30-03-2020

 

                                                                                                                                       Grandi esploratori: Lady Florence Dixie


      Lady Florence Dixie era nata nel 1855 e passò la sua infanzia nel castello in Scozia insieme alla sua famiglia.
Sin da giovinetta conduceva una vita spensierata improntata sul permissivismo ed era incoraggiata dal padre in ogni suo movimento.
Le piaceva andare a cavallo, partecipare alle battute di caccia, praticava molti sport: il nuoto, la vela, il tiro con l’arco; amava vestirsi come voleva e vivere in grande libertà, sempre in simbiosi con il fratello gemello James. Questo suo meraviglioso modo di vivere terminò quando sua madre si convertì al Cattolicesimo. Le venne affiancato prima un precettore gesuita e, dopo un periodo in collegio, una governante non molto aggraziata. Allora si dedicò alla letteratura, scrisse racconti ma dopo l’allontanamento del suo gemello e la morte di un altro fratello, tre anni dopo si sposò con Lord Dixie.
Il matrimonio la salvò dal controllo materno e ripensò a quel viaggio tanto agognato nel ritrovare quello Yeti, a cui aveva per anni pensato.
      Lady Florence Dixie aveva letto appunti vari e libri su quello che poi sarebbe diventato “l’abominevole uomo delle nevi“, desiderava ardentemente avere notizie, conoscere questo essere di cui tutti parlavano e che nel primo suo viaggio nelle Ande non era stato possibile trovare.
Lesse i racconti di un altro esploratore, suo connazionale, C.G.Musters, che diceva di aver sentito parlare di un certo Yeti andino chiamato “el trauco“. È una specie di satiro peloso di bassa statura, con in mano un' ascia di pietra e un bastone. Musters così come Darwin non avevano né visto, né creduto a quest’uomo selvatico che secondo i montanari di tutto il mondo viveva nelle alte cime della Ande.
      Si sentiva anche parlare di un “Eldorado”, una mitica città perduta tra quelle cime, ricca di tesori.
La giovane Lady Florence non andava alla ricerca dell’oro, era molto benestante di suo; il suo era un viaggio avventuroso, basato sulla caccia, in linea con il gusto dell’esotico che avevano tanti altri inglesi dell’epoca. Oltre al marito, lady Florence partì con due dei suoi fratelli con la scommessa di trovare lo Yeti e la felicità di poter cacciare e cavalcare tra la pampa.
In quella spedizione volle portare con sé la stessa guida che aveva accompagnato Musters. Si avventurarono per lungo e per largo lungo le Ande occidentali, ma senza alcuna novità. Conobbe ed interrogò genti di razze diverse e di usanze molto lontane dalle sue, come il mangiare carne cruda.
      Capì che gli incroci tra le popolazioni potevano portare solo al peggioramento delle etnie originarie. Cercò di paragonare il mondo andino alle tribù del Nord America, vedeva tra loro molte affinità come l’abitudine di comunicare con segnali di fumo, colorarsi il corpo, credere negli sciamani e negli uomini della medicina. Dopo vari giri in queste zone dovette ricredersi, chiese anche il parere al grande Darwin, che risultò del tutto negativo e pensò allora di trascrivere questi suoi e altrui racconti in due romanzi. In uno di essi lo Yeti delle Ande diventa una specie di King kong, selvaggio ma gentile, che si prende cura di una giovane esploratrice come lei.
Ormai delusa dalle sue ricerche negative in tal senso, torna in Gran Bretagna e , subito dopo, si professa animalista e vegetariana, contraria del tutto alla caccia e alla vivisezione e purtroppo termina di scrivere, colpita da diverse malattie.
Emanuela Scarponi



 26-03-2020


                                                                                                                                                              The wall paintings in southern Africa
         Spread throughout the caves and beneath the shelters of the ‘kopjes’ in most of the southern part of Africa were done by the ancient Khoisan.  The style is similar to that of the prehistoric cave paintings of Africa and Europe, from Tanzania to the Sahara, from the north of Africa to Spain and France. The obvious analogy in form and style is not considered evidence enough to demonstrate an ethnic connection or even a cultural one between them. Today the Khoisan no longer produce paintings of this kind.
There are, however, reports that testify to the production of these paintings during the last century (ELA maybe you should change this to ‘during the 19th century’ the original must have been written pre 2000). The incisions seem to be older. In general they portray animals: gazelles, antelopes, elephants, ostriches. In the Sahara the wildlife painted enabled the paintings to be dated, this isn’t always possible in the south of Africa where the same animals live today.
The stratigraphy of the colours shows that the monochrome paintings precede the two-colour paintings, which precede the polychrome works. The refined reality of the animals can be, at times, surprising.The hunters are depicted either alone or in groups, there are social gatherings and ceremonies with men sitting in a circle.
The human figures are thread-like, but capture the agility of their movements.  It is often possible to recognize the ethnic origin of the figures: the Khoisan are short, yellow, red and brown in colour;  the Bantu are tall and black; the Europeans wear clothes and are armed with rifles.
The pre-Bantu period dates back to before the 1600’s; the European figures date back to the 18th and 19th centuries.
          We don’t need to hypothesize about amazing historical and cultural references when interpreting these representations.
For example, the ‘Sumerian clothes’ of some paintings are not Sumerian at all, but show the way that the inhabitants of the mountains of Lesotho dressed.
In the same way, the unusual figure in the gorge of Tsibab in Namibia, called ‘ The white woman of Brandberg’, is, without doubt, an African man covered in white decorations and beads according to the tradition of many African peoples.
           The explanation that the paintings had a motivation of magic seems plausible, but we must also recognize their style, apart from technical ability, the aesthetic sense of people used to being in touch with nature and with a high degree of social participation.
The settling of the Bantu into southern Africa is relatively recent. It dates back to the first centuries AD.However, the migratory movements, with the formation of new ethnic groups, still had not ended in the 19th century. During continuing studies, many archaeological remains have come to light regarding the most ancient movements, the most impressive and well-known are those in Zimbabwe.
The Bantu, however, pushed on further,  expanding their territories to the southern extremities of Africa mixing with the Khoisan, who , finding themselves in a clear minority, moved northwards.
Emanuela Scarponi


