BREVE STORIA DELLA CASSA PER IL MEZZOGIORNO
di Alessandra Di Giovambattista
Ragionare sulla questione meridionale è sempre molto interessante se si pensa alle cause che, dopo la nascita del nuovo regno d’Italia nel 1870, hanno condizionato il perdurare di una nazione sostanzialmente depressa ed arretrata. In sintesi si può dire che i diversi tentativi di modernizzazione del Paese hanno di fatto generato una crescente spaccatura tra le diverse regioni. Se è vero che l’inizio dell’industrializzazione parte generalmente da zone ben delineate di una Nazione, è anche vero che il processo poi si dovrebbe allargare a macchia d’olio per effetto del movimento dei lavoratori, del progresso tecnologico e degli investimenti di capitale. Tuttavia ciò non avvenne perché dopo l’Unificazione d’Italia furono prese delle decisioni che si può senza alcun dubbio definire come penalizzanti per il Meridione.
Infatti il Regno di Napoli aveva introdotto delle tariffe protezionistiche proprio per tutelare il proprio tessuto imprenditoriale; ovviamente con l’unificazione le tariffe vennero abolite, ma ciò avvenne in modo drastico, senza un periodo di transizione e ciò provocò numerosi fallimenti delle aziende presenti sul territorio. In particolare collassarono le aziende tessili collocate in diverse zone del Sud; in particolare fallirono le aziende tessili della seta del rinomato complesso di San Leucio (in provincia di Caserta), con l’aggravio che i suoi macchinari furono portati a Valdagno dove si creò la prima fabbrica tessile del Veneto! Una domanda è d’obbligo: perché non furono investiti i capitali nella stessa zona di San Leucio e le attrezzature lasciate dove erano? Quello che fu fatto a Valdagno perché non si poteva fare a San Leucio? La risposta è ben evidente: motivi territoriali e di mentalità ancora chiusa e medievale ancorata al potere dei territori italiani del nord che volevano una supremazia rispetto ai territori meridionali. Stessa sorte toccò alle cartiere di Sulmona e alle ferriere di Mongiana i cui macchinari furono smantellati e reinstallati in Lombardia. E anche qui le considerazioni sono le medesime: perché non sono state potenziate e innovate le strutture già esistenti al Sud? Perché si è preferito spostare a Nord le produzioni lasciando che il territorio meridionale si impoverisse sempre di più? Ulteriore conseguenza fu la forte emigrazione verso paesi esteri perché al Sud non era più possibile trovare lavoro. A ciò si aggiunse il fatto che gli appalti per la costruzione delle infrastrutture nel mezzogiorno furono tutti affidati ad imprese settentrionali, in particolare piemontesi e lombarde che furono pagate attraverso l’utilizzo di risorse essenzialmente prese dal Sud a cui furono imposte tasse molto pesanti. Il tutto provocò grande scontento tra le popolazioni meridionali che videro traditi i principi ispiratori dell’unificazione italiana; ormai i piemontesi erano visti come sfruttatori e depredatori di risorse.
Ma c’è di più; il governo della giovane nazione italiana pensò bene di ripristinare la tassa sul macinato, fu aumentato il prezzo del sale e dei tabacchi, le riserve d’oro del Banco di Napoli e di diversi altri istituti bancari del Sud furono versate nelle casse del Banco di Sardegna, i beni della Chiesa vennero venduti all’incanto e diversi rappresentanti del clero furono deportati o arrestati, negli uffici pubblici furono occupate solo persone piemontesi. In poche parole dopo l’unificazione il modello economico, politico, amministrativo e sociale che soppiantò tutte le differenti organizzazioni presenti sugli altri territori fu il modello piemontese, ispirato da Cavour, secondo una non verificata credenza che il modello francese fosse di fatto il più efficiente e senza provare ad immaginare un modello italiano originale. Tra le altre innovazioni egli proposte una politica liberista di commercio con la Francia che ebbe il solo fine di garantire il riconoscimento dell’Italia nel contesto internazionale; infatti dal punto di vista economico ciò costò molto sia al Nord, che non era ancora in grado di competere con le imprese presenti nelle nazioni più sviluppate (Francia ed Inghilterra), sia al Sud che vide ancora più acuirsi la sua condizione di arretratezza ed il divario con il Settentrione. Ulteriore risultato fu l’ingresso di imprese straniere sul territorio italiano. Bisogna poi sottolineare che sul finire del XIX secolo i territori più sviluppati, anche per le attività agricole, erano soprattutto i territori della pianura lombardo-piemontese che furono di fatto i grandi beneficiari delle azioni di politica economica del Regno d’Italia: in definitiva le risorse finanziarie erariali erano destinate tutte al nord Italia, lasciando di fatto sguarnito il Meridione.
