IL POTERE DELLA COMUNICAZIONE: H. MARSHALL McLUHAN
di Alessandra Di Giovambattista
Con il passare del tempo dalla società dell’informazione - che si è sviluppata essenzialmente attraverso messaggi monodirezionali, utilizzando i media tradizionali quali giornali, riviste, libri - si è passati alla società della comunicazione; ma che significa comunicare? Facendoci aiutare dal dizionario della lingua italiana, possiamo dire, in modo molto sintetico, che il senso più comune del termine lo ritroviamo nell’attività di relazione con la quale si intende far partecipe uno o più soggetti di un proprio pensiero, di uno stato d’animo, di un’emozione, di una notizia, di un fatto, dove si dà rilievo ad una relazione complessa e pluridirezionale, tra più persone, che può generare rapporti, partecipazioni e reazioni unilaterali o reciproche. Grazie allo sviluppo degli studi in ambito socio-psicologico possiamo identificare la comunicazione come un processo creato dallo scambio di messaggi attraverso un canale, secondo un preciso codice, tra sistemi della stessa natura o di natura differente (tra esseri umani, animali, macchine). Nella scienze umane e sociali oltre alla comunicazione verbale si riconosce anche una comunicazione non verbale fatta da un insieme di segnali che vanno oltre l’uso del solo apparato fonatorio (segnali mimici, tattili, espressioni dello sguardo, che coinvolgono l’abbigliamento e la postura, ecc). A ciò si aggiunga l’importanza del mezzo attraverso cui si diffonde la comunicazione; oggi essenzialmente ritroviamo i mezzi di comunicazione di massa (i c.d. mass media) che identifichiamo nella televisione, nella stampa, nel cinema, nella radio, ed oggi, più che mai, nelle reti di comunicazione digitale, i c.d. social network, dove il soggetto è spesso, allo stesso tempo, fonte e destinatario di informazioni.
La rivoluzione informatica ha modificato notevolmente il modo di comunicare, creando nuovi spazi di relazione che coinvolgono spesso soggetti di diversa età, cultura, estrazione sociale, etnia, credo, e rendendo liquida la società che spesso non distingue più il mondo reale da quello virtuale. I social rappresentano delle vere e proprie strutture sociali dove si affrontano e si confrontano tecnologia, umanità, partecipazione, interazione, conflitto. Alcuni sociologi definiscono la rete sociale, i c.d. social network, un unico grande mezzo dove i produttori di notizie, opinioni, pensieri, emozioni, espressioni sono al contempo anche i fruitori, a differenza dei mezzi di informazione tradizionali in cui la relazione avviene essenzialmente tra parti in posizioni contrapposte. Inoltre, in tale rete, la comunicazione risulta così poco trasparente che è molto facile cadere preda di soggetti con intenzioni non sempre positive e meritevoli che si fingono quello che non sono, cercando di offrire un’immagine di sé che sia la migliore possibile o comunque quella che gli altri si aspettano di vedere. Sicuramente l’uso delle strumentazioni informatiche (come la ragnatela mondiale informatica il c.d. World Wide Web - cioè il prefisso www con cui facciamo precedere le nostre ricerche sul web - ed i social network) - con i relativi programmi, applicazioni e software - ha reso anche più difficile la tutela della propria sfera personale, la c.d. privacy, e la difesa del diritto all’oblio. Quest’ultimo è la richiesta della rimozione delle informazioni personali dalla pubblica circolazione. Si capisce bene come poter esercitare tale diritto sia davvero difficile in un mondo digitale dove le notizie permangono in modo stabile; non è sufficiente la cancellazione ma è necessaria l’eliminazione della possibilità che esse vengano ripubblicate da terzi, circostanza quest’ultima sempre possibile. Infatti mentre la notizia apparsa sui media tradizionali è strettamente legata ai limiti dello strumento sulla quale è stata divulgata (esempio la stampa), nel mondo digitale le informazioni possono essere memorizzate e condivise con molta facilità di modo che le notizie di fatto rimangono nello spazio di archiviazione (c.d. Cloud) per tempi illimitati e senza poter sapere se e come siano state memorizzate, duplicate e pubblicate.