(Le pitture rupestri sparse in tutte le grotte e tra le rocce nella maggior parte dell'Africa australe sono prodotte dagli antichi San. Lo stile è simile a quello delle pitture rupestri preistoriche del resto dell'Africa e dell'Europa, dalla Tanzania al Sahara, dal Nord Africa alla Spagna e Francia. La ovvia analogia nella forma e nello stile non è considerata abbastanza evidente per dimostrare una connessione etnica o persino culturale tra loro. Oggi i Khoisan non producono più pitture di questo tipo.
Vi sono comunque resoconti che testimoniano la produzione di questi dipinti durante l'ultimo secolo. Le incisioni sembrano più antiche. In generale essi riproducono animali: gazzelle, antilopi, elefanti, struzzi. Nel Sahara gli animali selvaggi dipinti permisero di datare le pitture. Ma questo non è sempre possibile nell'Africa australe, dove gli animali sono sempre i medesimi. La stratigrafia del colore mostra che i dipinti monocromi precedono quelli bicromi, e policromi. L'esatta riproduzione degli animali può essere a volte sorprendente così pure le figure umane. I cacciatori sono dipinti o soli o in gruppo, ma catturano l'agilità dei movimenti. Spesso si riconosce l'origine etnica delle figure: i Khoisan sono piccoli, riprodotti con il giallo, rosso e marrone, i Bantu sono alti e neri; gli Europei indossano vestiti e sono armati.
Il periodo pre-Bantu risale ad un periodo anteriore al 1600; le figure europee risalgono ai secoli XVIII e XIX. Non abbiamo bisogno di ipotizzare alcunché circa i riferimenti culturali, storici, quando si interpretano queste rappresentazioni. Per esempio, gli abiti sumeri di alcuni dipinti non sono affatto sumeri ma mostrano il modo in cui gli abitanti delle montagne del Lesotho si vestono. Allo stesso modo, la figura inusuale nella Gole di Tsinab in Namibia, chiamata "La dama bianca di Brandberg", è senza alcun dubbio un uomo africano ricoperto di decorazioni bianche secondo la tradizione di molti popoli africani. La spiegazione per cui i dipinti avessero una motivazione magica sembra plausibile, ma dobbiamo riconoscere lo stile, al di là della abilità tecnica, ed il senso estetico utilizzato dai Khoisan che evidenzia il contatto con la natura e con un alto grado di partecipazione sociale.
La stabilizzazione dei Bantu in Africa australe è abbastanza recente. Risale ai primi secoli prima di Cristo. Comunque i movimenti migratori, con la formazione di nuovi gruppi etnici, non era ancora finita nel 19esimo secolo.
Durante i continui studi, molti resti archeologici sono venuti alla luce in relazione ai più antichi movimenti, i più impressionanti e più conosciuti dei quali sono quelli nello Zimbabwe. I Bantu, comunque, si spinsero in avanti, espandendo i lori territori alle estremità Sud dell'Africa mescolandosi con i Khoisan che, trovandosi in minoranza, andarono verso Nord).


 27-02-2020

 

