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PLASTIC TAX: UNA IMPOSTA MAI ENTRATA IN VIGORE. di Alessandra Di Giovambattista

PLASTIC TAX: UNA IMPOSTA MAI ENTRATA IN VIGORE.
di Alessandra Di Giovambattista

 

29-11-2023
 
Nella sua formulazione originaria l’imposta sul consumo dei manufatti in plastica con impiego singolo, cioè monouso (MACSI), c.d. plastic tax, è stata introdotta dalla legge di stabilità (legge di bilancio) per il 2020 nei commi da 634 a 658. La relazione illustrativa al provvedimento individuava come assoggettati alla nuova imposizione i manufatti in plastica con funzione di contenimento, protezione, manipolazione o consegna di beni, di qualsiasi natura, anche alimentari, includendo anche fogli e pellicole, realizzati con materie plastiche di origine sintetica e non utilizzabili più volte (per l’appunto monouso). Uniche esclusioni riguardavano i manufatti compostabili e le siringhe, che per loro natura sono necessariamente monouso.
A latere di questa nuova imposizione era poi previsto un credito d’imposta a favore delle imprese presenti nel settore delle materie plastiche per l’adeguamento tecnologico delle linee di produzione di manufatti biodegradabili e compostabili, nonché per attività di formazione del personale dipendente per acquisire o consolidare le conoscenze connesse allo sviluppo del settore. Queste ultime misure avevano l’obiettivo di sostenere piani di investimento per la conversione alla produzione di prodotti di natura compostabile secondo lo standard EN13432:2002. Con questa disposizione si provvedeva ad attuare la direttiva n. 2019/904/UE che ha come obiettivo la riduzione dell’impatto sull’ambiente dei prodotti in plastica, in particolare di quelli non riutilizzabili, caratterizzati da un ciclo di vita di breve durata, e da un inefficiente processo di riciclo. Gli Stati membri erano stati pertanto chiamati ad adeguarsi con idonee misure legislative per ridurre e per monitorare il consumo dei prodotti MACSI e per adottare e riferire i progressi compiuti in tale ambito.
Prima di continuare va fatto un approfondimento sul significato di biodegradabilità: è la caratteristica tipica delle sostanze organiche, ma anche di alcuni elementi sintetici, di essere decomposti da microorganismi presenti in natura; ciò permette di mantenere l’equilibrio biologico del pianeta. Però come già accennato tale caratteristica può essere attribuibile anche ad alcuni composti artificiali e sintetici che una volta dispersi nell’ambiente riescono facilmente a decomporsi per la presenza di microorganismi, es. batteri, in grado di trasformare le sostanze sintetiche in composti meno inquinanti e assorbibili dal terreno (in genere in tempi e modi diversi a seconda del materiale).
Tornando all’imposta sui manufatti in plastica monouso la relazione illustrativa al provvedimento istitutivo sottolineava l’uso dello strumento della leva fiscale (per  l’appunto la nuova imposta) per imprimere un’inversione di tendenza nell’uso comune dei prodotti di materiale plastico. L’obiettivo del tributo era anche quello di promuovere la progressiva riduzione della produzione e quindi del consumo di prodotti monouso in plastica attuando sia una politica di maggiore pressione fiscale nei confronti delle aziende meno virtuose e al contempo prevedere degli aiuti di natura finanziaria per far fronte ai costi delle strategie innovative e di transizione ecologica.
Questa impostazione è riconducibile anche alla politica europea finalizzata alla riduzione dell’incidenza dei prodotti in plastica - in particolare di quelli non riutilizzabili né assoggettabili a processi di riciclo i quali non contribuiscono alla riduzione della quantità di rifiuti - che derivano da linee di produzione inefficienti ed in contrasto con gli obiettivi di tutela dell’ambiente. Allo stesso tempo e con la medesima finalità, della riduzione dell’inquinamento da rifiuti di imballaggi in plastica non riciclabile, il 14 dicembre 2020 l’Unione Europea con la decisione 2020/2053 ha predisposto, per il bilancio 2021-2027, una nuova categoria di risorse proprie basata su tributi da calcolarsi in ciascuno Stato membro, con aliquota pari a 0,8 centesimi di euro per chilogrammo di plastica contenuto in imballaggi non riciclabili. Gli Stati sono stati lasciati liberi di adottare le misure più consone per il raggiungimento degli obiettivi prefissati, tenendo in debito conto il c.d. principio di sussidiarietà. Quest’ultimo mira a garantire che le decisioni siano adottate, nell’ambito di una cornice di principi definita dall’unione europea, dai diversi Stati membri secondo le caratteristiche e le peculiarità tipiche di ogni nazione e territorio (regionale o locale).
Una prima analisi circa l’impatto che la plastic tax avrebbe avuto in Italia fu fornita da diverse associazioni, tra cui l’Associazione Italiana Industria Bevande Analcoliche (Assobibe), e non fu di certo positivo; si sottolineò subito che la misura avrebbe provocato solo un aumento dei prezzi (in quanto i produttori avrebbero cercato di traslare verso i consumatori il maggior carico impositivo), una riduzione dei posti di lavoro e ripercussioni di carattere negativo nel settore della plastica. In Italia il settore conta oltre 11.000 imprese con un fatturato di oltre 30 miliardi di euro; tuttavia a livello regionale la quota del 50% in termini di personale occupato è detenuta da solo tre regioni: Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna.
E’ per questi motivi che l’attuazione della plastic tax è stata finora oggetto di continui rinvii; infatti all’origine sarebbe dovuta entrare in vigore il primo luglio 2020; poi il decreto legge n. 34 del 2020, c.d. decreto rilancio, ne ha posticipato l’entrata in vigore al primo gennaio 2021 e successivamente al primo luglio 2021. La legge di bilancio per il 2022 ne ha ulteriormente prorogato l’applicazione al primo gennaio 2024. Infine con il comunicato stampa n. 54 del 16 ottobre 2023 il Consiglio dei Ministri ne ha deciso l’ulteriore rinvio al primo luglio 2024, così come indicato nel disegno di legge di bilancio per il 2024.
A dovere di cronaca occorre ricordare che le imposte sulla plastica in Italia avevano già fatto la loro comparse con l’imposta di fabbricazione e la sovraimposta di confine sui sacchetti di plastica (istituite nel 1988 ed abrogate nel 1993).
La proposta italiana di introdurre un’imposta sui MACSI seguiva una linea di tendenza già utilizzata da altri paesi europei; in questo senso l’OCSE in un report presentato nel 2019 sottolinea la presenza di una tassa in Belgio sugli imballaggi di posate usa e getta e sui sacchetti di plastica monouso immessi sul mercato; in Francia, Irlanda, Portogallo, Spagna e nel Regno Unito si applica, con modalità e parametri diversi, una tassa sulle quantità di sacchetti di plastica monouso prodotti; in Danimarca, paese da sempre molto attento alle questioni ambientali, si prevede il pagamento di una tassa per specifici prodotti in PVC morbido, e per tutta una serie di beni che contengono ftalati (es. tubi, rivestimenti per pavimenti e pareti, guanti, grembiuli, tute protettive, indumenti impermeabili, tovaglie, cavi, fili, grondaie, cartelline in plastica, raccoglitori, ecc).
Nel dettaglio il Regno Unito ha basato la sua imposta non sui manufatti in plastica monouso, ma sugli imballaggi di plastica prodotti o importati nello Stato per un quantitativo superiore a 10 tonnellate di prodotto plastico che avesse sostenuto l’ultimo stadio di trasformazione. In Spagna, invece, dal 1 gennaio 2023 vige un’imposta sugli imballaggi monouso, prodotti, importati o introdotti da altri Stati dell’Unione europea, contenenti plastica, sui prodotti semilavorati in plastica e sui prodotti contenenti materie plastiche destinati alla confezione finale di vendita. Da più parti si è però rilevata la difficoltà di quantificazione e di determinazione della base imponibile dell’imposta nonché la complicazione dell’uscita del Regno Unito dall’Unione europea per cui tali prodotti sono soggetti al regime di importazione, con aggravio di costi, mentre i passaggi degli stessi prodotti in Spagna rappresentano movimenti intra comunitari e non soffrono di aggravi di dazi per importazione. Inoltre la definizione della base imponibile è complicata perché si basa su presupposti differenti; ad esempio nel Regno Unito non rientrano tra i prodotti assoggettati alla plastic tax gli imballaggi che contengono più del 30% di plastica riciclata, pur concorrendo alla determinazione della soglia delle 10 tonnellate, mentre vi vengono assoggettati i prodotti la cui componente plastica è prevalente in peso rispetto agli altri elementi che compongono il prodotto. In Spagna, invece, la base imponibile è costituita da tutta la parte di prodotto che non è plastica riciclata, così come peraltro si conforma la nostra plastic tax. Pertanto un altro aspetto da sottolineare e da tenere in mente è rappresentato dalla difficoltà che le diverse tipologie di imposte stanno creando nella circolazione dei beni. Se la nostra imposta dovesse entrare in vigore, occorrerà tener conto di questi aspetti al fine di normare una imposta che sia di facile applicazione sia per la determinazione della base imponibile, sia per gli adempimenti amministrativi derivanti.
Questi i casi in cui in alcuni paesi europei hanno adottato la leva fiscale per cercare di contenere la produzione di materiali inquinanti e non riciclabili; a riscontro dell’efficacia di questa politica la relazione illustrativa al provvedimento di introduzione della plastic tax, ricordava che nel 2019 un altro report della Market Research Group ha quantificato, per il biennio 2017 e 2018, un decremento della produzione europea del mercato della plastica proprio per effetto di queste politiche, nonostante la produzione mondiale fosse invece costantemente aumentata. In particolare i maggiori produttori mondiali di plastica (dati del 2018), in percentuale, sono rappresentati da: paesi dell’accordo nordamericano di libero scambio tra USA, Canada e Messico, c.d. NAFTA (North Atlantic free trade Agreement) per una quota del 18%, Europa per il 17%, Cina per il 30%, Giappone per la quota del 4% ed il resto dell’Asia per il 17%.
Da queste brevi informazioni di natura statistica si comprende bene come il problema sia globale e riguardi tutti i paesi del mondo e sia però soggetto alla sensibilità di ognuno.

 

 

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29 Novembre 2023

PLASTIC TAX AD UN BIVIO: INTRODURLA O ELIMINARLA. di Alessandra Di Giovambattista

PLASTIC TAX AD UN BIVIO: INTRODURLA O ELIMINARLA.

di Alessandra Di Giovambattista

 02-12-2023

Il legislatore che nel 2019 ha previsto l’introduzione della plastic tax lo ha fatto con la finalità di disincentivare l’uso di imballaggi in plastica monouso (MACSI) a favore di processi virtuosi di riciclo delle materie plastiche e di utilizzo di materiali compostabili. Quindi l’imposta avrebbe dovuto pesare sulle aziende che da decenni riscuotono enormi profitti promuovendo la produzione e l’utilizzo di grandi quantità di imballaggi non sempre utili e giustificabili, penalizzando l’ambiente, e senza porsi il problema della gestione e del recupero attraverso il processo di riciclo. Ma la domanda importante da porsi è: il provvedimento sarà davvero efficace dal punto di vista ambientale? La plastic tax sarà solo una imposta da pagare in più, oppure si dimostrerà davvero come un utile strumento per disincentivare i consumi dei prodotti monouso e per incentivare comportamenti virtuosi nei produttori e nei consumatori, verso l’uso di materiali compostabili e meno inquinanti?

Da più parti, ed in particolare in più sedi territoriali di associazioni rappresentanti il mondo produttivo, in contrapposizione al nuovo tributo si è paventata l’ipotesi che la plastic tax fosse un’imposta introdotta esclusivamente per trovare risorse finanziarie a copertura di maggiori spese pubbliche, essendo del tutto inutile, se non dannosa, per l’economia e l’ambiente. La maggiore accusa è stata quella di conformarsi come uno strumento punitivo in conflitto con provvedimenti costruttivi che andrebbero opportunamente introdotti. In particolare rappresenterebbe un ostacolo ai progetti ed agli studi mirati a ridurre l’uso della plastica, che avrebbero invece bisogno di regole certe e stabili e non di sottrazione di risorse. È stata pertanto auspicata una politica concreta finalizzata a costruire una cultura dell’ecologia. Si è voluto quindi sottolineare l’importanza degli incentivi da erogare a quelle aziende virtuose che forniscono prodotti e implementano strategie di vendita attente all’ambiente (come ad esempio i corner green dove i consumatori possono acquistare detersivi ed alimenti in contenitori personali, oppure ricevere piccoli sconti e buoni in caso di conferimento di contenitori in plastica) ed escludere del tutto politiche che penalizzino le aziende meno virtuose. Altra accusa riguarda il fatto che la plastic tax rappresenterebbe una sorta di doppia imposizione, in quanto le aziende già oggi pagano il contributo CONAI per la raccolta ed il riciclo di imballaggi in plastica, ed andrebbe ad impattare direttamente sui prezzi di beni a larghissimo consumo.

