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L’ECONOMIA COME STRUMENTO DEL POTERE di Alessandra Di Giovambattista

L’ECONOMIA COME STRUMENTO DEL POTERE

di Alessandra Di Giovambattista

 15-07-2024

Per mettere a fuoco solo pochi aspetti di questo complesso tema, che intendo accennare senza alcuna pretesa di esaustività o di verità in quanto argomento a dire il vero molto spinoso, vorrei partire da un’affermazione del filosofo Bertrand Russel le cui osservazioni risultano un po’ datate, ma ciò è ovviamente dovuto al momento storico in cui è vissuto (contemporaneo delle ideologie totalitariste nazi fasciste e comuniste da cui prende le debite distanze); ognuno è figlio dei propri tempi! Egli affermava, dopo un’analisi delle diverse forme di potere che possono riscontrarsi in una collettività, che lo studio dell’economia come scienza separata dalla realtà rischia di fornire un’analisi irrealistica e fuorviante se presa come guida per l’attuazione di ricette applicative e formule pratiche; essa in verità è solo un elemento, sicuramente molto importante, di uno studio molto più ampio che deve ricondursi alla scienza del potere.

In questo contesto, come esempio chiarificatore, vorrei richiamarmi ad una delle teorie di un grande economista italiano, il Prof. Paolo Sylos Labini - più volte candidato al premio Nobel - che fu peraltro il mio Professore di economia politica alla Facoltà di Scienze Statistiche ed Economiche dell’Università “La Sapienza” di Roma. Per giustizia ed onestà intellettuale devo tributargli la mia grande ammirazione e gratitudine, prima di tutto come uomo, per la sua disponibilità ed accoglienza che sapeva donare a chiunque, (dagli studenti ai massimi accademici di tutto il mondo), e come professore, per la chiarezza e semplicità con cui ha saputo introdurmi in un mondo sicuramente non facile da conoscere, con le sue infinite regole, teorie e modelli (non tutti peraltro condivisibili ed applicabili), fornendo pochi ma fondamentali principi. Ecco da lui voglio partire per sottolineare come l’economia sia solo un elemento di un contesto molto più ampio - dove si gioca la voglia di potere dell’uomo che se non ben calibrata rischia di diventare una forma insaziabile di cannibalismo, dove l’uomo diventa lupo all’uomo – e dove occorre prima di tutto osservare con attenzione la realtà per non cadere nella costruzione di teorie vacue, che alcune volte forniscono semplici o complessi modelli matematici inapplicabili e non verificabili e che si traducono in esercizi didattici che, se ben foraggiati ed incentivati dai centri di potere, possono rappresentare delle pseudo-teorie da far seguire per raggiungere invece dei preordinati e nebulosi obiettivi.

Il prof. Sylos Labini ha fornito una teoria nuova per interpretare l’oligopolio. In particolare gli approcci delle teorie tradizionali partivano dall’assunto secondo il quale l’analisi dei mercati vedeva come modello base, a cui doveva convergere tutto il sistema, quello della concorrenza perfetta, dove non esistono barriere all’entrata ed all’uscita, c’è libero movimento di capitali e dove i prezzi si formano dall’incontro tra domanda ed offerta di beni e servizi. Il professore formulò la sua nuova teoria, studiando in particolare il mercato petrolifero - caratterizzato da un elevato rapporto tra costi fissi e costi variabili che determina una dimensione ottimale degli impianti - dove gli ostacoli alla concorrenza provengono da fattori diversi rispetto alla sola segmentazione del mercato (suddivisione dei consumatori in gruppi omogenei in ragione dei propri desideri e bisogni), su cui si era concentrata l’attenzione dei teorici della concorrenza imperfetta.

La forma di oligopolio concentrato analizzata da Sylos Labini nasce proprio dall’osservazione generalizzata della presenza di barriere all’entrata (che, ad esempio, nel mercato petrolifero si esprimono con un elevato costo degli impianti, quindi con un’elevata e perfezionata tecnologia e conseguente ingente investimento di capitali) che escludono la libera concorrenza perfetta. In tal modo la teoria dell’oligopolio diviene una teoria generale delle forme di mercato dove concorrenza e monopolio sono invece due situazioni estreme; la prima è priva di barriere all’entrata, la seconda presenta barriere all’entrata insormontabili. Pertanto dall’osservazione sul campo arriva a determinare la teoria delle forme di mercato dove diviene necessario studiare natura dei fattori e valori che influiscono sulla dimensione ottimale di impresa e che permettono di superare le barriere all’entrata, che pur esistendo sono superabili pagandone un determinato costo, anche se elevato. Quindi sarà la dimensione degli impianti, più in generale la tecnologia, che provoca la difficoltà di entrata da parte dei concorrenti i quali dovranno approntare grandi e più efficienti impianti per cercare di conquistare fette di mercato in quanto il loro ingresso produrrà un sensibile aumento dell’offerta con caduta verso il basso dei prezzi. Si sottolinea, per completezza, che la teoria definisce le barriere all’entrata che dipendono: dall’ampiezza del mercato (che può fornire un’idea del potenziale assorbimento dei prodotti), dalla dimensione degli impianti tecnologicamente efficienti (che fornisce una misura degli investimenti iniziali, ma anche del costo dell’innovazione e della loro sostituzione), dall’elasticità della domanda (che indica di quanto potrebbe scendere il prezzo per effetto dell’incremento della produzione) e dal tasso di crescita del mercato (che permette di ipotizzare la durata nel tempo della flessione dei prezzi fino al ritorno alla loro stabilità iniziale).

Ciò offre una visione dinamica della teoria dove le forze in gioco sono legate al potere degli oligopolisti di voler tener fuori potenziali concorrenti; infatti sempre secondo Sylos Labini le imprese già presenti sul mercato non adottano un comportamento “accomodante” di fronte all’ingresso di nuovi concorrenti, per evitare di dover diminuire il prezzo dei beni, perdere fette di mercato e ridurre il margine di profitto (c.d mark-up) o garantirne il livello raggiunto attraverso una maggiore efficienza della tecnologia o una diversa distribuzione del reddito (diviso tra i differenti fattori della produzione: salari, stipendi, profitti). Questa impostazione non accomodante da parte degli oligopolisti di fronte a possibili nuovi concorrenti non è altro che il frutto delle osservazioni della realtà. Se invece il problema si fosse voluto risolvere teoricamente, non partendo dall’osservazione dei fatti, ma basandosi sul dilemma delle scelte secondo lo strumento della teoria dei giochi (molto usata per le scelte di convenienza nel mercato oligopolista), la convenienza si sarebbe trovata nel comportamento accomodante (quindi la soluzione sarebbe stata l’opposta rispetto all’osservazione della realtà), dove con la riduzione delle quantità prodotte, derivante da un accordo tra produttori, si sarebbe potuto mantenere inalterato il prezzo e quindi anche il mark-up(in questo caso sarebbe stato risolto il dilemma secondo l’enunciato dell’economista John Nash per cui il risultato migliore si ottiene quando ogni componente del gruppo fa ciò che è meglio per sé e per il gruppo, secondo la teoria delle dinamiche dominanti). Lo stesso Sylos Labini ha evidenziato che le sue conclusioni sulle scelte degli oligopolisti nascono da un’osservazione del comportamento usuale degli imprenditori che non conoscendo il numero delle possibili mosse dei loro competitori non possono applicare con sicurezza la teoria dei giochi, pertanto la strategia migliore sarà l’intransigenza nello scontro concorrenziale.

L’esempio dello studio del mercato oligopolistico permette di fornire delle riflessioni sull’economia come strumento di potere; intanto la prima osservazione che possiamo fare è quella secondo cui è necessario studiare i fenomeni economici calati nella realtà socio politica in cui essi si presentano; l’applicazione di teorie spesso complesse rischia di fornire un’analisi irreale e fuorviante del problema (così come si è espresso Bertrand Russel) ed anzi può complicarne la soluzione. La riflessione è: che tali complicazioni siano espressione di potere, volute in modo da rendere i problemi più complessi e nebulosi a vantaggio di scelte e soluzioni a favore di pochi interessati soggetti?

La seconda osservazione, molto più complessa ci induce a ritenere che barriere all’entrata, anche non ti tipo squisitamente economico, in un mercato possono essere create ad arte da parte del potere dominante per tenere fuori possibili concorrenti e raggiungere scopi anche non economici. Si pensi proprio al potere che hanno guadagnato i colossi delle multinazionali petrolifere ed ai modi che utilizzano per tener fuori i potenziali competitor (in tale contesto ritorna in mente il caso mai definitivamente risolto della morte del nostro indimenticabile connazionale Enrico Mattei). Oppure più semplicemente le difficoltà di entrata su mercati che richiedono sempre più tecnologia specializzata; si pensi a tutto il mondo della produzione attraverso la robotica che ovviamente fa gioco alle grandi potenze che detengono ingenti capitali e che alzano barriere all’entrata insormontabili. Quale sarà il produttore, anche il più innovativo e fantasioso, o quello presente in mercati in via di sviluppo, che potrà competere con economie che hanno grande liquidità e che manovrano anche il credito e tutto il mercato finanziario, attraverso gli istituti bancari e le varie società di investimento?

Ormai il potere converge sempre più verso forme di governo monocratico e l’economia, che ne è solo uno strumento, segue lo schema; la globalizzazione porta a modelli aziendali pachidermici, dove chi lavora è solo un numero e dove la domanda di lavoro è sempre più concentrata in mano a pochi grandi soggetti imprenditoriali. Il potere è espressione anche di dominio sulle materie prime, sui consumi, sulle scelte, sulle tipologie di produzione, sulle libertà dei singoli e degli Stati più deboli dove non ci sarà più posto per produzioni artigianali e non sarà possibile una crescita ed uno sviluppo a misura d’uomo. Il fenomeno delle aziende innovative, c.d. start up, è figlio di questa impostazione: si cercano idee nuove, si attirano giovani con idee brillanti, si finanzia la loro attività che, se avrà successo, verrà inglobata nel buco nero dei grandi colossi e ai giovani imprenditori verrà liquidata una cospicua somma di denaro. Questi ultimi si sentiranno appagati e usciranno dal mercato risolvendo così due problemi alle multinazionali: eliminazione della concorrenza e utilizzo delle nuove produzioni a proprio esclusivo interesse senza aver subito il rischio dell’insuccesso e aver traslato il costo dell’innovazione e della ricerca su soggetti giovani che, nei più frequenti casi di idee produttive non interessanti e non vincenti, avranno disperso le proprie risorse finanziarie e si troveranno con esposizioni debitorie critiche che alcune volte rischiano di coinvolgere l’economia dell’intera famiglia di origine. E fin qui si sono tratteggiati in modo sintetico solo i danni economico-finanziari volendo sorvolare le più complesse difficoltà psicologiche e sociali che sono capaci di innescare questi processi a dir poco disumani.

L’idea di una società meritocratica basata sulle capacità e l’impegno dei singoli rischia di soffocare sotto il peso di organizzazioni di reti di potere (gestioni politiche, finanziarie, affaristiche) spesso anche non legali (organizzazioni malavitose, cordate familiari), dove il punto di partenza per i giovani in cerca di realizzazione non è lo stesso per ognuno di essi ma è assoggettato a condizioni di nascita, di sesso, di etnia, di ricchezza, di conoscenze familiari.

La presenza poi di incroci azionari e di interconnessioni a livello di dirigenza aziendale (c.d. interlocking directorates) - che si creano più facilmente in aziende di grandi dimensioni, e che si sostanziano in subdoli legami aziendali attraverso la scelta di un soggetto di vertice che si trova a rivestire più incarichi in più imprese - mina i principi base della trasparenza del mercato ed apre a scenari di collusione tra aziende che solo all’apparenza si presentano concorrenti ma che in realtà sono assoggettate ad un unico centro di potere, spesso ben celato, che le controlla con la connivenza di vertici molto ubbidienti e ben pagati!