                                                                                                                                     La marimba, trait d'union tra passato e presente
          In tutti i continenti l'incontro-scontro di civiltà diverse (nel caso specifico occidentali ed africane) ha visto il fiorire di forme di arte e di cultura incredibilmente ricche di elementi variegati ed assolutamente originali. Personalmente mi sono imbattuta nella moderna civiltà degli Indios del Messico, dove la religione cristiana si è sovrapposta alla religione animista (completamente avvolta in elementi naturalistici) degli antichi Maya ripercorrendone abitudini, costumi e credenze, ed introducendo i Santi che hanno preso il posto delle divinità Maya. I ritmi, i princìpi e le tradizioni delle etnie africane fanno da sfondo alla cultura africana moderna, che rivisita le antiche tradizioni animiste autoctone e cristiane assieme. Inconfondibili ritmi africani si mescolano quindi ad una più moderna concezione della musica e della vita africana moderna: un mescolamento che spesso si ritrova negli artisti moderni: musicisti, cantanti e danzatori che ancora sfuggono all'occhio dello studioso europeo. Sotto ai nostri occhi ecco l'incontro tra culture, canti religiosi antichi, propri della tradizione africana, e canti religiosi della moderna cristianità introdotta nel continente dai coloni. È la nuova cultura, quella auspicata da Wole Soyinka che tanto l'ha predicata ed inculcata, e da Nelson Mandela, poi incarnata in cantanti di rango internazionale come Miriam Makeba. Essa si impone come alternativa all'ormai sorpassato movimento della Negritudine di Leopold Sedar Senghor ed Aime Césaire, e soprattutto per gli eventi storici che si sono mano a mano susseguiti fino agli ultimi e recenti accadimenti dei Paesi nordafricani. Ebbene, lo sforzo dell'Africanista è pertanto oggi quello di individuare e cogliere la trasformazione della transizione del linguaggio musicale, nei suoi ritmi, propri della cultura africana contrassegnata dai suoi costanti e crescenti, tamburellanti e sempre più incalzanti e coinvolgenti ritmi in Africa, in particolare sempre strettamente connessi alla danza, che in questo continente assume ancora caratteri rituali ed al contempo di intrattenimento. Famosa è la danza rituale con i suoi ritmi, primi lenti e poi sempre più veloci, tesa al raggiungimento dello stato di incoscienza dell'individuo, che cade quindi in trance ed entra in contatto, secondo la religione animista, con Dio: questo è un fenomeno ancora oggi studiato con grande interesse dagli esperti di Storia delle religioni africane. La marimba, strumento di origine africana, è stata introdotta nell’America centrale dagli schiavi negri e più tardi si diffuse anche negli Stati Uniti e in Europa nell’ambito del jazz e della musica leggera. Il termine “marimba” deriva dal plurale di libimba che, in lingua bantu, indica uno xilofono fatto con tavolette di legno provviste di risonatori.
         Sull’origine della marimba ci sono opinioni contrastanti. P. R. Kirby dà per certa l’origine africana della marimba, mentre altri studiosi sostengono che essa è il risultato dell’involuzione di strumenti più perfezionati di origine orientale. Ma il modello africano possiede caratteristiche che non si riscontrano in quelli dell’Asia orientale. Al Nord del Deserto del Sahara, la marimba è sconosciuta, probabilmente non solo per la mancanza di legno, ma anche per ragioni storiche e culturali. Nel Sud Africa lo strumento più elaborato è lo xilofono con risonatori, chiamato mbila o ambira. In Angola viene tuttora chiamato marimba, mentre nel Congo è noto come pende, e nell’Africa occidentale come balafon. La marimba è stata introdotta in Europa nel XVI secolo e contemporaneamente in Ecuador e nelle Antille, da dove si è diffusa nell’America Centrale e del Sud. Attualmente si può trovare anche in Messico (con il nome locale di zapotecano), in Perù, in Colombia, in Honduras, nel San Salvador ed a Portorico.
           Si ritiene che la marimba a tastiera orizzontale sia stata inventata dagli Indiani Tecomates dello Stato del Chiapas in Messico. Tuttavia, il nome dello strumento fu importato dai Paesi africani perché, già nei primi anni del 1500, il commercio degli schiavi negri avveniva principalmente tra il Senegal, il Camerun e l’America del Sud. Nel Chiapas questo strumento, che talvolta ha un’estensione di 6/7 ottave, può essere suonato contemporaneamente da 7/8 esecutori. Lo strumento attraverso i secoli ha subìto delle considerevoli trasformazioni: in origine era costituito da tavolette di diversa lunghezza ed intonazione, appoggiate su telai a cornice e munite al di sotto di zucche vuote con funzione di risonatori. Nell’America Centrale erano utilizzati come risonatori canne di bambù o tubi di legno chiusi inferiormente. Nelle tradizioni popolari di tutti i Paesi e popolazioni del mondo la danza, così come il canto, rappresentano un momento importante di socializzazione e di celebrazione. Danza e canto, a loro volta, sono intimamente legati all'uso degli strumenti musicali. In Africa, fin dai tempi più remoti, la danza, insieme alle altre espressioni di musicalità dei popoli africani, ha avuto molte funzioni: da quella di accompagnare cerimonie religiose a quella di festeggiare particolari avvenimenti (matrimoni, nascite, cerimonie di iniziazione, feste per il raccolto, conflitti eccetera) ed è stata praticata anche nei villaggi più sperduti e nascosti delle immense foreste o degli altipiani.
           Attualmente vi sono molti complessi africani che trasferiscono anche sui palcoscenici di città di tutto il mondo le proprie esperienze musicali, anche se la tradizione continua, inalterata e genuina, in tutti i Paesi del grande continente africano. La "danza" si sviluppa con una continua articolazione delle 4 bacchette, presentando un ottimo esempio di colpi doppi laterali alternati e di colpi. La sezione successiva invece è costituita da una fuga dove mano destra e sinistra si sovrappongono indipendentemente, presentando soggetto e contro soggetto. Dopo un periodo “molto mosso” in cui la marimba si muove imitando la tecnica a due bacchette dello xilofono, questo tempo si conclude con una ripresa del tema iniziale di danza. Il quarto tempo si intitola “despedida” cioè conclusione. Il tema è proposto dalla mano destra, che si muove spesso con due note in ottava, e si appoggia sulla ritmica costante, tenuta dalla mano sinistra. Il centro di questo tempo è la cadenza: vengono ripresi frammenti di tutto il concerto, ognuno con il proprio particolare aspetto tecnico. Il tempo si conclude con la ripresa del tema iniziale e con note ribattute molto veloci. In conclusione, la marimba nell'Africa australe si pone come trait-d'union tra passato e presente e risulta adatta a riprodurre testi tradizionali animisti e dell'attuale moderna società africana.
Emanuela Scarponi

 

 

16-03-2020


                                                                                                                                              Gli Etruschi ed il mare
                                                                                                                Una grande mostra con reperti inediti alla Centrale Montemartini di Roma
                                                                                                                 “Egizi-Etruschi. Da Eugene Berman allo Scarabeo dorato”