Dalla parte opposta, quindi a favore dell’imposta, leggiamo un’analisi condotta da Greenpeace Italia, dove si sottolinea che la mancata entrata in vigore della plastic tax, oltre a non aver garantito un afflusso di risorse finanziarie per l’erario, (la relazione tecnica finale parlava di più di un miliardo di euro annui) ha obbligato l’Italia a pagare circa 800 milioni di euro all’Europa a titolo di imposizione sull’uso di prodotti in plastica non riciclabili (la citata decisione europea 2020/2053). Inoltre tali posticipi hanno favorito un settore industriale che continua a realizzare grandi profitti. L’indagine ha evidenziato che il settore della plastica gode di ottima salute mentre i costi derivanti dal mancato riciclo degli imballaggi sono sostenuti dalla collettività intera; e in realtà si tratta non solo di esborsi finanziari ma soprattutto di costi in termini di salute e minor benessere! L’indagine evidenzia infine una situazione paradossale in cui il Governo, soggetto che dovrebbe tutelare i cittadini, ed il mondo industriale sembrano ambedue voler puntare sul riciclo dei MACSI ma in realtà si oppongono all’entrata in vigore della tassa che dovrebbe, in modo indiretto, incentivare il mercato dei prodotti riciclabili e lo sviluppo di tecnologie di riciclo e recupero della plastica. L’indagine si conclude con una netta accusa dell’inerzia dell’Italia circa l’introduzione della plastic tax che, secondo Greenpeace, potrebbe essere invece un utile mezzo per contribuire a ridurre l’inquinamento da plastica usa e getta.

Esposti i pareri contro e a favore dell’imposta sui MACSI proviamo a farci un’opinione personale. In prima battuta osserviamo che le aziende non sopravvivono in ambienti dove non c’è chiarezza normativa, soprattutto in ambito fiscale. Le strategie aziendali si basano anche, e soprattutto in un Paese come l’Italia con una forte pressione fiscale, sulle politiche di programmazione tributaria. L’incertezza normativa non permette di costruire piani di sviluppo concreti; chi di noi potrebbe decidere una strategia senza sapere su quali elementi basarsi? Un Paese che costantemente rinvia l’entrata in vigore di una imposta che si basa su validi presupposti socio/economici dà una pessima immagine di sé ed allontana i possibili investitori, sia nazionali sia esteri: per piacere o manteniamo la norma e l’applichiamo oppure togliamola definitivamente, una volta per sempre!

Un altro aspetto da considerare è l’onestà delle scelte aziendali; purtroppo in un tessuto economico dove è molto potente la componente delle aziende multinazionali, peraltro estere, le decisioni vengono prese esclusivamente con riferimento al profitto. Il problema dell’inquinamento ambientale non rientra tra gli interessi di aziende che di fatto delocalizzano le proprie attività con l’obiettivo di trovare delle escamotages per non rispettare le norme vigenti nei propri Paesi! Ci troviamo di fronte a soggetti che non agiscono secondo deontologia e correttezza ma esclusivamente per il loro profitto. Per tali soggetti ritengo che norme rigide ed anche costose possano fare la differenza soprattutto a favore del principio per cui andrebbero premiate le aziende più virtuose che ormai non sono più quelle che rispondono solo ai classici principi di economicità, ma sono quelle che rispondono anche a principi di sopravvivenza ambientale (che di fatto dovrebbe ormai rientrare nell’accezione più ampia ed attuale di economicità). In questo senso bisognerebbe quindi prevedere un sistema circolare in cui chi più inquina più paga e le risorse ricavate vanno ad incentivare le aziende più virtuose ed innovative dello stesso settore; in questo modo forse si potrebbe innescare un processo positivo autogenerante. Il punto fondamentale da considerare è che non bisogna solo considerare l’effetto deterrente dell’imposta, ma parallelamente occorre prevedere sgravi ed incentivi per il ricorso ad alternative davvero ecologiche che si basino soprattutto sulla formazione di una nuova mentalità non consumistica che non approvi il prodotto monouso (usa e getta), di qualunque tipo esso sia. La scelta di premiare i virtuosi senza sanzionare i più inquinanti potrebbe risultare una politica non a saldo zero: di fatto potrebbe privilegiare i meno rispettosi innescando una spirale negativa e pericolosa. Da ricordare, in questo senso, tutte le aziende che hanno truffato i consumatori e danneggiato l’ambiente attraverso pratiche di greenwashing!

Andrebbe poi sottolineando che un atteggiamento altalenante circa l’introduzione di una norma espone il Paese a ricatti da parte delle imprese monopoliste; sulla questione plastic tax, la Coca-Cola Italia ha giocato un ruolo fortemente decisionista; infatti di fronte alla possibilità che anche l’Italia introducesse la plastic tax (oltre alla sugar tax) il colosso americano ha paventato licenziamenti e chiusura di stabilimenti (a Marcianise e ad Oricola), blocco di investimenti, acquisti di materie prime da altri Paesi (il caso delle arance per produrre la Fanta: l’Italia ha subito la minaccia che le arance venissero acquistate da fornitori esteri). È evidente che il sistema economico italiano è molto fragile. Dovremmo esigere più serietà e competenza dai nostri politici e manager per provare a recuperare un po’ di credibilità e dignità.

Infine sarebbe opportuna un’analisi del mercato del riciclo della plastica; il consorzio che si occupa del ritiro degli imballaggi in plastica in oltre il 90% dei Comuni in Italia è il Consorzio nazionale per la Raccolta il Riciclo e il Recupero degli Imballaggi in Plastica (Corepla) e garantisce l’avvio al riciclo del materiale raccolto. Ma effettivamente, quanta plastica si ricicla in Italia? Una percentuale pari a circa il solo 55,6% (in particolare vengono rinviati al riciclo 1,3 milioni circa rispetto ad un totale di imballaggi pari a circa 2,3 milioni di tonnellate), percentuale di poco superiore all’obiettivo che l’Unione europea dovrà raggiungere nel 2030 pari al 55%; tuttavia l’avvio al riciclo non significa attività di riciclo. Questo perché nella filiera produttiva quello che entra è sempre una quantità superiore a quella che ne esce. Infatti le nuove modalità di conteggio dei rifiuti riciclati, che utilizzerà l’Unione Europea per le dovute verifiche, non partiranno più dall’ammontare conferito, ma considereranno solo i materiali effettivamente riciclati in muovi prodotti o sostanze. L’applicazione di questo metodo di calcolo comporterà in media un taglio dell’8% circa (secondo i calcoli effettuati dall’Istituto Superiore per la Protezione - ISPRA) della quantità di prodotti riciclati comunicati, portando quindi l’Italia ad una percentuale del solo 47% (cioè 55,6% - 8%), pertanto fuori dall’obiettivo da raggiungere entro il 2030. Infine da sottolineare che i nostri rifiuti plastici non sono riciclati interamente in Italia; infatti solo 54 impianti dei 90 totali che trattano i nostri rifiuti sono sul nostro territorio, il resto è distribuito in 14 paesi dell’Unione Europea, più la Turchia. I settori che riciclano più plastica sono il settore degli imballaggi (c.d. packaging), seguito da quello dell’edilizia, e a ruota il settore igiene e arredo urbano, seguono il settore dei casalinghi, del mobile e arredamento, ed infine il settore agricoltura e tessile.

C’è la necessità di compiere scelte importanti e forti, non possiamo permetterci mezze misure; l’ambiente richiede rispetto e non c’è tempo da perdere, così come spesso evoca Papa Francesco: c’è in gioco la sopravvivenza del Creato! Noi, consumatori consapevoli, da che parte stiamo?

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02 Dicembre 2023

LE REGIONI A STATUTO SPECIALE: QUESTIONI STORICHE di Alessandra Di Giovambattista

LE REGIONI A STATUTO SPECIALE: QUESTIONI STORICHE
di Alessandra Di Giovambattista

13-12-2023

 