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15 Luglio 2024

UNA BREVE INTRODUZIONE DELLA TECNOLOGIA BLOCKCHAIN di Alessandra Di Giovambattista

UNA BREVE INTRODUZIONE DELLA TECNOLOGIA BLOCKCHAIN

di Alessandra Di Giovambattista

 02-08-2024

Oggi si sente spesso parlare di tecnologia “Blockchain” la cui traduzione letterale significa catena di blocchi; è un concetto applicato al mondo informatico partendo dall’invenzione del libro mastro (che si deve all’italiano Fra Luca Pacioli – uno dei primi economisti del Rinascimento – sulla cui base si sviluppò la c.d. contabilità in partita doppia) dove si registrano e quindi si tracciano, essenzialmente, entrate ed uscite di valuta e più in generale miriadi di dati.

Da questa impostazione di tracciamento delle transazioni nel 1991 si provò a creare qualcosa di analogo alla blockchain che fu utilizzata per timbrare temporalmente dei documenti digitali al fine di evitare che potesse esserne alterata la data di formazione (una sorta di attestazione alternativa alla data certa notarile).

È nel 2009, partendo dalle intuizioni di Satoshi Nakamoto, uno pseudonimo utilizzato dall’inventore della prima criptovaluta (valore la cui movimentazione e gestione si basa sulla crittografia, contenuta appunto nella blockchain) conosciuta come “Bitcoin” - di cui ancora non si conosce la vera identità - che la blockchain ha iniziato la sua ascesa (nel caso del Bitcoin vi è una rete di persone che non si conoscono, che possono generare moneta e farla circolare in mancanza di un’autorità che ne convalidi le movimentazioni; infatti gli scambi iscritti nel “libro mastro” della blockchain vengono aggiornati costantemente dagli utenti sparsi nel mondo). Per le transazioni di questi strumenti finanziari criptati è necessario tenere un registro di carico e scarico che consenta di tracciare entrate ed uscite di valore così come avviene per ogni scambio. E proprio questo tracciamento effettuato e controllato da migliaia di utenti che rende sicuro lo strumento insieme alla tecnica matematica degli algoritmi definita “hashing”. La funzione di hashing produce una stringa di lunghezza fissa per determinare un’impronta digitale che caratterizza la banca dati o comunque ogni singola transazione che si vuole inserire nella blockchain; bisogna considerare che la funzione produce un valore unico e caratteristico e che non è invertibile nel senso che, se è facile calcolare l’hash di un dato. è molto difficile, quasi impossibile, risalire ai dati originali che lo hanno generato. Se ciò dovesse accadere significa che l’algoritmo di hashing è vulnerabile, viene dichiarato insicuro e viene eliminato. Queste funzioni di hash sono il contenuto di ogni maglia della catena della blockchain e ne determinano quindi il grado di sicurezza in quanto con un procedimento di confronto tra l’hash originario e quello ricalcolato dopo degli inserimenti o delle modifiche aggiuntive di dati è possibile determinare l’integrità del dato o la sua eventuale manomissione.

La blockchain, nello specifico, nasce in risposta alla crisi finanziaria del 2008 dove pochi attori (che peraltro si sono arricchiti) hanno gestito tutto il sistema finanziario che, con il suo crollo, ha colpito e danneggiato nazioni e migliaia di operatori economici (soprattutto aziende e piccoli investitori). Quindi la blockchain nasce a tutela e protezione di tutti gli utenti, piccoli operatori compresi, e cerca di contrastare il dominio di sistemi non trasparenti gestiti da pochi potenti soggetti al fine di restituire alle persone uno strumento digitale sicuro e disintermediato con la finalità dell’autocontrollo da parte della rete.

Ma è nel 2016 che la stampa inizia a parlare in modo pressante di blockchain e della possibilità che questa possa rivoluzionare il digitale; si assiste ad una crescita esponenziale di progetti con tecnologia blockchain la cui maggioranza, però è fallita a causa di molti ostacoli normativi e difficoltà nello sviluppo dei progetti.

Poi nel 2020, nel periodo post Covid, i Governi accelerano le sperimentazioni per far emettere delle monete digitali dalle Banche centrali (Central Banks Digital Currencies - CBDC) mentre la Commissione dell’Unione Europea (UE) lavora per un regolamento delle criptovalute e più in generale delle cripto attività (crypto asset).

Nel 2021 si assiste ad un incremento della finanza decentralizzata (decentralizzata rispetto ai centri di controllo individuati nelle banche centrali) mentre le cripto attività guadagnano terreno grazie al potenziamento di alcuni innovativi prodotti, come gli NFT (non fungible token, cioè certificati che attestano la proprietà e l’autenticità di un oggetto digitale o meglio di un file).

Il 16 maggio 2023 il Consiglio europeo ha approvato il regolamento MICA (markets in crypto assets regulation – regolamento del mercato in cripto attività) a suo tempo presentato alla Commissione europea per la disciplina del mercato delle cripto attività, e riguarda criptovalute ed altri patrimoni che non sono riconducibili agli strumenti finanziari tipici.

Sempre più utilizzata in vari contesti la blockchain si presenta come una rete informatica di nodi che permette di gestire ed aggiornare in modo sicuro ed univoco il registro di dati ed informazioni. Ogni blocco è legato al precedente mediante anelli di una catena che sono criptati (hash) per evitare possibili intrusioni esterne malevole. Il sistema dispone di modalità integrate che impediscono l’inserimento di scambi non autorizzati e permettono a tutti gli utenti di visualizzare e condividere le transazioni effettuate così da creare un controllo attraverso la rete. Questa tipologia di monitoraggio permette a moltissimi soggetti utilizzatori di verificare i dati e l’alterazione di essi diviene difficile in quanto il controllo viene svolto in modo capillare da ogni fruitore; in tal modo si fraziona il rischio derivante da possibili alterazioni fino ad annullarlo quasi del tutto. Per poter accedere sono necessarie delle autorizzazioni specifiche ed i dati e le informazioni contenuti nel registro blockchain sono aperti, e condivisi, possono essere aggiornati, senza la necessità di un’entità centrale di verifica; ciò è possibile perché non si può modificare la catena senza il consenso della rete e grazie alle modalità di sicurezza offerte dagli hash.

Le applicazioni finora studiate ed implementate hanno permesso di fare a meno di banche, notai, istituzioni finanziarie, creando dei processi abbastanza sicuri. I vari settori in cui è stata utilizzata tale tecnologia sono:

  • il settore energetico, dove la blockchain viene usata per semplificare l’accesso all’energia rinnovabile o per le piattaforme di commercio energetico da punto a punto (in inglese: peer-to-peer) dove gli scambi avvengono tra computer o dispositivi collegati in una posizione tra loro paritaria, senza cioè la presenza di una server centrale (cioè un computer che gestisce elabora e distribuisce i files di un sito), e che possono cambiare la propria operatività a seconda delle necessità ed utilità (cioè ad esempio passare da fornitori a clienti e viceversa). Un esempio si ha con la vendita di elettricità tra privati quando si hanno le comunità energetiche in cui un soggetto che è proprietario di pannelli solari, può vendere energia in eccesso ai propri vicini¸ il tutto viene gestito attraverso contatori di ultima generazione (smart) che creano transazioni gestite e registrate dalla blockchain.

  • La finanza; in tale contesto la blockchain permette di gestire pagamenti online, conti e attività di compra-vendita di strumenti finanziari come obbligazioni, azioni, valute e materie prime con lo scopo di ottenere profitti dalla variazione nel tempo dei prezzi (il c.d. trading sui mercati finanziari). Ne è un esempio la Singapore exchange limited, società di investimenti che utilizza tale tecnologia per la tenuta di conti interbancari che servono a modulare le migliaia di transazioni finanziarie sul mercato del trading tra gli operatori di tutto il continente asiatico.

  • Il settore dei media e dell’intrattenimento; la blockchain trova qui un valido terreno per il controllo e la gestione del pagamento dei diritti di autore (copyright) a favore degli artisti. Infatti il controllo dell’utilizzo del contenuto delle opere assoggettate al diritto di autore sarebbe attività davvero difficile vista la numerosità dei passaggi e degli scambi di opere soggette a copyright e in tale contesto la tecnologia viene in aiuto per il controllo degli usi, per la gestione delle transazioni e dei pagamenti.

  • Vendita al dettaglio; utilizzata soprattutto per il tracciamento dei movimenti delle merci tra clienti e fornitori; promotore è Amazon retail che utilizza la blockchain per verificare e garantire che tutti i prodotti venduti sulla piattaforma siano originali.

In Italia l’Osservatorio blockchain & Web3 del Politecnico di Milano ha come obiettivo quello di divulgare e far conoscere i temi che riguardano questa tecnologia, cercando di spiegare in modo semplice ed immediato contenuti e funzionamento, mettendone a fuoco opportunità e benefici, nonché punti di debolezza.

In particolare in tema di debolezza del sistema, bisogna sottolineare che la sicurezza della blockchain non è assoluta, e ciò per diverse ragioni. Ci sono stati, ad esempio, casi in cui alcuni progetti o prodotti che utilizzavano la blockchain sono stati compromessi attraverso manomissioni esterne. In particolare non è sufficiente che la sicurezza sia affidata ad un algoritmo matematico o ad un software, anche qualora fosse il più perfezionato o sofisticato, perché la situazione effettivamente da contrastare risiede nell’escludere che un gruppo più o meno ristretto di soggetti possa coordinarsi e decidere, all’interno della catena informatica e con obiettivi malevoli, quale sia la transazione valida e quale non la sia con possibile pregiudizio sulla sicurezza e a danno degli operatori. Un caso che può far riflettere in tale ambito accadde alla piattaforma Ethereum (piattaforma basata sulla blockchainper gestire denaro e per creare nuove applicazioni) che a seguito dello scandalo “the D.A.O.” (acronimo di organizzazione autonoma decentralizzata e nome di una start up che gestiva un fondo d’investimento in criptovaluta - definita Ether - e operava con un contratto smart sulla piattaforma Ethereum) decise di retrocedere nella catena per eliminare delle transazioni illecite, frutto di truffe che fecero perdere circa 60 milioni di dollari (corrispondenti a circa 3,6 milioni di Ether) agli investitori. In quell’occasione la retrocessione era stata dettata dal ripristino della legalità, ma proviamo a riflettere su cosa sarebbe potuto accadere se a capo della retrocessione ci fossero stati soggetti malintenzionati!

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02 Agosto 2024

LA CRISI DEI MUTUI SUBPRIME DEL 2007: APPROFONDIMENTI di Alessandra Di Giovambattista

LA CRISI DEI MUTUI SUBPRIME DEL 2007: APPROFONDIMENTI

di Alessandra Di Giovambattista

 19-09-2024

Una delle più recenti crisi in ambito finanziario si è avuta verso la fine del 2007, è dilagata rapidamente nel 2008 partendo dagli Stati Uniti e coinvolgendo diversi altri Paesi tra cui anche quelli europei, ed è meglio conosciuta come crisi dei mutui subprime. Nello specifico il fenomeno riguarda mutui e prestiti concessi a soggetti che non presentano le dovute garanzie per ottenere un affidamento bancario e quindi sono definiti debitori ad “alto rischio” di insolvenza. Il termine subprime deriva dal fatto che tali tipi di prestiti sono considerati di qualità non primaria in quanto il loro grado di recupero è considerato nettamente inferiore (sub) rispetto ai prestiti ed ai mutui concessi a soggetti con garanzie creditizie sufficienti per essere dichiarati affidabili (prime).