        La grandiosità della civiltà egizia si fa leggenda, di racconto in racconto dei marinai che attraversano il Mediterraneo, nell'arco del tempo. Le leggende ed i racconti delle piramidi egizie, delle credenze religiose, delle tradizionali metodologie di mummificazione dei loro defunti fanno il giro del mondo e finiscono per influenzare anche inconsapevolmente la storia e le tradizioni dei popoli del Mediterraneo, culla delle antiche civiltà umane, e forse non solo, oltrepassando lo spazio ed il tempo. Le storie dell'antico Egitto raggiungono anche l'Etruria, che seppure civiltà più tarda nei secoli, conserva elementi propri della civiltà egiziana.
Fenici, Greci e Cartaginesi scambiano prodotti attraverso il Mar Mediterraneo e portano con sé anche tradizioni dei popoli incontrati, raggiungendo l'Etruria, le origini della cui popolazione restano ancora ignote e rappresentano ancora oggi un mistero per gli studiosi.
L'Etruria si estende nelle odierne Regioni italiane della Toscana e del Nord del Lazio. E degli Etruschi restano intatte le città funerarie, con le famose tombe ancora intatte.
Ogni qualvolta ci si accinge ad osservare le tombe etrusche che gli agricoltori di tanto in tanto scoprono arando il terreno, non si può fare a meno di pensare all'antica civiltà egizia. Lo stesso dicasi per le piramidi maya, anch'esse tarde rispetto all'antico Egitto, e con funzioni diverse dalla sepoltura, ad eccezione della meravigliosa piramide di Palenque e del suo re, su cui tante leggende si narrano. Le somiglianze sono tali da ispirare inconsapevolmente la nostra immaginazione...
Gli Etruschi furono sicuramente un popolo di marinai. Tito Livio scrisse in proposito: “La potenza degli Etruschi era così grande, che la fama del nome loro empiva non solo la terra, ma anche il mare in tutta l’estensione dell’Italia, dalle Alpi allo stretto di Messina”. Testimonianze tipiche della civiltà etrusca, come vasi di bucchero e bronzi lavorati, sono venute alla luce in Sardegna, nella Francia meridionale, in Spagna, in Grecia, in Africa settentrionale, in Asia Minore e Cipro e ciò attesta l'esistenza di una importantissima marina mercantile etrusca che rivaleggiava per il dominio del mare con Greci, Cartaginesi e Fenici.
Lo scambio sui mari con tutti questi popoli trasformò lo stile di vita ed aiutò lo sviluppo della società e dell'economia etrusca. Riporto il titolo di una pubblicazione individuata molto interessante a tale riguardo:"Manufatti etruschi e italici nell'Africa settentrionale (IX-II sec. a.c), in «Corollari. Scritti di antichità etrusche e italiche in omaggio all'opera di Giovanni Colonna», a cura di D.F. Maras, Pisa-Roma 2011, ". Ulteriori scoperte recenti arricchiscono la nostra conoscenza della storia passata che ci aiuta a ricomporre il puzzle della esistenza, di cui ancora oggi conosciamo solo alcuni frammenti. Nel 2016 le scoperte di Vulci ci riportano indietro nel tempo nel ripercorrere il tragitto inverso: elementi egizi vengono rinvenuti nelle tombe etrusche. Ne scaturisce una interessantissima mostra: Egizi ed Etruschi, una grande mostra con reperti inediti che ha avuto luogo presso la Centrale Montemartini di Roma.
Tra i più significativi ritrovamenti ci sono: la testa di leone in basalto, il leone in nenfro nella necropoli della Osteria; l'amuleto del Dio Nefertum in faience nella Tomba Castellani, lo Scarabeo dorato di Vulci. La presenza di amuleti egizi, rinvenuti in contesti tombali nelle recentissime campagne di scavo a Vulci, importante centro dell’Etruria meridionale, offre lo spunto per un confronto tra gli abitanti della Valle del Nilo e gli Etruschi, accomunati nella fantasia popolare dallo stesso alone di mistero. La civiltà etrusca, infatti, era aperta agli scambi commerciali e culturali con gli altri popoli che si affacciavano sul Mediterraneo e ne eredita l'essenza, facendole una sua forma d'arte. Lo scarabeo infatti è uno dei simboli più comuni nel mondo egizio, che ricorda l’aspetto del sole al mattino: Khepri, derivante dal verbo kheper, rinascere: è quindi essenzialmente un simbolo di resurrezione e non poteva mancare sulle mummie, posto in corrispondenza del cuore.
L'effettiva decadenza degli Etruschi iniziò nel 474 a.c. sul mare, quando i Greci d'Italia guidati dalla città di Siracusa gli inflissero presso Cuma una sconfitta decisiva, e subito dopo essi persero il controllo del Mar Tirreno. Con la perdita dell'indipendenza politica si concludeva il ciclo di un antico popolo che per secoli aveva primeggiato, per cultura e per ricchezza, nel bacino del Mediterraneo occidentale.

Emanuela Scarponi

 

 

 

 

 

 16-02-2020

 

