VERSO IL RICONOSCIMENTO DELL’AUTONOMIA DIFFERENZIATA
di Alessandra Di Giovambattista

Il terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione italiana prevede che particolari materie di legislazione concorrente (come ad esempio l’istruzione, la tutela dell’ambiente e dei beni culturali) possano essere attribuite alle Regioni a statuto ordinario, dietro loro richiesta e sulla base di un’intesa tra Stato e Regione stessa. La legge che attribuisce la c.d. autonomia differenziata, deve essere approvata a maggioranza assoluta dei componenti del Parlamento.
Il 28 febbraio 2018 il Governo Gentiloni ha sottoscritto tre accordi preliminari con altrettante regioni: Emilia Romagna, Lombardia e Veneto che hanno fatto formale richiesta di riconoscimento delle forme di autonomia differenziata. Gli accordi sottoscritti dispongono che i patti debbano avere una durata decennale, modificabile in qualsiasi momento, di comune accordo, qualora si verifichino condizioni che ne giustifichino la revisione. Le materie di trattativa sono la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, la tutela della salute, l’istruzione, la tutela del lavoro, i rapporti internazionali e con l’Unione europea, con la possibilità di estensione ad altre materie. In particolare l’accordo con la regione Lombardia prevedeva, a differenza delle altre due regioni, la possibilità di poter decidere anche in tema di coordinamento con la finanza pubblica e con il sistema tributario, nonché di occuparsi del governo del territorio.
Successivamente nell’estate del 2018, durante il primo Governo Conte, tutte le tre Regioni hanno manifestato l’intenzione di ampliare il novero delle materie da trasferire. Ad esse si sono poi aggiunte altre Regioni che pur non avendo sottoscritto alcuna forma di intesa preliminare hanno espresso la volontà di ottenere ulteriori forme di autonomia; in particolare sono pervenute al Governo le richieste da parte di Piemonte, Liguria, Toscana, Umbria, Marche e Campania.
A febbraio del 2019 il Ministro per gli affari regionali ha illustrato i contenuti delle intese tra Governo e Regioni Veneto, Emilia Romagna e Lombardia, aprendo così un ampio dibattito tra le parti in causa. Le problematiche oggetto di analisi ed approfondimento hanno riguardato, tra le altre, le modalità di coinvolgimento degli enti locali, il ruolo del Parlamento e la possibilità di poter presentare emendamenti al disegno di legge che contiene gli accordi e la determinazione dell’ampiezza delle materie da attribuire. Al fine di poter effettuare una stima del valore delle competenze trasferite, sono stati definiti dei costi standard (cioè l’individuazione di costi unitari per effettuare una prestazione) e dei livelli essenziali di prestazione (LEP, cioè livelli minimi di prestazione che si vuole vengano garantiti su tutto il territorio nazionale al fine di escludere difformità di prestazioni a livello locale) con la finalità di definire la problematica di natura finanziaria. La definizione dei LEP ha trovato un posto anche tra le riforme previste nel Piano nazionale di ripresa e resilenza (PNRR) con scadenza nel marzo 2026.
Nel 2020, durante il secondo Governo Conte, è stato previsto di far precedere la stipula delle intese dall’approvazione di una legge-quadro che definisse le modalità di attuazione della autonomia differenziata, posizione che è stata confermata anche dal Governo Draghi che durante il 2021 ha lavorato per istituire una apposita Commissione con compiti di studio, supporto e consulenza. Tale Commissione ha fornito spunti di riflessione per una prima definizione del testo di disegno di legge-quadro; tuttavia nel 2022, alla fine della XVIII legislatura, il disegno di legge non è stato presentato.
