ASCESA E DECLINO DELLA CASSA PER IL MEZZOGIORNO: LE CAUSE.
di Alessandra Di Giovambattista
L’Italia del dopo guerra ha visto una crescita economica a ritmi elevati arrivando a collocarsi tra i Paesi più avanzati, grazie al c.d. miracolo economico che ha industrializzato ed innovato, anche nella cultura e nella mentalità, il nostro tessuto sociale e produttivo ed in cui la Cassa per il Mezzogiorno può essere considerata, almeno per l’attività svolta nei primi 15 anni, l’attore fondamentale della crescita industriale nel territorio Meridionale e non solo. In quel periodo si era ben compreso che lo sviluppo doveva essere omogeneo e riguardare tutti i territori italiani in quanto una nazione è solida solo quando c’è equa distribuzione delle risorse e pari opportunità che consentono di tenere un passo sincrono in tutte le zone del Paese.
La rinascita del Mezzogiorno passava necessariamente attraverso un processo di industrializzazione ed ammodernamento con l’obiettivo di creare nuovi posti di lavoro e cercare di trattenere il fenomeno della emigrazione. I primi lavori della Cassa, all’inizio degli anni 50, riguardarono le infrastrutture fondamentali cioè “sistemi coerenti di opere straordinarie”, che dovevano garantire salubrità e sicurezza del territorio; si iniziò quindi dalle grandi bonifiche territoriali, dalla sistemazione dei territori montani, degli acquedotti e delle fognature. Si costruirono strade e ferrovie che erano alla base di quelle opere civili che avrebbero dovuto sostenere il successivo processo di crescita industriale in tutti i settori. Successivamente infatti la Cassa si concentrò sul potenziamento dell’industria, armonizzandola con la crescita economica complessiva del Paese, attraverso la concessione di prestiti a tasso agevolato e di sovvenzioni a favore delle aziende che avessero installato a Sud i propri impianti; fu curata anche l’istruzione, soprattutto quella professionale.
Così sul finire degli anni 50 con il boom economico inizia il processo di industrializzazione con un’attenzione particolare ai territori dove già esistevano degli agglomerati produttivi, una posizione economica favorevole agli scambi ed un gruppo ampio di Comuni limitrofi ad un centro principale, in grado di garantire mano d’opera. Pertanto la strategia si concentrò sui “poli di sviluppo”, cioè aree in grado di utilizzare le sinergie garantite da reti industriali formate da nuove fabbriche complementari al polo centrale, da infrastrutture di collegamento e di servizi, da lavoratori con mansioni e capacità diversificate. Così sul territorio Meridionale furono create le “aree di sviluppo industriale” ed i “nuclei dell’industrializzazione”; per implementarne la crescita furono devoluti incentivi finanziari per l’installazione di impianti e strutture. Dapprima le risorse finanziarie furono garantite a piccole imprese essenzialmente territoriali, ma dopo furono devoluti anche ad imprese di più grandi dimensioni provenienti dal Nord Italia. Inoltre per incrementare il decollo economico le normative esistenti obbligavano le imprese di proprietà statale ad ubicare i nuovi investimenti e le relative attività per il 60% nel Meridione.
Secondo le relazioni fornite dalla Cassa per il Mezzogiorno, alla fine degli anni 70 la maggior parte degli investimenti nei poli di sviluppo erano stati finanziati con prestiti agevolati e sovvenzioni e direzionati verso attività ad alta intensità di capitale (capital intensive) nel settore chimico, metallurgico, ed ingegneristico. Solo una quota pari al 10% era stato devoluto ad altre attività a maggior intensità lavorativa (labour intensive) come i settori tessile, dell’abbigliamento, calzaturiero, del legno e dei mobili, della carta, del cuoio, praticamente tutte le attività più artigianali e che avrebbero potuto garantire una maggior sinergia ed armonia tra capitali, territorio e lavoratori. Così in quel periodo circa il 70% della forza lavoro del meridione fu impiegata nelle due grandi aziende private, la FIAT e la MONTEDISON.