                                                                                              Lo Stenografo parlamentare e la sua evoluzione nella storia

        Di tutto e di più si dice su questa figura concentrata ed attenta, orecchie e mani tese, pronte a scattare appena i fatidici parlamentari pronunciano una sola sillaba! Funzionano meglio di un registratore le preziose mani dello stenografo professionista che volano oltre la velocità del suono - grazie ad una tastierina che permette di utilizzare cinque dita per volta per trascrivere, invece delle solite due che guidano la penna - contemporaneamente alle parole pronunciate da un oratore, specialmente laddove interviene fuori microfono e le cui parole non risultano dalla registrazione-audio.
        La Costituzione disciplina la pubblicità dei lavori camerali in due noti articoli, in corrispondenza di due diversi aspetti delle attività parlamentari: all'articolo 64, in relazione all'Assemblea; all'articolo 72, in relazione alle Commissioni in sede deliberante-legislativa.
Nel primo dei due articoli si dispone che le sedute delle Camere devono essere «pubbliche» e che, «tuttavia ciascuna Camera e il Parlamento a Camere riunite possono deliberare di adunarsi in seduta segreta»; all'articolo 72 si stabilisce che sia il Regolamento delle Camere a «determinare» le «forme di pubblicità dei lavori delle Commissioni». Lo stenografo parlamentare è guardato con grande curiosità da tutti gli oratori, i cui ragionamenti incessantemente egli segue per cinque minuti consecutivi, enfatizzando e facendo proprio il ragionamento che da teorico, diviene una composizione scritta.
Lo stenografo parlamentare effettua questa operazione con tutti: maggioranza ed opposizione, in eguale misura e con eguale trasparenza. Guai se così non fosse: ne verrebbe meno l'equilibrio del funzionario istituzionale che, a differenza di un giornalista, il cui compito è quello di dare una sua interpretazione di quanto espresso, deve rispettare il pensiero degli oratori tutti, a garanzia del principio democratico, alla base del nostro Paese.
      E così, da oltre un secolo, gli stenografi parlamentari occupano la loro postazione al centro di ogni Aula parlamentare democratica per "garantire" la pubblicità dei lavori parlamentari e rendere così fruibile ai cittadini tutti, senza distinzione alcuna, tramite la pubblicazione quotidiana del Resoconto stenografico, quanto avviene nelle Aule del Parlamento. Esso è solitamente considerato dai cittadini organo estremamente lontano dalla vita quotidiana, quando invece al suo interno si decide l'andamento politico, economico e culturale di un Paese, la cui storia e progresso civile sono indispensabili per la sopravvivenza stessa dei suoi cittadini.
Solo conoscendo ciò che accade tra queste mura si può prendere atto di quanto si decide e quindi condividere, contrastare, avere una visione critica di ciò che accade e maturare una coscienza politica.
È stato introdotto anche un canale satellitare per trasmettere, in corso d'opera, le sedute parlamentari di Aula. "...Così è possibile dire oggi che rendono pubblici i lavori parlamentari tre grandi categorie di mezzi: quella diretto-testimoniale della presenza del pubblico; quella documentaria della comunicazione scritta; quella della comunicazione audio-visiva delle trasmissioni via etere.

     La prima forma antica non è praticabile in tutte le sedi dei lavori parlamentari e non è accessibile a tutti contemporaneamente; la seconda, impostasi con la modernità grazie alla introduzione della stampa ed alla alfabetizzazione generalizzata, rende la conoscenza dei lavori parlamentari potenzialmente disponibile a tutti; la terza avviene con la diffusione radiofonica e poi televisiva.
Lo stenografo parlamentare produce "...i resoconti, questi documenti a stampa, nei quali sono riportati le discussioni (i dieta), le deliberazioni (gli acta) e ogni altro accadimento proceduralmente significativo delle sedute parlamentari di Assemblea, di Commissione e di altre sedi collegiali delle due Camere: un vero e proprio genere letterario, con due specie redazionali, quella del resoconto sommario e quella del resoconto stenografico.
Questi sono documenti che non si esauriscono nella semplice operazione di trasferimento del parlato dalla oralità alla scrittura, con il trattamento della parola che questa operazione comporta, ma che riportano anche l'annotazione dei modi e delle forme con cui la discussione si è svolta e la deliberazione adottata, oltre che di quanto altro può avere caratterizzato l'andamento dei lavori (fisionomia). Questi aspetti non sempre sono legati alla stretta verbalità ma riguardano anche in comportamenti, e che, annotati nel resoconto, ne vanno a costituire (per usare il lessico corrente) la cosiddetta fisionomia.
Due aspetti caratterizzano dunque il resoconto: il mutamento della forma originaria della oralità nella forma definitiva della scrittura e l'attestazione dell'avvenuto non-verbale, proceduralmente rilevante. Entrambi servono alla pubblicità dei lavori, ma anche alla piena esistenza giuridica delle procedure documentate.
      La pubblicità dei lavori parlamentari assicurata dai resoconti ai nostri occhi appare oggi nella natura delle cose; in realtà si tratta di una acquisizione relativamente recente: vi sono più di quattro secoli di Parlamenti senza resoconti e la storia di questi atti tipicamente parlamentari si intreccia significativamente con altre storie: quella del giornalismo politico e della libertà di stampa e quella della nascita di governi responsabili, che hanno il loro avvio, in Inghilterra, nella seconda metà del Seicento.
La difesa della libertà di stampa contro la censura politica è sostenuta da Milton fin dalla metà del secolo (1644), con il noto argomento che la verità prevale sull'errore, quando entrambi possono essere liberamente attestati. Essa sembra convincere i Comuni che, nel 1695, non raggiungono l'accordo sul testo della legge che avrebbe dovuto confermare la censura preventiva, con il risultato forse non voluto della liberalizzazione della stampa politica.
La nuova libertà invogliò presto alcuni periodici ad avventurarsi anche sul terreno dei lavori parlamentari che - censura o non - continuavano ad essere al riparo della pubblicità, in forza di un privilegio che il Bill of Rights aveva riservato alla esclusiva competenza del Parlamento.
     Nascono i primi resoconti parlamentari; «resoconti-pirata», se si vuole, in violazione di quel privilegio: ma la violazione tollerata, di buon grado o non, dalle Camere, andò avanti per tutto il corso del Settecento, fino a che - come è destino di ogni fortezza assediata - anche quel privilegio venne espugnato, con la rinunzia ad esso, da parte dei Comuni nel 1803 e dei Lord nel 1807.
Da allora i resoconti parlamentari divennero legittimi. Nel Continente, la Costituzione francese aveva consacrato qualche anno prima (1791) il principio che le discussioni dell'Assemblea legislativa dovessero essere pubbliche e che i loro atti dovessero essere dati alle stampe, ma a quella data questo costituiva un uso ormai consolidato da decenni per la libera stampa britannica.
Ma che genere di resoconti erano? Si trattava di semplici servizi giornalistici, non sistematici, saltuari, non integrali, di parte, affidati alla buona o cattiva volontà, se non alla fantasia, del reporter.
Questa era la situazione quando, nel 1803, W. Cobbett, volendo curare uno studio di storia costituzionale, prese a raccogliere ordinatamente servizi sulle discussioni parlamentari secondo i criteri critici della storiografia moderna.
    La raccolta, pubblicata settimana per settimana sul Political Register, finì per costituire una fonte di conoscenza dei lavori parlamentari integrale, affidabile, insostituibile: cioè, quel resoconto che sarebbe poi stato preso a modello da ogni Parlamento.
Non politiche né giuridiche sono le origini di questo classico atto parlamentare, ma - almeno nella patria della «madre di tutti i Parlamenti» - ispirate alle esigenze della obiettività e della conformità al vero, proprie di una attestazione storica in senso moderno.".
Si annovera tra gli altri lo scrittore Charles Dickens, stenografo parlamentare del Parlamento inglese, la cui prima opera letteraria è The Pickwick Papers, concernente i pettegolezzi del Parlamento!
     Da qualche anno a questa parte, la presenza dello stenografo parlamentare è prevista per prassi anche in sedi non istituzionalmente sancite dal Regolamento.
Se sono obsoleti o non questi stenografi parlamentari è la domanda che molti si pongono cui non segue mai alcuna risposta, dato che gli stenografi non hanno come compito quello di parlare ma di trascrivere, passando il più possibile inosservati!
Sostituire tale figura presenta grossi problemi: pensare di lasciare tutto nelle mani di un giornalista è impensabile, come presero atto i Parlamenti nei secoli scorsi; di un registratore è altrettanto impensabile poiché ne deriverebbe l'impossibilità dì leggere ed analizzare gli atti. La questione rimane aperta da anni nei vari Parlamenti, in attesa di nuove tecnologie.

