PLASTIC TAX AD UN BIVIO: INTRODURLA O ELIMINARLA.

di Alessandra Di Giovambattista

 

Il legislatore che nel 2019 ha previsto l’introduzione della plastic tax lo ha fatto con la finalità di disincentivare l’uso di imballaggi in plastica monouso (MACSI) a favore di processi virtuosi di riciclo delle materie plastiche e di utilizzo di materiali compostabili. Quindi l’imposta avrebbe dovuto pesare sulle aziende che da decenni riscuotono enormi profitti promuovendo la produzione e l’utilizzo di grandi quantità di imballaggi non sempre utili e giustificabili, penalizzando l’ambiente, e senza porsi il problema della gestione e del recupero attraverso il processo di riciclo. Ma la domanda importante da porsi è: il provvedimento sarà davvero efficace dal punto di vista ambientale? La plastic tax sarà solo una imposta da pagare in più, oppure si dimostrerà davvero come un utile strumento per disincentivare i consumi dei prodotti monouso e per incentivare comportamenti virtuosi nei produttori e nei consumatori, verso l’uso di materiali compostabili e meno inquinanti?

Da più parti, ed in particolare in più sedi territoriali di associazioni rappresentanti il mondo produttivo, in contrapposizione al nuovo tributo si è paventata l’ipotesi che la plastic tax fosse un’imposta introdotta esclusivamente per trovare risorse finanziarie a copertura di maggiori spese pubbliche, essendo del tutto inutile, se non dannosa, per l’economia e l’ambiente. La maggiore accusa è stata quella di conformarsi come uno strumento punitivo in conflitto con provvedimenti costruttivi che andrebbero opportunamente introdotti. In particolare rappresenterebbe un ostacolo ai progetti ed agli studi mirati a ridurre l’uso della plastica, che avrebbero invece bisogno di regole certe e stabili e non di sottrazione di risorse. È stata pertanto auspicata una politica concreta finalizzata a costruire una cultura dell’ecologia. Si è voluto quindi sottolineare l’importanza degli incentivi da erogare a quelle aziende virtuose che forniscono prodotti e implementano strategie di vendita attente all’ambiente (come ad esempio i corner green dove i consumatori possono acquistare detersivi ed alimenti in contenitori personali, oppure ricevere piccoli sconti e buoni in caso di conferimento di contenitori in plastica) ed escludere del tutto politiche che penalizzino le aziende meno virtuose. Altra accusa riguarda il fatto che la plastic tax rappresenterebbe una sorta di doppia imposizione, in quanto le aziende già oggi pagano il contributo CONAI per la raccolta ed il riciclo di imballaggi in plastica, ed andrebbe ad impattare direttamente sui prezzi di beni a larghissimo consumo.

Dalla parte opposta, quindi a favore dell’imposta, leggiamo un’analisi condotta da Greenpeace Italia, dove si sottolinea che la mancata entrata in vigore della plastic tax, oltre a non aver garantito un afflusso di risorse finanziarie per l’erario, (la relazione tecnica finale parlava di più di un miliardo di euro annui) ha obbligato l’Italia a pagare circa 800 milioni di euro all’Europa a titolo di imposizione sull’uso di prodotti in plastica non riciclabili (la citata decisione europea 2020/2053). Inoltre tali posticipi hanno favorito un settore industriale che continua a realizzare grandi profitti. L’indagine ha evidenziato che il settore della plastica gode di ottima salute mentre i costi derivanti dal mancato riciclo degli imballaggi sono sostenuti dalla collettività intera; e in realtà si tratta non solo di esborsi finanziari ma soprattutto di costi in termini di salute e minor benessere! L’indagine evidenzia infine una situazione paradossale in cui il Governo, soggetto che dovrebbe tutelare i cittadini, ed il mondo industriale sembrano ambedue voler puntare sul riciclo dei MACSI ma in realtà si oppongono all’entrata in vigore della tassa che dovrebbe, in modo indiretto, incentivare il mercato dei prodotti riciclabili e lo sviluppo di tecnologie di riciclo e recupero della plastica. L’indagine si conclude con una netta accusa dell’inerzia dell’Italia circa l’introduzione della plastic tax che, secondo Greenpeace, potrebbe essere invece un utile mezzo per contribuire a ridurre l’inquinamento da plastica usa e getta.

Esposti i pareri contro e a favore dell’imposta sui MACSI proviamo a farci un’opinione personale. In prima battuta osserviamo che le aziende non sopravvivono in ambienti dove non c’è chiarezza normativa, soprattutto in ambito fiscale. Le strategie aziendali si basano anche, e soprattutto in un Paese come l’Italia con una forte pressione fiscale, sulle politiche di programmazione tributaria. L’incertezza normativa non permette di costruire piani di sviluppo concreti; chi di noi potrebbe decidere una strategia senza sapere su quali elementi basarsi? Un Paese che costantemente rinvia l’entrata in vigore di una imposta che si basa su validi presupposti socio/economici dà una pessima immagine di sé ed allontana i possibili investitori, sia nazionali sia esteri: per piacere o manteniamo la norma e l’applichiamo oppure togliamola definitivamente, una volta per sempre!