La causa principale della crisi in esame fu dovuta al crollo del mercato immobiliare innescato dalla politica monetaria espansiva che la banca centrale Statunitense, la Federal Reserve, aveva deciso di intraprendere per contrastare gli effetti della precedente crisi del 2001. In quell’anno gli Stati Uniti avevano subito l’attacco dell’11 settembre (di cui tutti ricordiamo le atroci immagini) e si era innescata la crisi dovuta alla bolla internet. Quest’ultima in particolare fu la risultante di un’euforia generalizzata derivante dal progredire veloce delle aziende del comparto informatico, chiamate Dot-com companies. Questa circostanza incrementò le aspettative di crescita e di futuri aumenti del valore dei titoli delle aziende del comparto internet; tuttavia tali aspettative furono del tutto disattese nonostante un iniziale aumento dei valori di borsa dei titoli delle aziende informatiche. Si assistette così al crollo dei mercati azionari che provocò lo scoppio della bolla speculativa producendo perdite tra gli investitori soprattutto nel comparto tecnologico.

Quindi in ragione di questa politica espansiva, nel periodo che va dal 2000 al 2006, negli Stati Uniti, si registrò anche una crescita continua e significativa dei prezzi delle abitazioni; corrispondentemente il diminuire del tasso di interesse, dovuto all’incremento di liquidità, permise l’erogazione di mutui anche a soggetti che come abbiamo detto presentavano un profilo di rischio elevato. Per la concessione di mutui o prestiti le banche non procedevano più con la fase istruttoria con la quale si verifica se il cliente è in grado di restituire il prestito, se cioè possiede uno stipendio o un reddito capaci di coprire il debito contratto.

In più l’aumento della domanda di mutui ipotecari si riflesse ulteriormente sul costo degli immobili che videro un conseguente incremento dei valori e quindi un successivo ampliamento della sovrastima dei prezzi delle abitazioni (c.d. bolla immobiliare) non dovuto ovviamente a situazioni oggettive di mercato. D’altronde le banche, che concedevano prestiti con tale grado di rischio (non andando a valutare in modo adeguato la capacità di rimborso del prestito), in caso di mancata restituzione del debito potevano contare sul pignoramento dell’immobile e conseguente vendita sul mercato, anche perché i prezzi delle abitazioni in quegli anni erano in costante crescita; in poche parole l’immobile per le banche rappresentava comunque un investimento sicuro.

Inoltre lo sviluppo del fenomeno della concessione dei mutui subprime fu rafforzato dalle operazioni di cartolarizzazione; queste ultime, definite come finanza creativa, si concretizzarono nella possibilità, per gli istituti di credito, di poter trasformare il credito vantato nei confronti dei soggetti in un titolo negoziabile sul mercato, ed in particolare la vendita avveniva a favore delle cosiddette società “veicolo”. In tal modo a fronte dei possibili recuperi nel lungo termine (in genere dai 10 ai 30 anni essendo questa la durata dei mutui) le banche preferivano vendere i propri crediti sotto forma di titoli con lo scopo di recuperare immediatamente la liquidità, concedere altri prestiti e trasferire in parte il rischio di insolvenza. In termini più tecnici questo ha significato per le banche poter sfruttare quello che viene definito l’effetto leva finanziaria (leverage) che si crea quando, disponendo di ingenti quantità di liquidità, si possono concedere prestiti anche a soggetti ad elevato rischio di insolvenza. Inoltre i mutui andarono ben oltre il limite permesso, che è rappresentato dal rapporto con il capitale proprio (uno degli indicatori che le banche devono rispettare proprio per evitare fallimenti), secondo determinati valori di sicurezza. Questa strategia molto pericolosa porta immediati profitti, anche molto elevati, ma per contro presenta un altrettanto elevato rischio di perdite di capitale.

Tornando al periodo precedente al 2006 il fatto di recuperare velocemente liquidità incentivò nuovamente gli istituti di credito a concedere ulteriori finanziamenti a fasce di soggetti sempre meno affidabili, mentre nel contempo, le società veicolo si finanziavano vendendo sul mercato titoli a breve termine acquistati maggiormente da piccoli e medi investitori statunitensi ed europei. Fu poi questa in breve sintesi la modalità con cui la crisi si estese in tutta l’Europa ed anche oltre: le banche statunitensi potevano concedere prestiti a chiunque, senza una accurata valutazione del rischio creditizio, in quanto potevano confidare sulla cartolarizzazione del debito che consentiva loro di recuperare immediatamente liquidità e trasferire il rischio di insolvenza sulle società veicolo che a loro volta vendevano titoli agli investitori di tutto il mondo.

Esplose così nel 2007 la bolla del mercato immobiliare statunitense provocando grandi perdite per privati, aziende, istituti di credito; cosa era accaduto? I prezzi degli immobili iniziarono a diminuire, in quanto erano stati artificiosamente gonfiati, e quindi il loro valore rischiava di non coprire l’ammontare di mutuo concesso; così per bilanciare le perdite sulla linea capitale le banche iniziarono ad aumentare i tassi di interesse. Ciò portò come conseguenza l’impossibilità per molti debitori di poter pagare le rate di mutuo (basate su interessi variabili); a fronte di ciò gli immobili furono ripresi dalle banche per la vendita sul mercato ma i prezzi in calo non permettevano loro una rivendita veloce e soprattutto redditizia. Così gli istituti di credito smisero di concedere mutui, il mercato immobiliare si bloccò e ciò contribuì a far diminuire ancora di più i prezzi delle case. Ormai il panico aveva travolto il mercato immobiliare ed il sistema finanziario statunitense; il caso più significativo fu il fallimento del colosso della finanza: la società Lehman Brothers. Fu uno dei più eclatanti casi di bancarotta che investì la storia degli Stati Uniti e travolse l’intero mondo finanziario, innescando un effetto domino governato dal panico; il crollo del mercato immobiliare e di numerosi titoli quotati in borsa fu la risultante di una bolla di speculazione che aveva gonfiato per anni i mercati immobiliare e finanziario. Le banche smisero di concedere prestiti e le aziende di molti Paesi si vedevano negato il denaro anche per le attività produttive ordinarie; ciò comportò chiusure di aziende, fallimenti ed incremento della disoccupazione.

Questa crisi così traumatica per molte economie, perché non tutte furono travolte nello stesso modo dagli eventi, ha indotto il mondo bancario a sottoscrivere gli accordi di Basilea 3 con i quali sono state dettate regole di condotta più stringenti per gli operatori finanziari.

Fatto sta che la politica di azzardo morale (in inglese moral hazard che in poche parole implica che per azioni molto rischiose il vantaggio sarà esclusivamente di coloro che le hanno realizzate, mentre in caso di problemi saranno altri a sopportarne le conseguenze negative) attuata dagli istituti finanziari statunitensi, i quali peraltro non sono stati adeguatamente controllati dagli organi preposti (come ad esempio le agenzie di valutazione dei rischi c.d. agenzie di rating), di fatto si è tradotta in un’ondata che ha sconvolto intere economie nonché famiglie e piccole e medie aziende di tutto il mondo. L’architettura è collassata a causa di una politica ed un atteggiamento irresponsabile e superficiale da parte degli operatori; infatti la spirale che si è autoalimentata a partire dalla grande quantità di liquidità ha portato ad un’esplosione dei prezzi degli immobili non supportata da valori oggettivi e presupposti reali che però nessuno ha denunciato o anche solo evidenziato. In più la finanza ha trovato il modo di moltiplicare e di inquinare i mercati di tutti i Paesi attraverso la cartolarizzazione dei debiti contratti, contribuendo così a proliferare e ad allargare il grado di rischio di perdite che poi di fatto si sono verificate anche perché il mercato finanziario non era supportato dal mercato reale. In più le agenzie di rating, cioè quelle deputate a verificare la solidità e la sicurezza delle obbligazione immesse sul mercato, contribuirono non poco ad infettare tutto il mercato in quanto considerarono sicure le obbligazioni emesse per effetto del gioco delle cartolarizzazioni che a sua volta si autoalimentò creando anche ulteriori livelli di cartolarizzazione. Anche le banche investirono in questi strumenti finanziari vacui che vennero posti a base delle riserve e considerati come una salvaguardia dei depositi bancari.

L’analisi a posteriori vede come attori e responsabili gli istituti finanziari, le agenzie di rating, i finanzieri creatori della finanza innovativa, la politica fortemente espansiva della banca statunitense centrale (la FED) che portò a livelli molto bassi i tassi di interesse, e non ultimo il potente strumento dell’informazione di massa che spinse gli investitori, poco attenti e preparati, a scommettere su strumenti innovativi e che promettevano lauti guadagni. Alla fine il risultato fu che il valore effettivo degli immobili era decisamente molto più ridotto del valore per il quale si era concesso il mutuo, i tassi di interesse che poi iniziarono a crescere divennero insostenibili per i proprietari che avevano contratto debiti e che non avevano solide fonti di reddito, le banche si trovarono a svendere immobili finiti sul mercato delle aste e a non avere più liquidità per il mercato reale, produttivo che collassò anch’esso dopo breve tempo provocando un forte aumento del tasso di disoccupazione e un crollo del livello dei redditi. E’ facile intuire quali furono le vittime, che ancora oggi ne pagano le conseguenze, mentre rimane un dubbio su coloro che si sono arricchiti da questa crisi….Forse viene subito in mente una considerazione: si potrebbe essere arricchito tutto il sottobosco dell’economia malavitosa che potendo contare su un altissimo grado di liquidità ha potuto acquistare patrimoni immobiliari a prezzi davvero stracciati, e acquisire la proprietà di aziende ormai costrette quasi al collasso? E’ d’obbligo una profonda riflessione.

 





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19 Settembre 2024

DALLA CREAZIONE DELLE ZONE ECONOMICHE SPECIALI ALLA ZONA ECONOMICA SPECIALE PER IL MEZZOGIORNO di Alessandra Di Giovambattista

DALLA CREAZIONE DELLE ZONE ECONOMICHE SPECIALI ALLA ZONA ECONOMICA SPECIALE PER IL MEZZOGIORNO

di Alessandra Di Giovambattista

 15-10-2024

Con il decreto legge n. 91 del 20 giugno 2017 sono state istituite in Italia le Zone Economiche Speciali (ZES) con l’obiettivo di dare vigore e produttività a zone meno sviluppate ed in transizione economica presenti nel nostro Paese. Il regolamento di istituzione delle ZES era contenuto nel DPCM del 25 gennaio 2018, mentre successivi provvedimenti hanno modificato l’originaria legislazione. Le aree interessate sono quelle portuali e quelle limitrofe e ad esse collegate situate nelle regioni meridionali, che la programmazione europea del 2014 – 2020 aveva diviso in zone “meno sviluppate”, quelle situate in Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia e zone “in transizione” quelle localizzate in Abruzzo, Molise e Sardegna. Come vedremo, però, la legislazione è stata modificata per effetto del recente D.L. n. 124 del 2023.

Le realtà legate alle zone economiche speciali sono individuabili in diverse regioni del mondo; in totale sono stimate circa 4.000 aree ZES. Nello specifico sono presenti in Cina, nelle Filippine, nella Corea del Nord, in Russia ed in Europa le ritroviamo in Irlanda, Portogallo e Polonia. Si caratterizzano tutte per l’individuazione di aree dove sono riconosciuti benefici fiscali e semplificazioni amministrative con la finalità di far crescere e sviluppare zone che si presentano più arretrate o con maggiori difficoltà di sviluppo economico.