 Emanuela Scarponi

06-03-2020

                                                                          Le Aurore boreali
                                                                      Le fantastiche luci del Nord

       L’aurora boreale è il fenomeno naturale più spettacolare e bello dei cieli nordici. Nella mitologia romana classica Aurora è la dea dell'alba, mentre boreale è la traduzione latina di Nord.
Nell’emisfero Sud si chiama aurora australe, anche se raramente le aurore possono essere avvistate a latitudine molto bassa, perfino dall’equatore. Per comprendere le aurore dal punto di vista scientifico dobbiamo far riferimento al sole, all’interno del quale una fusione nucleare continuerà a bruciare per almeno altri 4.000 miliardi di anni. Il sole costantemente espelle milioni di tonnellate di particelle cariche di energia che percorrono lo spazio sotto forma di vento solare. Qualche volta, comunque il sole espelle sotto forma di una massiccia eruzione milioni di particelle. Alla velocità di 300/2000 km per secondi, le particelle impiegano da 2 a 4 giorni (viaggiando ad una velocità di 93 milioni di miglia) per raggiungere il pianeta Terra. Le particelle penetrano il campo magnetico della Terra e raggiungono la ionosfera, seguendo le linee dei campi magnetici intorno ai poli. Ad un'altitudine pari a 600/400 miglia le particelle colpiscono il gas presente nella ionosfera assumendo il colore del rosso e trasformandosi in quella che noi conosciamo come aurora boreale.
       Le luci nordiche come suggerisce il nome sono per la maggior parte limitate alle regioni polari e sono molto frequenti nel raggio di 2500 km dal Polo geomagnetico.  Questa zona, conosciuta come zona aurorale, si estende nel Nord della Scandinavia, Islanda, Groenlandia fino al Nord del Canada, dell'Alaska e lungo la costa della Siberia. Nell’emisfero Nord il miglior periodo dell’anno per avvistare l’aurora va da settembre a marzo. Comunque in estate non è possibile vedere l’aurora a causa delle lunghe ore della luce del giorno. Il colore delle aurore corrisponde ai differenti tipi di gas nella ionosfera. Gli atomi di ossigeno producono la luce rossa o verde, in relazione alla latitudine che si trova nella ionosfera. Invece la molecola di azoto produce la luce di colore blu o violetto ma il colore più comune è il verde. Durante una moderata o larga attività dell’aurora che può durare fino a tre ore, la quantità di energia rilasciata è più o meno l’equivalente di una piccola esplosione nucleare. Normalmente la durata di un'aurora è di pochi minuti e si ripete per parecchie volte durante la notte. L’attività più intensa delle aurore si ha durante le ore intorno alla mezzanotte e questo accade quando la parte larga dell’ovale aurorale passa sopra l’osservatore. L’inquinamento ed in particolare le luci di città possono drammaticamente ridurne la visibilità. Per questo bisogna osservare i cieli in campagna.
        Attraverso i secoli ci sono state molte testimonianze di persone che narrano di aver udito l’aurora ma fino ad ora i tentativi di registrazione di eventuali suoni sono falliti per cui la maggior parte degli scienziati sono scettici. Dall’antichità l’aurora boreale ha affascinato l’umanità ed il fenomeno ha caratterizzato in forma notevole la mitologia e il folklore di coloro che vivono alle latitudini nordiche. Le luci del Nord sono state descritte e spiegate magicamente dal popolo Inuit del Nord del Canada e della Groenlandia da varie tribù americane, esploratrici del mondo, e sono state menzionate nell’Antico Testamento. Grandi uomini come Aristotele, Galileo, Descartes, Edmond Halley, Goethe e Benjamin Franklin sono stati affascinati da questo fenomeno notturno del cielo e hanno scritto dei saggi su questo fenomeno. Alcune culture danno il benvenuto a questa luce celeste come augurio di buona fortuna, altri come messaggero di morte imminente. Nel folklore scandinavo questa luce viene spiegata come riflesso dei raggi di sole in un immenso branco di aringhe nel Mare del Nord. Per coloro che si trovano nel Mar Nero invece questa luce è sinonimo di grande presagio per una prosperosa pesca. Nella tradizione agricola svedese l’aurora viene descritta come l’aumento della fertilità della terra. La storia narra che le luci del Nord brillano quando vi sarà abbondanza di semi e promette una ricca mietitura. Nel continente americano gli eschimesi Copper del Nord del Canada pensavano che le aurore fossero gli spiriti responsabili per il tempo buono e per una caccia abbondante; per questo prestavano molto attenzione a non offendere mai le luci celestiali.