Il divario Sud-Nord continuò così ad aumentare e iniziò anche lo sfruttamento delle masse contadine alimentato dalle baronie latifondiste rafforzate dalla riforma fondiaria sabauda. Fu così che per disperazione e rabbia crebbero le rivolte e si alimentò il fenomeno del brigantaggio; così il Sud non ebbe la forza di innovarsi, o meglio non gli furono offerte opportunità e risorse per cercare di sconfiggere il fenomeno del latifondismo e dello sfruttamento della piccola proprietà agricola. La situazione era così drammatica che non restava che emigrare verso paesi stranieri. Tuttavia l’arretratezza non riguardava solo l’ambito economico, ma soprattutto quello sociale, dovuto ad una popolazione per lo più analfabeta, dove l’istruzione pubblica era poco diffusa e non omogeneamente distribuita sul territorio. Quindi nel momento dell’unificazione l’Italia si presentava come una nazione nel suo complesso arretrata, con poche zone più moderne.
Facendo un balzo in avanti, e sorvolando sul periodo delle due grandi guerre, si arriva al periodo postbellico in cui si assiste ad un vero e proprio miracolo economico, con una crescita ad un tasso elevatissimo, persino più alto di quello registrato negli Stati Uniti d’America e nel Regno Unito. Effettivamente, negli anni 50 i nostri politici si accorsero che il Sud si presentava in una condizione di forte arretratezza e posero la sua rinascita tra i primi obiettivi della Repubblica. I danni provocati dal conflitto mondiale riguardavano soprattutto le vie di comunicazione; erano andati distrutti strade, ponti, ferrovie, linee elettriche, porti. Anche i settori agricolo ed industriale erano stati pesantemente danneggiati. Quasi tutti i rappresentanti dei partiti di allora si sentirono coinvolti a favore della crescita del Sud: i democristiani, i liberali, i repubblicani, i socialisti, ed i rappresentanti del partito d’azione.
Così, nel 1950 fu costituita un’Agenzia chiamata “Cassa per il Mezzogiorno” che aveva l’obiettivo di effettuare investimenti nel Meridione per farne decollare l’economia; alla redazione del progetto partecipò direttamente l’allora Governatore della Banca d’Italia (Donato Menichella). Fu così che le imprese statali iniziarono ad investire ma anche le imprese private, incentivate da ingenti sussidi, iniziarono a creare aziende impiegando notevoli capitali. La Cassa nacque con la legge n. 646 del 10 agosto del 1950, nella veste di ente autonomo, con personalità giuridica e un territorio da amministrare composto dalle regioni del Sud: Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna; ad esse si aggiunsero porzioni di territorio nel sud del Lazio, alcuni comuni di Roma e di Rieti, alcune aree delle Marche e della Toscana.