Sono aree specifiche, individuate all’interno di una nazione, in cui vengono eliminate le barriere commerciali, come ad esempio adempimenti burocratici, dazi, sovraprezzi, al fine di rendere più fluidi gli scambi ed attirare nuovi investimenti. Per sfruttare al meglio le opportunità, infatti, le ZES sono normalmente posizionate in ambiti geograficamente predisposti per gli scambi commerciali come porti e aeroporti, dove è più facile disporre e far entrare in sinergia mano d’opera, materie prime e personale tecnico specializzato per produrre beni e servizi. La ZES diventa così un luogo di produzione altamente qualificata, dove si concentrano i fattori produttivi, specialmente il lavoro, con la finalità di sfruttare al meglio il punto di convergenza tra importazioni di materie prime, semilavorati, componenti e flussi di esportazioni di prodotti e merci verso paesi esteri.

Occorre evidenziare che l’esempio forse più significativo in questo ambito può essere ricondotto all’esperienza cinese dove nei primi anni del 1980, e precisamente a partire dalla politica della “porta aperta” del 1978 portata avanti da Deng Xiaoping (successore di Mao Zedong), fu individuata la città di Shenzhen per implementare queste politiche di benefici e vantaggi che ha portato a successi davvero inaspettati. In Cina, più che di città, occorre parlare di ampie aree metropolitane e l’area di Shenzen si presentava povera con un’economia basata essenzialmente sulla pesca. In circa trent’anni l’area ha visto il passaggio da un’economia primordiale ad un centro di attrazione di numerosi investitori ed oggi è una città fortemente industrializzata e tra le più popolose della Cina (circa 12 milioni di abitanti); in essa si è assistito ad una valorizzazione del territorio che ha anche sviluppato e migliorato la sinergia con le zone limitrofe.

Così il buon successo ottenuto dall’area di Shenzen ha spinto verso queste politiche di incentivazione e di benefici e molti altri Paesi hanno adottato tali misure economico-fiscali che sembrano avere effettivamente un forte appeal per le aziende. Fa riflettere anche il caso di Dubai che rappresenta forse il caso di ZES più famosa al mondo con la creazione del Dubai Financial Centre (DIFC) che rappresenta una zona finanziaria libera, con giurisdizione indipendente in riferimento a diverse problematiche di tipo economico. Parlando di numeri si osserva che il DIFC, attraendo investitori da tutto il mondo, ha raggiunto un numero complessivo di circa 6.000 aziende registrate per la prima volta e nel solo primo semestre del 2024 ha registrato 830 nuove società, con un incremento del 24% rispetto al primo semestre del precedente anno (secondo i dati divulgati dallo stesso DIFC, il 30 luglio 2024). In questo contesto la politica dinamica della ZES è prodromica alla realizzazione di un centro logistico con vocazione al commercio alimentare che alla fine si presenterà come il più grande al mondo; contestualmente è previsto lo sviluppo della rete commerciale nella zona Asio-Pacifico rafforzando così il ruolo di competitor, ma forse sarebbe meglio dire leader, della città di Dubai nella catena di approvvigionamento dei prodotti e servizi che vanno dal fornitore al consumatore finale.

Con uno sguardo all’Europa si possono evidenziare le ZES dell’Irlanda, in particolare quella di Shannon, istituita nel 1959, dove vige un regime doganale speciale e sono garantiti vantaggi fiscali di diverso tipo, e quelle della Polonia, individuate anche con riferimento a specifiche caratteristiche produttive, come per le due aree di Katowice e di Cracovia a vocazione specializzata nell’industria dei trasporti (c.d. automotive).

Con la creazione di tali aggregazioni la politica europea si pone l’obiettivo di aumentare la competitività delle aziende che in esse vi operano, attrarre investimenti da operatori esteri, incrementare le esportazioni, sviluppare la produttività e l’innovazione, e non ultimo rafforzare il mercato del lavoro. Per maggior chiarezza occorre evidenziare che l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) individua diverse tipologie di ZES. Nello specifico: le zone di libero scambio (quelle presso porti ed aeroporti che prevedono esenzioni parziali o totali sui dazi dei beni che utilizzano materie prime importate, le lavorano e poi le riesportano), le export precessing zone (agevolano la riesportazione dei soli beni che vengono lavorati all’interno della zona stessa e il cui processo produttivo aggiunge valore al prodotto finito), le zone economiche speciali propriamente dette (si caratterizzano per la molteplicità delle agevolazioni, benefici e semplificazioni riservati alle aziende che in esse operano e che vi stabiliscono la propria sede), le zone speciali industriali (in esse i benefici sono riconosciuti solo ad aziende operanti in specifici settori che in esse si insediano). Le caratteristiche di ognuna di tali aree, che vengono proposte dalle diverse Nazioni, vengono verificate dalla Commissione europea per definirne l’effettiva operatività e la compatibilità con le norme in materia di aiuti di Stato (cioè il riconoscimento di aiuti finanziari a determinate attività o realtà produttive che presentano delle criticità che si vuole siano rimosse per motivi di politica economica e sociale).

Tornando all’Italia vediamo che l’iniziale esperienza di ZES, avviata nel 2017, ha come obiettivo, così come si legge nella relazione presentata al Senato della Repubblica, di fornire misure di sostegno alla nascita ed alla crescita delle imprese nel Sud d’Italia, mediante l’istituzione delle ZES, prevedendo pertanto semplificazioni, benefici e procedure più snelle per agevolare i cittadini e le attività imprenditoriali. Quindi un focus, un’attenzione rilevante, verso forme di incentivazione dell’imprenditoria giovanile e del processo di innovazione attraverso lo sviluppo di condizioni economiche favorevoli, incentivi fiscali e semplificazioni amministrativo-burocratiche per incentivare nuovi insediamenti industriali o far sviluppare quelli già esistenti nel Meridione.

Le ZES sono state individuate territorialmente all’interno dei confini dello Stato italiano, in zone geografiche ben delimitate ed identificabili che comprendono al proprio interno un’area portuale collegata alla rete transeuropea dei trasporti (trans-European transport networks TEN-T) così come individuata dalla normativa europea di riferimento (cioè il regolamento (UE) n. 1315/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 dicembre 2013). La leva è basata sull’incremento degli investimenti e sulle attività di sviluppo d’impresa. Le zone assoggettabili a tali agevolazioni possono essere proposte dalle Regioni meno sviluppate ed in transizione, e successivamente istituite con Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri che ne verifica il rispetto delle condizioni indicate dalla normativa europea. Le Regioni oltre a proporre le zone devono anche presentare un piano di sviluppo strategico indicando le caratteristiche delle aree individuate e le potenzialità di sviluppo. Sono ricomprese in questi ambiti anche zone senza porti purché contigue, o in associazione con un’area portuale avente le caratteristiche richieste dalla normativa europea.

Il passaggio successivo al decreto del 2017, e sue seguenti modificazioni, che aveva di fatto istituito 7 ZES (ZES Abruzzo, ZES Calabria, ZES Campani, ZES Ionica interregionale Puglia – Basilicata, ZES Sicilia Orientale, ZES Sicilia occidentale e ZES Sardegna), è stato il recente decreto legge n. 124 del 19 settembre 2023 che dal primo gennaio 2024 ha sostituito le precedenti 7 zone economico speciali con un’unica zona: la Zona economica speciale per il Mezzogiorno. Gli obiettivi che si pongono a base della costituzione della nuova zona unica consentiranno di rendere competitive le aziende operanti nel territorio di definizione della ZES unica meridionale, sia quelle già presenti sia quelle che si costituiranno nel tempo. È prevista l’istituzione della cabina di regia ZES presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri che provvederà a coordinare, dirigere, vigilare e verificare le attività svolte all’interno della area delimitata. Gli strumenti informatici a disposizione degli operatori riguarderanno il portale informatico (web) della ZES e lo Sportello Unico Digitale ZES (c.d. S.U.D. ZES) nel quale confluiranno tutti gli sportelli attivati secondo la precedente normativa che aveva individuato le citate 7 zone meridionali.

Indubbiamente la costituzione dell’unica ZES permetterà di far entrare in sinergia tutte le aziende operanti sul territorio in quanto tutte ricomprese nell’area agevolata, senza tenerne fuori alcuna, come sarebbe potuto accadere con la definizione di singole zone. Ci si aspetta che le attività amministrative siano rese davvero snelle, lontano dalle logiche politiche e partitiche, nonché da quelle di tipo malavitoso. Si ricorda che a tale nuova realtà amministrativo-gestionale, rinnovabile per 10 anni quindi fino al 2034, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (il PNRR) ha destinato risorse per 630 milioni di euro per la realizzazione di “Interventi speciali per la coesione territoriale” gestiti dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri.

Ovviamente le risorse messe in gioco obbligano a controlli e monitoraggi seri e costanti se non si vuole, anche questa volta, mancare l’incontro futuro con l’innovazione, lo sviluppo ed il progresso delle potenziali attività svolte dagli imprenditori del Sud d’Italia.

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15 Ottobre 2024

LA ZONA ECONOMICA SPECIALE UNICA SUD: CARATTERISTICHE di Alessandra Di Giovambattista

LA ZONA ECONOMICA SPECIALE UNICA SUD: CARATTERISTICHE

di Alessandra Di Giovambattista

26-10-2024 

Dal progetto iniziale, contenuto nell’articolo 4 del decreto-legge n. 91 del 2017 (c.d. decreto Sud), che prevedeva la creazione di diverse zone economiche speciali (ZES) individuate in specifici territori dell’Italia meridionale, si è passati, con il recente decreto-legge n. 124 del 19 settembre 2023, all’individuazione dell’unica macroarea del Meridione dove applicare le disposizioni a favore delle ZES. La zona unica Sud ha sostituito le 8 zone del Mezzogiorno che erano state individuate dal precedente decreto-legge del 2017 e che riguardavano le Regioni: Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna. La loro istituzione era finalizzata ad incentivare investimenti da parte di aziende già operanti o di nuovi investitori, attraverso benefici di tipo fiscale, nonché facilitazioni ed alleggerimenti di procedure burocratico-amministrative (come ad esempio l’autorizzazione unica per l’avvio delle attività produttive), nelle zone portuali e limitrofe ad esse. Per tali interventi il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) ha destinato risorse per 630 milioni di euro per investimenti in infrastrutture dedicate ai collegamenti con le reti trans-europee di trasporto (TEN-T) e 1,2 miliardi di euro per interventi da destinare a favore dei principali porti del Meridione.  Tuttavia l’avvio di tali nuovi incentivi legati solo a determinate zone del Paese ha fatto ripensare la misura nella sua interezza e, per favorire una programmazione integrata in tutto il territorio e coordinata con le varie attività, si è preferito costituire una ZES unica per il Mezzogiorno. E in tal senso si è cercato quindi di massimizzare e rilanciare sullo scenario economico mondiale la produzione, la competitività e la specificità di tutte le realtà produttive del Sud d’Italia, che rappresentano oggi un tessuto vivo ma che ha bisogno di essere valorizzato al meglio sia in ambito territoriale, sia settoriale. Così si cerca di far crescere al medesimo passo ed offrendo le stesse opportunità, tutte le aziende già presenti sul territorio e tutte quelle che vorranno insediarsi per utilizzare al meglio queste opportunità.

L’unità della ZES è anche spiegata dalla complessiva e generale difficoltà territoriale dell’intera area del Mezzogiorno che si presenta in costante ritardo nello sviluppo e negli investimenti rispetto alla media dell’Unione Europea. In particolare, secondo la pubblicazione DESI 2022 (compendio europeo che analizza l’Indice di Digitalizzazione dell’economia e della società, in inglese Digital Economy and Society Index - DESI), la stagnazione economica del Mezzogiorno è causata dal ritardo tecnologico e da una basso livello di scolarizzazione e tale gap non solo rappresenta un problema per l’Italia, ma assume rilevanza anche per tutta l’area europea, andando ad ostacolare il raggiungimento dell’obiettivo della coesione sociale, economica e territoriale a cui punta l’intera Europa. Pertanto l’estensione della zona ammessa ai benefici, a tutta l’area del mezzogiorno, cerca di colmare la differenza di risultati e performance che il Sud non riesce a garantire: non solo attraverso un’attenzione alle zone portuali e a quelle ad esse limitrofe, ma anche a tutto il territorio meridionale alla ricerca della razionalizzazione e dello sviluppo complessivo di tutta l’area e di tutti i settori affinché le politiche fiscali, basate essenzialmente sulle agevolazioni, possano svolgere al meglio la propria attività di motore dell’economia e dello sviluppo.