        In Cina ed in Giappone le luci del Nord sono state attribuite alla fertilità essendo considerata come predizione per una futura nascita. L’aurora boreale potrebbe essere di aiuto alla donna a partorire. Oggigiorno i giapponesi in viaggio di nozze vanno verso il Nord del Canada con la convinzione che i bambini concepiti con la luce del Nord prospereranno e saranno benedetti dalla buona fortuna. L’aurora è conosciuta per essere fonte d'ispirazione spirituale. In Russia si narra di un monaco che una volta ha udito una voce dal cielo che gli sussurrava di trovare il suo convento. Dalla sua finestra osservò la grande aurora nel cielo del Nord indicando la posizione dove lo avrebbe dovuto costruire. Attraverso i secoli questo monastero ha prodotto grande influenza positiva e grande ricchezza.
         Gli Inuit, popolo dell’artico canadese credevano nel potere curativo delle aurore, e gli sciamani compivano viaggi spirituali attraverso l’aurora per trovare risposte su come curare le persone malate. Tuttavia in molte culture l’aurora boreale è stata associata a situazioni minacciose e terribili. Nell’antica mitologia norvegese i raggi dell’aurora erano percepiti come il riflesso degli scudi della Valchiria quando cavalcava per il cielo portando i guerrieri morti in battaglia nel loro eroico luogo di riposo nel Valhalla.
         A volte, quando l’aurora è grande e si estende ad una latitudine più meridionale, diventa di colore rosso scuro. Nel passato gli abitanti che sono più a Sud d’Europa associavano questo fenomeno con il sangue e la battaglia, vedendolo come presagio di disastro. Prima dell’inizio della Rivoluzione francese gli abitanti di Scozia ed Inghilterra hanno testimoniato di aver udito il suono di una battaglia e di aver visto immagini di grandi eserciti in lotta tra di loro nel cielo.  Il 25 gennaio 1938 sono state registrate eguali drammatiche immagini quando l’Europa stava precipitando nell’altra Guerra mondiale. I Lapis nel Nord della Svezia nascondevano le loro donne dai raggi forti dell’aurora. Per tenere lontani le luci e ridurre il male della forza soprannaturale essi cantavano, nascondendosi nelle loro case, o quando erano all'esterno,  si coprivano per tenersi lontano dalla luce stessa. Come in Giappone così in Alaska il popolo Inuit temeva l’aurora e portava con sé un coltello affilato per sfidare la luce nascondendo il suo bambino per proteggerlo dal suo terribile potere ed invocava protezione, lanciando escrementi ed urine di cani contro l’aurora.
         Il popolo Inuit crede inoltre che gli spiriti tentano di comunicare con i vivi sulla Terra, con il fischio che qualche volta accompagna l’aurora, e a cui dovrebbe corrispondere un sussurro degli uomini. La maggior parte degli aborigeni del Nord sono d’accordo che esaltare e cantare all’aurora sia molto pericoloso e farlo servirà solo a provocare gli spiriti giacché questi lo vedranno come una burla. Gli spiriti adirati potranno scendere sulla Terra dove potranno accecare, paralizzare, decapitare o anche sequestrare i mortali che hanno osato insultarli, e per farli  scomparire è necessario un battito di mani.
         Secondo una credenza popolare della tradizione Inuit, le luci nordiche sono le anime dei morti che giocano sorridenti vigorosamente una partita di calcio, usando il teschio di un tricheco come pallone lanciandolo in modo che le sue zanne si infilano sulla terra ferma. Alcune culture credono invece che il tricheco vivo tenti di incornare i giocatori. In Islanda invece si pensava che se una donna incinta guardava le luci del Nord il suo bambino sarebbe nato strabico. In Groenlandia alcuni Eschimesi pensavano che le luci del Nord fossero lo spirito dei bambini nati morti o assassinati e che l’umore dell'anima di questo spirito si potesse vedere attraverso la formazione ed il movimento dell’aurora. Quando erano felici la luce danzava nel cielo ma quando erano tristi la luce rimaneva fissa; quando offesi, la luce precipitava sulla terra per prevenire la salita delle anime dei nuovi morti. Anche nell’età moderna una teoria molto particolare concerne la causa delle aurore: per esempio, le persone che vivono nel Nord America credono che le luci del Nord siano il riflesso del sole sul ghiaccio polare del Nord, malgrado l’oscurità perpetua dei mesi invernali della latitudine artica. Altra ipotesi è che la luce dell’aurora risulta provenire dai massi di ghiaccio galleggiante che si scontrano nel mare polare. Guardare il cielo in una notte chiara e fredda e vedere questi giganteschi strati di luci che serpeggiano e si intrecciano, danzando e correndo graziosamente attraverso il cielo nordico, ispira magia. Il poeta norvegese Knut Hamsun nel suo poema descrive il fenomeno dell’aurora come una festa celestiale. Per poter comprendere e apprezzare le luci del Nord dobbiamo prendere in considerazione la fisica delle particelle elementari, la mitologia, folklore e superstizione.
        Attraverso i secoli le aurore hanno affascinato l’uomo con meraviglia e paura. Essi hanno sfidato il lato scientifico ed artistico mentre la conoscenza scientifica del XXI secolo ha dato la precisa e fredda spiegazione di questo spettacolare fenomeno. Non dobbiamo mai cessare di meravigliarci di fronte all'affascinate storia del passato, apprezzare la bellezza naturale, la magia dell’aurora boreale e il mistero che l’esperienza cosmica ci offre.
Emanuela Scarponi