Le Regioni a statuto speciale presenti in Italia rappresentano una innovazione della Costituzione Repubblicana del 1948 rispetto allo Statuto Albertino che non le contemplava. Dette Regioni sono le realtà locali più importanti nella struttura territoriale dello Stato che si presenta come un unicum suddiviso in Regioni a statuto ordinario.
Le Regioni a statuto speciale godono tutte del medesimo livello di autonomia rispetto allo Stato centrale e l’articolo 116 della Costituzione ne prevede cinque: il Friuli-Venezia Giulia, la Sardegna, la Sicilia, il Trentino-Alto Adige/Sud Tirolo (per quanto riguarda il Trentino-Alto Adige occorre sottolineare che negli anni settanta si è deciso di frazionare il territorio regionale in due Province autonome, quella di Trento e quella di Bolzano), e la Valle d’Aosta. Esse dispongono di forme e condizioni particolari di autonomia, ognuna secondo le norme contenute nei rispettivi Statuti speciali che vengono adottati con legge costituzionale. In particolare le competenze legislative ed amministrative, nonché l’ordinamento e l’organizzazione finanziaria sono disciplinati dallo statuto speciale e dalle sue norme di attuazione.
Per approfondire si specifica che la legge costituzionale è un particolare atto normativo che ha un rango analogo a quello della Carta Costituzionale il cui procedimento di approvazione è definito dall’articolo 138 della Costituzione stessa con una procedura che viene definita aggravata in quanto prevede passaggi più complessi rispetto a quelli previsti per l’emanazione delle leggi ordinarie. Nello specifico la Costituzione dispone che le leggi costituzionali debbono essere adottate da ciascuna Camera (Senato e Camera dei Deputati) con due deliberazioni successive che intercorrono a distanza di almeno tre mesi e sono previste maggioranze assolute dei componenti.
Mentre le Regioni a statuto ordinario con semplice legge regionale provvedono a disciplinare determinati argomenti nel contesto dell’ordinamento generale delle Regioni (articolo 123 della Costituzione), gli statuti delle Regioni ad autonomia differenziata provvedono a definire in regime autonomo ed anche in deroga alle norme costituzionali – però solo in determinati casi specifici in quanto vanno comunque salvaguardati i principi fondamentali della Costituzione Italiana - sulle quali prevalgono per effetto del principio di specialità. In sostanza l’autonomia differenziata di queste porzioni di territorio italiano è rappresentata dal fatto che vengono riconosciuti dei margini di autonomia maggiori nei confronti dello Stato, rispetto alle altre Regioni ordinarie (a queste ultime, ad esempio viene preclusa la capacità normativa in materia di autonomia finanziaria dallo Stato che invece viene autorizzata per le Regioni a statuto speciale).
Ci si domanda tuttavia quando e perché fu opportuno istituire tali realtà geo-politiche che da alcuni sono considerate oggi anacronistiche e generatrici di disuguaglianze territoriali che si traducono di fatto in maggior ricchezza in questi territori autonomi rispetto alle regioni a statuto ordinario. La necessità è di natura storica ed è riconducibile al periodo della ricostruzione dopo la conclusione della seconda guerra mondiale; inizialmente i territori a cui si decise di riconoscere delle forme di autonomia governativa furono solo quattro; non era incluso il Friuli-Venezia Giulia che fu invece aggiunto con legge costituzionale nel 1963. Ognuno di questi territori aveva delle storie peculiari in cui si ritrovano le ragioni della scelta di forme di autogoverno.
In generale, il riconoscimento dell’autonomia speciale fu dovuto alla presenza di numerosi movimenti separatisti nei territori come la Valle d’Aosta , il Trentino-Alto Adige e il Friuli-Venezia Giulia dove la presenza di minoranze linguistiche, che parlano idiomi diversi da quello italiano, avrebbero potuto compromettere la coesione nazionale. Nello specifico in Valle d’Aosta si parla il francese, in Trentino-Alto Adige il tedesco ed il ladino, mentre in Friuli-Venezia Giulia lo sloveno. Il compromesso trovato dall’assemblea Costituente fu quindi l’istituzione dell’autonomia speciale che ha permesso allo Stato italiano di mantenere inalterati i confini geo-politici, ma concedendo più indipendenza a territori caratterizzati da elementi di peculiarità rispetto al altri.
L’autonomia concessa al Trentino-Alto Adige/sud Tirolo fu riconosciuta in quanto tale territorio già godeva di una lunga tradizione di autogoverno, in più occorreva dominare ed imbrigliare le forti spinte separatiste che volevano un ricongiungimento con la vicina Austria. Si decise quindi di tutelare la minoranza Altoatesina di lingua tedesca per garantirne l’evoluzione e la convivenza socio culturale ed economica con il gruppo linguistico italiano presente nel territorio del Trentino.
Invece in Sicilia il movimento separatista aveva dei precedenti storici ben radicati e dopo lo sbarco alleato del 1943 scoppiò la scintilla indipendentista già presente prima della prima guerra mondiale. In particolare lo slogan all’epoca era: “la Sicilia ai siciliani” e nel luglio del 1943 con un proclama ufficiale la Sicilia preannunciava la secessione dall’Italia e chiedeva controllo ed aiuto a livello internazionale. In quel periodo la volontà era di fare della Sicilia uno stato indipendente; da qui la necessità per il nuovo Stato italiano repubblicano di riconoscere l’autonomia alla più grande isola del Mediterraneo, ed infatti con il riconoscimento dello statuto speciale siciliano emanato il 15 maggio del 1946 decrebbe rapidamente l’interesse al secessionismo da parte della popolazione isolana.
Anche in Sardegna il movimento secessionista era forte; in particolare l’isola riuniva popolazioni diverse per lingua e cultura che l’Italia dei primi del novecento non era riuscita a far convivere. In particolare le masse popolari si opposero ai governi di Giolitti e furono recuperate le spinte indipendentiste che restituivano valore alla storia ed alla cultura isolana (con particolare riferimento alla civiltà nuragica e a quella giudicale). Lo stesso Antonio Gramsci che era vissuto diversi anni a Cagliari era convinto che bisognasse lottare per l’indipendenza nazionale della Sardegna. Questo movimento fu sostenuto fino al 1913, ma con lo scoppio delle due grandi guerre il problema della secessione passò in secondo piano; tuttavia con la conclusione della seconda guerra mondiale venne approvato lo Statuto speciale di autonomia della Sardegna, il 31 gennaio 1948 e promulgato il 26 febbraio del 1948, che ne assicurò un certo grado di indipendenza e di autogoverno.
In val d’Aosta, con lo scoppio dell’ultimo conflitto mondiale, si crearono forti movimenti anti nazifascisti e nella regione si organizzarono gruppi di partigiani che diedero vita alla resistenza valdostana. Ciò che caratterizzò la lotta di liberazione era il fatto che tali gruppi si basassero essenzialmente sulle forze autoctone cercando di evitare di chiedere aiuti a forze partigiane italiane e ciò perché l’obiettivo politico non si limitava all’eliminazione del nazifascismo, ma si estendeva al recupero delle forme di autonomia che avevano caratterizzato la storia della regione. In tale contesto si sviluppò la prospettiva del secessionismo e dell’annessione alla vicina Francia, cosa che l’Italia scongiurò prevedendo l’autonomia speciale della regione Valle d’Aosta.
Anche la storia separatista del Friuli-Venezia Giulia ha origini antiche; dopo la disfatta di Caporetto del 1917 i rappresentanti friulani presso il Parlamento di Vienna iniziarono una campagna politica per l’autonomia del Friuli orientale (con capoluogo Gorizia) appoggiata anche dal Partito cattolico popolare del Friuli. Nel 1918 tali territori ottennero la piena libertà di autodeterminazione grazie ad un proclama di Carlo I (ultimo imperatore d’Austria). Successivamente, durante il periodo fascista, il Friuli subì un processo di assimilazione culturale a scapito delle popolazioni di lingua slovena e tedesca; si innescarono anche movimenti che premevano sulla comunità friulana affinché si contrapponesse alla comunità slava. Dopo la seconda guerra mondiale, e precisamente nel 1945, nacque ad Udine l’Associazione per l’autonomia friulana che aveva come obiettivo quello di sostenere che il Friuli possedeva cultura e tradizioni nettamente distinte dalle limitrofe regioni del Veneto e della Giuliana e pertanto era naturale che avesse la più ampia autonomia politico-amministrativa ed economica nell’ambito dello Stato italiano. Nel 1947 si sviluppò anche il radicale Movimento popolare Friulano con l’intento di ottenere la più ampia autonomia dal potere politico-amministrativo italiano. Ma solo negli anni 60 si iniziò a discutere sulla creazione della Regione autonoma del Friuli-Venezia Giulia, una realtà territoriale di confine con un territorio comunista (ex Jugoslavia) che limitava lo sviluppo economico della Regione a causa della guerra fredda, e con un elevato tasso di emigrazione. In questa situazione nacquero e si consolidarono delle tendenze separatiste e anti-italiane che spinsero il governo al riconoscimento dell’autonomia speciale di questa regione.

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13 Dicembre 2023

VERSO IL RICONOSCIMENTO DELL’AUTONOMIA DIFFERENZIATA di Alessandra Di Giovambattista

 
 23-12-2023
 
 
VERSO IL RICONOSCIMENTO DELL’AUTONOMIA DIFFERENZIATA
di Alessandra Di Giovambattista

Il terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione italiana prevede che particolari materie di legislazione concorrente (come ad esempio l’istruzione, la tutela dell’ambiente e dei beni culturali) possano essere attribuite alle Regioni a statuto ordinario, dietro loro richiesta e sulla base di un’intesa tra Stato e Regione stessa. La legge che attribuisce la c.d. autonomia differenziata, deve essere approvata a maggioranza assoluta dei componenti del Parlamento.
Il 28 febbraio 2018 il Governo Gentiloni ha sottoscritto tre accordi preliminari con altrettante regioni: Emilia Romagna, Lombardia e Veneto che hanno fatto formale richiesta di riconoscimento delle forme di autonomia differenziata. Gli accordi sottoscritti dispongono che i patti debbano avere una durata decennale, modificabile in qualsiasi momento, di comune accordo, qualora si verifichino condizioni che ne giustifichino la revisione. Le materie di trattativa sono la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, la tutela della salute, l’istruzione, la tutela del lavoro, i rapporti internazionali e con l’Unione europea, con la possibilità di estensione ad altre materie. In particolare l’accordo con la regione Lombardia prevedeva, a differenza delle altre due regioni, la possibilità di poter decidere anche in tema di coordinamento con la finanza pubblica e con il sistema tributario, nonché di occuparsi del governo del territorio.
Successivamente nell’estate del 2018, durante il primo Governo Conte, tutte le tre Regioni hanno manifestato l’intenzione di ampliare il novero delle materie da trasferire. Ad esse si sono poi aggiunte altre Regioni che pur non avendo sottoscritto alcuna forma di intesa preliminare hanno espresso la volontà di ottenere ulteriori forme di autonomia; in particolare sono pervenute al Governo le richieste da parte di Piemonte, Liguria, Toscana, Umbria, Marche e Campania.
A febbraio del 2019 il Ministro per gli affari regionali ha illustrato i contenuti delle intese tra Governo e Regioni Veneto, Emilia Romagna e Lombardia, aprendo così un ampio dibattito tra le parti in causa. Le problematiche oggetto di analisi ed approfondimento hanno riguardato, tra le altre, le modalità di coinvolgimento degli enti locali, il ruolo del Parlamento e la possibilità di poter presentare emendamenti al disegno di legge che contiene gli accordi e la determinazione dell’ampiezza delle materie da attribuire. Al fine di poter effettuare una stima del valore delle competenze trasferite, sono stati definiti dei costi standard (cioè l’individuazione di costi unitari per effettuare una prestazione) e dei livelli essenziali di prestazione (LEP, cioè livelli minimi di prestazione che si vuole vengano garantiti su tutto il territorio nazionale al fine di escludere difformità di prestazioni a livello locale) con la finalità di definire la problematica di natura finanziaria. La definizione dei LEP ha trovato un posto anche tra le riforme previste nel Piano nazionale di ripresa e resilenza (PNRR) con scadenza nel marzo 2026.
Nel 2020, durante il secondo Governo Conte, è stato previsto di far precedere la stipula delle intese dall’approvazione di una legge-quadro che definisse le modalità di attuazione della autonomia differenziata, posizione che è stata confermata anche dal Governo Draghi che durante il 2021 ha lavorato per istituire una apposita Commissione con compiti di studio, supporto e consulenza. Tale Commissione ha fornito spunti di riflessione per una prima definizione del testo di disegno di legge-quadro; tuttavia nel 2022, alla fine della XVIII legislatura, il disegno di legge non è stato presentato.
Con la XIX legislatura, nella riunione del 15 marzo del 2023 il Consiglio dei Ministri ha approvato un disegno di legge che determina i principi generali per l’attribuzione di particolari forme di autonomia a favore delle Regioni a statuto ordinario. Tale disegno di legge, che contiene disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata, è stato presentato al Senato dove ha iniziato l’iter di esame presso la Commissione affari costituzionali nel maggio del 2023. Nello specifico si dispone che il procedimento di approvazione delle intese deve partire dalla Regione interessata, sentiti gli Enti Locali, e l’iniziativa può riguardare una o più materie; il negoziato tra Governo e Regione servirà per definire uno schema di intesa preliminare. Lo schema dovrà poi essere corredato di relazione tecnica (che espliciti e quantifichi oneri e/o minore o maggior gettito) e dovrà acquisire entro 30 giorni il parere della Conferenza unificata Stato Regioni. Nell’ambito delle intese tra Stato e Regioni dovrà essere indicata anche la durata dell’accordo che non potrà, in ogni caso, eccedere i 10 anni; esso potrà essere revisionato su iniziativa di una delle due parti. Alla scadenza del termine di durata dell’intesa essa si intende rinnovata per un altro decennio, salva diversa volontà dello Stato o della Regione, e ciò deve essere espressamente dichiarato almeno un anno prima della scadenza. Nell’eventualità che si vogliano attribuire nuove funzioni in ambito di diritti civili e sociali, garantiti su tutto il territorio nazionale, sarà necessario determinare prioritariamente i livelli essenziali delle prestazioni (LEP), al fine di assicurare efficacia ed omogeneità su tutto il territorio nazionale dei servizi prestati, nonché i costi e i fabbisogni standard, con lo scopo di monitorare l’efficienza dell’attività gestionale per evitare sprechi e disservizi. Il finanziamento dei livelli di prestazione sulla base dei relativi costi e fabbisogni standard viene attuato nel rispetto degli equilibri e della parità di bilancio così come previsto dalla legge di contabilità e finanza pubblica; infatti qualora dai nuovi livelli di prestazione dovessero derivare maggiori oneri per l’erario, si procederà al trasferimento delle funzioni a livello regionale solo dopo che saranno state individuate nuove o maggiori risorse che consentiranno di garantire il pareggio di bilancio. Sia lo Stato sia la Regione potranno poi disporre verifiche atte a valutare il raggiungimento dei livelli essenziali delle prestazioni.
Il 3 maggio del 2023 la Commissione affari costituzionali del Senato ha iniziato l’esame del disegno di legge per l’attuazione dell’autonomia differenziata; il successivo 6 giugno è stato definito il testo sulla cui base sono stati presentati alcuni emendamenti. Il termine ultimo è stato il 3 agosto, data in cui gli emendamenti dei relatori sono stati presentati per recepire le condizioni presentate dalla Commissione bilancio e sono così iniziate le votazioni sugli ordini del giorno. Quando sarà dato il benestare dalle Commissioni parlamentari la legge approderà in Parlamento; tuttavia prima di tale passaggio è necessario che una Cabina di regia stabilisca i livelli di LEP che serviranno a suddividere le diverse prestazioni, riconducibili alle differenti materie di interesse regionale, individuandone costi e fabbisogni standard.
Compreso così l’iter e la sostanza politica dell’autonomia differenziata non rimane che interrogarsi su quanto sia positiva ed inderogabile questa scelta; da più parti infatti ci si è domandato se rappresenti davvero una gestione controllata e più efficiente della spesa pubblica o se invece non significhi rimarcare ancora di più le differenze e le disuguaglianze tra Regioni più ricche e quelle meno prospere. Riassumendo l’autonomia differenziata consente alle Regioni a statuto ordinario di poter disporre autonomamente su materie di competenza concorrente con lo Stato ed in tre materie di competenza esclusiva; per finanziare tali attività le Regioni tratterrebbero una parte del gettito fiscale incassato sul proprio territorio, ma destinato all’Erario. Quindi questa parte di gettito non verrebbe più suddiviso a livello nazionale in ragione dei parametri di popolazione e di necessità locali. Questo tipo di autonomia, prevista dall’articolo 116 della Costituzione non è  mai stata attuata proprio per la delicatezza della questione che pone in campo le grandi differenze che esistono sul territorio italiano, in particolare con riferimento alla spaccatura tra nord e sud del Paese. Autonomie di questo genere sono considerate pericolose in quanto potrebbero acuire ancora di più le già presenti situazioni di disuguaglianza all’interno del territorio nazionale.
Naturalmente si annoverano soggetti a favore e soggetti contro; chi è a favore dell’autonomia differenziata basa le proprie considerazioni essenzialmente sul principio che sottolinea la necessità che la spesa pubblica sia strettamente collegata con la collettività che sopporta l’imposizione, secondo il concetto per cui: più è stretto il rapporto tra chi paga i tributi e chi spende le risorse e maggiore sarà il controllo con la conseguenza che sarà migliorato il livello di economicità e saranno minimizzati gli sprechi. Questa teoria si basa sullo stretto legame tra i politici locali, che conoscono il territorio sul quale governano, ed i cittadini che in esso vivono e che possono verificare e controllare direttamente il loro operato, decidendo al momento dell’espressione del voto. Inoltre i servizi necessari su un territorio saranno calibrati secondo gli effettivi bisogni, escludendo quindi costi basati sul criterio storico della spesa che non verifica le effettive necessità ma stima gli oneri pubblici in ragione di quanto fatto nel passato. Però prima di escludere il criteri della spesa storia sarà necessario implementare e quantificare i LEP che vanno garantiti su tutto il territorio nazionale.
Coloro che sono contrari a questa forma di autonomia sottolineano la sottrazione di risorse che andrebbero invece ripartite sul territorio nazionale per evitare una differenziazione dei servizi e delle infrastrutture ed una disgregazione del tessuto socio-economico nazionale. Essi si appellano anche ai principi costituzionali e di scienza delle finanze che richiamano la solidarietà politico, economica e sociale tra i contribuenti, ciascuno in base alla propria capacità contributiva, che deriva dal reddito complessivo prodotto (principio che ha determinato, per esempio, la progressività dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, IRPEF). Un’attenzione particolare poi deve essere posta sui servizi pubblici strategici del paese: i trasporti, l’energia, la sanità, l’istruzione; è necessario che essi vengano forniti con uguale intensità e qualità su tutto il territorio nazionale al fine di evitare che territori più svantaggiati soffrano ancora di più, amplificando le differenze negative rispetto al resto del territorio. Infatti in un sistema di autonomia le risorse delle zone più ricche rimarrebbero circoscritte nel territorio aumentando le differenze non solo a livello nazionale ma anche all’interno delle Regioni stesse.
L’analisi macroeconomica evidenzierebbe che anche le Regioni ad autonomia differenziata sarebbero penalizzate perché l’economia nazionale, che si basa per una buona parte anche sulle produzioni del Mezzogiorno, di fronte a diversità socio-economiche si presenterebbe come un sistema complessivo zoppo, destinato al collasso. Non mancano poi economisti che sottolineano l’attuale inesistenza di un modello che possa verificare le capacità di gestione di una Regione rispetto allo Stato: siamo sicuri che le Regioni sappiano fare meglio e di più rispetto al Governo nazionale o che la frammentazione territoriale dei servizi ne migliori l’efficienza e l’efficacia? Senza un sistema collaudato di misurazione degli obiettivi e dei risultati, nonché senza politiche di controllo di gestione, ogni ipotesi rimane vacua e priva di fondamento. Da anni si chiede un esame a consuntivo della gestione della cosa pubblica; un simile controllo aiuterebbe a governare gli scostamenti e a ragionare in merito a possibili azioni correttive che, a prescindere dalla tipologia di politiche territoriali o nazionali, contribuirebbe a verificare e a garantire l’utilizzo economico delle risorse che ognuno di noi, a legislazione vigente, versa sia all’Erario sia agli Enti Locali.
 