Il nuovo decreto-legge pone così un focus particolare anche sulla modalità di governo, cosiddetta governance delle realtà produttive presenti nelle ZES che deve essere adeguato all’unicità dell’ambito territoriale pur nel rispetto di ogni specificità locale. La strategia di sviluppo deve pertanto essere univoca e permettere il rilancio delle regioni del Sud seguendo un percorso unitario ma al contempo differente per ogni settore e territorio: ciò rende la governance complessa ed articolata. Pertanto la ZES unica prevede una Struttura di missione specifica, nell’ambito della Presidenza del consiglio dei Ministri, che raccoglie l’eredità della precedente impostazione legislativa e cerca di agire sui fattori critici delle aziende operanti nel Mezzogiorno. Quindi tutte le misure agevolative fiscali ed amministrative saranno coordinate a livello unitario al fine di gestire in modo coeso ed efficiente tutti i fondi e gli strumenti posti in gioco dalle amministrazioni europee, mediante il PNRR, e nazionali con lo sguardo rivolto verso la crescita armoniosa e sinergica di tutto il territorio meridionale. La sfida si gioca anche sull’impatto che il Sud d’Italia potrà avere per la nazione e per l’Europa tutta, con lo scopo di risvegliare il progresso delle aziende già esistenti ed attrarre le nuove attività produttive. A tal fine è disposto che la struttura di missione possa avvalersi del supporto e delle conoscenze professionali dell’Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa S.p.A - INVITALIA.

Viene prevista quindi l’apertura, presso la struttura di missione, di un portale unico telematico della ZES (portale web) e la predisposizione di una nuova procedura autorizzatoria basata sulla unicità del territorio della ZES. Il portale informatico, anch’esso strutturato presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, fornirà tutte le informazioni necessarie alle imprese per poter godere dei benefici messi a disposizione e creerà i presupposti per accedere allo Sportello unico digitale S.U.D. ZES. Ad esso le aziende dovranno presentare istanze, documenti, programmi e progetti per attivare la procedura tecnica-amministrativa che verificherà i presupposti e rilascerà apposite autorizzazioni, nulla osta e pareri per poter realizzare i progetti presentati sotto l’egida delle normative amministrative e fiscali agevolative. L’obiettivo è quello di gestire all’unisono tutte le procedure autorizzative così da poter rafforzare il processo di efficientamento dell’attività burocratica svolta dalla pubblica amministrazione. Ed infatti l’unica procedura permetterà di non dover duplicare autorizzazioni, documenti, e decisioni; con il coinvolgimento poi di tutti i responsabili dei diversi procedimenti la decisione che verrà presa, giocoforza, in modo univoco troverà la sua naturale composizione nella definizione di un unico parere, decisione e/o autorizzazione che consentirà un’efficace azione ammnistrativa volta all’attuazione dei progetti presentati per la ZES unica per il mezzogiorno. Il portale web dovrà operare cercando di utilizzare i migliori standard tecnologici e rispettando la normativa prevista in materia di transizione digitale. Per ogni azienda verrà così costruito un fascicolo informatico d’impresa dove trovare tutti i documenti presentati per perfezionare il procedimento unico autorizzatorio; in via transitoria le richieste di autorizzazione saranno evase dallo sportello unico per le attività produttive (SUAP) territorialmente competente il quale provvederà ad inviare tutta la documentazione alla struttura di missione ZES.

È stata creata anche una cabina di regia per la ZES, senza oneri aggiuntivi per l’erario, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri con compiti di controllo, monitoraggio, indirizzo e coordinamento; è composta da diversi ministri rappresentanti più settori e vi prendono parte anche i Presidenti delle regioni interessate dalla ZES unica. Tuttavia, con finalità di collaborazione e miglioramento degli obiettivi e delle azioni poste in essere, possono essere invitati a partecipare anche rappresentanti di enti pubblici locali e nazionali ed i portatori di interessi collettivi o diffusi. Nello specifico si parla di interessi collettivi quando vi è un interesse difeso da un’organizzazione, in quanto l’interesse per sua natura non è riconducibile ad un singolo soggetto. Pertanto sarà salvaguardato l’interesse omogeneo riconducibile ad un gruppo di soggetti e come tale è tutelabile esclusivamente attraverso la mediazione di un soggetto collettivo organizzato. L’interesse diffuso è invece riferibile a un complesso di persone non facilmente individuabili nella loro posizione di soggetti portatori di un interesse specifico. Si parla così di azioni intraprese, ad esempio, dai consumatori, o dai rappresentanti delle famiglie, o dagli utenti dei servizi pubblici, a tutela di tutta la categoria, di cui ognuno fa parte, che si muovono in gruppo perché singolarmente non avrebbero una forza contrattuale capace di poter contrastare la parte a cui rivendicare la tutela dei diritti lesi.

Questi quindi, in estrema sintesi gli obiettivi posti dalla nuova legislazione per sfidare la competitività internazionale sempre più forte e basata soprattutto sui processi di innovazione e ricerca che necessitano prima di tutto di ingenti capitali sia umani e sia finanziari.

Non rimane quindi che ragionare sulle eventuali difficoltà e criticità che potrebbero influire sullo sviluppo e l’evoluzione della misura qui descritta che se ben valutate ed analizzate potrebbero trasformarsi in opportunità, ma questa è un’altra tematica da approfondire.

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26 Ottobre 2024

BREVE STORIA DELLA CASSA PER IL MEZZOGIORNO di Alessandra Di Giovambattista

BREVE STORIA DELLA CASSA PER IL MEZZOGIORNO

di Alessandra Di Giovambattista

09-11-2024 

Ragionare sulla questione meridionale è sempre molto interessante se si pensa alle cause che, dopo la nascita del nuovo regno d’Italia nel 1870, hanno condizionato il perdurare di una nazione sostanzialmente depressa ed arretrata. In sintesi si può dire che i diversi tentativi di modernizzazione del Paese hanno di fatto generato una crescente spaccatura tra le diverse regioni. Se è vero che l’inizio dell’industrializzazione parte generalmente da zone ben delineate di una Nazione, è anche vero che il processo poi si dovrebbe allargare a macchia d’olio per effetto del movimento dei lavoratori, del progresso tecnologico e degli investimenti di capitale. Tuttavia ciò non avvenne perché dopo l’Unificazione d’Italia furono prese delle decisioni che si può senza alcun dubbio definire come penalizzanti per il Meridione.

Infatti il Regno di Napoli aveva introdotto delle tariffe protezionistiche proprio per tutelare il proprio tessuto imprenditoriale; ovviamente con l’unificazione le tariffe vennero abolite, ma ciò avvenne in modo drastico, senza un periodo di transizione e ciò provocò numerosi fallimenti delle aziende presenti sul territorio. In particolare collassarono le aziende tessili collocate in diverse zone del Sud; in particolare fallirono le aziende tessili della seta del rinomato complesso di San Leucio (in provincia di Caserta), con l’aggravio che i suoi macchinari furono portati a Valdagno dove si creò la prima fabbrica tessile del Veneto! Una domanda è d’obbligo: perché non furono investiti i capitali nella stessa zona di San Leucio e le attrezzature lasciate dove erano? Quello che fu fatto a Valdagno perché non si poteva fare a San Leucio? La risposta è ben evidente: motivi territoriali e di mentalità ancora chiusa e medievale ancorata al potere dei territori italiani del nord che volevano una supremazia rispetto ai territori meridionali. Stessa sorte toccò alle cartiere di Sulmona e alle ferriere di Mongiana i cui macchinari furono smantellati e reinstallati in Lombardia. E anche qui le considerazioni sono le medesime: perché non sono state potenziate e innovate le strutture già esistenti al Sud? Perché si è preferito spostare a Nord le produzioni lasciando che il territorio meridionale si impoverisse sempre di più? Ulteriore conseguenza fu la forte emigrazione verso paesi esteri perché al Sud non era più possibile trovare lavoro. A ciò si aggiunse il fatto che gli appalti per la costruzione delle infrastrutture nel mezzogiorno furono tutti affidati ad imprese settentrionali, in particolare piemontesi e lombarde che furono pagate attraverso l’utilizzo di risorse essenzialmente prese dal Sud a cui furono imposte tasse molto pesanti. Il tutto provocò grande scontento tra le popolazioni meridionali che videro traditi i principi ispiratori dell’unificazione italiana; ormai i piemontesi erano visti come sfruttatori e depredatori di risorse.

Ma c’è di più; il governo della giovane nazione italiana pensò bene di ripristinare la tassa sul macinato, fu aumentato il prezzo del sale e dei tabacchi, le riserve d’oro del Banco di Napoli e di diversi altri istituti bancari del Sud furono versate nelle casse del Banco di Sardegna, i beni della Chiesa vennero venduti all’incanto e diversi rappresentanti del clero furono deportati o arrestati, negli uffici pubblici furono occupate solo persone piemontesi. In poche parole dopo l’unificazione il modello economico, politico, amministrativo e sociale che soppiantò tutte le differenti organizzazioni presenti sugli altri territori fu il modello piemontese, ispirato da Cavour, secondo una non verificata credenza che il modello francese fosse di fatto il più efficiente e senza provare ad immaginare un modello italiano originale. Tra le altre innovazioni egli proposte una politica liberista di commercio con la Francia che ebbe il solo fine di garantire il riconoscimento dell’Italia nel contesto internazionale; infatti dal punto di vista economico ciò costò molto sia al Nord, che non era ancora in grado di competere con le imprese presenti nelle nazioni più sviluppate (Francia ed Inghilterra), sia al Sud che vide ancora più acuirsi la sua condizione di arretratezza ed il divario con il Settentrione. Ulteriore risultato fu l’ingresso di imprese straniere sul territorio italiano. Bisogna poi sottolineare che sul finire del XIX secolo i territori più sviluppati, anche per le attività agricole, erano soprattutto i territori della pianura lombardo-piemontese che furono di fatto i grandi beneficiari delle azioni di politica economica del Regno d’Italia: in definitiva le risorse finanziarie erariali erano destinate tutte al nord Italia, lasciando di fatto sguarnito il Meridione.

Il divario Sud-Nord continuò così ad aumentare e iniziò anche lo sfruttamento delle masse contadine alimentato dalle baronie latifondiste rafforzate dalla riforma fondiaria sabauda. Fu così che per disperazione e rabbia crebbero le rivolte e si alimentò il fenomeno del brigantaggio; così il Sud non ebbe la forza di innovarsi, o meglio non gli furono offerte opportunità e risorse per cercare di sconfiggere il fenomeno del latifondismo e dello sfruttamento della piccola proprietà agricola. La situazione era così drammatica che non restava che emigrare verso paesi stranieri. Tuttavia l’arretratezza non riguardava solo l’ambito economico, ma soprattutto quello sociale, dovuto ad una popolazione per lo più analfabeta, dove l’istruzione pubblica era poco diffusa e non omogeneamente distribuita sul territorio. Quindi nel momento dell’unificazione l’Italia si presentava come una nazione nel suo complesso arretrata, con poche zone più moderne.