Tuttavia quello che poteva sembrare un punto di forza e sicurezza si dimostrò, dopo breve tempo, un grande limite durante la crisi di stagflazione degli anni 70 (fenomeno di natura economica mai osservato prima delloshock petrolifero del 1973/1974. Con tale termine si definisce la contemporanea presenza di mancanza di crescita produttiva e aumento dei prezzi costante, due fenomeni che non si potevano giustificare se non in presenza di cartelli oligopolistici tra produttori di materie prime e di energia) e con i rapidi processi di innovazione tecnologica. Di fatto la presenza di grandi aziende, peraltro molto moderne per l’epoca, aveva sicuramente attivato il processo di sviluppo ma non può negarsi che le modalità con cui esse operavano sul territorio erano decisamente avulse dal tessuto produttivo della zona. Infatti non riuscirono, o forse non vollero, costruire le reti dell’indotto e sviluppare le sinergie territoriali e quindi quelle gigantesche realtà industriali furono ben presto definite “cattedrali nel deserto” perché da poli di attrazione di capitale e lavoro divennero, da lì a pochi anni, concentrazioni industriali abbandonate, a causa della recessione, con conseguente aumento della disoccupazione e distruzione del territorio. Così iniziò il declino dell’attività della Cassa - e con essa di tutto il sistema produttivo del Mezzogiorno - che non riuscì a contrastare la depressione economica con valide politiche pubbliche. Ciò fu il prodotto dell’inclusione degli interessi dei politici, sia statali sia regionali, nella gestione degli interventi e dei finanziamenti e del cambiamento dei vertici e di tutto il personale della Cassa per accontentare clientele personali e partitiche. Passarono in secondo piano gli interventi civili e strutturali legati direttamente al territorio, come i trasporti, la costruzione di ospedali civili, gli interventi in agricoltura. Anche in questo caso aveva vinto l’ingordigia di pochi potenti soggetti politici, amministrativi e rappresentanti di organizzazioni malavitose che si spartirono grandi fette di denaro pubblico in cambio di progetti mai realizzati o di costruzioni inutilizzabili.
Volendo quindi trarre delle conclusioni si evidenzia che nei primi due decenni di vita l’attività della Cassa, anche grazie alla supervisione di soggetti esteri ed alla effettiva autonomia dagli interessi politici (che permise anche di scegliere come responsabili della struttura un gruppo di professionisti valutati per merito), contribuì a rendere industrializzato e produttivo il meridione riducendo notevolmente il divario Nord-Sud. Ma all’inizio degli anni 70, complice anche la depressione economica, si assistette a sprechi di risorse in termini di errate strategie di investimento e di veri e propri fenomeni di appropriazione indebita di fondi pubblici. Una importante iniziativa, nata dall’intuizione di notevoli politici di allora, tra cui Pasquale Saraceno e Alcide De Gasperi (volendo citarne solo alcuni), fu travolta e sconvolta da interessi personalistici di politici che foraggiarono clientele e corruzione e dispersero in tal modo risorse destinate ad un territorio che ancora oggi è caratterizzato dalla arretratezza pur avendo risorse, soprattutto umane, di notevole spessore.
L’analisi delle cause dell’infausta fine dell’esperienza dell’attività della Cassa per il mezzogiorno possono aiutare a mettere a fuoco alcuni aspetti che potrebbero far riflettere in termini di politiche per il Mezzogiorno che ora si intende affrontare con la ZES unica Sud. L’esperienza passata dovrebbe indurre prima di tutto a tenere fuori dalla gestione delle risorse pubbliche politici statali e locali; questi dovrebbero limitarsi a dettare le linee guida degli interventi di potenziamento del tessuto produttivo del Meridione. In seconda battuta sarebbe opportuno creare un organo superiore di controllo serio, trasparente e professionalmente adeguato capace di valutare le attività in corso d’opera e di modificare le strategie in caso di scostamenti dagli obiettivi preordinati. Sarebbe poi auspicabile - invece che aumentare i soggetti che possono inserirsi nel processo di pianificazione e gestione fino a considerare anche le singole associazioni portatrici di interessi locali e particolari (si pensi in tal senso alla cabina di regia della ZES) – creare strutture di gestione snelle e composte da validi tecnici italiani, scelti con modalità meritocratiche e non attraverso procedure clientelari (così forse si potrebbe anche arrestare un po’ la fuga all’estero dei nostri giovani professionisti altamente qualificati), che dovrebbero agire con rapidità e capacità di risoluzione dei problemi: solo così si potranno creare le basi per una sfida competitiva internazionale che restituisca il giusto peso al Sud Italia.
