08-09-2019

                                                           Prigionia e sue ripercussioni sull'evoluzione della personalità artistica di Soyinka



      Nel 1967, Soyinka si trova a Londra, per la pubblicazione della raccolta di poesie Idanre and other Tales: in cui sono comprese poesie giovanili e poesie più mature apparse in precedenza in riviste e antologie come Encounter, Ibadan, Black Orpheus, Modem Poetry from Africa.
Nell'estate dello stesso anno viene nominato presidente del "Drama Department and the Arts Theatre" dell'Università di Ibadan; ma alcune settimane dopo la nomina, è nuovamente arrestato per essersi opposto alla soluzione militare della situazione biafrana. Da questo momento egli vive confinato in cella d'isolamento per due anni nel corso dei quali riesce a comporre alcune poesie, che giungono miracolosamente ad un amico londinese.
      Le poesie, raccolte nel '69 e nel '72 in Poems from Prison e A Shuttle in the Crypt, sono dominate da una simbologia tragica, con scene di morte, massacri, olocausti privi di ogni significato. La realtà nigeriana con i suoi orrori, le sue assurde violenze, si presenta alla mente del poeta come un giardino di cadaveri: “Da una lontana spiaggia gridano, dove sono finiti tutti i fiori? Io non lo so. qui i giardini mostrano solchi silenziosi e nudi”.
Rilasciato agli inizi del 1970, Soyinka costituisce una nuova compagnia teatrale, "The Theatre Arts Company", con cui inaugura la stagione statunitense.
È proprio a Watford, nel Connecticut, che rappresenta, infatti, la nuova commedia Madmen and Specialists. Quest'ultimo impegno teatrale, che vede trattata la figura messianica in modo meno protagonistico, si basa su un tema portante estremamente profondo, qual è infatti quello dell'”erosion of humanity in a well-organized, tightly controlled, authoritarian society".
     Queste parole rivelano ancora di più la ormai globale visione del mondo contemporaneo che ha Soyinka, e la sua grande capacità di capire i meccanismi che sono alla base del moderno sistema economico e sociale della nostra civilizzazione. L'opera rappresenta anche un'evoluzione della drammaturgia di Soyinka, poiché l'artista ha ormai acquisito una profonda consapevolezza dello strumento teatrale, che domina con sicura padronanza.
Ma è nel 1972 che appare il diario-documento The Man Died (Notes from Prison), in cui lo scrittore ripercorre con voce sardonica e luttuosa gli anni di detenzione. Il titolo del libro nasce da un suggerimento occasionale. Soyinka stava compiendo delle ricerche su un amico di Londra, quando ricevette un telegramma che ne annunciava in modo laconico la morte;
      A cable bearing the very simple words: The Man Died.I was struck first by the phrasing. It sounded weird, yet familiar(...) I heard the sound in man different voices from the past and from the future. It seemed to me that this really is the social condition of tyranny (,..); This evening I recognize in it the only title for this book. I address this book to the people to whom I belong, not to the new élite, not to the broad stratum of privileged slaves who prop up the marble palaces of today's tyrants, SOYINKA, Wole, The Man Died, Londra, 1973, pg.5-15. (Traduzione di Itala Vivan).
“Un telegramma con questa parola semplicissima: L'uomo è morto. Fui colpito per la prima cosa dal modo della frase. Mi suonava strana ed allo stesso tempo familiare (...). Udii il suono di molte voci diverse, provenienti dal passato e dal futuro. Mi parve che questa fosse realmente la condizione sociale della tirannia (…); Stasera ho conosciuto in questa frase l'unico titolo per questo libro.... Dedico questo libro al popolo cui appartengo, non alla nuova élite, non a quello ampio strato di schiavi privilegiati che erigono i palazzi marmorei degli odierni tiranni).
      Cosi Itala Vivan commenta la scelta del titolo: "E' importante notare come lo stesso Soyinka dichiari di avere riconosciuto, nel testo del telegramma, il titolo del libro. Conoscere è appunto riconoscere, è riportare a se stesso e alla propria interezza di uomo la verità e la talora sconvolgente difficoltà dell'esperienza. Nello stupore attonito e meraviglioso del riconoscimento, l'esperienza viene estratta dal gran fiume del divenire e collocata in un ordine diverso, che appartiene alla storia dell'uomo".
Ma il brano non si spiega tutto soltanto nel titolo; in esso compare anche una memoria personale degli anni passati nella cella di isolamento, in compagnia della sola "morte", sempre vicina e pronta a balzare su di lui. E’ un brano, quindi, che rivela in maniera ancor più profonda la sensibilità dell'artista, la sua sofferenza ed il suo dolore in quei giorni di morte, vinti dalla fede nella sua convinzione e dal disprezzo non solo per i despoti, ma anche per "quell'ampio strato di schiavi privilegiati che erigono i palazzi marmorei degli odierni tiranni.
    La stessa denuncia dell'ottusa brutalità della tirannia compare nel romanzo di Soyinka Season of Anomy, apparso nel'73. Quest'opera narrativa risulta costruita su strutture archetipe e densa di echi mitici; in uno scenario di morte e di stragi, il "viaggio" del protagonista Ofeyi, in cerca della donna amata Iriyise, si muta in una simbolica ricerca della vita. Irìyise è, infatti, il principio femminile rigenerativo, la Madre Terra. Ma la vita è negata e Ofeyi ritrova la donna morente in un cerchio infernale di lebbrosi e dementi, ultimi testimoni dell'assurdità della guerra.
    Nel 1976 è l'opera saggistica Myth, literature and African World, in cui Soyinka analizza i miti della cultura madre e commenta la recente produzione letteraria africana. Dal 1970 in poi, Soyinka ha viaggiato molto, facendo però sempre riferimento alla Nigeria.
Tra i suoi numerosi viaggi, egli ha avuto la possibilità di visitare anche l'Italia, e precisamente Firenze dove, nel giugno del 1977 è stato intervistato dal giornalista Pietro Petrucci per conto de La Repubblica. Alla domanda su quale fosse oggi 'in Africa la condizione dell'uomo di cultura, ha risposto ribadendo le posizioni già delineate in occasione della Conferenza di Stoccolma del 1967:"Bisogna tener conto che tutti gli artisti africani contemporanei sono venuti su in seno alla classe dirigente, sono fra coloro che hanno combattuto per l'indipendenza e dopo averla ottenuta, l'hanno gestita (..,). Questo matrimonio fra gli intellettuali e gli altri (politici, sindacalisti, militari) ha resistito durante le prime due stagioni della cultura africana moderna - quella dominata dalla lotta al colonialismo e quella dell'entusiasmo per l'indipendenza. Insieme alla terza stagione, quella delle delusioni succedute all'alzabandiera, è venuto il divorzio (...).
      L'Africa oggi è teatro di una furibonda lotta per il potere (...), è un'atmosfera pesante che tende ad emarginare l'intelligenza, la ragione, le idee. Il disimpegno non è nemmeno pensabile. A chi tenta di emarginarci dobbiamo rispondere denunciando l'arroganza, l'ignoranza, l'intolleranza. Appare evidente che, con queste parole, Soyinka non si limita soltanto a riaffermare i concetti di Stoccolma; a dieci anni di distanza, infatti, egli ha di fronte il quadro drammaticamente chiaro e disperato di un'Africa martoriata dalle lotte per la spartizione di un potere inesistente. Infatti, accanto alle più diverse ideologie di guerra, continuamente in lotta, sopravvive una popolazione stanca, povera, che conta migliaia di morti di fame ogni giorno e cerca solo un momento di pace e di stabilità per sollevarsi da quell'ignoranza e da quel sottosviluppo endemico che la attanagliano è dunque questa la voce di Soyinka; è questa la voce di un uomo che rifiuta il disimpegno, la stanchezza, la delusione e la paura, e che continua a combattere contro l'arroganza e l'intolleranza di tutti coloro che ancora oggi, per ingiustificati motivi economici e politici, fanno dell'Africa una terra di conquista e di morte.
Emanuela Scarponi