Ciò detto, in generale, si può comunque evidenziare il rapporto che si instaura tra comunicazione e potere e di fatto, in tale relazione, si riscontra una duplice accezione: da un lato si ha una relazione diretta tra comunicazione e poteri politici, economici, religiosi, i quali utilizzano i media per raggiungere i propri obiettivi e sovente per imbrigliare la libera informazione. Dall’altro lato il potere insito nella comunicazione stessa che si divide in: conoscenza di informazioni che possono essere usate o meno (perché anche il silenzio su una determinata notizia rappresenta un’espressione di gestione del potere; si pensi al c.d. segreto di Stato) e modalità e capacità di divulgazione, che riconducono all’ampiezza dei mezzi utilizzati i quali se più diffusivi, sono più potenti. Quindi possiamo riconoscere una espressione di potere nell’avere notizie e nel gestirle attraverso i vari strumenti di comunicazione; questo aspetto, che ha condotto alla definizione dell’informazione come quarto potere (che si aggiunge a quelli costituzionalmente individuati: legislativo, esecutivo, giudiziario), chiarisce la concreta possibilità di come la comunicazione possa contribuire alla formazione dell’opinione pubblica. Tuttavia occorre sottolineare come tra le istituzioni, l’ambiente vi sia di fatto un processo di osmosi bidirezionale; la società influenzata dalle istituzioni e le istituzioni influenzate dalla società e in questo processo si colloca il flusso di informazioni gestito dalla comunicazione che in sé è solo uno strumento. Semmai il problema risiede nell’utilizzo e nella reale capacità dell’uomo di volersi mantenere intellettualmente libero; infatti negli Stati totalitari si assiste ad un uso della comunicazione come strumento di propaganda, per formare le coscienze ed alienare le menti con la finalità di ottenere il consenso da parte della collettività. Di fatto la comunicazione è in grado di organizzare il pensiero dei soggetti e in tal modo viene vista dai poteri statali ed amministrativi che tentano di soggiogarla al servizio di interessi peculiari, distaccandola dal suo originario ruolo di strumento al servizio della collettività. Quindi il potere della comunicazione si ritrova nella possibilità del soggetto che detiene l’informazione di comunicarla, magari attraverso manipolate frapposizioni e velature, o non comunicarla affatto.
Con riferimento al secondo aspetto relativo alle modalità e capacità di divulgazione delle informazioni ci si ricollega agli strumenti che si possono utilizzare, dalla stampa, alla televisione, fino ad arrivare ai fenomeni odierni dei social network che raggiungono enormi masse di soggetti. Un’analisi interessante del problema è fornita da Marshall McLuhan - filosofo, sociologo, critico letterario, professore di origine canadese (1911 – 1980) - che ha voluto ripercorrere la storia dell’umanità analizzando lo sviluppo dei mezzi di comunicazione. Utilizzando tale prospettiva egli ha notato che le strutture delle società ed i loro usi e costumi, sono stati determinati dall’evoluzione degli strumenti di comunicazione. La sua interpretazione storica degli effetti prodotti dalla comunicazione sui singoli e sulla collettività nel suo insieme, ruota intorno all’idea che è lo strumento utilizzato per diffondere la notizia che produce effetti sui soggetti destinatari, non già il contenuto dell’informazione fornita. È sua la frase in cui si riconosce nel “mezzo il messaggio”, così come, per analogia, si può dire che è la scienza economica che definisce le relazioni sociali.
