Il fenomeno del greenwashing ha fatto emergere una realtà in cui esistono aspetti ingannevoli nelle dichiarazioni e nelle politiche pseudo ambientaliste contenute nei messaggi e nelle strategie di marketing pubblicizzati dalle aziende. Ci si può trovare quindi di fronte a situazioni in cui le filiere produttive oltre a non essere rispettose dell’ambiente possono addirittura essere più nocive delle precedenti produzioni di beni/servizi. L’ecologismo di facciata ha quindi aperto scenari rischiosi di vera e propria illegalità nell’agire da parte delle aziende.
Una delle prime ricadute negative nelle pratiche di greenwashing la si riscontra nella perdita di fiducia da parte dei consumatori; quando essi scoprono di essere stati ingannati scatta un meccanismo di punizione in cui l’immagine aziendale viene annientata e la sua reputazione distrutta. Si può così verificare una perdita di valore, un danno che può anche essere superiore rispetto al beneficio che l’azienda sperava di trarre dal greenwashing. Un altro rischio, molto più sostanziale ed importante riscontrabile nella pratica dell’inganno ecologico, risiede nella perdita di interesse da parte dell’azienda di intraprendere un effettivo percorso di miglioramento ambientalistico; infatti se un’impresa vede premiata la sua politica ingannevole potrebbe essere soddisfatta dei risultati ottenuti senza di fatto ricercare un miglioramento concreto delle proprie linee produttive attraverso strategie di ricerca e sviluppo. Un’altra considerazione importante riguarda le modalità con cui i singoli produttori rendono conto della propria politica di sostenibilità attraverso indicatori di bilancio (c.d. ESG cioè: indicatori di ambiente, fattori sociali e governo dell’azienda e misurano la sua propensione al rispetto dele politiche green) che consentono soprattutto agli investitori di diminuire il rischio di finanziare progetti ed imprese che potrebbero risultare non virtuose nel perseguire gli obiettivi ambientali.
Un aiuto per evitare di cadere nella trappola dell’inganno ecologico ci verrà fornito in Europa attraverso l’emanazione di una normativa stringente su ciò che può essere identificato come azione a favore dell’ambiente; un maggior numero di aziende sarà obbligata a fornire un resoconto circa le modalità seguite per lo svolgimento delle attività sostenibili ed i risultati conseguiti attraverso attività di reporting di natura non finanziaria. Queste misure però potrebbero non risultare sufficienti se le normative non saranno chiare e rese obbligatorie per tutti; noi consumatori avremo l’obbligo di informarci accuratamente prima di acquisire un prodotto/servizio al fine di valutarne il reale impatto ambientale. Ultimamente l’Unione europea ha cercato di rafforzare il percorso avviato verso il modello di sviluppo economico-sociale sostenibile. Dal punto di vista legislativo ha individuato la direttiva sugli indicatori di sostenibilità che dovranno adottare le aziende (c.d. CSRD Corporate Sustainability Reporting Directive) che sostituirà l’attuale direttiva sulla rendicontazione non finanziaria (c.d. NFRD Non Financial reporting Directive).
L’Europa su questo fronte ha posto come obiettivo la neutralità climatica (c.d. net-zero) nel 2050; pertanto le aziende dovranno modificare le proprie strategie ed investire in ricerca e sviluppo al fine di raggiungere l’obiettivo prefissato. La transizione verso produzioni ecosostenibili è un processo necessario ed urgente non solo per motivi ambientali e sociali, ma anche economici; infatti il deterioramento dell’ambiente rappresenta una minaccia concreta per le aziende e per la stabilità del sistema economico. E’ evidente che la transizione implicherà costi notevoli riconducibili a maggiore tassazione se l’azienda è più inquinante, maggiori oneri in termini di strategie di ricerca e sviluppo, maggiori costi per consumi energetici; il tutto influirà negativamente sul ricarico che l’azienda è in grado di percepire come rapporto tra prezzo di un bene/servizio ed il suo costo (c.d. markup aziendale). I notevoli costi che le aziende dovranno sostenere renderanno necessari aiuti di stato in termini di risorse a fondo perduto (in tal senso si vedano alcuni degli aiuti contenuti nel Piano nazionale di resistenza e resilienza c.d. PNRR). Purtroppo ancora una volta saranno le imprese che si trovano nel territorio del mezzogiorno a farne le spese perché esposte a maggior rischio di transizione; le loro produzioni sono essenzialmente concentrate nel settore automobilistico e della lavorazione dell’acciaio (in particolare si pensi alle zone di Potenza, Taranto, Terni, Campobasso).