 


30-08-2019

Leopold Sedar Senghor: L'uomo, il personaggio, l’uomo politico.


Spesso anche i buoni testi di storia della letteratura ignorano oppure esaminano solo nelle linee generali autori africani o asiatici che in questo nostro secolo hanno presentato una ricca produzione letteraria - in versi e/o in prosa - nella lingua inglese o in quella francese. Per quanto concerne il campo della letteratura africana di espressione francese, un personaggio africano di particolare rilievo è Léopold Sedar Senghor.
Per poter meglio apprezzare l'autore occorre prima presentare la sua origine, il suo luogo natale, l'uomo, il personaggio: tutto ciò esercita un’influenza determinante sulla sua formazione e produzione letteraria.
Infatti dell'opera di questo figlio del continente africano, a cui egli è rimasto sempre molto legato, nulla si potrebbe gustare se non si tenesse conto dei seguenti fattori decisivi: la sua patria, il Senegal, il suo paese natio, Joal, situata ad un centinaio di chilometri a Sud di Dakar; le sue profonde radici nella terra africana, alla quale egli si é abbeverato sin dalla nascita ed ha analizzato i complessi problemi socio-politico-culturali; la sua seconda patria, la Francia, dov'egli ha trascorso parecchi anni, ha compiuto una parte dei suoi studi, ha insegnato assimilando giorno dopo giorno la lingua francese, fino a farla diventare il suo secondo idioma, anzi il primo quale mezzo internazionale di comunicazione del suo pensiero, dei suoi appelli, dei suoi sentimenti.
Se si dà uno sguardo alla carta geografica, si nota che nel continente africano il Senegal confina a Nord con la Mauritania, a Sud con la Guinea e Guinea Bissau, ad Est con la Repubblica del Mali, mentre ad Ovest esso ha di fronte l'enorme distesa dell’Oceano Atlantico. E' in questa terra lambita in parte dalle acque dell'Oceano che il piccolo Léopold ha visto la luce nel 1906 da padre cattolico, grande proprietario terriero che fece fortuna con il commercio. Ruolo importante fu svolto soprattutto dalla madre, la quale per le consuetudini in vigore nel gruppo dei Sérères continuò a rimanere legata, anche dopo il matrimonio, al suo clan, continuò a fruire dei suoi beni e ad essere considerata e rispettata.
A tale proposito sarebbe di particolare interesse uno studio dal titolo: “La donna nell'opera di Senghor”. Balzerebbe subito evidente l'ammirazione che egli ha sempre avuto per la donna, vista soprattutto nel difficile ma nobile compito dell'educazione dei figli. E’ un'educazione nella quale il bambino si abbevera alla fonte dell'africanità, di cui egli riceve l'essenza.
Il prenome Léopold si spiega perché egli è figlio di un cristiano, mentre Sedar è giustificato dalla sua appartenenza alla razza Sérère. I primi anni della sua vita sono caratterizzati dall'ambiente africano; anche la lingua nella quale egli esprime la gioia o il lamento, la preghiera e la gratitudine è africana: il Serere.
Nel 1913, mentre l'Europa sente già i prodromi della lunga e tremenda guerra mondiale, il piccolo Léopold Sedar entra nella scuola missionaria di Joal ed inizia lo studio di quella lingua internazionale - il francese - nella quale dovrà poi eccellere come insegnante e come scrittore.
La sua educazione si svolge in un ambiente cattolico sotto la guida dei "Pères du Saint Esprit" nel collegio Libermann a pochi chilometri dal citato villaggio di Joal. Se in Europa, la guerra è ormai scoppiata ed infuria, in quella piccola località del Senegal, il ragazzo Senghor progredisce nella cultura francese, impara a servir messa e prende dimestichezza con i canti della liturgia romana.
Dal natio villaggio di Joal al liceo di Dakar il passo è importante: c'è il primo impatto con un grande centro, la capitale della sua terra africana, c'è l'inizio dei suoi studi liceali.
Nel ragazzo, divenuto più maturo, spiccano le doti del giovane avido di conoscere; a differenza dei suoi coetanei egli preferisce la lettura ai giochi, lo scrivere alla pratica di gare sportive.
