalità con cui si procura il decesso del malato attraverso l’uso di un farmaco letale. È indubbio, a mio parere, che sia comunque il malato ad avere il diritto di esprimere l’ultimo consenso, ma è importante che tale decisione sia presa in totale consapevolezza e condivisione massima, circondato da affetti e conforto spirituale e psicologico. Solo così la scelta sarà davvero libera e non indotta da sentimenti di disperazione e sconforto.
Ovviamente potremo anche trovarci di fronte a casi in cui il malato non sia più cosciente e quindi non sia più capace di intendere e di volere, ed allora sarebbe opportuno che lasci indicate le sue volontà circa le scelte sulle cure mediche. Si apre quindi il discorso del testamento biologico, uno strumento che deve poter coniugare le scelte sanitarie del paziente con i personali convincimenti religiosi, etici, filosofici, morali. Ognuno deve essere libero di autodeterminarsi – anche se sarebbe opportuno aiutare il paziente a riflettere anticipatamente sul valore della vita e della propria esistenza per sé e per tutti i propri cari - ma indubbiamente deve poterlo fare nel modo più consapevole e sereno possibile. Sarà quindi necessario un affiancamento spirituale, scientifico, morale, etico che alla fine consenta al paziente di disporre liberamente della propria vita. Ritengo, nel profondo del mio cuore, che ogni credo religioso essendo coltivato nella propria anima deve produrre frutti proprio nei momenti più estremi dove ogni decisione deve poter esser fatta in armonia con i principi morali e religiosi più intimi. Nella religione cristiana il Signore lascia liberi di pensare e di agire; la libertà spirituale è una caratteristica umana e nessuno può essere assoggettato ad un obbligo (ovviamente né il malato e né tanto meno il medico e il personale sanitario in generale). L’individuo deve sentirsi un essere umano che effettua una scelta consapevole dalla quale, conseguentemente, deriveranno effetti in questa vita e in quella ultraterrena, nel caso in cui creda nell’aldilà.
Al malato spetterà dunque la decisione se accettare o rifiutare una determinata cura, cogliendo in tal modo il vero significato del consenso informato che ormai siamo chiamati a sottoscrivere per quasi tutti gli atti medici. Il medico dovrà accogliere la volontà del paziente il quale pienamente edotto e consapevole potrà decidere di rifiutare tecniche mediche che potrebbero solo ritardare il momento del trapasso e, se estremizzate, potrebbero portare all’accanimento terapeutico. Ed è spesso la pratica di queste terapie che, prolungate nel tempo senza risultati migliorativi, portano alla disperazione sia il paziente sia i familiari e gli amici i quali pur di interrompere le grandi sofferenze chiedono il suicidio assistito o l’eutanasia. In buona sostanza deve essere presente l’obbligo morale di farsi curare e di curare ma tale obbligo deve commisurarsi alle verosimili prospettive di miglioramento del paziente. In tale ambito rinunciare sin dall’inizio a terapie straordinarie o sproporzionate non equivale al suicidio o all’eutanasia, bensì all’accettazione coraggiosa della essenza umana della morte.
In ultima analisi occorre riflettere sul fatto che non siamo in grado di governare nessuna variabile della nostra esistenza, spesso ci sembra di decidere autonomamente ma in realtà nel corso della vita si aggiungono tante situazioni che non dipendono da noi e che ci conducono a scelte ed atti non prevedibili, non voluti ed inaspettati. Qui risiede la grande capacità dell’uomo di modificare costantemente le proprie azioni e di adeguarsi a situazioni nuove, come quella in cui si diventa anziani e/o dichiaratamente malati. Dico dichiaratamente perché poi di fatto nessuno di noi è sano; basti pensare al patrimonio genetico di cui siamo portatori e che contiene fragilità che potrebbero esprimersi in patologie conclamate da un momento all’altro. Si potrebbe arrivare a dire che la differenza tra una persona malata e una persona sana è che la prima è informata, almeno parzialmente, sulle sue condizioni di salute con riferimento ad una patologia in atto, la seconda invece non è totalmente consapevole del suo reale stato di salute. È indubbio tuttavia che ci sono persone che conducono una vita di afflizione dovuta alle patologie che presentano ma è altrettanto indubbio quanto sia importante l’affetto che li circonda; quando non ci si sente soli i problemi sono più leggeri….il giogo non è pesante; la condivisione e l’amorevole vicinanza degli altri aiutano a superare situazioni di grande difficoltà.
E quindi mi sento di dire che forse, come prima strategia di sollievo dal dolore e dall’afflizione, potremmo indicare le cure palliative che aiutano ad affrontare la vita con dignità e coraggio, consapevoli che ogni attimo in più passato con i propri genitori, i figli, i nipoti, il coniuge, gli amici è un atto di amore e di grande insegnamento sapienziale che aiuterà prima di tutto chi rimarrà in vita, lasciando un’eredità inestimabile: il coraggio di aver guardato alla morte con la forza e l’amore di un essere illuminato, capace cioè di vedere la luce in ogni situazione, anche nelle ultime parole ed azioni che resteranno indelebili nel cuore di chi rimane. Quando si entra nell’ordine di idee delle cure palliative allora si accetta la propria condizione di malati e non si sceglie l’accanimento terapeutico che è poi il vero responsabile delle scelte di suicidio assistito e di eutanasia.
Lasciamo invece che la giurisprudenza faccia il suo corso circa la normazione in materia di testamento biologico e rifiuto delle terapie mediche.
Mi piace concludere ricordando Stephen Hawking, il celebre astrofisico inglese che affetto da una inarrestabile malattia neurovegetativa ha vissuto su una sedia a rotelle e comunicava con un sintetizzatore vocale; egli in diverse interviste non ha mai escluso il suicidio assistito, ma ha precisato anche di non aver assolutamente intenzione di farlo in quanto gli rimaneva ancora tantissimo lavoro di ricerca da fare!