IL SUICIDIO ASSISTITO: QUANDO L’ESSERE UMANO DECIDE DI MORIRE.
di Alessandra Di Giovambattista
Da qualche tempo è arrivata la notizia che il Canada, paese dove è riconosciuto il diritto al suicidio assistito, ha deciso di consentire la pratica dell’eutanasia anche per i poveri. Quella che finora era considerata una pratica disumana ed un crimine ora viene riconosciuta come un diritto ed un’espressione di progresso. Con il termine di eutanasia si intendono azioni o omissioni che per loro natura e nelle intenzioni di chi agisce o omette di agire, procura anticipatamente la morte di un malato con lo scopo di alleviarne le sofferenze. Si può quindi definire come l’uccisione di un soggetto consenziente in grado di esprime la volontà di morire o mediante l’aiuto del medico a cui si chiedono farmaci letali in auto somministrazione (suicidio assistito) o con la richiesta al medico di essere soppresso nel presente o in un momento futuro (eutanasia in senso stretto).
Da una ricerca condotta nell’Università di Oxford, ad opera del ricercatore Yuan Yu Zhu, emerge che la morte medicalmente assistita si può autorizzare in Canada anche per i pazienti che non sono più in grado di fronteggiare finanziariamente le crescenti spese mediche inducendoli a ritenere che sia meglio per loro non intraprendere cure costose e scegliere di gettare la spugna. Nel 2016 per poter accedere al suicidio assistito doveva essere presente una “ragionevole previsione” di morte naturale; dal marzo 2023, invece, con le nuove disposizioni normative è sufficiente una patologia o una disabilità, che il soggetto consideri insopportabile e quindi inaccettabile, per poter chiedere di ricorrere alla procedura di morte medicalmente assistita. Lo stesso ricercatore evidenzia che attualmente il Canada presenta, tra i paesi industrializzati, la più bassa spesa sociale, le più lunghe liste di attesa per prestazioni mediche e non finanzia e non organizza le cure palliative. Queste ultime rappresentano un approccio integrato di assistenza e cura del paziente grave o terminale, capaci di migliorare la qualità della vita del malato e delle famiglie attraverso la prevenzione ed il trattamento del dolore, e di altri problemi di diversa natura: psichici, fisici, spirituali, mediante la somministrazione di farmaci analgesici, il sostegno psicologico, la riabilitazione, il conforto religioso. In questo senso le cure palliative sostengono la vita, e guardano alla morte come ad un processo naturale e non la anticipano o la pospongono ma piuttosto aiutano ad affrontare l’evento attraverso un approccio curativo sinergico.
Detto ciò è facile immaginare come alla base di queste scelte di legittimazione dell’interruzione della vita vi sia, non ultima, la motivazione finanziaria: già nel 2020 l’ufficio parlamentare canadese di bilancio aveva evidenziato che l’eutanasia avrebbe fatto risparmiare molte risorse. Attualmente si risparmiano circa 87 milioni di dollari canadesi all’anno grazie all’induzione al suicidio assistito al posto della somministrazione di cure, magari a lungo termine, a carico dello Stato. È stato poi calcolato che dal 2023 vi sarà un ulteriore risparmio annuale di 62 milioni di dollari canadesi grazie all’ampliamento dei casi per i quali sarà concessa l’eutanasia, in particolare ai malati psichiatrici. I paesi che attualmente prevedono tale possibilità sono pochi e tra questi vi è l’Olanda dove le norme disciplinano la morte medicalmente assistita per sofferenza psichica irrimediabile.
È evidente che i problemi, nel caso dei malati psichiatrici, risiedono nel fatto che: il paziente, in via autonoma dovrebbe essere in grado di formulare questa richiesta, la sofferenza che si subisce sia insopportabile e senza rimedio e sia valutata anche nel tempo futuro, il paziente ed il medico dovrebbero concordare che non ci sono presenti o future alternative di trattamento, tenendo in debita considerazione che in passato alcuni trattamenti potrebbero non essere stati adeguati e che invece le cure future potrebbero rappresentare una valida scelta. Ma qui sorge spontaneo un quesito: il paziente sarà in grado di valutare se il medico sta agendo per il proprio bene, secondo deontologia e retta coscienza? Oggi più che mai occorre vigilare perché nascoste motivazioni, come ad esempio quelle economiche, non prevalgano sul rispetto e la dignità della vita umana.