Che cosa poté provare l'africano poco più che ventenne quando all'inizio del 1928, ottenuta una borsa di studio, partì per la Francia, di cui egli aveva tanto studiato la storia ed i vari aspetti della cultura? Quale emozione dovette soffocare quando si trovò per la prima volta nella città di Parigi, delle cui luci e della cui fama egli aveva sentito parlare nel suo liceo in terra d'Africa?
Lasciamo la parola allo stesso Senghor:“...c'est un professeur de la Sorbonne, M. Ernout, je crois, que je dois la chance d'etre au lycee Luis-le grand. J'etais dèbarquè à Paris un jour gris d'octobre 1928. Malgré tout ce que j'en avais lu, le dépaysement fut grand, qui s'accentua, quelques semaines après, lorsque je m'assis dans un amphithéâtre de la Sorbonne. Livré à la liberté de l'étudiant, je n'arrivais pas à m'organiser, à travailler, j'étais désemparé.
Quel giorno Leopold Sèdar Senghor sentì la nostalgia del suo Paese natio. Comme vedremo, la nostalgia costituirà uno dei temi fondamentali nella creazione letteraria del nostro autore. Erano i suoi compagni di studio uomini che eccelleranno nel campo della letteratura, quali Thierry Maulnier e Paul Guth, oppure nell'ambito della politica come George Pompidou, Primo ministro del Presidente de Gaulle, e successivamente anche lui Capo di Stato, dal 1969 al 1974.
Agli inizi degli anni Trenta, Senghor conseguì la licence dès lettres per poi ottenere, nel 1935, l'agrégation de grammaire. Questi due titoli universitari gli procurarono la soddisfazione d'insegnare materie classiche in un liceo francese, prima nella città di Tours dal 1935 al 1944 e poi a Parigi dal 1944 al '48.
Ne aveva compiuta di strada l'africano del Senegal quando il 3 settembre del 1939 la Francia insieme con la Gran Bretagna scesero in guerra a fianco della Polonia invasa dalle truppe naziste del Terzo Reich! Ma il cammino sarebbe stato molto più lungo e costellato di tappe gloriose, sia dal punto di vista politico, sia da quello letterario.
Prima di entrare nella parte centrale di questa conversazione, ossia quella concernente Senghor ed il movimento letterario noto con il nome di Negritudine, Senghor e la civiltà dell'universale, Senghor poeta, mi sia concesso di spendere qualche parola sull’uomo politico.
Pochissimi sono stati, nello stesso tempo, figli del loro Paese africano e naturalizzati cittadini francesi, com'è il caso del nostro autore.
E' pur vero che non capita spesso di assorbire profondamente la cultura del Paese europeo nel quale si è accolti ed amare questa terra fino al punto di servirla in guerra nelle vesti di semplice soldato, subire per essa la prigionia e soffrire nei campi di concentramento.
Questo figlio, naturalizzato francese, non era rimasto insensibile all'appello lanciato dal Generale de Gaulle quando nel 1940 tutto sembrava che in Francia sprofondasse nelle tenebre dell'occupazione nazista.
Ecco però che, dopo gli anni bui coincidenti con il Governo di Vichy, uno sprazzo di luce ritorna, e Senghor riprende il "cursus honorum che lo porterà in tre lustri dalla cattedra di lingue e culture africane nell'Ecole Nationale della Francia d'Oltre-Mare a Presidente del suo Senegal, la terra a lui così cara. Infatti dal 1949 al I960 egli s'impone non soltanto come letterato, ma anche come personalità politica a livello internazionale. Le molteplici missioni da lui svolte con abilità in noti centri del nostro continente - quali Bruxelles, Lisbona, Firenze, Strasburgo - giustificano ampiamente la sua dichiarazione di affetto «à l'Europe à qui nous sommes liès par le nombril».
E' un altro esempio luminoso di legame tra letteratura e politica come la Francia ha più volte dato in questi ultimi due secoli. Basti pensare a Chateauxbriand, a Lamartine, a Stendhal nel XIX secolo ed a Claudel, a Saint-John Perse, a Giraudoux in questo XX secolo.