 
 
 
 

 

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23 Dicembre 2023

AGRIVOLTAICO IN ITALIA: SI PARTE? di Alessandra Di Giovambattista

AGRIVOLTAICO IN ITALIA: SI PARTE?
di Alessandra Di Giovambattista

 

22-01-2024

Una delle chiavi per la decarbonizzazione del nostro Paese nel settore agricolo è la diffusione dell’agri-voltaico. Ma cosa si intende per decarbonizzazione? Facciamo chiarezza: il termine indica la progressiva eliminazione del carbonio attraverso il processo di conversione del sistema economico attuale in un modello produttivo e di sviluppo in chiave sostenibile che implichi l’eliminazione delle emissioni di monossido di carbonio (CO2) e l’uso di fonti fossili come carbone, petrolio, gas. Tale processo è strettamente legato anche alle politiche di transizione energetica che prevedono il passaggio alla produzione e all’uso di fonti di energia pulita e rinnovabile; in particolare tale transizione si fonda su determinati pilastri come quello delle energie rinnovabili (es. fotovoltaico ed eolico), dell’efficienza energetica, dell’elettrificazione e mobilità sostenibile, delle comunità energetiche (ne abbiamo parlato in un precedente articolo), delle infrastrutture di rete (da rendere più flessibili) e dell’economia circolare (con la riduzione degli sprechi e ottimizzazione delle risorse).
La politica di decarbonizzazione ha come obiettivo il raggiungimento di una modalità di attività economica ad impatto zero entro il 2050 - con zero emissioni nell’ambiente - cioè con emissioni di CO2 che vengono assorbite attraverso tecnologie innovative, con lo scopo di contenere il cambiamento climatico e l’aumento della temperatura al di sotto dei 2 gradi centigradi. L’obiettivo del 2050 è stato fissato dall’Europa che ha definito una strategia chiamata patto verde europeo (c.d. Green Deal europeo). Nell’ambito di quest’ultimo è stata proposta una prima legge europea sul clima dove sono stati presi in considerazione tutti i settori economici strategici, tra cui anche quello agricolo. Quindi tutti gli Stati membri sono obbligati a considerare soluzioni a lungo termine con l’obiettivo di ridurre le emissioni di gas serra, pensando che nel 2050 oltre l’80% dell’elettricità sarà prodotta da energie rinnovabili. Questo cambiamento epocale permetterà di sviluppare tecnologie come il fotovoltaico e l’eolico e creerà nuovi posti di lavoro.
Il 22 dicembre 2023, con un comunicato stampa del Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica, si è appreso che il Ministro Gilberto Pichetto Fratin ha trasmesso alla Corte dei Conti il decreto che contiene gli incentivi per la diffusione dell’agri-voltaico innovativo in Italia con l’obiettivo di installare 1,04 gigawatt entro il 30 giugno del 2026. Le misure si basano sull’utilizzo dei fondi messi a disposizione dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) come contributo in conto capitale (nella misura del 40% e finanziato per oltre un miliardo di euro) e come tariffa incentivante sulla produzione di energia elettrica netta immessa in rete (per un importo annuo di 21 milioni di euro a valere sugli oneri di sistema). L’agri-voltaico è una delle misure utilizzate per la decarbonizzazione del nostro paese in un settore strategico, quale l’agricoltura, in cui si mira ad un utilizzo razionale e sostenibile del suolo, contestualmente alla produzione di energia rinnovabile. L’innovazione consta di strutture verticali con moduli ad alta efficienza che catturano più energia possibile in cui però vi è la coesistenza con le tecniche agricole per il raggiungimento della migliore redditività ed il recupero dei terreni inutilizzati. Soggetti destinatari sono gli agricoltori, le imprese agricole e le associazioni temporanee di imprese, mentre il soggetto che gestirà il meccanismo incentivante nella sua interezza è il Gestore dei Servizi Energetici (GSE).
L’agri-voltaico, pur essendo una grande opportunità per il nostro Paese a prevalente vocazione agricola, all’inizio ha trovato molti ostacoli nella sua implementazione sia di natura normativa, sia di politica agraria. Il divieto di installazioni a terra di impianti fotovoltaici introdotto per arginare l’occupazione di molti terreni agricoli risale al decreto legge n. 1 del 2012 che ha vietato la fruizione di incentivi statali per l’installazione di impianti fotovoltaici su terra in aree agricole, con l’obiettivo di preservarne l’ecosostenibilità e la destinazione d’uso.
Tuttavia, nel 2021 il decreto semplificazioni ha provato ad intervenire mediante lo sblocco degli incentivi destinati per alcuni impianti fotovoltaici sui terreni agricoli prevedendo delle eccezioni per gli impianti da realizzare su aree dichiarate siti di interesse nazionale e sulle discariche. Sempre lo stesso decreto ha anche aperto agli incentivi per impianti agri-voltaici che utilizzano strutture di montaggio verticale dei moduli, elevati rispetto al suolo, e che ruotano per inseguire la luce e permettere, contestualmente, la coltivazione agricola del suolo sottostante, l’attività pastorizia e di allevamento in generale. In ogni caso è previsto che gli incentivi siano subordinati ad attività di monitoraggio sull’attività e la produttività agricola, il risparmio idrico ed il benessere economico delle aziende agricole interessate; qualora tali parametri non siano positivi e migliorativi è previsto che cessino gli incentivi.
Gli obiettivi contenuti nella politica dell’agri-voltaico sono rappresentati da un’agricoltura sostenibile coniugata con la produzione di energia da fonti rinnovabili; in tal modo si ipotizza che si ridurranno i costi di approvvigionamento energetico del settore agricolo (che oggi rappresentano il 20% dei costi aziendali) e si migliorerà la situazione climatica con una diminuzione potenziale di 0,8 mln di tonnellate di CO2 (ad oggi il settore agricolo è responsabile del 10% delle emissioni di gas serra in Europa). Quindi l’innovazione riguarderà l’implementazione di sistemi ibridi basati sul potenziamento dell’agricoltura e della produzione energetica che non comprometta quindi la produttività dei terreni, anche valorizzando i bacini idrici attraverso soluzioni galleggianti. Si crede che un accurato monitoraggio delle realizzazioni innovative e della loro efficacia con la raccolta dei dati specifici permetterà di valutare il microclima, il risparmio idrico, il recupero della fertilità del suolo, la resistenza ai cambiamenti climatici e la produttività agricola. Quindi con l’agro-voltaico sarà possibile ed auspicabile combinare l’attività agricola e la produzione di energia elettrica rinnovabile e pulita.
Attualmente in agricoltura l’utilizzo del fotovoltaico avviene mediante impianti su serre, su tetti delle stalle e di impianti produttivi in genere; l’agro-voltaico si presenta come una soluzione innovativa ed economica in quanto consentirà risparmio in termini di costi di energia elettrica, diminuzione di emissioni di gas serra, detrazioni fiscali ed incentivi, reddito aggiuntivo derivante dalla produzione di energia elettrica rivenduta al GSE. Questo progetto include anche il monitoraggio dell’efficacia dell’impianto al fine di valutare gli effettivi impatti sia sulla qualità della produzione agricola sottostante agli impianti fotovoltaici sollevati da terra, sia sulla produttività delle diverse colture impiantate, sia sul risparmio idrico, sulla fertilità del suolo e sul contrasto ai cambiamenti climatici. La precedente tecnologia permetteva di installare pannelli fotovoltaici direttamente sul terreno agricolo impedendone così ogni utilizzo per la produzione agricola; le recenti innovazioni hanno invece consentito il montaggio di pannelli posizionati nei campi secondo altezze e geometrie che consentono di continuare a sfruttare il terreno per l’attività agricola. Inoltre i pannelli presentano superfici bifacciali in vetro in modo da catturare l’energia solare sia frontalmente che posteriormente, convertendola in energia elettrica. L’innovazione del pannello bifacciale risale al 2018 ed è frutto di un team di ricerca del Dipartimento di Scienza dei materiali dell’Università Milano-Bicocca che ha sviluppato la tecnologia dei vetri fotovoltaici che, a differenza dei normali vetri, presentano delle nanosfere che catturano l’energia solare.
Di norma i nuovi pannelli di agro-voltaico vengono installati su terreni agricoli a basso reddito, terreni in prossimità di linee elettriche o che lambiscono strade ed autostrade. L’installazione può avvenire in linea, in righe che tra loro sono distanti circa 8 metri e le colture a maggior vocazione sono vigneti, alberi da frutta, mais o grano, ma si presta bene anche per l’allevamento di animali, pascoli ed alveari.
Il Piano nazionale di ripresa e resilienza destina per gli anni 2022-2026 complessivamente 1,1 miliardi di euro, così suddivisi: per il 2022 circa 184 milioni, per il 2023 circa 115 milioni, per il 2024 e per il 2025 circa 338 milioni mentre per il 2026 circa 210 milioni di euro.
In Italia, ad oggi, si hanno diversi impianti di moduli fotovoltaici sollevati dal terreno, alti oltre quattro metri che modificano la loro posizione ruotando su se stessi in base al bisogno di ombreggiatura delle piante sottostanti e della massima cattura dei raggi solari. Le produzioni sotto coltivate sono: mais, che da un esame a posteriori elaborato dall’Università di Piacenza, crescono del 4,3% in più rispetto al campo aperto, insalate, e filari di vite, con crescite incrementali che vanno dal 15% al 30%, soia, indivia, cavolo pomodori e grano. Quindi ci si aspetta che il 2024 rappresenti un anno di svolta per l’agri-voltaico che ormai annovera realtà come Borgo Virgilio (Mantova) che utilizza 11 ettari di terreno per produrre energia pulita che supera i 3,3 milioni di Kw ora all’anno, Scicli con un parco agri-voltaico di 9,7 megawatt e con progetti per le zone del Foggiano, in Emilia-Romagna su vigneti ed in Lombardia su coltivazioni di cereali e foraggi.
L’innovazione agricola coniugata con il risparmio energetico e la produzione di energia pulita è un connubio che sembra garantire anche un valore aggiunto alle produzioni agricole in quanto le protegge dall’eccessivo irraggiamento solare, riducendo conseguentemente l’uso e la perdita di acqua.
Tuttavia dal punto di vista di noi consumatori c’è da chiedersi: ma i costi per i prodotti agricoli diminuiranno? Lo scenario che ci appare quantomai positivo, come sempre induce ad approfondimenti critici. Già da alcune parti si inizia a leggere che i prodotti agricoli potranno essere venduti a prezzi maggiori in quanto coltivati sotto l’ombra dei pannelli; tale affermazione desta qualche sospetto se si pensa che tra gli obiettivi positivi dell’agri-voltaico, che ricordiamo sarà incentivato anche attraverso parziali finanziamenti a fondo perduto, c’è sia quello relativo alla diminuzione dei costi per energia per le aziende agricole, sia quello relativo agli incassi, per le stesse, erogati dal GSE per l’immissione di energia nella rete. Se però a consuntivo dovessimo assistere ad un incremento dei prezzi sorge un dubbio: ma l’analisi costi - benefici sia per gli agricoltori sia per noi consumatori è stata condotta correttamente, oppure dovremo aspettarci situazioni di aumento dei prezzi dei prodotti agricoli e corrispondentemente un incremento di oneri, finanziari ed ambientali, per lo smaltimento dei pannelli fotovoltaici che nel futuro avranno esaurito la loro funzione?