Facendo un balzo in avanti, e sorvolando sul periodo delle due grandi guerre, si arriva al periodo postbellico in cui si assiste ad un vero e proprio miracolo economico, con una crescita ad un tasso elevatissimo, persino più alto di quello registrato negli Stati Uniti d’America e nel Regno Unito. Effettivamente, negli anni 50 i nostri politici si accorsero che il Sud si presentava in una condizione di forte arretratezza e posero la sua rinascita tra i primi obiettivi della Repubblica. I danni provocati dal conflitto mondiale riguardavano soprattutto le vie di comunicazione; erano andati distrutti strade, ponti, ferrovie, linee elettriche, porti. Anche i settori agricolo ed industriale erano stati pesantemente danneggiati. Quasi tutti i rappresentanti dei partiti di allora si sentirono coinvolti a favore della crescita del Sud: i democristiani, i liberali, i repubblicani, i socialisti, ed i rappresentanti del partito d’azione.

Così, nel 1950 fu costituita un’Agenzia chiamata “Cassa per il Mezzogiorno” che aveva l’obiettivo di effettuare investimenti nel Meridione per farne decollare l’economia; alla redazione del progetto partecipò direttamente l’allora Governatore della Banca d’Italia (Donato Menichella). Fu così che le imprese statali iniziarono ad investire ma anche le imprese private, incentivate da ingenti sussidi, iniziarono a creare aziende impiegando notevoli capitali. La Cassa nacque con la legge n. 646 del 10 agosto del 1950, nella veste di ente autonomo, con personalità giuridica e un territorio da amministrare composto dalle regioni del Sud: Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna; ad esse si aggiunsero porzioni di territorio nel sud del Lazio, alcuni comuni di Roma e di Rieti, alcune aree delle Marche e della Toscana.

Durante i primi anni di vita la Cassa usufruì di autonomia sia nella pianificazione degli interventi che nella gestione delle risorse finanziarie, anche se per onestà di cronaca occorre sottolineare l’influenza degli Stati Uniti nella determinazione dei progetti strutturali. La Cassa fu dotata di un capitale iniziale che proveniva dal finanziamento della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (IBRD) creata dall’Organizzazione delle Nazioni unite (ONU). Le risorse furono concesse sotto la condizione che la loro gestione non fosse affidata a burocrati assoggettabili a pressioni politiche, bensì ad organismi che avrebbero operato sotto la supervisione della IBRD. E di fatto nei primi anni di vita della Cassa si vide l’importanza dell’autonomia della struttura e della competenza tecnica. La legge istitutiva stessa aveva come obiettivo l’eliminazione di ritardi burocratici o ingerenze di diverso genere, soprattutto di natura politica, che avrebbero potuto neutralizzare gli effetti positivi di natura straordinaria, in quanto si dovevano creare rapidamente nuove strutture per ampliare e consolidare il tessuto industriale del Sud. Agli occhi degli osservatori esteri l’esperienza della Cassa nei primi anni di attività apparve positiva, anche se non possono nascondersi difficoltà causate dalla mancanza di collaborazione da parte delle amministrazioni statali e locali le quali peraltro non disponevano di personale qualificato.

Era tuttavia il suo carattere speciale che aveva permesso di creare un’organizzazione con uffici decentrati, precisamente a Roma (per evitare ingerenze locali), di elevato livello tecnico: infatti furono assunti tecnici (con percentuali di laureati pari a circa il 95%) altamente qualificati in diversi settori: agronomi, geologi, ingegneri, geometri, architetti. Il loro compito era quello di programmare e pianificare gli investimenti in infrastrutture mediante l’utilizzo delle risorse a disposizione della Cassa. Gli osservatori esteri inviati dalla IBRD testimoniarono che i tecnici posti alla direzione della struttura era di elevato spessore professionale e questo non poteva che garantire la bontà dell’azione e l’efficienza nel raggiungimento degli obiettivi.

Purtroppo però l’indipendenza e le capacità tecniche della Cassa non furono mantenute a lungo; dopo 15 anni la politica voleva riprendersi il suo dominio sull’attività di ricostruzione del Sud e assegnò la supervisione dei programmi al Ministero per l’intervento straordinario per il Mezzogiorno che poteva arrivare a dichiarare lo scioglimento dell’Agenzia in caso di inosservanza delle linee guida impartite dal dicastero. Fu così che tutti i ministri per il Mezzogiorno dai primi anni settanta, usarono i loro poteri amministrativi in modo invasivo: la Cassa aveva smesso di essere un ente autonomo! Inoltre negli anni 70 con la creazione delle Regioni e l’attribuzione ad esse di poteri sostanziali si frammentò l’azione della Cassa e ne iniziò così il collasso. Infatti le Regioni aumentarono l’ingerenza politica sull’operato dell’Agenzia, che peraltro si suddivise in diverse realtà locali; tutti i tecnici furono sostituiti da personale di fiducia partitica.

Praticamente all’inizio degli anni 80 le risorse devolute come trasferimento di reddito per sostenere le condizioni di vita nel breve periodo (praticamente clientele dirette) superarono quelle destinate agli investimenti. Si persero così l’autonomia e l’indipendenza delle scelte strategiche che avevano guidato la Cassa nei primi 15 anni e ne avevano garantito l’efficienza dell’operato. Così lo Stato dimostrò la totale inadeguatezza nella gestione delle risorse per il Sud che furono dirottate, attraverso una amministrazione poco trasparente delle risorse, verso clientele partitiche nazionali e locali. A ciò si affiancò non solo una diminuzione dei sussidi ordinari all’industria in questa zona del Paese rispetto alle altre aree, ma anche l’invio di aiuti industriali al Sud a favore di imprenditori locali che ottennero risorse pubbliche ma non produssero alcun tipo di risultato sul piano economico industriale.

La missione della Cassa per il Mezzogiorno, dopo un biennio di commissariamento (dal 1984 al 1986) fu affidata all’Agensud, che rimase operativa fino al 1993, anno in cui se ne dichiarò il fallimento. Le cause del totale collasso furono l’incapacità di gestire con trasparenza, tempestività ed economicità le risorse destinate al sud: almeno 21 miliardi di vecchie lire, destinate al Sud, non arrivarono mai!

 

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09 Novembre 2024

ASCESA E DECLINO DELLA CASSA PER IL MEZZOGIORNO: LE CAUSE. di Alessandra Di Giovambattista

ASCESA E DECLINO DELLA CASSA PER IL MEZZOGIORNO: LE CAUSE.

di Alessandra Di Giovambattista

 12-11-2024

L’Italia del dopo guerra ha visto una crescita economica a ritmi elevati arrivando a collocarsi tra i Paesi più avanzati, grazie al c.d. miracolo economico che ha industrializzato ed innovato, anche nella cultura e nella mentalità, il nostro tessuto sociale e produttivo ed in cui la Cassa per il Mezzogiorno può essere considerata, almeno per l’attività svolta nei primi 15 anni, l’attore fondamentale della crescita industriale nel territorio Meridionale e non solo. In quel periodo si era ben compreso che lo sviluppo doveva essere omogeneo e riguardare tutti i territori italiani in quanto una nazione è solida solo quando c’è equa distribuzione delle risorse e pari opportunità che consentono di tenere un passo sincrono in tutte le zone del Paese.

La rinascita del Mezzogiorno passava necessariamente attraverso un processo di industrializzazione ed ammodernamento con l’obiettivo di creare nuovi posti di lavoro e cercare di trattenere il fenomeno della emigrazione. I primi lavori della Cassa, all’inizio degli anni 50, riguardarono le infrastrutture fondamentali cioè “sistemi coerenti di opere straordinarie”, che dovevano garantire salubrità e sicurezza del territorio; si iniziò quindi dalle grandi bonifiche territoriali, dalla sistemazione dei territori montani, degli acquedotti e delle fognature. Si costruirono strade e ferrovie che erano alla base di quelle opere civili che avrebbero dovuto sostenere il successivo processo di crescita industriale in tutti i settori. Successivamente infatti la Cassa si concentrò sul potenziamento dell’industria, armonizzandola con la crescita economica complessiva del Paese, attraverso la concessione di prestiti a tasso agevolato e di sovvenzioni a favore delle aziende che avessero installato a Sud i propri impianti; fu curata anche l’istruzione, soprattutto quella professionale.

Così sul finire degli anni 50 con il boom economico inizia il processo di industrializzazione con un’attenzione particolare ai territori dove già esistevano degli agglomerati produttivi, una posizione economica favorevole agli scambi ed un gruppo ampio di Comuni limitrofi ad un centro principale, in grado di garantire mano d’opera. Pertanto la strategia si concentrò sui “poli di sviluppo”, cioè aree in grado di utilizzare le sinergie garantite da reti industriali formate da nuove fabbriche complementari al polo centrale, da infrastrutture di collegamento e di servizi, da lavoratori con mansioni e capacità diversificate. Così sul territorio Meridionale furono create le “aree di sviluppo industriale” ed i “nuclei dell’industrializzazione”; per implementarne la crescita furono devoluti incentivi finanziari per l’installazione di impianti e strutture. Dapprima le risorse finanziarie furono garantite a piccole imprese essenzialmente territoriali, ma dopo furono devoluti anche ad imprese di più grandi dimensioni provenienti dal Nord Italia. Inoltre per incrementare il decollo economico le normative esistenti obbligavano le imprese di proprietà statale ad ubicare i nuovi investimenti e le relative attività per il 60% nel Meridione.

Secondo le relazioni fornite dalla Cassa per il Mezzogiorno, alla fine degli anni 70 la maggior parte degli investimenti nei poli di sviluppo erano stati finanziati con prestiti agevolati e sovvenzioni e direzionati verso attività ad alta intensità di capitale (capital intensive) nel settore chimico, metallurgico, ed ingegneristico. Solo una quota pari al 10% era stato devoluto ad altre attività a maggior intensità lavorativa (labour intensive) come i settori tessile, dell’abbigliamento, calzaturiero, del legno e dei mobili, della carta, del cuoio, praticamente tutte le attività più artigianali e che avrebbero potuto garantire una maggior sinergia ed armonia tra capitali, territorio e lavoratori. Così in quel periodo circa il 70% della forza lavoro del meridione fu impiegata nelle due grandi aziende private, la FIAT e la MONTEDISON.

Tuttavia quello che poteva sembrare un punto di forza e sicurezza si dimostrò, dopo breve tempo, un grande limite durante la crisi di stagflazione degli anni 70 (fenomeno di natura economica mai osservato prima delloshock petrolifero del 1973/1974. Con tale termine si definisce la contemporanea presenza di mancanza di crescita produttiva e aumento dei prezzi costante, due fenomeni che non si potevano giustificare se non in presenza di cartelli oligopolistici tra produttori di materie prime e di energia) e con i rapidi processi di innovazione tecnologica. Di fatto la presenza di grandi aziende, peraltro molto moderne per l’epoca, aveva sicuramente attivato il processo di sviluppo ma non può negarsi che le modalità con cui esse operavano sul territorio erano decisamente avulse dal tessuto produttivo della zona. Infatti non riuscirono, o forse non vollero, costruire le reti dell’indotto e sviluppare le sinergie territoriali e quindi quelle gigantesche realtà industriali furono ben presto definite “cattedrali nel deserto” perché da poli di attrazione di capitale e lavoro divennero, da lì a pochi anni, concentrazioni industriali abbandonate, a causa della recessione, con conseguente aumento della disoccupazione e distruzione del territorio. Così iniziò il declino dell’attività della Cassa - e con essa di tutto il sistema produttivo del Mezzogiorno - che non riuscì a contrastare la depressione economica con valide politiche pubbliche. Ciò fu il prodotto dell’inclusione degli interessi dei politici, sia statali sia regionali, nella gestione degli interventi e dei finanziamenti e del cambiamento dei vertici e di tutto il personale della Cassa per accontentare clientele personali e partitiche. Passarono in secondo piano gli interventi civili e strutturali legati direttamente al territorio, come i trasporti, la costruzione di ospedali civili, gli interventi in agricoltura. Anche in questo caso aveva vinto l’ingordigia di pochi potenti soggetti politici, amministrativi e rappresentanti di organizzazioni malavitose che si spartirono grandi fette di denaro pubblico in cambio di progetti mai realizzati o di costruzioni inutilizzabili.