 Emanuela Scarponi

 

 

 

   2-08-2019

INTERVISTA a Marina BRUDAGLIO, giornalista e promotrice cine-turistica per L'Isola del Cinema


EMANUELA SCARPONI. In occasione della presentazione del documentario “Kathmandu: la valle incantata” in quella serata meravigliosa del 9 agosto dell’estate romana, a cura di Cinema e libri, incontriamo Marina Brudaglio, presso l'Isola del cinema che ci racconta la serata e le sue impressioni di spettatrice.

MARINA BRUDAGLIO. Buonasera a tutti, non mi aspettavo questa intervista, ma ne sono contenta perché, confesso che il reportage in essere mi ha distratto dal solito lavoro presso l'Isola Tiberina che, oltre ad essere un fulcro di Roma per tanti motivi, da quello storico a quello interreligioso, interculturale, diventa proprio un'agorà in cui si incrociano tanti mondi, tanti linguaggi e questa serata, in particolare, mi ha colpito l'argomento che riguarda il Nepal. Quindi entriamo con la mente in un altro Paese, in un'altra cultura. Si è parlato di Buddhismo. Ho visto tante belle immagini, mi hanno colpito le parole del libro” Kathmandu: la valle incantata” ed i particolari suoni emessi dalla campana tibetana diffusi sull'intera Isola.
Mi è piaciuta la serata dedicata al Nepal perché ha contato sul coinvolgimento di tutti questi linguaggi, per cui l'attenzione degli ospiti è sempre stata alta. Eventi del genere valorizzano ancora di più quello che l'Isola del cinema vuole essere.

EMANUELA SCARPONI. Esatto! Un incontro tra letteratura e film.

MARINA BRUDAGLIO. Esattamente! Fra linguaggi appunto che, in qualche modo, sono interdipendenti e si alimentano vicendevolmente.
A maggior ragione, questo viaggio in Oriente è stato anche allettante, era quasi come sentirne un po' i profumi ed averne una visione, attraverso sia le descrizioni che sono state fatte rispetto al libro, che dal video-documentario che è stato proiettato e dalle tante testimonianze. Quindi è stata una bellissima esperienza, sicuramente di valore.

EMANUELA SCARPONI. E della mostra fotografica?

MARINA BRUDAGLIO. Quanto alla mostra fotografica sull'Isola Tiberina è sicuramente un'esperienza da ripetere.