Si comprende così, in termini economici, il perché le aziende cerchino di presentare come ecologici processi e prodotti che spesso non lo sono o lo sono solo in parte; scorriamo ora i casi più eclatanti di aziende che hanno fatto greenwashing al fine di essere consapevoli ed attenti ed imparare dagli errori compiuti nel passato.
Cominciamo dalla Coca-Cola: già nei primi anni del 2000 l’azienda è stata al centro di problemi legati al tema della sostenibilità. Nel giugno del 2021 è stata citata in giudizio da un’organizzazione ambientalista senza scopo di lucro (Earth Island Institute) con l’accusa di fare marketing ingannevole sul tema ecologico; in particolare è risultata essere una delle aziende più inquinanti tra quelle che producono bevande anche perché i propri contenitori (bottiglie e tappi) non sono risultati riciclabili al 100%. Secondo la denuncia la Coca-Cola è il principale produttore di rifiuti plastici del mondo, ed utilizza circa 200.000 bottiglie al minuto, pari ad un quinto della produzione mondiale di bottiglie in polietilene tereftalato (PET). Inoltre, poiché la linea produttiva di tale plastica si basa sull’uso di combustibili fossili, si aggiungono anche danni causati da emissioni di CO2. L’eccessiva produzione di rifiuti in plastica è dovuta alla carenza di sistemi di riciclaggio; si è calcolato che solo il 30% delle bottiglie riesce ad essere effettivamente riutilizzato e ciò è dovuto non solo ad una mancanza di strategia produttiva ma anche perché l’azienda si oppone all’applicazione di una piccola tassa sull’acquisto delle bottiglie di plastica che verrebbe restituita al consumatore nel momento in cui la bottiglia viene conferita in un impianto di riciclaggio. Sul punto si vuol solo ricordare il potere, economico e politico, della Coca-Cola che ha impedito che la tassa sui manufatti in plastica MACSI (c.d. plastic tax) e la tassa sulle bevande zuccherate (c.d. sugar tax) - aventi anche una valenza ambientalista e salutare - entrassero in vigore in Italia dal gennaio 2020, inducendo i nostri politici a prorogarne periodicamente la decorrenza; con la legge di bilancio per il 2024 tale entrata in vigore è stata portata al luglio 2024, ma penso, a mio modesto avviso che, ahimè, assisteremo ad un’ulteriore proroga!
Anche ENI, il colosso energetico italiano, è stato accusato di greenwashing; in particolare tra il 2016 ed il 2019 ha presentato il prodotto “ENIdiesel+” come avente le caratteristiche di prodotto biologico, green e rinnovabile, con la possibilità anche di abbattere le emissioni di CO2 fino al 40%. Di fatto è emerso successivamente che gli additivi vegetali presenti nella citata tipologia di diesel sono altamente inquinanti e non riducono né l’impatto ambientale né i consumi. Pertanto le è stato proibito di continuare ad utilizzare una pubblicità ingannevole riguardante un prodotto altamente inquinante, che per sua natura non può essere considerato green; il Tar del Lazio ha stabilito una multa di 5 milioni di euro.
Nel 2019 la società H&M attiva nel campo della moda è stata posta sotto accusa dall’autorità governativa (Norwegian Consumer Authority) che si occupa di pubblicità ingannevole; in particolare esaminando la collezione c.d. “Conscious”, pubblicizzata come rispettosa dell’ambiente, si è visto che le informazioni fornite in merito ai processi produttivi erano vaghe ed imprecise con riferimento, in particolare, alla maggiore sostenibilità di essi rispetto agli altri prodotti in vendita. L’azienda non ha ricevuto multe, ma è stata indotta a fornire una più approfondita comunicazione sulla sua filiera produttiva.