Volendo quindi trarre delle conclusioni si evidenzia che nei primi due decenni di vita l’attività della Cassa, anche grazie alla supervisione di soggetti esteri ed alla effettiva autonomia dagli interessi politici (che permise anche di scegliere come responsabili della struttura un gruppo di professionisti valutati per merito), contribuì a rendere industrializzato e produttivo il meridione riducendo notevolmente il divario Nord-Sud. Ma all’inizio degli anni 70, complice anche la depressione economica, si assistette a sprechi di risorse in termini di errate strategie di investimento e di veri e propri fenomeni di appropriazione indebita di fondi pubblici. Una importante iniziativa, nata dall’intuizione di notevoli politici di allora, tra cui Pasquale Saraceno e Alcide De Gasperi (volendo citarne solo alcuni), fu travolta e sconvolta da interessi personalistici di politici che foraggiarono clientele e corruzione e dispersero in tal modo risorse destinate ad un territorio che ancora oggi è caratterizzato dalla arretratezza pur avendo risorse, soprattutto umane, di notevole spessore.

L’analisi delle cause dell’infausta fine dell’esperienza dell’attività della Cassa per il mezzogiorno possono aiutare a mettere a fuoco alcuni aspetti che potrebbero far riflettere in termini di politiche per il Mezzogiorno che ora si intende affrontare con la ZES unica Sud. L’esperienza passata dovrebbe indurre prima di tutto a tenere fuori dalla gestione delle risorse pubbliche politici statali e locali; questi dovrebbero limitarsi a dettare le linee guida degli interventi di potenziamento del tessuto produttivo del Meridione. In seconda battuta sarebbe opportuno creare un organo superiore di controllo serio, trasparente e professionalmente adeguato capace di valutare le attività in corso d’opera e di modificare le strategie in caso di scostamenti dagli obiettivi preordinati. Sarebbe poi auspicabile - invece che aumentare i soggetti che possono inserirsi nel processo di pianificazione e gestione fino a considerare anche le singole associazioni portatrici di interessi locali e particolari (si pensi in tal senso alla cabina di regia della ZES) – creare strutture di gestione snelle e composte da validi tecnici italiani, scelti con modalità meritocratiche e non attraverso procedure clientelari (così forse si potrebbe anche arrestare un po’ la fuga all’estero dei nostri giovani professionisti altamente qualificati), che dovrebbero agire con rapidità e capacità di risoluzione dei problemi: solo così si potranno creare le basi per una sfida competitiva internazionale che restituisca il giusto peso al Sud Italia.

Un’attenzione particolare va poi posta alle attività che si presentano culturalmente e tradizionalmente legate al territorio tutelando pertanto: il settore primario (agricoltura, pastorizia, silvicoltura, viticoltura), i cui prodotti si collocano sul mercato interno e mondiale con caratteristiche di unicità e di elevato livello qualitativo; le attività artigianali ed artistiche tipiche di alcune zone del Meridione (si pensi, potendo fare pochi esempi, al patrimonio artistico e culturale presente nel Leccese dove si lavora la cartapesta, o la lavorazione del corallo nelle zone della Campania, la lavorazione del cuoio e del pellame dei ricami e dei tessuti della Sardegna); le attività industriali di produzione di beni finiti e semilavorati gestite da aziende locali nei diversi settori: alimentare, tessile, del legno e del mobilio, vinicolo, ecc. La tutela e la cura di queste produzioni locali aiuterà il territorio a diversificare le attività, a creare rete ed indotto con le attività produttive principali, a garantire una crescita armoniosa e partecipata, e soprattutto consentirà di creare attività che permettono lo sviluppo creativo ed innovativo dei singoli soggetti presenti sul territorio coinvolgendoli così direttamente nello sviluppo produttivo locale. E’ infatti importante, per chi vive in zone di sottoccupazione, sentirsi protagonista del proprio riscatto socio-economico ponendo fine a stereotipi e classificazioni spesso false e produttrici solo di rabbia e divisione nel popolo italiano.

Andrebbe infine fatta una profonda analisi sulla strategia finanziaria e di politica economica: spesso offrire incentivi fiscali o prestiti agevolati può rappresentare una valida strategia nella fase iniziale di decollo economico, ma successivamente le attività industriali devono saper camminare con le proprie gambe: garantire un livello adeguato di remunerazione del capitale ma anche una capacità di autofinanziamento che possa far investire in innovazione tecnologica e ricerca, affrontare il mercato finanziario con attenzione e capacità cercando di attirare nuovi investitori - nazionali e esteri – creare un processo di fidelizzazione nei lavoratori e in generale in tutti i portatori di interesse (i c.d. stakeholders). Infatti l’esperienza passata della Cassa ha evidenziato che ricevere sussidi non stimola le imprese a migliorarsi costantemente, ma anzi le fa sentire in una confort zone, e che occorrerebbe anche evitare deflussi di risorse che, a dir la verità - così come peraltro dimostra la storia e a differenza di quanto affermi la comune narrazione – sembrerebbero aver preso la via verso le attività produttive del Nord, invece che restare al Sud. Così infatti si è poi conclusa l’esperienza della Cassa per il Mezzogiorno: le risorse finanziarie pubbliche hanno foraggiato essenzialmente le imprese del settentrione che ad un iniziale processo di attività produttiva hanno fatto seguire un disinteresse verso il perdurare nel tempo delle imprese create al Sud (concetto che si pone alla base della sopravvivenza di qualsiasi azienda) che sono di fatto collassate di fronte alle difficoltà della crisi degli anni 70 ed hanno prodotto licenziamenti dei lavoratori, smantellamento delle fabbriche (ritornando però a produrre esclusivamente nel Nord, forti anche degli incentivi ottenuti per il Sud in esso utilizzati solo in parte) e creazione di falsi miti di arretratezza ed incapacità culturale e produttiva dei connazionali meridionali!

 

 

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12 Novembre 2024

IL POLO INDUSTRIALE (CLUSTER) DEL LEGNO MADE IN ITALY di Alessandra Di Giovambattista

IL POLO INDUSTRIALE (CLUSTER) DEL LEGNO MADE IN ITALY

di Alessandra Di Giovambattista

 27-11-2024

Il 20 luglio del 2023 la rassegna stampa del Ministero dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste ha dato notizia della sottoscrizione del protocollo di intesa che ha avviato il primo cluster italiano del legno. Ma cosa si intende per cluster? Con tale termine si identificano dei poli industriali dove si trovano aziende che svolgono attività in un determinato settore tra loro complementari od omogenee; in tali aree si trovano istituzioni pubbliche, imprese, università che lavorano con l’intento di raggiungere in sinergia obiettivi di massimizzazione economica. Possiamo trovare diversi gruppi di cluster sul nostro territorio in ambiti diversi, dagli elettrodomestici all’abbigliamento, ma tutti con l’obiettivo di creare valore in termini di conoscenza ed innovazione anche mediante l’utilizzo di nuove risorse umane specializzate o la formazione di lavoratori già presenti in azienda. Le istituzioni pubbliche inserite all’interno di questi gruppi di settore fungono da collegamento con le parti politiche, in particolare il Governo, alle quali poter rappresentare in tempi brevi necessità ed istanze che potrebbero rendere più efficaci le attività produttive. 

Così il cluster del legno, seguendo le linee generali, è il primo passo verso il raggiungimento degli obiettivi contenuti nel piano strategico nazionale forestale. Il ministro Francesco Lollobrigida ha sottolineato che il polo italiano del legno riuscirà a sfruttare al meglio le sinergie nell’ambito della ricerca, della produzione dei manufatti in legno (filiera del mobilio e di tutte le imprese ad essa collegate) e della sostenibilità ambientale con la crescita di un “sistema foresta sano” che permetta di utilizzare il legno in modo economico. In tal modo l’Italia si pone come apripista per tutta l’Europa per lo sviluppo e l’utilizzo ecocompatibile del legname; la nostra Nazione avrà così una autonomia nella produzione di legno di qualità, senza dipendere più dalle importazioni estere con il vantaggio di utilizzare legname a chilometro zero e con benefici indubbi sull’ambiente. Si raggiungerà così l’obiettivo della sovranità forestale. In tal modo oltre ad utilizzare materia prima nazionale, si riuscirà anche, e soprattutto, ad assorbire maggior monossido di carbonio dall’atmosfera, attraverso la funzione clorofilliana. Obiettivo connesso sarà manutenere il territorio, evitando frane ed esondazioni dei fiumi consentendone invece un deflusso dell’acqua in modo ordinato e controllato. 

La strategia forestale così implementata si basa anche sulla collaborazione con il mondo dell’industria della trasformazione del legno e della ricerca con l’obiettivo di raggiungere e garantire la sostenibilità delle foreste e incrementare la bioeconomia circolare. Si è iniziato a parlare di bioeconomia circolare a ridosso del patto verde europeo del 2020 (il c.d. Green Deal) che mira a promuovere il consumo sostenibile e la rigenerazione delle risorse utilizzate per un lasso di tempo che sia il più lungo possibile. In pratica il cambiamento economico che viene richiesto investe l’economia, i temi sociali ed ambientali, il tutto con lo scopo di generare una movimento circolare delle materie prime e dei processi produttivi che garantiscano competitività e nuovi posti di lavoro. Tale cambiamento prende il nome di bioeconomia che si caratterizza per le basse emissioni inquinanti, la salvaguardia dell’agricoltura e della pesca, la garanzia di livelli elevati di sicurezza alimentare, l’utilizzo, da parte delle produzioni industriali, di risorse biologiche rinnovabili che garantiscano la biodiversità e la tutela dell’ambiente. In definitiva l’economia circolare non può essere pienamente sviluppata senza la bioeconomia; infatti tutti i rifiuti organici e gli scarti provenienti dal settore primario possono essere riutilizzati solo in presenza dell’economia circolare alimentata dai processi di bioeconomia. Ma vale anche l’opposto cioè la bioeconomia potrà svilupparsi solo in presenza di circolarità nei prodotti e nelle materie prime. 

In tal modo l’industria del legno potrà rappresentare un punto di forza dell’economia italiana introducendo innovazione, bellezza e sostenibilità ambientale; tra i soggetti partecipanti al cluster italiano, che sono quattordici, troviamo: CNA, Confartigianato, CNR, Università di Padova, della Tuscia, della Basilicata, Confcooperative, volendo citarne solo alcuni. Si auspica un lavoro di collaborazione e sinergia tra i diversi cluster omogenei presenti sul territorio che permetta di sviluppare particolarità e specificità locali senza alimentare guerre e comportamenti di concorrenza scorretta. Tra i diversi compiti c’è quello di valorizzare i prodotti italiani derivanti dal legno cercando di certificare qualità, sostenibilità e tracciabilità. Le università hanno l’importante compito di sviluppare ricerca ed innovazione anche per provare a creare delle filiere economiche totalmente italiane al 100 % nella produzione del legno-arredo. 

Così il cluster permetterà ai diversi attori pubblici e privati di dialogare tra loro, chi con la ricerca, chi con la legislazione ed il controllo, chi con l’attività produttiva. Inoltre riuscirà ad attuare le linee guida segnate dal Testo unico in materia di foreste e filiere forestali finalizzato al miglior utilizzo delle risorse boschive nel rispetto delle politiche ambientali. I dati prodotti dal rapporto FAO del 2022 presentano un’Italia con il numero delle aree boschive in crescita: in 10 anni sono aumentate di circa 587 mila ettari. Tuttavia dette aree denotano anche un livello elevato di fragilità in quanto sono vulnerabili al dissesto idrogeologico ed agli incendi per la mancanza di opera di prevenzione e manutenzione. Ma c’è di più in quanto il cambiamento climatico ha portato nuovi parassiti e nuovi problemi fitosanitari, come il bostrico che attacca principalmente l’abete rosso o il cinipide galligeno che ha fatto strage di castagni. Pertanto è urgente una gestione attenta dei boschi che controlli costantemente la salute delle piante e del territorio. 