EMANUELA SCARPONI. E' stata un'esperienza unica anche per noi l'Isola del cinema!

MARINA BRUDAGLIO. Fantastico, sono contenta, anche perché questo luogo diventa proprio un'Isola per un incontro che sia di culture, di pensieri, di linguaggi.

EMANUELA SCARPONI. Soprattutto la cosa interessante dell'Isola del cinema e dell'Isola Tiberina in generale, è che persone che passeggiano e che vivono l'estate romana, riescono anche ad interagire con nuove esperienze.

MARINA BRUDAGLIO. Infatti è proprio questo! Essendo l'Isola aperta quasi esclusivamente l'estate, chi viene a fare una passeggiata, avendo in programma di vedere un film in cartellone, in realtà si trova coinvolta in una serie di altre esperienze impreviste, come quella di trovarsi catapultati in Nepal, per esempio, piuttosto che in un altro Paese o in situazioni culturali sempre diverse e, in qualche modo, stupefacenti.

EMANUELA SCARPONI. Questo è un volto abbastanza caratteristico della nostra città, unico al mondo, soprattutto perché bisogna scoprire bene l'Isola Tiberina, percorrendola.

MARINA BRUDAGLIO. Esattamente sotto la nave di Esculapio.

EMANUELA SCARPONI. Meravigliosa, originale e unica location. È come se la nave trasportasse arte oltre che storia.

MARINA BRUDAGLIO. Sì, è proprio un'arca di cultura.

EMANUELA SCARPONI. Insomma, chiunque abbia la fortuna di vivere questo tipo di esperienza, sia come spettatore sia come protagonista, non la dimenticherà facilmente, specialmente per l'ambientazione e lo sfondo del Ponte rotto che emerge dalle acque del Tevere.

MARINA BRUDAGLIO. Se ne sta da secoli immerso nell’acqua, con le sue arcate ormai distrutte e la vegetazione spontanea che sbuca dalle sue crepe, ergendosi al centro del fiume a ricordo della sua potenza e degli effetti devastanti delle sue piene.

EMANUELA SCARPONI. In effetti, siamo immersi nella Roma cinquecentesca.

MARINA BRUDAGLIO. Si dà per scontata la bellezza di cui siamo circondati e non ci si chiede neanche più cosa sia la nave di Esculapio, perché, cosa vuol dire, chi era Esculapio.

EMANUELA SCARPONI. Ce la racconti?

MARINA BRUDAGLIO. Vi posso accennare brevemente al fatto che Esculapio era il Dio della medicina e, non a caso, su questa Isola splendida sorge anche un ospedale che è il Fatebenefratelli; quindi il Karma del luogo si ripete e appunto la forma è proprio quella di una grande nave, dovuta a tutta una storia mitologica che vi invito ad approfondire e quindi vi voglio lasciare con questa curiosità e questo studio.
Devo dire che sono rimasta sorpresa, perché ci sono tanti romani come me che magari molte cose non le sapevano dell'Isola Tiberina e proprio la quotidianità e l'abitudine non ci fanno più incuriosire. Invece quando si ha la fortuna di frequentare un luogo, per diletto o per lavoro, esclusivo e suggestivo come questo, il valore aggiunto è quello che, ad un certo punto ti ritieni fortunata a lavorare qui. E quindi penso che questa sia una riflessione da fare anche quando si è in altri luoghi di questa incantevole città, perché dietro ogni arco c'è una storia e bisogna solo saperla raccontare e avere occhi attenti per rendersene conto. L’isola Tiberina è un crocevia di incroci e di contatti tra le arti. Praticamente nasce e cresce una strada, che prima è un viottolo qualunque, ma quando poi ci si addentra si dischiude un mondo sconosciuto e conquistarlo diventa molto piacevole.


EMANUELA SCARPONI. Sul Ponte Rotto e sui suoi fantasmi circola una leggenda di due amanti: una storia d'amore tra una donna romana cinquecentesca con un abito bianco che veleggiava sopra le onde del Tevere ed un giovane innamorato che la inseguiva... . Ci dovrebbero girare un film.


MARINA BRUDAGLIO. L'Isola del cinema è stata un successo e finalmente a Roma una cosa bella resta viva. Questa è la XXIIIesima edizione, sempre con spunti nuovi e comunque sempre con attenzione all'apertura ed al dialogo interculturale verso l'esterno, soprattutto attraverso il linguaggio della settima arte, cioè l'arte visiva, che racchiude l'essenza dell'arte al suo interno. E' quindi un'esperienza bellissima che si spera resti permanente e che cresca e si rinnovi sempre come, tra l'altro, sta facendo.