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22 Gennaio 2024

QUALCHE DOMANDA SULL’AGRI-VOLTAICO: ASPETTI POSITIVI E CRITICITA’ di Alessandra Di Giovambattista

QUALCHE DOMANDA SULL’AGRI-VOLTAICO: ASPETTI POSITIVI E CRITICITA’
di Alessandra Di Giovambattista

27-01-2024


Parlando di agri-voltaico si è messo a fuoco il duplice aspetto che lega l’attività agricola con la produzione di energia rinnovabile. Gli obiettivi europei, le risorse stanziate, il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) varato dal Governo Italiano hanno incentivato l’installazione di moduli fotovoltaici su terreni che rimangono comunque coltivabili o destinati alla pastorizia e all’allevamento in generale. Le caratteristiche che i pannelli devono avere riguardano il loro aspetto innovativo: devono essere posizionati verticalmente rispetto al terreno, possono essere di tipo mobile e ad inseguimento solare e vengono installati secondo altezze e geometrie variabili in modo da consentire la massima cattura dei raggi solari e la possibilità di lavorare il terreno sottostante con colture agricole o di destinarlo al pascolo degli animali. E tutto questo con la speranza di arrivare in tempo per raggiungere gli obiettivi che ogni Paese si è posto attraverso il Piano nazionale integrato per l’energia ed il clima nell’anno 2030; si ricorda che a quella data l’Italia dovrà essere stata in grado di produrre almeno 32 GW di energia da nuovi impianti fotovoltaici poiché attualmente se ne producono circa 20,9 GW e occorre raggiungere l’obiettivo di 52 GW.Ad occuparsi della gestione di questo innovativo progetto di sviluppo di energia rinnovabile è l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile (ENEA) che creando la prima rete nazionale per l’agri-voltaico sostenibile, ha coinvolto imprese, studiosi, istituzioni, università che hanno presentato progetti alcuni dei quali ancora in corso di esame e verifica tecnico scientifica ed istituzionale. 
Dal punto di vista storico l’idea dell’utilizzo del suolo per produrre energia rinnovabile, e continuare contemporaneamente le attività agricole sul terreno sottostante, risale al 1981 ed è stata elaborata dall’Istituto tedesco Fraunhofer Institute; il primo impianto sperimentale è stato installato in Francia, a Montpellier nel 2010, mentre nel 2016 lo stesso Istituto ha realizzato altri progetti tra cui uno sul lago di Costanza. In Italia sono stati ben tre i primi complessi agri-voltaici installati dalla Rem Tec nel 2011, tutti nella zona della pianura padana. Alivello mondiale i Paesi leader di questa tecnologia sono il Giappone e la Corea del Sud che ne hanno curato anche l’aspetto normativo. 
Tuttavia il concetto di fotovoltaico in agricoltura non si può immediatamente affiancare all’obiettivo dell’ecosostenibilità e questo perché non è sufficiente che al di sotto degli impianti fotovoltaici si coltivi un qualche tipo di pianta per poter dire che si è di fronte ad un progetto agri-voltaico. La realtà è che i risultati dell’installazione vanno verificati in prima battuta con l’impatto paesaggistico, che in Italia riveste un ruolo fondamentale,nonché con opportuni parametri e con un’attività di monitoraggio e di controllo a consuntivo (feed-back) che verifichi la produzione di energia pulita, l’efficienza delle colture in atto e/o dell’attività di allevamento, la loro produttività ed il miglioramento economico delle aziendeagricole, il risparmio idrico (in quanto il pannello funge da impedimento parziale alla evaporizzazione e consente la ricaduta sul suolo della condensa), escludendo, in tal modo,che si stia sfruttando il suolo depauperandolo delle sue ricchezze, che ne garantiscono il suo naturale utilizzo agropastorale, e/o modificandone il microclima. Pertanto una prima attenzione va posta sulla necessità di definire degli indicatori di utilizzo del terreno e di ritorno economico che permettano di comparare costi-benefici e consentano quindi di trarre una valutazione sintetica circa il vantaggio ecologico dell’impianto; ad oggi non sembrano ancora ben definiti tali parametri, ma la destinazione di fondi del PNRR a tali attività fa ben sperare essedo la valutazione a consuntivo un elemento discriminatorio circa l’erogazione degli incentivi. Comunque a vantaggio di tale impostazione gioca anche il fatto che l’impianto fotovoltaico, che per sua natura privilegia l’installazione sui tetti, servirà anche, in via incidentale, a bonificare molte coperture delle strutture produttive esistenti da manufatti in eternit, contenenti amianto, migliorando nel contempo la coibentazione e l’aereazione. 
Altro aspetto riguarda la comparazione tra l’economicità dell’agri-voltaico e quella della pura attività agricola; indubbiamente sostituire le coltivazioni con impianti fotovoltaici è sicuramente più redditizio per l’agricoltore se si pensa che alcune società di produzione di energia rinnovabile propongono un compenso per il diritto di superfice, sotto forma di canone annuo di affitto, che va da 2.000 a 3.500 euro ad ettaro. Ma si è visto che tali utilizzi di fatto depauperano i terreni, ponendo quindi in serio rischio l’attività agricola, attività primaria e non a caso così definita! Quindi gli agricoltori vanno tutelati predisponendo per loro incentivi e ponendo un limite a tali contratti che a parità di condizioni producono un risultato netto verosimilmente negativo in termini di costi sociali e ambientali. Nel senso della tutela dallo sfruttamento irreversibile del terreno va forse letto l’aggravio di tassazione IRPEF che la recente legge di bilancio per il 2024 ha previsto per i contratti a titolo oneroso che prevedono la concessione del diritto di superficie dei terrenida parte delle persone fisiche. Tale aggravio di imposta renderebbe pertanto meno conveniente per il proprietario concedere il diritto di superficie (anche se mi sento di sottolineare che questa misura non sembra colpire le societàma solo le persone fisiche e le società di persone!), ma al contempo renderebbe più oneroso, per i soggetti che producono energia da impianti fotovoltaici, acquisire tali spazi. Tuttavia se tale aggravio si potesse interpretare nel senso di tutelare i terreni e l’attività agricola si potrebbe esprimere un parere concordante anche perché è verosimile ipotizzare che tale misura potrebbe, indirettamente,sostenere ed incentivare l’agri-voltaico, che si ribadisce essere una modalità di produzione di energia che non sfrutta il terreno sottostante, ma anzi lo tutela e per alcune colture lo rende anche più produttivo. Ovviamente una verifica di tale ipotesi potrà esser fatta solo a posteriori. 
Indubbiamente i vantaggi maggiori si riscontrano in ambito agricolo dove il reddito agrario si può integrare con gli introiti che il GSE paga ai produttori di energia rinnovabile che comunque potranno continuare a svolgere le proprie attività agricole e di allevamento: i pannelli proteggono dall’eccessivo irraggiamento solare, trattengono acqua nel suolo, offrono zone d’ombra per le mandrie e legreggi, e se dotati di appositi sensori permettono di rilevare nutrienti ed acqua nel suolo in modo da poter ben dosare concimi, acqua, fertilizzanti e fitofarmaci. 
In questo ambito si sottolinea che è allo studio un sistema di simulazione che analizza e mette a confronto i risultati della produzione di energia con quelli derivanti dall’attività agricola. È stata elaborata di recente la prassi di riferimento per l’agri-voltaico denominata UNI/PdR 148 sviluppata dall’ENEA in collaborazione con l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza, la società Rem Tec econ l’ente nazionale italiano di unificazione della normazione (Uni) per favorire la produzione di energia da fonti rinnovabili in linea con le direttive europee che intendono tutelare la produzione agricola ed il paesaggio riducendo il consumo del suolo. L’obiettivo è il monitoraggio della produzione e la gestione dei datidell’attività agricola e di quelli della produzione di energiaper poter valutare oggettivamente la convenienza della scelta agri-voltaica rispetto ad altre soluzioni alternative. Ma per ora siamo solo all’inizio!
Si è visto che per talune colture, impiantate sotto pannelli fotovoltaici, si ha un incremento della produttività, come per il mais. Ovviamente non tutte le colture potranno essere impiantate sotto la struttura fotovoltaica; la sfida prossima sarà quella di capire, nel caso si vogliano preservare delle colture che spesso si presentano autoctone sul territorio ed anche vincolate ad una specifica zonageografica, (viene subito in mente l’indicazione geografica protetta IGP della lenticchia di Castelluccio), se sarà possibile installare il fotovoltaico su determinati terreni senza danneggiare le produzioni. Contrariamente si potrebbe incorrere nel rischio di veder scomparire prodotti geograficamente protetti, compromettendo la biodiversità agricola.
Un’attenzione particolare andrà poi posta al paesaggio; in Italia il paesaggio è fortemente tutelato e rappresenta un bene inalienabile, sarà necessario creare strutture che si possano ben integrare con i territori e che si presentinogradevoli alla vista. In tal senso si sono presentati progetti anche alla Biennale di architettura di Venezia; sicuramente un’integrazione paesaggistica esclude risultati cheesasperino l’efficienza energetica! Occorre uno sguardo di inclusione della tecnologia con l’armonia ambientale anche perché quest’ultima spesso nasconde un substrato di biodiversità e di equilibrio che moduli fotovoltaici, riflettenti la luce ed impenetrabili da essa, potrebbero compromettere o danneggiare. In questo senso si pensi che i moduli fotovoltaici galleggianti, se non ben pensati, potrebbero danneggiare flora e fauna acquatiche.
Un altro punto che andrebbe adeguatamente approfondito riguarda la sofisticata tecnologia che c’è dietro l’uso di questi pannelli fotovoltaici che molto probabilmente un agricoltore non conosce e che quindi non potrebbe pienamente padroneggiare, vedendosi quindi obbligato ad affidarsi a terze persone sia per la manutenzione sia per il funzionamento ordinario. Questo aspetto potrebbe creare nuovi costi per l’azienda agricola,che potrebbero superare i benefici economici derivanti dal compenso del GSE e dal risparmio dei costi energetici dellebollette per le utenze elettriche; il risultato netto potrebbe tradursi in un saldo negativo di bilancio rispetto alla situazione antecedente l’installazione dell’agri-voltaico, con conseguenti perdite economico-finanziarie. 
C’è anche chi sostiene che il montaggio dei pannellifotovoltaici sui tetti avrebbe costi e tempi di realizzazione inferiori rispetto all’installazione di pannelli agri-voltaici; è stato calcolato che l’utilizzo dei soli tetti dei capannoni industriali potrebbe fornire in Italia circa 74,2 GW di energia rinnovabile che assicurerebbe gli obiettivi del 2030(gli indicati 52GW), superandoli di ben 24 GW di elettricità. E se a queste superfici si aggiungono tutte quelle presenti su edifici pubblici, parcheggi, aree oggetto di bonifica, ferrovie ed edifici demaniali, si potrebbe sopperire a tutto il fabbisogno di domanda di energia pulita senza dover intaccare il terreno agricolo ed anzi incentivando anche le comunità energetiche, che rappresentano delle realtà di concentrazione di produzione di energia che può essere dispensata a tutti i soggetti limitrofi che ne richiedono l’utilizzo. 
Andrebbero infine scongiurati rischi di esposizione a campi elettromagnetici; sembrerebbe che tali rischi non esistano ma allora non si comprende il perché, di fronte a progetti di agri-voltaico, si renda necessario stilare una attenta relazione proprio sullo sviluppo dei campi elettromagnetici. Così come andrebbero esclusi danni a persone, animali e piante sottostanti i pannelli agri-voltaiciin quanto questi ultimi constano di elementi altamente inquinanti come il cadmio e l’arsenico. Non è ancora verificato se queste sostanze nocive possano entrare nella catena alimentare attraverso il consumo di formaggi, latte, e prodotti ortofrutticoli coltivati sotto le strutture fotovoltaiche. La realtà è che di fatto il fenomeno è abbastanza recente e non consente di vedere le ricadute su uomini, animali e produzioni agricole degli impianti fotovoltaici installati su grandi superfici agricole. Il problema sembra infatti risiedere sulla quantità di energia elettrica prodotta e inviata alla rete che, per il fenomeno dell’agri-voltaico, riguarda ettari di terreno e non limitati metri quadrati di tetto. 
Pertanto si invita all’estrema prudenza e ad una seria analisi scientifica degli effetti derivanti da un settore che potremmo dire ancora in fase sperimentale soprattutto nell’ambito delle superfici agricole. Sarebbe auspicabile evitare casi come l’amianto che, a distanza di tempo dal suo utilizzo, si è dimostrato altamente inquinante e dannoso per la salute umana!