Ma c’è di più; da un recente sondaggio della Research Co. (società canadese di raccolta e gestione quali-quantitativa di dati) è emerso che il 30% dei canadesi sarebbero favorevoli al suicidio assistito per le persone povere o senzatetto; il Canada è uno dei pochi paesi al mondo che ha legalizzato l’eutanasia anche quando il paziente non ha una malattia terminale, ma è sufficiente che la malattia sia grave ed irrimediabile, come ad esempio nei casi delle persone disabili. Ma la cosa che più fa riflettere è che una quota di cittadini canadesi è favorevole al suicidio assistito anche quando la persona non presenta patologie: il 27% ha affermato che sarebbe favorevole a legalizzare l’accesso alla morte medicalmente assistita nei casi di povertà, il 28% ha individuato come causa sufficiente l’essere un senzatetto, ed il 20% ritiene che sia legittimo chiedere la morte medicalmente assistita senza alcuna ragione medica, pertanto per qualsiasi motivo. Infatti, è sintomatico, che in Canada il suicidio assistito possa essere approvato e somministrato dagli infermieri senza alcuna approvazione e vaglio medico. E negli ultimi anni i decessi assistiti sono andati aumentando vertiginosamente (dal 2021 al 2022 l’incremento è stato del 32,4%). Per il 43% sarebbe sufficiente anche la sola malattia mentale per attivare il processo di suicidio assistito; il Canada ha rinviato a questo anno, il 2024, la decisione nel merito e affiancherà anche la proposta per gli individui poveri ed i senzatetto; è degna di riflessione la considerazione che i più emarginati forse potrebbero avere una possibilità di rinascita qualora vi fossero adeguate politiche socio-economiche. È notizia dell’ultima ora che il governo canadese ha previsto un ulteriore rinvio della decisione in merito all’estensione del suicidio assistito per le persone affette da patologie mentali in quanto il sistema non sembra essere pronto per tale espansione in quanto non ci sono sufficienti professionisti in grado di valutare i pazienti.
Inoltre la recente legge canadese in tema di suicidio assistito - che muove i suoi passi dalla sentenza della Corte Superiore del Quebec del 2019 in cui si era stabilito che limitare il suicidio assistito alle sole persone con una morte ragionevolmente prevedibile fosse una violazione dei diritti umani – prevede che si rinunci al consenso finale da parte del paziente e che si vieti l’obiezione di coscienza dei medici. Queste due ultime circostanze sembrano rappresentare una grave lesione dei diritti: il diritto del malato di ripensare fino alla fine al compimento di un atto estremo, e il diritto per i medici ed il personale sanitario di rifiutarsi di somministrare farmaci che uccidono, invece di curare o quantomeno di alleviare le sofferenze. La privazione dell’obiezione di coscienza per il personale sanitario è contraria anche alla deontologia medica che si basa sul giuramento di Ippocrate che vieta qualunque forma di eutanasia e di somministrazione di farmaci che possano indurre la morte. Questa sorta di obbligo viola ogni forma di libertà esprimibile dal personale sanitario che, mentre non potrebbe assolutamente opporsi alle cure per i pazienti, potrebbe invece opporsi al suicidio assistito o all’eutanasia in quanto non riconosciuti come atti medici: il medico deve fare di tutto per curare, e tra le pratiche consentite non c’è assolutamente quella di aiutare il paziente a morire.