EMANUELA SCARPONI. Ed allora il nepalese?

MARINA BRUDAGLIO. Il nepalese sì, perché - ripeto - si è toccata con mano una realtà e, all'interno di questo spazio, c'è stato il connubio, nello stesso evento, di una serie di linguaggi, nella stessa serata. Quindi è stata una presentazione letteraria che ha giocato e dialogato con le immagini, con i suoni. Il ricordo di questa campana, usata normalmente dai monaci buddhisti, è rimasto nei miei ricordi.

EMANUELA SCARPONI. Allora prossimamente cosa ci sarà di bello?

MARINA BRUDAGLIO. Diversi film. Parlando di settima arte, però invito ad andare sul nostro sito isoladelcinema.com a trovare il calendario.

Emanuela Scarponi 

 

 

 29-08-2019

La Négritude.
         Se si vuole meglio comprendere la creazione letteraria di L. S. Senghor si deve prima affrontare e chiarire il tema della Négritude. Per quanto esista in lingua italiana un vocabolo corrispondente (Negritudine), preferisco lasciarlo in francese, com'esso è stato presentato negli anni Trenta, cercando di precisarne il significato e di farne apprezzare il valore. Si faccia anzitutto, come propone il Memmi, la distinzione tra “négrité e négrisme e Negritudine.
La Négrité è "l'insieme di persone, gruppi e popoli negri"; négrisme è "l'insieme dei valori tradizionali e culturali dei popoli negri"; Négritude è "il modo di sentirsi e di essere negri", mentre nel Grand Larousse Enciclopedie troviamo la seguente definizione: "l'ensemble des valeurs culturelles et spirituelles du monde noir". Come si nota il Larousse invece non fa grande distinzione.
Nel decennio che precedette la Seconda Guerra Mondiale, ossia negli anni compresi tra il 1930 ed il 1940, gli studenti africani che abitavano a Parigi solevano incontrarsi con gli scrittori americani di razza negra ed erano affascinati da alcuni temi maggiormente trattati, quali il culto degli antenati, l’esaltazione della razza, una certa nostalgia del paese natio, quasi sempre l'Africa.
Senghor africano sin nel più profondo del suo cuore fondò con Aimé Césaire e con altri studenti negri La Revue du Monde Noir: era il 1934.
Aimé Césaire, figlio della Martinica, scrittore e uomo politico, anche lui poeta, adoperò per la prima volta il termine Négritude qualche anno dopo nel suo Cahier d'un retour au pays natal. Ecco le definizione che in questo Cahier egli dà della Négritude. "...è il semplice riconoscimento del fatto di essere negro, l’accettazione di questo fatto, del nostro destino di negri, della nostra storia e della nostra cultura". Si tratta da un lato dell'amore per il Paese natio, l'amore per la Négritude, dall'altro dell'accusa contro il colonialismo.
Alle poesie di Césaire fecero eco quelle del senegalese Senghor e di Léon Damas della Guyana. Per Senghor la Négritude è "l’insie­me dei valori culturali del mondo negro, valori che si esprimono nella vita, nelle istituzioni e nelle opere dei negri. Dico che questa è una realtà: un intreccio di realtà. Non siamo noi che abbiamo inventato le espressioni "arte negra”, “musica negra”, "danza negra”. Non siamo stati noi (che abbiamo inventato) la legge di "partecipazione”. Sono dei bianchi europei. Per noi, la nostra preoccupazione, dopo gli anni 1932-34, la nostra unica preoccupazione è stata di accettarla consapevolmente, questa Négritude, vivendola e, avendola vissuta, di approfondirne il significato. Per presentarla, al mondo, come una pietra angolare nell'edificazione della "Civilisation de l'Universel", che sarà l'opera comune di tutte le razze, di tutte le civiltà differenti oppure non lo sarà affatto.
Quando la Francia si trovò sotto l'oppressione nazista, anche la voce de L'Etudiant Noir fu soffocata. Si dovette attendere la fine del 1947 perché, contemporaneamente a Dakar e a Parigi, comparisse la prima copia della rivista Présence Africaine. Vi collaborarono scrittori africani, mentre i maggiori rappresentanti della cultura francese dell'epoca avevano costituito un comitato di patronato: Gide, Sartre e Camus spiccavano tra gli intellettuali francesi, mentre tra gli scrittori africani si doveva annoverare anzitutto Senghor.
La prefazione a quel primo numero della rivista fu scritta da André Gide, il quale tra l'altro asseriva che il periodo dello sfruttamento e quello della commiserazione susseguitasi erano terminati; era subentrata la fase nella quale i popoli europei, i bianchi, e soprattutto i Francesi avrebbero – sì - pensato di educare, ma si sarebbero anche lasciati istruire dalla cultura africana. Era finito il tempo di disconoscere i valori della Négritude. Se E. Mounier interveniva con la sua Lettre à un ami africain, Senghor auspicava e sollecitava incontri proficui tra scrittori negri e colleghi europei. Sarebbero dovuti essere "rendez-vous de donner et de recevoir".
Alla fine degli anni Quaranta, precisamente nel 1948, veniva alla ribalta anche Jean-Paul Sartre, il quale prendeva posizione sull'argomento con la sua ricca prefazione all'antologia della nuova poesia negra e malgascia. Intervenendo con tutto il prestigio della sua personalità di filosofo e letterato, Sartre dava un titolo significativo, Orphée noir, così da presentare la sua prefazione come un manifesto, anzi il manifesto, della Négritude.
Questo Orfeo negro avrebbe dovuto svegliare l'Africa dal suo sonno troppo lungo e metterla in marcia, farle sentire la sua missione. Sartre però vedeva in questo movimento come una reazione, quasi una rivolta dei popoli di colore contro i bianchi, "un racisme anti-raciste". Al filosofo francese che scriveva testualmente: “Ainsi le noir qui revendique sa Négritude dans un mouvement révolutionnaire se place d'emblée sur le terrain de la Réflexion, soit qu'il veuille retrouver certain traits objectivement constatés dans les civilisations africaines, soit qu'il espère découvrir l'Essence noire dans le puits de son coeur", rispondeva puntualizzando l'africano del Senegal, e in più riprese.
Parlando infatti alla Sorbona il 21 aprile 1981, Senghor precisava: "Jean-Paul Sartre n'a pas tout à fait raison quand, dans Orphée Noir, il définit la Négritude "un racisme antiraciste”; il a surement raison quand il la présente comma une certaine attitude affective à l’égard du monde"".
Due anni dopo, in un articolo dal titolo “Négritude et civilisation de l'universel” pubblicato dalla rivista Présence Africaine, Senghor chiariva maggiormente il suo pensiero con la seguente osservazione: "La Négritude n'est ni racisme ni contorsions. C'est tout simplement l'ensemble des valeurs de civilisation du monde noir. Non pas valeurs du pasjgé, mais culture authentique."
La lira dell'Orfeo negro, il risveglio auspicato da Sartre hanno sortito il loro effetto: invero dal settembre del 1956 scrittori ed artisti negri organizzano congressi, internazionali con un certo ritmo regolare. Il primo si è tenuto a Parigi nella data predetta, il secondo è stato organizzato a Roma nel 1959 dall'Istituto Italiano per l'Africa. Alquanto polemico il primo, più pacato e più mirante ad un'intesa culturale il secondo. Pablo Picasso raffigurava gli uomini in cammino verso una meta comune, Senghor insisteva sul contributo che ognuno avrebbe potuto recare alla "Comunità universale senza razze e senza frontiere".
Emanuela Scarponi