 
 
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27 Gennaio 2024

IL SUICIDIO ASSISTITO: QUANDO L’ESSERE UMANO DECIDE DI MORIRE. di Alessandra Di Giovambattista

IL SUICIDIO ASSISTITO: QUANDO L’ESSERE UMANO DECIDE DI MORIRE.
di Alessandra Di Giovambattista

 

01-02-2024

Da qualche tempo è arrivata la notizia che il Canada, paese dove è riconosciuto il diritto al suicidio assistito, ha deciso di consentire la pratica dell’eutanasia anche per i poveri. Quella che finora era considerata una pratica disumana ed un crimine ora viene riconosciuta come un diritto ed un’espressione di progresso. Con il termine di eutanasia si intendono azioni o omissioni che per loro natura e nelle intenzioni di chi agisce o omette di agire, procura anticipatamente la morte di un malato con lo scopo di alleviarne le sofferenze. Si può quindi definire come l’uccisione di un soggetto consenziente in grado di esprime la volontà di morire o mediante l’aiuto del medico a cui si chiedono farmaci letali in auto somministrazione (suicidio assistito) o con la richiesta al medico di essere soppresso nel presente o in un momento futuro (eutanasia in senso stretto).
Da una ricerca condotta nell’Università di Oxford, ad opera del ricercatore Yuan Yu Zhu, emerge che la morte medicalmente assistita si può autorizzare in Canada anche per i pazienti che non sono più in grado di fronteggiare finanziariamente le crescenti spese mediche inducendoli a ritenere che sia meglio per loro non intraprendere cure costose e scegliere di gettare la spugna. Nel 2016 per poter accedere al suicidio assistito doveva essere presente una “ragionevole previsione” di morte naturale; dal marzo 2023, invece, con le nuove disposizioni normative è sufficiente una patologia o una disabilità, che il soggetto consideri insopportabile e quindi inaccettabile, per poter chiedere di ricorrere alla procedura di morte medicalmente assistita. Lo stesso ricercatore evidenzia che attualmente il Canada presenta, tra i paesi industrializzati, la più bassa spesa sociale, le più lunghe liste di attesa per prestazioni mediche e non finanzia e non organizza le cure palliative. Queste ultime rappresentano un approccio integrato di assistenza e cura del paziente grave o terminale, capaci di migliorare la qualità della vita del malato e delle famiglie attraverso la prevenzione ed il trattamento del dolore, e di altri problemi di diversa natura: psichici, fisici, spirituali, mediante la somministrazione di farmaci analgesici, il sostegno psicologico, la riabilitazione, il conforto religioso. In questo senso le cure palliative sostengono la vita, e guardano alla morte come ad un processo naturale e non la anticipano o la pospongono ma piuttosto aiutano ad affrontare l’evento attraverso un approccio curativo sinergico.
Detto ciò è facile immaginare come alla base di queste scelte di legittimazione dell’interruzione della vita vi sia, non ultima, la motivazione finanziaria: già nel 2020 l’ufficio parlamentare canadese di bilancio aveva evidenziato che l’eutanasia avrebbe fatto risparmiare molte risorse. Attualmente si risparmiano circa 87 milioni di dollari canadesi all’anno grazie all’induzione al suicidio assistito al posto della somministrazione di cure, magari a lungo termine, a carico dello Stato. È stato poi calcolato che dal 2023 vi sarà un ulteriore risparmio annuale di 62 milioni di dollari canadesi grazie all’ampliamento dei casi per i quali sarà concessa l’eutanasia, in particolare ai malati psichiatrici. I paesi che attualmente prevedono tale possibilità sono pochi e tra questi vi è l’Olanda dove le norme disciplinano la morte medicalmente assistita per sofferenza psichica irrimediabile.
È evidente che i problemi, nel caso dei malati psichiatrici, risiedono nel fatto che: il paziente, in via autonoma dovrebbe essere in grado di formulare questa richiesta, la sofferenza che si subisce sia insopportabile e senza rimedio e sia valutata anche nel tempo futuro, il paziente ed il medico dovrebbero concordare che non ci sono presenti o future alternative di trattamento, tenendo in debita considerazione che in passato alcuni trattamenti potrebbero non essere stati adeguati e che invece le cure future potrebbero rappresentare una valida scelta. Ma qui sorge spontaneo un quesito: il paziente sarà in grado di valutare se il medico sta agendo per il proprio bene, secondo deontologia e retta coscienza? Oggi più che mai occorre vigilare perché nascoste motivazioni, come ad esempio quelle economiche, non prevalgano sul rispetto e la dignità della vita umana.
Ma c’è di più; da un recente sondaggio della Research Co. (società canadese di raccolta e gestione quali-quantitativa di dati) è emerso che il 30% dei canadesi sarebbero favorevoli al suicidio assistito per le persone povere o senzatetto; il Canada è uno dei pochi paesi al mondo che ha legalizzato l’eutanasia anche quando il paziente non ha una malattia terminale, ma è sufficiente che la malattia sia grave ed irrimediabile, come ad esempio nei casi delle persone disabili. Ma la cosa che più fa riflettere è che una quota di cittadini canadesi è favorevole al suicidio assistito anche quando la persona non presenta patologie: il 27% ha affermato che sarebbe favorevole a legalizzare l’accesso alla morte medicalmente assistita nei casi di povertà, il 28% ha individuato come causa sufficiente l’essere un senzatetto, ed il 20% ritiene che sia legittimo chiedere la morte medicalmente assistita senza alcuna ragione medica, pertanto per qualsiasi motivo. Infatti, è sintomatico, che in Canada il suicidio assistito possa essere approvato e somministrato dagli infermieri senza alcuna approvazione e vaglio medico. E negli ultimi anni i decessi assistiti sono andati aumentando vertiginosamente (dal 2021 al 2022 l’incremento è stato del 32,4%). Per il 43% sarebbe sufficiente anche la sola malattia mentale per attivare il processo di suicidio assistito; il Canada ha rinviato a questo anno, il 2024, la decisione nel merito e affiancherà anche la proposta per gli individui poveri ed i senzatetto; è degna di riflessione la considerazione che i più emarginati forse potrebbero avere una possibilità di rinascita qualora vi fossero adeguate politiche socio-economiche. È notizia dell’ultima ora che il governo canadese ha previsto un ulteriore rinvio della decisione in merito all’estensione del suicidio assistito per le persone affette da patologie mentali in quanto il sistema non sembra essere pronto per tale espansione in quanto non ci sono sufficienti professionisti in grado di valutare i pazienti.
Inoltre la recente legge canadese in tema di suicidio assistito - che muove i suoi passi dalla sentenza della Corte Superiore del Quebec del 2019 in cui si era stabilito che limitare il suicidio assistito alle sole persone con una morte ragionevolmente prevedibile fosse una violazione dei diritti umani – prevede che si rinunci al consenso finale da parte del paziente e che si vieti l’obiezione di coscienza dei medici. Queste due ultime circostanze sembrano rappresentare una grave lesione dei diritti: il diritto del malato di ripensare fino alla fine al compimento di un atto estremo, e il diritto per i medici ed il personale sanitario di rifiutarsi di somministrare farmaci che uccidono, invece di curare o quantomeno di alleviare le sofferenze. La privazione dell’obiezione di coscienza per il personale sanitario è contraria anche alla deontologia medica che si basa sul giuramento di Ippocrate che vieta qualunque forma di eutanasia e di somministrazione di farmaci che possano indurre la morte. Questa sorta di obbligo viola ogni forma di libertà esprimibile dal personale sanitario che, mentre non potrebbe assolutamente opporsi alle cure per i pazienti, potrebbe invece opporsi al suicidio assistito o all’eutanasia in quanto non riconosciuti come atti medici: il medico deve fare di tutto per curare, e tra le pratiche consentite non c’è assolutamente quella di aiutare il paziente a morire.
È emerso quindi che i canadesi, con l’ampliamento dei criteri del ricorso all’eutanasia, hanno trasformato quella che sarebbe dovuta essere una pratica opzionale per le persone prossime alla morte e prive di speranza, in una concreta possibilità di scelta qualora non si abbiano sufficienti risorse o si abbia un presentimento infausto sul proprio futuro. Il 36% dei canadesi ha indicato come elemento decisivo a favore della scelta del suicidio medicalmente assistito l’onere (finanziario e affettivo) sui propri familiari, sugli amici e sugli operatori sanitari, mentre il 17% degli intervistati ha individuato come componente decisiva della propria scelta l’isolamento e la solitudine.
È facile intravedere in queste norme una nuova modalità legalizzata ed accettata di esaltazione dell’eugenetica. La cosa che più stupisce e che non ci si soffermi sul fatto che, volendo andare fino in fondo, ognuno di noi, chi più chi meno, è affetto da patologie - c’è chi le ha conclamate (e quindi risulta oggettivamente definibile come malato) e chi le ha subdole presentando una predisposizione genetica ad ogni sorta di fragilità - e la morte sarà sicuramente l’ultima parola, per ognuno di noi. Ma perché individuare malati privilegiati e malati svantaggiati; come sempre chi avrà le possibilità finanziarie avrà dei canali preferenziali di cura, fino alla fine, invece chi non avrà sufficienti disponibilità potrà scegliere di farsi uccidere con il proprio consenso. È dei nostri giorni la notizia che un personaggio pubblico stia incontrando problemi per trovare degli enzimi salvavita; per lui sembra si sia mosso anche il Governo! Se si fosse trovato in Canada e se fosse stato una comunissima persona possiamo ipotizzare che gli avrebbero potuto proporre il suicidio assistito per non gravare troppo sulle finanze dello Stato?
Per contro, perché non proviamo ad approfondire quali sono le motivazioni che spingono tanti malati a lottare contro la morte in silenzio e in preghiera affidandosi anche alla parte spirituale che vibra nell’intimo? L’uomo ha per istinto la sopravvivenza; la vita è una guerra fatta di tante battaglie, ma vale la pena di combatterle perché non si può rinunciare a nessun momento che possa riempire la vita che, pur nella sofferenza, potrebbe riservare amore e felicità. Come può una madre o un padre decidere di abbandonare anche solo un momento prima i propri figli? Perché privare una coppia innamorata o delle persone giovani di giorni di vita, in cui poter sentire l’importanza della propria esistenza per sé e per gli altri e facendo della loro esperienza di sofferenza un esempio per noi tutti, in particolare per i più giovani che sembrano ormai anestetizzati ad ogni forma di dolore e di compassione?
Il malato dovrebbe essere visto come un soggetto riflesso nel nostro stesso specchio; potremmo esserci noi un domani dall’altra parte. Saremmo davvero felici di sapere che una legge possa decidere della nostra vita, al nostro posto o al posto dei nostri familiari, senza dare l’opportunità di poterci far accompagnare dai nostri cari verso il passo terreno finale e di poterci far godere fino alla fine della possibilità di essere portatori, anche se più fragili, di un’esistenza ancora densa di insegnamento, sapienza ed amore?
Piuttosto perché non si potenziano le cure palliative che rappresentano invece una forma di solidarietà e di condivisione della malattia considerata come elemento facente parte della vita? Offriamo al malato l’opportunità di poter scegliere altre terapie rispetto al suicidio assistito che il più delle volte, quando si è in preda a crisi di solitudine, potrebbe rappresentare l’unica forma di soluzione alla grande sofferenza patita. Il malato è una persona fragile al quale si deve riconoscere il massimo rispetto per le proprie scelte, ma credo sia anche importante offrire, come alternativa, una generosa e sensibile attività terapeutica, psicologica e spirituale, attraverso le cure palliative. Solo così potremo dire di aver permesso al malato di compiere serenamente e consapevolmente la scelta per lui più giusta, ma soprattutto di avergli offerto l’opportunità di valutare la possibilità di dare il massimo valore ad ogni suo attimo di vita.