Un altro aspetto da considerare è l’onestà delle scelte aziendali; purtroppo in un tessuto economico dove è molto potente la componente delle aziende multinazionali, peraltro estere, le decisioni vengono prese esclusivamente con riferimento al profitto. Il problema dell’inquinamento ambientale non rientra tra gli interessi di aziende che di fatto delocalizzano le proprie attività con l’obiettivo di trovare delle escamotages per non rispettare le norme vigenti nei propri Paesi! Ci troviamo di fronte a soggetti che non agiscono secondo deontologia e correttezza ma esclusivamente per il loro profitto. Per tali soggetti ritengo che norme rigide ed anche costose possano fare la differenza soprattutto a favore del principio per cui andrebbero premiate le aziende più virtuose che ormai non sono più quelle che rispondono solo ai classici principi di economicità, ma sono quelle che rispondono anche a principi di sopravvivenza ambientale (che di fatto dovrebbe ormai rientrare nell’accezione più ampia ed attuale di economicità). In questo senso bisognerebbe quindi prevedere un sistema circolare in cui chi più inquina più paga e le risorse ricavate vanno ad incentivare le aziende più virtuose ed innovative dello stesso settore; in questo modo forse si potrebbe innescare un processo positivo autogenerante. Il punto fondamentale da considerare è che non bisogna solo considerare l’effetto deterrente dell’imposta, ma parallelamente occorre prevedere sgravi ed incentivi per il ricorso ad alternative davvero ecologiche che si basino soprattutto sulla formazione di una nuova mentalità non consumistica che non approvi il prodotto monouso (usa e getta), di qualunque tipo esso sia. La scelta di premiare i virtuosi senza sanzionare i più inquinanti potrebbe risultare una politica non a saldo zero: di fatto potrebbe privilegiare i meno rispettosi innescando una spirale negativa e pericolosa. Da ricordare, in questo senso, tutte le aziende che hanno truffato i consumatori e danneggiato l’ambiente attraverso pratiche di greenwashing!

Andrebbe poi sottolineando che un atteggiamento altalenante circa l’introduzione di una norma espone il Paese a ricatti da parte delle imprese monopoliste; sulla questione plastic tax, la Coca-Cola Italia ha giocato un ruolo fortemente decisionista; infatti di fronte alla possibilità che anche l’Italia introducesse la plastic tax (oltre alla sugar tax) il colosso americano ha paventato licenziamenti e chiusura di stabilimenti (a Marcianise e ad Oricola), blocco di investimenti, acquisti di materie prime da altri Paesi (il caso delle arance per produrre la Fanta: l’Italia ha subito la minaccia che le arance venissero acquistate da fornitori esteri). È evidente che il sistema economico italiano è molto fragile. Dovremmo esigere più serietà e competenza dai nostri politici e manager per provare a recuperare un po’ di credibilità e dignità.

Infine sarebbe opportuna un’analisi del mercato del riciclo della plastica; il consorzio che si occupa del ritiro degli imballaggi in plastica in oltre il 90% dei Comuni in Italia è il Consorzio nazionale per la Raccolta il Riciclo e il Recupero degli Imballaggi in Plastica (Corepla) e garantisce l’avvio al riciclo del materiale raccolto. Ma effettivamente, quanta plastica si ricicla in Italia? Una percentuale pari a circa il solo 55,6% (in particolare vengono rinviati al riciclo 1,3 milioni circa rispetto ad un totale di imballaggi pari a circa 2,3 milioni di tonnellate), percentuale di poco superiore all’obiettivo che l’Unione europea dovrà raggiungere nel 2030 pari al 55%; tuttavia l’avvio al riciclo non significa attività di riciclo. Questo perché nella filiera produttiva quello che entra è sempre una quantità superiore a quella che ne esce. Infatti le nuove modalità di conteggio dei rifiuti riciclati, che utilizzerà l’Unione Europea per le dovute verifiche, non partiranno più dall’ammontare conferito, ma considereranno solo i materiali effettivamente riciclati in muovi prodotti o sostanze. L’applicazione di questo metodo di calcolo comporterà in media un taglio dell’8% circa (secondo i calcoli effettuati dall’Istituto Superiore per la Protezione - ISPRA) della quantità di prodotti riciclati comunicati, portando quindi l’Italia ad una percentuale del solo 47% (cioè 55,6% - 8%), pertanto fuori dall’obiettivo da raggiungere entro il 2030. Infine da sottolineare che i nostri rifiuti plastici non sono riciclati interamente in Italia; infatti solo 54 impianti dei 90 totali che trattano i nostri rifiuti sono sul nostro territorio, il resto è distribuito in 14 paesi dell’Unione Europea, più la Turchia. I settori che riciclano più plastica sono il settore degli imballaggi (c.d. packaging), seguito da quello dell’edilizia, e a ruota il settore igiene e arredo urbano, seguono il settore dei casalinghi, del mobile e arredamento, ed infine il settore agricoltura e tessile.

C’è la necessità di compiere scelte importanti e forti, non possiamo permetterci mezze misure; l’ambiente richiede rispetto e non c’è tempo da perdere, così come spesso evoca Papa Francesco: c’è in gioco la sopravvivenza del Creato! Noi, consumatori consapevoli, da che parte stiamo?