https://www.flipnews.org/component/k2/cuba.html di

Virgilio Violo 

 

Per il mese di Mandela la repubblica del Sud Africa ringrazia il popolo italiano per l'aiuto con un tour di concerti. (VIDEO)

Written by  Emanuela Scarponi

Roma, 9 maggio 2019 - Nel celebrare la storica amicizia e solidarietà tra Sudafrica, Cuba e Italia, le Ambasciate della Repubblica del Sudafrica e della Repubblica di Cuba e il Ministero degli Affari Esteri hanno tenuto una conferenza stampa presso l'Ambasciata di Cuba per lanciare ufficialmente il Progetto di Liberazione "Friendship and Solidarity Tour 2019"

Le relazioni storiche tra il Sudafrica e Cuba sono ben documentate e nel tempo sono cresciute sempre di più, soprattutto nei settori medico e culturale, estendosi ad altri settori importanti e a mutuo beneficio. Le forti e storiche relazioni tra Sudafrica e Cuba furono forgiate nella lotta comune contro l'apartheid e il colonialismo nel continente africano. La vittoria delle forze del Movimento popolare cubano per la liberazione dell'Angola (MPLA), che hanno combattuto fianco a fianco con le forze di liberazione contro le Forze di difesa sudafricane dell'apartheid nella battaglia di Cuito Cuanavale nel sud dell'AngolA nel 1988, ha aperto la strada all'indipendenza della Namibia.


28 agosto 2019                                    Fuori strada? Stati Uniti, Europa, e Regno Unito in un Medio Oriente in transizione. 

Conferenza internazionale sulla geopolitica delle grandi potenze in Medio Oriente nell’era di Brexit e Donald Trump: "Going Astray? The United States, Europe and the United Kingdom in a Changing Middle East".