 

 06-02-2020


                                                                                                                                                                    I San del Kalahari
      Il quadro etnico anteriore all’arrivo degli Europei nell’Africa australe si presenta vivo e complesso e molto più articolato di quanto normalmente si ritenga. Gli studi storici, con una metodologia comparata che trae spunto dalle tradizioni orali e si avvale dell’analisi dei dati archeologici, etnologici, linguistici e botanici sono oggi progrediti nella ricostruzione del passato remoto dell’Africa. Le genti più antiche dell’Africa meridionale sono indubbiamente i Khoisan. Sono questi i nomi, Khoi e San, con cui gli studiosi preferiscono indicare rispettivamente gli Ottentotti e i Boscimani, termini di spregio coniati dai primi Europei. I Khoi furono detti Ottentotti con voce onomatopeica, perché nella loro fonetica vi sono frequenti suoni gutturali a schiocco (click), mentre i San furono detti uomini della boscaglia (Bosjeman in olandese, da cui l’inglese Bushman) perché dediti alla caccia. In realtà oggi si è inclini a considerarli due gruppi in uno, legati da una forma instabile di dipendenza tra padroni e servi corrispondenti a pastori e cacciatori, per cui era normale per un cacciatore San tentare di acquisire bestiame e trasformarsi in pastore, oppure per un pastore Khoi, se perdeva il suo armento, vivere esclusivamente di caccia. Agli antichi Khoisan appartengono le pitture rupestri disseminate nelle caverne e sotto i ripari dei kopjes di quasi tutte le regioni dell’Africa meridionale. Lo stile le raccorda con le pitture rupestri preistoriche dell’Africa e dell’Europa, dalla Tanzania al Sahara, dal Nord Africa alla Spagna e alla Francia. Ma l’evidente analogia delle forme e dello stile non viene considerata motivo sufficiente per supporre un’unità etnica o anche solo culturale dei loro autori. I Khoisan odierni non praticano più la pittura di questo genere. Vi sono però testimonianze che l’attestano viva ancora nel secolo scorso. Le incisioni sembrano più antiche.

     In genere ritraggono animali: gazzelle, antilopi, elefanti, struzzi. Mentre nel Sahara la fauna serve a stabilire l’antichità delle pitture, nell’Africa meridionale, dove gli animali dipinti sono ancora quelli di oggi, non si presta sempre allo scopo. La stratigrafia dei colori mostra che le pitture monocrome sono anteriori alle pitture bicrome e queste alle policrome. Il verismo delle figure animali è talvolta sorprendente per la raffinatezza. Vi sono rappresentati cacciatori singoli o coordinati in battuta, raduni sociali o rituali con uomini seduti a cerchio. Le figure umane sono quasi filiformi, ma colgono bene l’agilità dei movimenti. Spesso è possibile riconoscere l’appartenenza etnica delle figure: i Khoisan sono ritratti con statura bassa, colore giallo, rosso e bruno; i Bantu sono alti e di colore nero; gli Europei portano vestiti e sono armati di fucile. Il periodo pre-Bantu si fa risalire a prima del 1600; quello delle figure europee al XVIII e XIX secolo. Nell’interpretazione delle figurazioni non è necessario ipotizzare fantastici richiami storico-culturali. Per esempio, gli abiti sumeriani di alcune pitture non hanno nulla di sumerico, ma riproducono il modo di coprirsi degli abitanti delle montagne del Lesotho. Così pure, la singolare figura della gola di Tsibab nella Namibia, detta la dama bianca di Brandberg, è certamente un uomo africano ricoperto di decorazioni bianche e di perline secondo l’abitudine di moltissimi popoli africani. Se la spiegazione delle pitture per motivi magici può sembrare plausibile, sarebbe far violenza alle cose non riconoscere nel gusto della pittura, oltre l’abilità tecnica, il senso estetico di genti abituate al contatto della natura e a un grado notevole di partecipazione sociale. L’insediamento dei Bantu nell’Africa meridionale è relativamente recente. Risale ai primi secoli dopo Cristo. Tuttavia i movimenti migratori, con la formazione di nuovi gruppi etnici, non erano cessati ancora nel XIX secolo. Dei più antichi spostamenti ci sono rimaste numerose vestigia archeologiche che vengono alla luce con il progredire degli studi e delle quali le più imponenti sono quelle di Zimbabwe, conosciute ai più. Ma i Bantu si spingono oltre, espandendosi fino all’estremità dell’Africa australe dove incontrano mescolandosi i Khoisan che, in netta minoranza, risalgono verso Nord. La Namibia, Stato indipendente di recente istituzione, non può essere trattata quindi distintamente dal Sud Africa dal punto di vista storico-geografico ed etnico.

 Emanuela Scarponi