È emerso quindi che i canadesi, con l’ampliamento dei criteri del ricorso all’eutanasia, hanno trasformato quella che sarebbe dovuta essere una pratica opzionale per le persone prossime alla morte e prive di speranza, in una concreta possibilità di scelta qualora non si abbiano sufficienti risorse o si abbia un presentimento infausto sul proprio futuro. Il 36% dei canadesi ha indicato come elemento decisivo a favore della scelta del suicidio medicalmente assistito l’onere (finanziario e affettivo) sui propri familiari, sugli amici e sugli operatori sanitari, mentre il 17% degli intervistati ha individuato come componente decisiva della propria scelta l’isolamento e la solitudine.
È facile intravedere in queste norme una nuova modalità legalizzata ed accettata di esaltazione dell’eugenetica. La cosa che più stupisce e che non ci si soffermi sul fatto che, volendo andare fino in fondo, ognuno di noi, chi più chi meno, è affetto da patologie - c’è chi le ha conclamate (e quindi risulta oggettivamente definibile come malato) e chi le ha subdole presentando una predisposizione genetica ad ogni sorta di fragilità - e la morte sarà sicuramente l’ultima parola, per ognuno di noi. Ma perché individuare malati privilegiati e malati svantaggiati; come sempre chi avrà le possibilità finanziarie avrà dei canali preferenziali di cura, fino alla fine, invece chi non avrà sufficienti disponibilità potrà scegliere di farsi uccidere con il proprio consenso. È dei nostri giorni la notizia che un personaggio pubblico stia incontrando problemi per trovare degli enzimi salvavita; per lui sembra si sia mosso anche il Governo! Se si fosse trovato in Canada e se fosse stato una comunissima persona possiamo ipotizzare che gli avrebbero potuto proporre il suicidio assistito per non gravare troppo sulle finanze dello Stato?
Per contro, perché non proviamo ad approfondire quali sono le motivazioni che spingono tanti malati a lottare contro la morte in silenzio e in preghiera affidandosi anche alla parte spirituale che vibra nell’intimo? L’uomo ha per istinto la sopravvivenza; la vita è una guerra fatta di tante battaglie, ma vale la pena di combatterle perché non si può rinunciare a nessun momento che possa riempire la vita che, pur nella sofferenza, potrebbe riservare amore e felicità. Come può una madre o un padre decidere di abbandonare anche solo un momento prima i propri figli? Perché privare una coppia innamorata o delle persone giovani di giorni di vita, in cui poter sentire l’importanza della propria esistenza per sé e per gli altri e facendo della loro esperienza di sofferenza un esempio per noi tutti, in particolare per i più giovani che sembrano ormai anestetizzati ad ogni forma di dolore e di compassione?
Il malato dovrebbe essere visto come un soggetto riflesso nel nostro stesso specchio; potremmo esserci noi un domani dall’altra parte. Saremmo davvero felici di sapere che una legge possa decidere della nostra vita, al nostro posto o al posto dei nostri familiari, senza dare l’opportunità di poterci far accompagnare dai nostri cari verso il passo terreno finale e di poterci far godere fino alla fine della possibilità di essere portatori, anche se più fragili, di un’esistenza ancora densa di insegnamento, sapienza ed amore?
Piuttosto perché non si potenziano le cure palliative che rappresentano invece una forma di solidarietà e di condivisione della malattia considerata come elemento facente parte della vita? Offriamo al malato l’opportunità di poter scegliere altre terapie rispetto al suicidio assistito che il più delle volte, quando si è in preda a crisi di solitudine, potrebbe rappresentare l’unica forma di soluzione alla grande sofferenza patita. Il malato è una persona fragile al quale si deve riconoscere il massimo rispetto per le proprie scelte, ma credo sia anche importante offrire, come alternativa, una generosa e sensibile attività terapeutica, psicologica e spirituale, attraverso le cure palliative. Solo così potremo dire di aver permesso al malato di compiere serenamente e consapevolmente la scelta per lui più giusta, ma soprattutto di avergli offerto l’opportunità di valutare la possibilità di dare il massimo valore ad ogni suo attimo di vita.