Il giorno 27 agosto 2019 si è svolta presso la Sala del Refettorio di Palazzo San Macuto, complesso della Camera dei deputati a Roma, una interessantissima conferenza sulla strategia politica da attuare post-Brexit tra Europa, Gran Bretagna, Stati Uniti e Medio Oriente.
L'uscita del Regno Unito dall'Unione europea, nota anche come Brexit, sincrasi formata dall'inglese Britain, "Gran Bretagna", ed exit, "uscita", è stata il processo che ha posto fine all'adesione del Regno Unito all'Unione europea, secondo le modalità previste dall'articolo 50 del Trattato sull'Unione europea.
A seguito del referendum sulla permanenza del Regno Unito nell'Unione europea, il 52 per cento ha votato per lasciare l'Unione mentre il 48 per cento ha votato per rimanere nell'Unione europea. Il governo britannico ha quindi formalmente annunciato il ritiro del Paese a marzo 2017, avviando i negoziati Brexit. L'uscita è stata ritardata dal Parlamento britannico e non è ancora conclusa.
La conferenza é stata organizzata dall’Euro-Gulf Information Center, (EGIC), un’associazione internazionale fondata nell’ottobre 2015 a Roma. Si avvale di professionisti di significativa esperienza di relazioni tra Europa e Mondo Arabo ed Europa e Golfo ed ha il compito di promuovere e produrre informazione e conoscenza sulle due regioni e sulle loro relazioni e creare opportunità di dibattito, confronto, collaborazione e scambio. Questi collaboratori di livello internazionale sono intervenuti nel corso del convegno rispondendo alla domanda: "Going Astray? The United States, Europe and the United Kingdom in a Changing Middle East". “Fuori strada? Gli Stati Uniti, l’Europa, ed il Regno Unito, in un Medio Oriente in cambiamento”.
Il relatore principale è stato l’europarlamentare Amjad Bashir, del Partito Conservatore del Regno Unito, di origine pakistana, favorevole alla fuoriuscita del Regno unito dall’Unione europea, il quale ha delineato le linee-guida per un nuovo modello di interazione tra l’Occidente e il mondo Arabo; un modello che, riconoscendo i limiti dell’approccio tra governi, dia rinnovata enfasi alle relazioni economiche come strumento di stabilità. In seguito al suo discorso ha avuto inizio il panel della conferenza.
Per primo, è intervenuto l’onorevole Graham Brady, membro del Parlamento inglese, il quale nel referendum del 2016 si è schierato per la fuoriuscita delle Gran Bretagna dall'Unione Europea. Ha parlato della strategia del Regno Unito dopo la Brexit e della volontà del governo inglese di rilanciare la Gran Bretagna nella regione mediorientale, rafforzando la partnership con gli alleati tradizionali con nuove iniziative politiche ed economiche.
Poi è intervenuto il dottor Riccardo Alcaro, coordinatore delle ricerche dell’Istituto affari internazionali (IAI) e responsabile del programma “Attori globali” dello IAI. I suoi interessi di ricerca si concentrano sulle relazioni transatlantiche, in particolare sulle politiche di Stati Uniti ed Europa nel vicinato europeo.
Nel suo intervento ha messo in evidenza come il processo di divorzio tra Regno Unito ed Unione europea potrebbe far emergere punti di contrasto, anche nella politica estera delle due potenze, come ad esempio una diversa prospettiva sulla gestione del delicato accordo nucleare con l’Iran, che l’Unione europea intende far funzionare.
Il terzo relatore è stato il colonnello Filippo Bonsignore, direttore della Middle East Faculty della Nato Defense College di Roma, facoltà del Medio Oriente dell’università di Difesa della Nato, che ha parlato di come il ruolo della Nato, messo in discussione dal nuovo Presidente americano Donald Trump, potrebbe diventare più efficace se si concentrasse sulla lotta al terrorismo e se riuscisse a trovare un consenso interno per determinare le priorità dell’organizzazione.
Infine, è intervenuto il dottor Mitchell Belfer, Presidente dell’Euro-Gulf Information Center, che ha parlato della nuova prospettiva degli Stati Uniti sotto Donald Trump, contesi tra l’inconciliabile dicotomia della protezione dei loro molti interessi strategici nella regione mediorientale ed un nuovo interesse per l’isolazionismo; una dicotomia che tentano di risolvere, affidandosi sempre più a partner locali.
L’evento si è concluso con un dibattito pubblico, incentrato sulle implicazioni per l’Italia in quanto Paese del Mediterraneo e con l’impegno dello Euro-Gulf Information Center a mantenere alta l’attenzione su questo complesso aspetto con futuri eventi e ricerche.

Emanuela Scarponi