 Secondo i dati di consuntivo per l’anno 2022 della Federlegno Arredo l’Italia copre circa 11,1 milioni di ettari con bosco ad altro fusto che corrispondono a circa il 36% del territorio nazionale. Le attività legate alla silvicoltura e all’industria del legno e della carta producono circa l’1% del PIL, mentre la produzione della filiera legno-arredo rappresenta circa il 4,6% del fatturato manifatturiero nazionale. Importiamo circa l’80% del legno impiegato nelle nostre produzioni, con un utilizzo di legno nazionale per la sola restante parte del 20%. E’ pertanto su questi numeri che pesa la politica che finora è stata intrapresa sulla gestione delle aree boschive, caratterizzata da una sostanziale incuria: ripensare tutta la filiera rendendo più competitiva l’industria italiana del legno e dei suoi derivati, all’ombra di una bioeconomia sostenibile, potrebbe rappresentare un cambio di passo verso la rinascita economica del settore ed il concreto rispetto del Creato. 

 



 



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27 Novembre 2024

IL BILANCIO SOCIALE: UNA SINTESI PER GLI ENTI DEL TERZO SETTORE, MA NON SOLO PER ESSI. di Alessandra Di Giovambattista

IL BILANCIO SOCIALE: UNA SINTESI PER GLI ENTI DEL TERZO SETTORE, MA NON SOLO PER ESSI. 

di Alessandra Di Giovambattista

 29-11-2024

La realtà economico sociale conosciuta come Terzo settore è difficilmente definibile all’interno di uno schema rigido e determinato, presentandosi come un insieme di enti ed associazioni in continua evoluzione sia nella struttura sia nelle finalità. La prima definizione in ambito europeo la si ritrova nella metà degli anni ‘70 e venne utilizzata nel rapporto comunitario del 1978 dal titolo “un progetto per l’Europa”; in esso il terzo settore veniva collocato in modo separato dallo Stato e dal mercato privato produttivo con la finalità di renderlo autonomo ma integrabile tra i diversi ambiti. Ci si trova di fronte a settori diversi posti però non in relazione gerarchica tra di loro, bensì in posizione paritetica e regolati da un rapporto di sussidiarietà. Di fatto le aziende che non hanno finalità di lucro (anche dette no profit) nella loro diversa espressione giuridico economica, come le associazioni, le fondazioni, le ONLUS, le ONG, le associazioni di promozione sociale, oggi vengono tutte ricondotte al terzo settore, con la definizione di “Enti del Terzo Settore” (c.d. ETS), che inizia a prendere piede con la crisi dello stato sociale, meglio conosciuto con il termine anglosassone di welfare. 

In Italia il fenomeno inizia la sua crescita verso la fine degli anni ’80 e contestualmente si riesce a definirne meglio il suo ambito di azione; infatti a fianco del significato economico finanziario, che sottolinea la natura meritoria ma privata dell’attività svolta nella produzione di beni e servizi a favore della collettività, si affianca l’accezione sociologica, che intende sottolineare l’approccio solidale ed altruistico basato sul volontariato da parte degli operatori che si impegnano per raggiungere obiettivi di natura etica e/o culturale senza finalità di lucro. Gli ambiti di azione possono essere diversi e riconducibili, ad esempio, a quelli: ambientale, sanitario, di cooperazione e solidarietà, di inserimento di persone diversamente abili, sportivo, turistico, culturale, di finanza etica, del commercio equo e solidale, ecc. 

La dottrina economico giuridica he delineato alcune peculiarità del terzo settore che riguardano: la mancanza della finalità di conseguire un surplus di reddito positivo (c.d. profitto) e di distribuire eventuali avanzi di gestione (che si determinano dal confronto tra entrate ed uscite); la natura giuridica essenzialmente privatistica delle aziende facenti parte del terzo settore (anche se in alcuni casi è molto presente il controllo da parte di soggetti di natura pubblica); la presenza di organi interni di governo e di controllo; la costituzione mediante atto giuridico formale che contenga l’oggetto dell’attività svolta, le  modalità democratiche di gestione e l’indicazione della quota di lavoro basata su contratti di volontariato. 

Dal punto di vista economico è però interessante notare come queste realtà abbiano puntato la loro attenzione anche sui conti di sintesi, e in tale contesto prende forma il “Bilancio Sociale” in cui l’aggregato fondamentale non è il profitto (anche se occorre sin da ora sottolineare che la gestione di tali realtà si basa comunque sull’utilizzo efficace ed efficiente delle risorse, perseguendo il pareggio di bilancio e contestualmente evitando sprechi di risorse), bensì il “valore aggiunto”, inteso, ad esempio, come la capacità di migliorare le situazioni più emarginate presenti in determinate aree attraverso attività di cura, integrazione e sviluppo di fasce deboli della società. 

A fianco di questo valore sintetico si pone anche la necessità di indagare e rendere trasparente il problema della ricerca dei finanziamenti - mediante contributi pubblici (statali e di enti pubblici in generale) e contributi provenienti direttamente dalle erogazioni liberali dei privati - che vanno a copertura del fabbisogno di finanziamento. In questo ultimo senso si rammenta la possibilità di destinare una parte delle imposte pagate, il c.d. 5 per mille dell’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF), ad attività svolte da ETS. Tale destinazione non implica il pagamento di ulteriori somme ma è semplicemente l’indicazione delle finalità (che sinteticamente sono riconducibili ai settori del volontariato, della ricerca scientifica o universitaria, della ricerca sanitaria, delle attività comunali, delle associazioni sportive dilettantistiche, delle attività di tutela, promozione e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici) che i singoli desiderano conferire alle risorse che lo Stato già percepisce attraverso il sistema tributario. A ciò si aggiunga la possibilità che i singoli contribuenti hanno di poter effettuare erogazioni liberali detraibili e/o deducibili a fini IRPEF direttamente dal reddito prodotto.  

Quindi è in tale contesto che si sono iniziate a intravedere le teorie e le metodologie di costruzione dei Bilanci Sociali; questi si sono originati da due situazioni: una relativa all’evoluzione delle discipline contabili sempre più impegnate a fornire un quadro reale e completo dei fattori produttivi presenti in azienda e dei risultati da questi raggiunti, l’altra legata alla responsabilità sociale ed ambientale nei confronti di tutti i soggetti interessati al proficuo utilizzo delle risorse, i c.d. stakeholders (cioè: dipendenti, investitori, clienti fornitori, Stato, Enti pubblici, azionisti, comunità, ecc). Così inquadrato si comprende perfettamente come il Bilancio Sociale possa essere presentato, e di fatto lo è, non solo dagli enti no profit, ma anche dalle aziende che operano con finalità di lucro. Queste ultime affiancano il bilancio d’esercizio (cioè quello tradizionale composto da Conto Economico e Stato Patrimoniale da cui emerge il flusso di reddito positivo e il patrimonio presente in azienda e con le cui risultanze si possono sviluppare delle analisi economico finanziarie basate sulla costruzione di indicatori di economicità) con il Bilancio sociale che espone risultati di natura qualitativa e di misurazione di efficacia (cioè raggiungimento degli obiettivi posti). 

Già l’economista italiano Paolo Emilio Cassandro nel 1989 (in Rivista italiana di ragioneria ed economia aziendale) aveva evidenziato che il bilancio sociale dà conto del valore aggiunto creato dall’azienda non solo a livello nazionale ma soprattutto a livello locale andando ad esaminarne tutti i rapporti con dipendenti, fornitori, clienti, investitori, ecc, con lo scopo di individuare le migliori modalità di gestione delle risorse nel rispetto e tutela delle comunità sociali, dell’ambiente e delle generazioni future. Così il bilancio sociale contiene valutazioni riferite alle prestazioni aziendali (performance) non solo nelle aree più tecniche dell’efficienza, ma anche, e soprattutto negli ambiti socio-relazionali dell’efficacia. A titolo di esempio possiamo evidenziare alcune tipiche aree indagate dalle aziende profit mediante il bilancio sociale: valutazione della qualità delle relazioni con i clienti (esaminando ad esempio il grado di fedeltà, di fiducia verso l’azienda, l’attrattiva dei suoi prodotti sul mercato) o sulla qualità delle prestazioni verso il personale (ad esempio le ore di formazione, la conflittualità dipendente-datore di lavoro, servizi alle famiglie). Nelle aziende no profit le aree tematiche sono rivolte alla misurazione di aspetti relativi, ad esempio, al grado di integrazione lavorativa di soggetti emarginati sia per motivi medico sanitari sia sociali, di incremento della scolarizzazione di emigrati, di miglioramento economico sociale delle aree in cui sono presenti gli ETS, di recupero ed integrazione di soggetti provenienti da situazioni di restrizione della libertà per detenzione, di recupero e riciclo di materie prime e loro trasformazione, di tutela dell’ambiente e del patrimonio pubblico, ecc. 

In sintesi il bilancio sociale offre un quadro generale del raggiungimento della missione che ogni azienda si pone; nello specifico per gli ETS tale missione si basa essenzialmente sull’integrazione, se non la totale sostituzione, dell’attività di welfare, che dovrebbe essere svolta dallo Stato, con la finalità di soddisfare i bisogni dell’uomo nel rispetto delle peculiarità di ognuno e dell’ambiente nel quale opera: rappresenta un momento di sintesi in cui si vanno ad indagare le necessità di ogni singolo e si coniugano con l’obiettivo della tutela dei diritti della persona. 

Quindi l’attuale legislazione, attraverso le linee guida contenute nel decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali del 4 luglio 2019, e la prassi contabile, individuano nel bilancio sociale uno strumento attraverso il quale si garantisce la trasparenza, l’informazione e la rendicontazione nei confronti di tutti gli interessati alla gestione dell’azienda no profit. Pertanto scopo del bilancio sociale è fornire informazioni, non solo di natura quantitativa, ma soprattutto di natura qualitativa, complementari alle classiche informazioni di natura economico-finanziaria, con l’obiettivo di fornire un quadro complessivo delle attività svolte dall’ente, della loro natura e dei risultati raggiunti. Ulteriori scopi si ritrovano nel processo di comunicazione multidirezionale favorendo così procedure di partecipazione interna ed esterna all’organizzazione; nel dare conto della identità e della natura dell’operato dell’ente esaltandone la missione ed i valori di riferimento sui quali si fonda; nel fornire riscontri (c.d. feedback ) circa gli obiettivi preordinati e gli effettivi risultati raggiunti cercando così di fidelizzare gli investitori già presenti e di trovarne sempre di nuovi; nell’evidenziare strategie attraverso le quali consolidare i risultati raggiunti o indicandone di nuovi e migliorativi; nel palesare le interazioni tra azienda e territorio dando una lettura anche in merito agli impegni assunti ed alle aspettative degli stakeholders; nell’evidenziare il valore aggiunto prodotto in azienda e la sua suddivisione tra i diversi fattori della produzione. 

 Oltre alla redazione del bilancio sociale occorre anche il deposito di esso presso il registro unico del Terzo settore o presso il registro delle imprese, affinché se ne possa dare ampia pubblicità. Si permette così di verificare il rispetto di norme, regolamenti e linee guida etiche affinché i finanziatori e gli stakeholders in generale possano avere relazioni trasparenti e consapevoli con gli enti del terzo settore.

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29 Novembre 2024

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