Altra grande azienda che ha sempre puntato su un’immagine di produzione eco sostenibile, ma che si è trovata invischiata in problematiche riguardanti il greenwashing è stata Ikea; nel 2020 è stata accusata dal un gruppo ambientalista britannico (Earthsight) di essersi rifornita di legname abbattuto in modo illegale in Russia ed in Ucraina. L’associazione ha documentato come grand parte delle imprese ucraine non avessero rispettato le norme sulla provenienza del legname, senza peraltro valutarne l’impatto ambientale, e disboscando oltre i confini dei territori autorizzati. Inoltre è stato stimato un consumo di un albero al secondo per soddisfare la domanda globale di prodotti Ikea. La sua politica di produzione si basa su un modello a bassi prezzi di vendita, che utilizza il legname per arredamento a basso costo (il c.d. fast-fashion dell’arredamento); tale strategia ha la caratteristica di cavalcare l’onda del consumismo sfrenato che porta il consumatore ad acquistare beni di cui non ha bisogno, e che hanno una durata molto limitata nel tempo, con ciò incentivando la deforestazione. Per rispondere a queste accuse l’azienda ha predisposto un programma di riacquisto e vendita di mobili usati.
A giugno del 2022 un’indagine condotta da Reuters ha evidenziato che l’azienda britannica multinazionale Unilever ha eluso i divieti circa l’utilizzo di bustine monouso per la vendita di prodotti in piccole quantità. In particolare tali bustine vengono utilizzate soprattutto nei paesi in via di sviluppo ed essendo contenitori usa e getta rappresentano una delle forme principali di inquinamento dell’ambiente e in particolare dei mari.
Di recente, ad aprile 2023 è stata accusata di greenwashing la compagnia aerea KLM per pubblicità ingannevole; in particolare si utilizzava la pubblicità per suggerire che il viaggio in aereo non è una scelta sbagliata dal punto di vista ambientale (campagna c.d. Fly Responsibly). La compagnia aerea sottolineava l’uso di carburante eco sostenibile e l’adozione di aerei ad idrogeno quando la relativa tecnologia sarà sviluppata. Tra gli accusatori diversi gruppi non profit tra cui Fossil Free, ClientEarth e Greenpeace che hanno sottolineato l’ingannevole pubblicità rappresentata da giovani speranzosi e possibili tecnologie future non ancora presenti. La campagna pubblicitaria è stata interrotta.
Anche l’azienda italiana San Benedetto ha dovuto pagare una multa di 70.000 euro per aver fatto pubblicità ingannevole basata su bottiglie prodotte con meno plastica, risparmio di energia e di emissioni di CO2, e quindi ecosostenibili. In realtà l’Antitrust ha evidenziato che all’epoca non sarebbe stato possibile calcolare il reale risparmio di energia e la diminuzione delle emissioni di CO2 in quanto non erano disponibili strumenti idonei a quantificare tali benefici ambientali.
Nel 2021 l’azienda petrolifera statunitense Chevron è stata accusata di pubblicità ingannevole in quanto aveva sopravvalutato i suoi investimenti in energie rinnovabili e nelle strategie per la riduzione delle emissioni di gas serra. In particolare i gruppi non profit Global Witness, Greenpeace e Earthworks hanno individuato le pratiche ingannevoli contenute nella pubblicità di Chevron in quanto gli investimenti in fonti rinnovabili rappresentavano il solo 0,2% delle spese in conto capitale. Sono state quindi richiamate le linee guida del 2012 della Commissione Federal Trade che mirano ad impedire che le aziende rilascino false dichiarazioni ambientaliste. Sono state così riconosciute illegali 15 campagne pubblicitarie della Chevron tra cui le pubblicità “Human energy” e “We Agree”.
Non ci rimane che dire: vigiliamo attentamente perché il benessere del pianeta dipende prima di tutto da noi consumatori, da ogni nostro piccolo gesto!