Quindi il potere della comunicazione non risiede solo nel soggetto che detiene le informazioni, ma anche nel tipo di strumento che viene utilizzato e dalla sua capacità evolutiva e di sviluppo nel tempo. Si è passati quindi dalla comunicazione verbale (le prime società in cui gli oratori avevano un importante compito divulgativo) a quella scritta (attraverso i libri e la stampa), fino ad arrivare agli strumenti radio-televisivi ed informatici. Questi strumenti rappresentano il prodotto culturale e scientifico di società che sono passate dalle prime forme di villaggio (preistorico), alle città, fino ad arrivare al famoso “villaggio globale”. Quest’ultima locuzione è un ossimoro, una contraddizione in termini, costruito da McLuhan proprio per rappresentare lo stridore del contesto attuale dove il villaggio fa riferimento ad un nucleo ristretto di soggetti, mentre l’aggettivo globale coinvolge la totalità del territorio, pertanto ha un significato planetario. Con ciò il sociologo canadese intende sottolineare come la comunicazione con strumenti informatici di fatto abbia abbattuto le frontiere dello spazio, in quanto l’informazione percorre tutto il globo, e del tempo, poiché l’informazione viaggia in tempo reale (velocità quasi istantanea). Ma già prima di McLuhan si parlava di “villaggio” con riferimento al potere dei media; il sociologo Robert. E, Park nel 1923 definisce “villaggio” anche i grandi agglomerati urbani nei quali iniziano a circolare le notizie attraverso i giornali, che rappresentano, per l’epoca, una nuova forma di comunicazione. Così come nei piccoli centri tutti si conoscono, con l’avvento dei quotidiani anche nelle grandi città è possibile sapere cosa accade e quindi ci si sente come in un villaggio dove il pettegolezzo e l’opinione pubblica rappresentano le forze di controllo sociale. L’analisi di McLuhan si basa sulla divisione della storia in tre periodi, con riferimento alle diverse tipologie di comunicazione: tradizione orale che riporta alle società chiuse ed acritiche, dove si apprende attraverso il linguaggio e l’ascolto; scrittura e stampa che modificano le modalità di conoscenza spostando l’attenzione dall’ascolto alla vista, alla lettura – sostituendo così l’orecchio con l’occhio – ed incentivando la comunicazione tra individui, la speculazione e la razionalità; era elettronica dove i media riescono a coinvolgere l’intero globo nei problemi di soggetti posti in differenti luoghi e in tal modo, come paradosso, si ottiene un ritorno ai contatti iniziali del villaggio dove tutti sapevano tutto ciò che avveniva intorno a loro.
Oggi il concetto di villaggio globale porta indubbiamente al fenomeno della globalizzazione, dove ciò che accade in qualsiasi angolo della terra diviene, in pochi istanti, di dominio pubblico e ciò in qualsiasi ambito: politico, sociale, culturale, economico. In tale conteso e tenendo sempre a mente la visione di McLuhan, le sole notizie che devono essere divulgate sono quelle “cattive”, quelle che descrivono calamità, disastri, disuguaglianze ed iniquità, perché si deve alzare il livello di responsabilità dei soggetti. Ma a lungo andare ciò determina frustrazione ed impotenza ed il sentirsi tutti nello stesso ambiente genera una sorta di sensazione di massificazione dei problemi ed anche delle soluzioni, offrendo una visione di “omologazione” e di favore verso gli approcci monocratici: unici problemi, uniche soluzioni, assenza di differenze e di prospettive diversificate; è forse proprio con riferimento all’analisi delle problematiche che occorre assumere un atteggiamento critico rispetto alla “globalizzazione”. McLuhan evidenziava che i media elettronici hanno abolito sia il tempo sia lo spazio, discostandoci da ogni ripartizione dei ruoli e dai singoli punti di vista; ne emerge così un’omologazione delle opinioni. Questa tematica è davvero molto delicata se si pensa che oggi attraverso i social abbiamo masse di persone che si schierano a favore o contro una determinata situazione creando spesso un atteggiamento di “gogna mediatica”, a volte anche creata ad arte, che può indurre alla disperazione il soggetto che vede sé stesso, le sue opinioni e le sue vicende diventare da private a pubbliche con grandi difficoltà di chiarimento e di difesa: una sorta di impossibilità di tutela della propria privacy, del proprio individuale pensiero, lasciando così ampio spazio al pensiero unico. Occorre porre molta attenzione a tale processo che se portato avanti senza il costante nutrimento della nostra anima e del senso critico e la civile e rispettosa difesa del proprio individuale pensiero potrebbe divenire pericoloso ed irreversibile!