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01 Febbraio 2024

SUICIDIO ASSISTITO, EUTANASIA, CURE PALLIATIVE: RIFLESSIONI di Alessandra Di Giovambattista

SUICIDIO ASSISTITO, EUTANASIA, CURE PALLIATIVE: RIFLESSIONI
di Alessandra Di Giovambattista

 

15-02-2024

Si vorrebbe proporre ora, dopo averne parlato con finalità conoscitive in precedenti articoli, una riflessione sul suicidio assistito, sull’eutanasia e le cure palliative. Il tema è delicato e complesso e non si ha la pretesa di volerlo esaustivamente approfondire, ma è forte la spinta interiore, dettata dall’amore alla vita che ognuno di noi sente, almeno istintivamente.
Coloro che hanno a cuore la propria esistenza in genere sono persone che hanno ricevuto amore e quindi sanno cosa vuol dire quel benessere interiore, quel calore che ti viene da dentro che ti fa stare bene e ti fa andare avanti anche nel dolore, consapevole che in fondo al tunnel ci sarà la luce. Questa si chiama speranza, una delle virtù teologali che rendono l’uomo libero e coraggioso di accettare le sfide più ardue, nella sicurezza che alla fine ci sarà amore, per la vita eterna: è indubbio che questa è una visione esclusivamente spirituale della vita.
Tuttavia volendo dare un significato più razionale alla vita ed al suo valore, anche nella sofferenza e nel dolore, occorre soffermarsi sull’aspetto istintivo che hanno tutti gli esseri viventi: la conservazione e la difesa della propria vita e di quella delle persone care. L’essere umano aggiunge a questo approccio istintivo anche la tutela e la cura dei più fragili, mosso da sentimenti di compassione. È quindi capace di interagire con gli altri, ed anzi per l’uomo è una necessità il relazionarsi con il prossimo perché solo così prende consapevolezza di sé e dell’ambiente in cui vive. Ma il valore della comunità e della condivisione viene esaltato quando l’essere umano è affetto da una condizione di malattia infausta: per chi è circondato da affetti sinceri l’avvicinarsi della morte risulta meno opprimente rispetto a chi si trova in totale solitudine. Solo nel rapporto con gli altri si misura l’amore donato e ricevuto e quando si è soli si perde il valore della vita, ci si sente avulsi dalla realtà e rifiutati perché malati e non più utili alla comunità, in una parola si prova disperazione. È lo stato d’animo di chi non ha più speranza, di chi è oppresso da un inconsolabile sconforto e da abbattimento psicologico e morale dovuto alla solitudine; in tal caso si è facile preda dei più nefasti e oscuri pensieri.
Ed è forse proprio qui che si gioca la partita: in un mondo che ha perso ogni prospettiva e forma di affetto - dove si vive alla giornata, dove conta il numero di persone che ti seguono (followers) qui, ora, oggi, senza una aspettativa di futuro che non sia il solo denaro, dove non servono gli affetti ma solo il saldo del conto bancario, dove per soddisfare il personale potere su persone e cose si è capaci di scatenare guerre e violenze, dove i bambini non conoscono più l’affetto e la dedizione dei genitori, dove gli strumenti elettronici hanno preso il posto delle relazioni interpersonali in una sconsiderata esaltazione dell’intelligenza artificiale - forse si perde il senso della vita. Nel mondo odierno sembra non esserci più posto per la solidarietà, la condivisione, la compassione; ognuno è preso dalle proprie problematiche ed anche in famiglia si soffre sempre più di solitudine; è quest’ultima che porta alla disperazione e spinge a credere che non ci siano soluzioni ai problemi. Quando si è gravemente malati la solitudine gioca un ruolo fondamentale; ci si sente isolati e non accolti; come dice Papa Francesco ci si sente scartati, quindi non solo improduttivi ma anche consumatori di risorse che potrebbero essere destinate per obiettivi economicamente più “meritevoli e convenienti”!
E’ quando non si è amati e non si ama che ci si sente soli, e sopravviene lo è sconforto, e in fondo al tunnel c’è solo un buio ancora più oscuro senza speranza di cambiamento e di vita. È in questa situazione che l’uomo getta la spugna, perde il senso del combattimento dell’esistenza che ha invece come obiettivo l’intento di cercare di migliorare le proprie e le altrui condizioni in uno slancio di generosa e collettiva condivisione del bene. Perde l’essenza della vita che non è solo capacità di produrre, di essere attivi, di avere un bell’aspetto estetico ma è soprattutto capacità di generare affetto e amore verso le persone che ti circondano, anche se si è diventati più deboli e fragili.
Diventa allora indispensabile sostenere il malato, non permettere che rimanga in balia della solitudine; è quando ci si sente abbandonati che diventa più facile e comprensibile esprimere la propria disarmante decisione di mollare tutto. In condizioni di sconforto è determinante offrire una possibilità di scelta che conduca prima di tutto ad esperire le cure palliative che rappresentano la sola attuale possibilità di affrontare la malattia con dignità e con minor grado di sofferenza, accompagnando il malato al suo finale traguardo terreno.
Dopo di che si può dire che potrebbero aprirsi due vie: una più spirituale in cui si accetta la morte aiutati da farmaci che leniscono il dolore e tengono sotto controllo la sofferenza a livelli di umana sopportazione, l’altra che segue l’istinto più naturale in cui, per paura della sofferenza, si sceglie il suicidio assistito (che nella nostra attuale giurisprudenza prevede i seguenti requisiti: il malato sia capace di intendere e di volere, presenti una patologia irreversibile, fonte di gravi sofferenze fisiche o psichiche, e che dipenda da trattamenti di sostentamento vitale), volendo assolutamente escludere l’eutanasia attiva che rappresenta la modalità con cui si procura il decesso del malato attraverso l’uso di un farmaco letale. È indubbio, a mio parere, che sia comunque il malato ad avere il diritto di esprimere l’ultimo consenso, ma è importante che tale decisione sia presa in totale consapevolezza e condivisione massima, circondato da affetti e conforto spirituale e psicologico. Solo così la scelta sarà davvero libera e non indotta da sentimenti di disperazione e sconforto.
Ovviamente potremo anche trovarci di fronte a casi in cui il malato non sia più cosciente e quindi non sia più capace di intendere e di volere, ed allora sarebbe opportuno che lasci indicate le sue volontà circa le scelte sulle cure mediche. Si apre quindi il discorso del testamento biologico, uno strumento che deve poter coniugare le scelte sanitarie del paziente con i personali convincimenti religiosi, etici, filosofici, morali. Ognuno deve essere libero di autodeterminarsi – anche se sarebbe opportuno aiutare il paziente a riflettere anticipatamente sul valore della vita e della propria esistenza per sé e per tutti i propri cari - ma indubbiamente deve poterlo fare nel modo più consapevole e sereno possibile. Sarà quindi necessario un affiancamento spirituale, scientifico, morale, etico che alla fine consenta al paziente di disporre liberamente della propria vita. Ritengo, nel profondo del mio cuore, che ogni credo religioso essendo coltivato nella propria anima deve produrre frutti proprio nei momenti più estremi dove ogni decisione deve poter esser fatta in armonia con i principi morali e religiosi più intimi. Nella religione cristiana il Signore lascia liberi di pensare e di agire; la libertà spirituale è una caratteristica umana e nessuno può essere assoggettato ad un obbligo (ovviamente né il malato e né tanto meno il medico e il personale sanitario in generale). L’individuo deve sentirsi un essere umano che effettua una scelta consapevole dalla quale, conseguentemente, deriveranno effetti in questa vita e in quella ultraterrena, nel caso in cui creda nell’aldilà.
Al malato spetterà dunque la decisione se accettare o rifiutare una determinata cura, cogliendo in tal modo il vero significato del consenso informato che ormai siamo chiamati a sottoscrivere per quasi tutti gli atti medici. Il medico dovrà accogliere la volontà del paziente il quale pienamente edotto e consapevole potrà decidere di rifiutare tecniche mediche che potrebbero solo ritardare il momento del trapasso e, se estremizzate, potrebbero portare all’accanimento terapeutico. Ed è spesso la pratica di queste terapie che, prolungate nel tempo senza risultati migliorativi, portano alla disperazione sia il paziente sia i familiari e gli amici i quali pur di interrompere le grandi sofferenze chiedono il suicidio assistito o l’eutanasia. In buona sostanza deve essere presente l’obbligo morale di farsi curare e di curare ma tale obbligo deve commisurarsi alle verosimili prospettive di miglioramento del paziente. In tale ambito rinunciare sin dall’inizio a terapie straordinarie o sproporzionate non equivale al suicidio o all’eutanasia, bensì all’accettazione coraggiosa della essenza umana della morte.
In ultima analisi occorre riflettere sul fatto che non siamo in grado di governare nessuna variabile della nostra esistenza, spesso ci sembra di decidere autonomamente ma in realtà nel corso della vita si aggiungono tante situazioni che non dipendono da noi e che ci conducono a scelte ed atti non prevedibili, non voluti ed inaspettati. Qui risiede la grande capacità dell’uomo di modificare costantemente le proprie azioni e di adeguarsi a situazioni nuove, come quella in cui si diventa anziani e/o dichiaratamente malati. Dico dichiaratamente perché poi di fatto nessuno di noi è sano; basti pensare al patrimonio genetico di cui siamo portatori e che contiene fragilità che potrebbero esprimersi in patologie conclamate da un momento all’altro. Si potrebbe arrivare a dire che la differenza tra una persona malata e una persona sana è che la prima è informata, almeno parzialmente, sulle sue condizioni di salute con riferimento ad una patologia in atto, la seconda invece non è totalmente consapevole del suo reale stato di salute. È indubbio tuttavia che ci sono persone che conducono una vita di afflizione dovuta alle patologie che presentano ma è altrettanto indubbio quanto sia importante l’affetto che li circonda; quando non ci si sente soli i problemi sono più leggeri….il giogo non è pesante; la condivisione e l’amorevole vicinanza degli altri aiutano a superare situazioni di grande difficoltà.
E quindi mi sento di dire che forse, come prima strategia di sollievo dal dolore e dall’afflizione, potremmo indicare le cure palliative che aiutano ad affrontare la vita con dignità e coraggio, consapevoli che ogni attimo in più passato con i propri genitori, i figli, i nipoti, il coniuge, gli amici è un atto di amore e di grande insegnamento sapienziale che aiuterà prima di tutto chi rimarrà in vita, lasciando un’eredità inestimabile: il coraggio di aver guardato alla morte con la forza e l’amore di un essere illuminato, capace cioè di vedere la luce in ogni situazione, anche nelle ultime parole ed azioni che resteranno indelebili nel cuore di chi rimane. Quando si entra nell’ordine di idee delle cure palliative allora si accetta la propria condizione di malati e non si sceglie l’accanimento terapeutico che è poi il vero responsabile delle scelte di suicidio assistito e di eutanasia.
Lasciamo invece che la giurisprudenza faccia il suo corso circa la normazione in materia di testamento biologico e rifiuto delle terapie mediche.
Mi piace concludere ricordando Stephen Hawking, il celebre astrofisico inglese che affetto da una inarrestabile malattia neurovegetativa ha vissuto su una sedia a rotelle e comunicava con un sintetizzatore vocale; egli in diverse interviste non ha mai escluso il suicidio assistito, ma ha precisato anche di non aver assolutamente intenzione di farlo in quanto gli rimaneva ancora tantissimo lavoro di ricerca da fare!