Un’attenzione particolare va poi posta alle attività che si presentano culturalmente e tradizionalmente legate al territorio tutelando pertanto: il settore primario (agricoltura, pastorizia, silvicoltura, viticoltura), i cui prodotti si collocano sul mercato interno e mondiale con caratteristiche di unicità e di elevato livello qualitativo; le attività artigianali ed artistiche tipiche di alcune zone del Meridione (si pensi, potendo fare pochi esempi, al patrimonio artistico e culturale presente nel Leccese dove si lavora la cartapesta, o la lavorazione del corallo nelle zone della Campania, la lavorazione del cuoio e del pellame dei ricami e dei tessuti della Sardegna); le attività industriali di produzione di beni finiti e semilavorati gestite da aziende locali nei diversi settori: alimentare, tessile, del legno e del mobilio, vinicolo, ecc. La tutela e la cura di queste produzioni locali aiuterà il territorio a diversificare le attività, a creare rete ed indotto con le attività produttive principali, a garantire una crescita armoniosa e partecipata, e soprattutto consentirà di creare attività che permettono lo sviluppo creativo ed innovativo dei singoli soggetti presenti sul territorio coinvolgendoli così direttamente nello sviluppo produttivo locale. E’ infatti importante, per chi vive in zone di sottoccupazione, sentirsi protagonista del proprio riscatto socio-economico ponendo fine a stereotipi e classificazioni spesso false e produttrici solo di rabbia e divisione nel popolo italiano.
Andrebbe infine fatta una profonda analisi sulla strategia finanziaria e di politica economica: spesso offrire incentivi fiscali o prestiti agevolati può rappresentare una valida strategia nella fase iniziale di decollo economico, ma successivamente le attività industriali devono saper camminare con le proprie gambe: garantire un livello adeguato di remunerazione del capitale ma anche una capacità di autofinanziamento che possa far investire in innovazione tecnologica e ricerca, affrontare il mercato finanziario con attenzione e capacità cercando di attirare nuovi investitori - nazionali e esteri – creare un processo di fidelizzazione nei lavoratori e in generale in tutti i portatori di interesse (i c.d. stakeholders). Infatti l’esperienza passata della Cassa ha evidenziato che ricevere sussidi non stimola le imprese a migliorarsi costantemente, ma anzi le fa sentire in una confort zone, e che occorrerebbe anche evitare deflussi di risorse che, a dir la verità - così come peraltro dimostra la storia e a differenza di quanto affermi la comune narrazione – sembrerebbero aver preso la via verso le attività produttive del Nord, invece che restare al Sud. Così infatti si è poi conclusa l’esperienza della Cassa per il Mezzogiorno: le risorse finanziarie pubbliche hanno foraggiato essenzialmente le imprese del settentrione che ad un iniziale processo di attività produttiva hanno fatto seguire un disinteresse verso il perdurare nel tempo delle imprese create al Sud (concetto che si pone alla base della sopravvivenza di qualsiasi azienda) che sono di fatto collassate di fronte alle difficoltà della crisi degli anni 70 ed hanno prodotto licenziamenti dei lavoratori, smantellamento delle fabbriche (ritornando però a produrre esclusivamente nel Nord, forti anche degli incentivi ottenuti per il Sud in esso utilizzati solo in parte) e creazione di falsi miti di arretratezza ed incapacità culturale e produttiva dei connazionali meridionali!