Con la XIX legislatura, nella riunione del 15 marzo del 2023 il Consiglio dei Ministri ha approvato un disegno di legge che determina i principi generali per l’attribuzione di particolari forme di autonomia a favore delle Regioni a statuto ordinario. Tale disegno di legge, che contiene disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata, è stato presentato al Senato dove ha iniziato l’iter di esame presso la Commissione affari costituzionali nel maggio del 2023. Nello specifico si dispone che il procedimento di approvazione delle intese deve partire dalla Regione interessata, sentiti gli Enti Locali, e l’iniziativa può riguardare una o più materie; il negoziato tra Governo e Regione servirà per definire uno schema di intesa preliminare. Lo schema dovrà poi essere corredato di relazione tecnica (che espliciti e quantifichi oneri e/o minore o maggior gettito) e dovrà acquisire entro 30 giorni il parere della Conferenza unificata Stato Regioni. Nell’ambito delle intese tra Stato e Regioni dovrà essere indicata anche la durata dell’accordo che non potrà, in ogni caso, eccedere i 10 anni; esso potrà essere revisionato su iniziativa di una delle due parti. Alla scadenza del termine di durata dell’intesa essa si intende rinnovata per un altro decennio, salva diversa volontà dello Stato o della Regione, e ciò deve essere espressamente dichiarato almeno un anno prima della scadenza. Nell’eventualità che si vogliano attribuire nuove funzioni in ambito di diritti civili e sociali, garantiti su tutto il territorio nazionale, sarà necessario determinare prioritariamente i livelli essenziali delle prestazioni (LEP), al fine di assicurare efficacia ed omogeneità su tutto il territorio nazionale dei servizi prestati, nonché i costi e i fabbisogni standard, con lo scopo di monitorare l’efficienza dell’attività gestionale per evitare sprechi e disservizi. Il finanziamento dei livelli di prestazione sulla base dei relativi costi e fabbisogni standard viene attuato nel rispetto degli equilibri e della parità di bilancio così come previsto dalla legge di contabilità e finanza pubblica; infatti qualora dai nuovi livelli di prestazione dovessero derivare maggiori oneri per l’erario, si procederà al trasferimento delle funzioni a livello regionale solo dopo che saranno state individuate nuove o maggiori risorse che consentiranno di garantire il pareggio di bilancio. Sia lo Stato sia la Regione potranno poi disporre verifiche atte a valutare il raggiungimento dei livelli essenziali delle prestazioni.
Il 3 maggio del 2023 la Commissione affari costituzionali del Senato ha iniziato l’esame del disegno di legge per l’attuazione dell’autonomia differenziata; il successivo 6 giugno è stato definito il testo sulla cui base sono stati presentati alcuni emendamenti. Il termine ultimo è stato il 3 agosto, data in cui gli emendamenti dei relatori sono stati presentati per recepire le condizioni presentate dalla Commissione bilancio e sono così iniziate le votazioni sugli ordini del giorno. Quando sarà dato il benestare dalle Commissioni parlamentari la legge approderà in Parlamento; tuttavia prima di tale passaggio è necessario che una Cabina di regia stabilisca i livelli di LEP che serviranno a suddividere le diverse prestazioni, riconducibili alle differenti materie di interesse regionale, individuandone costi e fabbisogni standard.
Compreso così l’iter e la sostanza politica dell’autonomia differenziata non rimane che interrogarsi su quanto sia positiva ed inderogabile questa scelta; da più parti infatti ci si è domandato se rappresenti davvero una gestione controllata e più efficiente della spesa pubblica o se invece non significhi rimarcare ancora di più le differenze e le disuguaglianze tra Regioni più ricche e quelle meno prospere. Riassumendo l’autonomia differenziata consente alle Regioni a statuto ordinario di poter disporre autonomamente su materie di competenza concorrente con lo Stato ed in tre materie di competenza esclusiva; per finanziare tali attività le Regioni tratterrebbero una parte del gettito fiscale incassato sul proprio territorio, ma destinato all’Erario. Quindi questa parte di gettito non verrebbe più suddiviso a livello nazionale in ragione dei parametri di popolazione e di necessità locali. Questo tipo di autonomia, prevista dall’articolo 116 della Costituzione non è  mai stata attuata proprio per la delicatezza della questione che pone in campo le grandi differenze che esistono sul territorio italiano, in particolare con riferimento alla spaccatura tra nord e sud del Paese. Autonomie di questo genere sono considerate pericolose in quanto potrebbero acuire ancora di più le già presenti situazioni di disuguaglianza all’interno del territorio nazionale.