 

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15 Febbraio 2024

IL PARTENARIATO UE - EGITTO: PROSPETTIVE di Alessandra Di Giovambattista

IL PARTENARIATO UE - EGITTO: PROSPETTIVE

di Alessandra Di Giovambattista

 24-02-2024

L’Egitto, un paese di grande tradizione e cultura; affascinante e generoso dispensatore di indimenticabili esperienze culturali che da anni i visitatori riportano a casa, nei loro cuori e nei loro occhi; caldi paesaggi naturalistici ed avvolgenti siti archeologici ricchi di mistero e di fascino, come in nessun altro Paese al mondo. Nella prima metà del 2023 sono stati circa 7 milioni i turisti che hanno visitato l’Egitto e, con in mente l’obiettivo di attirarne il doppio nell’anno 2024, il Governo ha investito molte risorse per la riapertura del Museo greco-romano ad Alessandria, il restauro della Grande Sala Ipostila del Tempio di Karnak e della Valle dei Re e l’inaugurazione del nuovo Grande Museo Egizio nei pressi del Cairo. Inoltre l’Egitto si è posto come obiettivo anche un turismo sostenibile attraverso le proposte di soggiorni in alloggi ecologici, come lungo la costa del Mar Rosso e a Sharm-El-Sheikh, e la riscoperta di siti dimenticati, come ad esempio l’isola di Bigeh.

Nel 2023 l’Egitto ha visto aumentare anche le vendite di gas naturale a causa della maggiore domanda da parte dei Paesi europei, dopo lo scoppio del conflitto Russo-Ucraino. Tuttavia tale settore, pur rappresentando un elemento portante per l’economia egiziana, sconta il fatto di essere carente di infrastrutture; tale circostanza sembra aver impedito la soddisfazione efficiente della domanda interna ed estera di gas.

Altro settore trainante per l’economia è il canale di Suez; esso rappresenta una fonte di entrate molto importante e negli ultimi 10 anni gli investimenti per il suo ampliamento sono stati notevoli e rapidi, ma anche molto costosi a causa delle ingenti commesse che il Governo ha dovuto pagare ad imprese estere esperte in costruzioni di grandi infrastrutture. Tuttavia nel periodo 2021-2022 le entrate fiscali egiziane sono aumentate di oltre il 20% grazie ad un progressivo aumento dei costi di transito del Canale che hanno fatto registrare incassi per circa 7 miliardi di dollari; nel primo trimestre del 2023 si è registrato un ulteriore incremento del 40% rispetto al 2022. Nel 2023 ci si attendeva, per gli anni a venire, un ulteriore aumento dei volumi di traffico per i nuovi lavori di allargamento e di messa in sicurezza della navigazione nel Canale, ma gli obiettivi, in seguito al recente conflitto tra gli Houthi e gli Stati Uniti d’America, non sembrano più così facilmente raggiungibili.

All’inizio di quest’anno, infatti, oltre alla grave crisi economica e politica che da diversi anni affligge il Paese, si è aggiunto anche il blocco del canale di Suez a causa del conflitto scoppiato tra i ribelli Houthi e gli Stati Uniti d’America e la Gran Bretagna. La guerra ha rappresentato la risposta all’attacco israeliano nella striscia di Gaza, in sostegno alle forze militari di Hamas; per gli Houthi le navi Israeliane e quelle dei suoi alleati sono un obiettivo di attacco legittimo. Così molte navi mercantili occidentali per evitare il passaggio nel Canale di Suez, prolungano il viaggio circumnavigando il continente africano; tale situazione però rischia di causare notevoli problemi in termini di aumento dei costi e di ritardo negli approvvigionamento di merci che viaggiano via mare, soprattutto per l’Europa.

Questa è, in breve e parzialmente, una panoramica della situazione attuale che ovviamente si riflette sulle già difficili e precarie condizioni socio economiche egiziane; attualmente di fatto tutti e tre i settori trainanti dell’economia: turismo, fonti energetiche e passaggi attraverso il canale di Suez, sono in ginocchio a causa delle condizioni geopolitiche esterne all’Egitto, ma anche a causa delle complicate condizioni interne.

L’Egitto oggi rappresenta, con l’Argentina, uno dei principali debitori a livello mondiale del fondo monetario internazionale (FMI). La situazione politico sociale in cui vive il Paese non lo aiuta a risollevarsi da una situazione di prostrazione e di scontento in cui la popolazione versa per le sue precarie condizioni economiche. In sintesi si può affermare che l’ostacolo maggiore, almeno a detta di molti osservatori, è rappresentato dal ruolo pervasivo che hanno le forze militari nella vita privata dei cittadini ed in tutti i settori economici; si tratta di un vero e proprio impero composto da migliaia di imprese di diverse dimensioni che godono di una rendita di posizione dovuta alla possibilità di accedere ad agevolazioni fiscali che invece vengono negate alle società private.

In tale clima, nel corso del 2024, l’UE, a seguito di un processo avviato nel 2022, predisporrà aiuti finanziari e l’invio di attrezzature nuove per un progetto che coadiuvi il Governo nella gestione del processo migratorio, progetto voluto dalle Nazioni Unite.

I finanziamenti - come si legge nella raccomandazione n. 1/2022 del Consiglio di associazione UE-Egitto del 19 giugno 2022 – nascono come conseguenza di un progetto di partenariato tra UE ed Egitto, che si incardina nel contesto di un piano molto più ampio per garantire la stabilità, la cooperazione e lo sviluppo sostenibile nel lungo termine su tutte le sponde del Mediterraneo, alla luce della politica europea di vicinato individuata nella nuova agenda dell’UE per il Mediterraneo, che si ispira all’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, e nell’ambito degli obiettivi condivisi nell’Unione per il Mediterraneo (UpM di cui fanno parte 43 paesi di cui 27 europei e 16 del nord Africa, del Medio oriente e dell’Europa sud orientale). Le priorità devono contribuire a soddisfare le aspirazioni di tutti i cittadini garantendo lo sviluppo sostenibile, la giustizia sociale, il lavoro dignitoso, la prosperità economica e le condizioni di vita migliori, con particolare riferimento ai diritti umani ed alle libertà fondamentali, compresi i diritti sociali, del lavoro e dell’emancipazione femminile per conseguire la parità di genere e la tutela dei minori; il tutto anche per aiutare ad arginare e a gestire al meglio il costante flusso migratorio dall’Africa verso l’Europa.

In tale contesto gli obiettivi su cui preme l’UE, e che l’Egitto dovrebbe realizzare, sono rappresentati dal potenziamento della resilienza economico-sociale attraverso il rafforzamento della creazione di posti di lavoro dignitosi e produttivi, includendo in particolare i giovani e le donne. Per cogliere tali obiettivi si renderanno necessarie, tra le altre, delle riforme tributarie che riguardino le sovvenzioni e l’imposizione fiscale, per rafforzare il ruolo del settore privato, oggi fortemente penalizzato, ed il miglioramento della cultura imprenditoriale, finalizzato anche all’attrazione dei capitali esteri. Grazie ad una politica imprenditoriale più aperta e sostenibile, dovrebbe risultare possibile lo sviluppo delle piccole e medie imprese - che permetteranno anche l’inclusione degli attori economici locali – nonché l’ampliamento e la creazione di sistemi di trasporto efficienti, affidabili e rispettosi dell’ambiente, verso la transizione elettrica della mobilità, che garantiscano il diritto alla libertà di movimento sia all’interno che all’esterno del Paese. In tal modo l’UE sosterrà le iniziative egiziane finalizzate alla riforma della pubblica amministrazione ed al buon governo, misurate, a fini di verifica, attraverso statistiche dedicate che tengano conto della rivoluzione digitale e dei nuovi modelli imprenditoriali e societari che saranno sviluppati.

In tale ambito si rappresenta - con un’attenzione alla protezione economica e sociale delle persone più fragili presenti nel Paese, in particolare giovani, donne e bambini - che alla fine del 2019 l’Egitto ha varato il piano socio-economico “Haya Karima” volto a migliorare le condizioni di vita dei cittadini egiziani nel rispetto del diritto ad una vita dignitosa e per contrastare le diverse forme di povertà. Il programma si muove a 360 gradi in un quadro di integrazione e consolidamento degli sforzi tra istituzioni statali nazionali, settori privati ed i partner che supportano lo sviluppo egiziano, nell’ambito delle politiche sanitarie, sociali, agricole, lavorative, dell’istruzione e di miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini. Altro piano varato del governo egiziano è il “Takaful” uno strumento assicurativo per aiutare famiglie ed individui a fronteggiare situazioni di difficoltà dovute ad incidenti, malattie, perdita del proprio reddito. Questa formula assicurativa, a ben vedere, si incardina nel contesto della c.d. finanza islamica basata su principi etici derivanti dal Corano, che si pongono in contrasto con i principi che regolano le formule assicurative occidentali; in particolare è previsto che si devolva una parte dei propri guadagni a sostegno della carità, che non si possano incassare interessi sui prestiti (con la finalità di contrastare l’usura), che gli investimenti debbano essere leciti e non rischiosi vietando la speculazione. Pertanto il Takaful fornisce la risposta alla copertura dai rischi di perdite economico-finanziarie mediandola con i principi coranici: si costituisce un fondo comune strettamente mutualistico dove gli aderenti sono solidali nei confronti di coloro che avranno bisogno di risorse finanziarie in futuro.

Le richieste della UE mirano a macro obiettivi con il focus sulla promozione delle riforme in ambito di giustizia sociale e di politica agro-alimentare ed idrica, coniugate alla rapida crescita demografica. Attenzione particolare sarà posta sul rafforzamento del ruolo della donna e della sua emancipazione sociale ed economica, nonché sul miglioramento del livello quali-quantitativo dell’istruzione, e del sistema sanitario.

Ma non finisce qui; il rapporto di partenariato tra Egitto e la EU prevede anche lo sviluppo della digitalizzazione nel rispetto della privacy e nella ricerca e nella promozione dell’intelligenza artificiale e delle forme di sicurezza informatica; il tutto finalizzato ad incrementare la cooperazione nel campo dell’evoluzione informatica e dell’istruzione superiore ed universitaria.

Quindi l’Egitto, in prima battuta, risponderà a queste richieste potenziando il settore turistico-culturale attraverso politiche di conservazione e protezione del patrimonio materiale e immateriale al fine di incrementare l’occupazione, le riserve in valuta estera ed in ultima analisi il benessere della società egiziana.

Altro aspetto peculiare nella politica di rafforzamento del partenariato è rappresentato dallo sviluppo degli investimenti e degli scambi di beni e servizi tra mercati, cercando di incrementare quello egiziano nella catena del valore locale e globale. In tal modo la UE e l’Egitto potranno collaborare per presentare strategie comuni e condivise finalizzate al rafforzamento delle relazioni commerciali nel rispetto degli accordi e per consentire il massimo sviluppo del potenziale socio-economico egiziano. Naturalmente in tale ambito verrà potenziato il passaggio attraverso il Canale di Suez che oggi, più che mai, evidenzia la sua importanza per il mercato europeo.

Nell’ambito dell’ecologia saranno diversificate le fonti energetiche per un’economia a basse emissioni di carbonio con particolare attenzione alle fonti energetiche rinnovabili applicabili anche alle diverse forme di mobilità: stradale, marittima, aerea. L’UE sosterrà le strategie egiziane volte ad aggiornare la politica energetica e per ridurre le emissioni di gas a effetto serra. In questo settore la UE intende sostenere l’Egitto affinché consolidi la sua posizione che, nella regione del nord Africa, rappresenta quella del più probabile candidato a diventare un polo di energia sostenibile e rinnovabile. Quindi i due soggetti del partenariato collaboreranno per effettuare ricerche congiunte in ambito energetico, utilizzando le migliori e più efficaci forme di esperienze e pratiche settoriali, considerando anche la salvaguardia degli ecosistemi marini del Mediterraneo, con la creazione di parchi e riserve naturali e sviluppando forme di ecoturismo.

A ben vedere questi obiettivi sembrano molto ambiziosi e sarebbe bene comprendere quanti di essi saranno davvero raggiungibili avendo a mente l’obiettivo del 2030. Il percorso si presenta arduo e assoggettato a forme secolari di tradizioni familiari e socio-culturali; molto probabilmente un decennio scarso non sarà sufficiente a modificare usi e costumi, a meno di prevedere una interruzione forte e determinata dell’attuale situazione che blocchi un processo di evoluzione endogeno forse appena iniziato e non ancora pienamente sentito o voluto.

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24 Febbraio 2024

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