Durante i primi anni di vita la Cassa usufruì di autonomia sia nella pianificazione degli interventi che nella gestione delle risorse finanziarie, anche se per onestà di cronaca occorre sottolineare l’influenza degli Stati Uniti nella determinazione dei progetti strutturali. La Cassa fu dotata di un capitale iniziale che proveniva dal finanziamento della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (IBRD) creata dall’Organizzazione delle Nazioni unite (ONU). Le risorse furono concesse sotto la condizione che la loro gestione non fosse affidata a burocrati assoggettabili a pressioni politiche, bensì ad organismi che avrebbero operato sotto la supervisione della IBRD. E di fatto nei primi anni di vita della Cassa si vide l’importanza dell’autonomia della struttura e della competenza tecnica. La legge istitutiva stessa aveva come obiettivo l’eliminazione di ritardi burocratici o ingerenze di diverso genere, soprattutto di natura politica, che avrebbero potuto neutralizzare gli effetti positivi di natura straordinaria, in quanto si dovevano creare rapidamente nuove strutture per ampliare e consolidare il tessuto industriale del Sud. Agli occhi degli osservatori esteri l’esperienza della Cassa nei primi anni di attività apparve positiva, anche se non possono nascondersi difficoltà causate dalla mancanza di collaborazione da parte delle amministrazioni statali e locali le quali peraltro non disponevano di personale qualificato.
Era tuttavia il suo carattere speciale che aveva permesso di creare un’organizzazione con uffici decentrati, precisamente a Roma (per evitare ingerenze locali), di elevato livello tecnico: infatti furono assunti tecnici (con percentuali di laureati pari a circa il 95%) altamente qualificati in diversi settori: agronomi, geologi, ingegneri, geometri, architetti. Il loro compito era quello di programmare e pianificare gli investimenti in infrastrutture mediante l’utilizzo delle risorse a disposizione della Cassa. Gli osservatori esteri inviati dalla IBRD testimoniarono che i tecnici posti alla direzione della struttura era di elevato spessore professionale e questo non poteva che garantire la bontà dell’azione e l’efficienza nel raggiungimento degli obiettivi.
Purtroppo però l’indipendenza e le capacità tecniche della Cassa non furono mantenute a lungo; dopo 15 anni la politica voleva riprendersi il suo dominio sull’attività di ricostruzione del Sud e assegnò la supervisione dei programmi al Ministero per l’intervento straordinario per il Mezzogiorno che poteva arrivare a dichiarare lo scioglimento dell’Agenzia in caso di inosservanza delle linee guida impartite dal dicastero. Fu così che tutti i ministri per il Mezzogiorno dai primi anni settanta, usarono i loro poteri amministrativi in modo invasivo: la Cassa aveva smesso di essere un ente autonomo! Inoltre negli anni 70 con la creazione delle Regioni e l’attribuzione ad esse di poteri sostanziali si frammentò l’azione della Cassa e ne iniziò così il collasso. Infatti le Regioni aumentarono l’ingerenza politica sull’operato dell’Agenzia, che peraltro si suddivise in diverse realtà locali; tutti i tecnici furono sostituiti da personale di fiducia partitica.
Praticamente all’inizio degli anni 80 le risorse devolute come trasferimento di reddito per sostenere le condizioni di vita nel breve periodo (praticamente clientele dirette) superarono quelle destinate agli investimenti. Si persero così l’autonomia e l’indipendenza delle scelte strategiche che avevano guidato la Cassa nei primi 15 anni e ne avevano garantito l’efficienza dell’operato. Così lo Stato dimostrò la totale inadeguatezza nella gestione delle risorse per il Sud che furono dirottate, attraverso una amministrazione poco trasparente delle risorse, verso clientele partitiche nazionali e locali. A ciò si affiancò non solo una diminuzione dei sussidi ordinari all’industria in questa zona del Paese rispetto alle altre aree, ma anche l’invio di aiuti industriali al Sud a favore di imprenditori locali che ottennero risorse pubbliche ma non produssero alcun tipo di risultato sul piano economico industriale.
La missione della Cassa per il Mezzogiorno, dopo un biennio di commissariamento (dal 1984 al 1986) fu affidata all’Agensud, che rimase operativa fino al 1993, anno in cui se ne dichiarò il fallimento. Le cause del totale collasso furono l’incapacità di gestire con trasparenza, tempestività ed economicità le risorse destinate al sud: almeno 21 miliardi di vecchie lire, destinate al Sud, non arrivarono mai!