Naturalmente si annoverano soggetti a favore e soggetti contro; chi è a favore dell’autonomia differenziata basa le proprie considerazioni essenzialmente sul principio che sottolinea la necessità che la spesa pubblica sia strettamente collegata con la collettività che sopporta l’imposizione, secondo il concetto per cui: più è stretto il rapporto tra chi paga i tributi e chi spende le risorse e maggiore sarà il controllo con la conseguenza che sarà migliorato il livello di economicità e saranno minimizzati gli sprechi. Questa teoria si basa sullo stretto legame tra i politici locali, che conoscono il territorio sul quale governano, ed i cittadini che in esso vivono e che possono verificare e controllare direttamente il loro operato, decidendo al momento dell’espressione del voto. Inoltre i servizi necessari su un territorio saranno calibrati secondo gli effettivi bisogni, escludendo quindi costi basati sul criterio storico della spesa che non verifica le effettive necessità ma stima gli oneri pubblici in ragione di quanto fatto nel passato. Però prima di escludere il criteri della spesa storia sarà necessario implementare e quantificare i LEP che vanno garantiti su tutto il territorio nazionale.
Coloro che sono contrari a questa forma di autonomia sottolineano la sottrazione di risorse che andrebbero invece ripartite sul territorio nazionale per evitare una differenziazione dei servizi e delle infrastrutture ed una disgregazione del tessuto socio-economico nazionale. Essi si appellano anche ai principi costituzionali e di scienza delle finanze che richiamano la solidarietà politico, economica e sociale tra i contribuenti, ciascuno in base alla propria capacità contributiva, che deriva dal reddito complessivo prodotto (principio che ha determinato, per esempio, la progressività dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, IRPEF). Un’attenzione particolare poi deve essere posta sui servizi pubblici strategici del paese: i trasporti, l’energia, la sanità, l’istruzione; è necessario che essi vengano forniti con uguale intensità e qualità su tutto il territorio nazionale al fine di evitare che territori più svantaggiati soffrano ancora di più, amplificando le differenze negative rispetto al resto del territorio. Infatti in un sistema di autonomia le risorse delle zone più ricche rimarrebbero circoscritte nel territorio aumentando le differenze non solo a livello nazionale ma anche all’interno delle Regioni stesse.
L’analisi macroeconomica evidenzierebbe che anche le Regioni ad autonomia differenziata sarebbero penalizzate perché l’economia nazionale, che si basa per una buona parte anche sulle produzioni del Mezzogiorno, di fronte a diversità socio-economiche si presenterebbe come un sistema complessivo zoppo, destinato al collasso. Non mancano poi economisti che sottolineano l’attuale inesistenza di un modello che possa verificare le capacità di gestione di una Regione rispetto allo Stato: siamo sicuri che le Regioni sappiano fare meglio e di più rispetto al Governo nazionale o che la frammentazione territoriale dei servizi ne migliori l’efficienza e l’efficacia? Senza un sistema collaudato di misurazione degli obiettivi e dei risultati, nonché senza politiche di controllo di gestione, ogni ipotesi rimane vacua e priva di fondamento. Da anni si chiede un esame a consuntivo della gestione della cosa pubblica; un simile controllo aiuterebbe a governare gli scostamenti e a ragionare in merito a possibili azioni correttive che, a prescindere dalla tipologia di politiche territoriali o nazionali, contribuirebbe a verificare e a garantire l’utilizzo economico delle risorse che ognuno di noi, a legislazione vigente, versa sia all’Erario sia agli Enti Locali.