23-05-2021

                                                             Proteggere i Bambini in Conflitto Armato:
                                                             Mission dell'Universities Network For Childreen in Armed Conflict:
                                                             Intervista all'avvocato Simona Lanzellotto, Rappresentante del Network



Emanuela SCARPONI. Buongiorno, Avvocato Lanzellotto. Siamo qui per parlare dei bambini che vivono in situazioni di conflitto armato e dell'Universities Network for Children in Armed Conflict, di cui lei è autorevole esponente. Ci spieghi dunque meglio in cosa consiste questo progetto.


SIMONA LANZELLOTTO. Anzitutto, colgo l'occasione per ringraziare le Università e gli enti di ricerca, italiani ed internazionali, che hanno portato alla formazione del Network, che nasce con lo scopo diffondere e analizzare il tema della protezione dei bambini nei conflitti armati. Il Network è stato lanciato nel novembre del 2020 durante la conferenza di apertura della settimana accademica dedicata proprio al tema, a cui hanno partecipato tutti i rappresentanti delle Università e Centri di ricerca del Network.


Emanuela SCARPONI. Come conducete il vostro lavoro, specie con Università dei Paesi in war zone, come ad esempio, l'Università di Kufa?

SIMONA LANZELLOTTO. Noi, in quanto Network di Università ed enti di ricerca, abbiamo l’obiettivo di promuovere la formazione sociale e giuridica sulla tematica dei bambini coinvolti in conflitti armati tramite lo studio di casi e mediante un'attività di ricerca multidisciplinare. Il nostro obiettivo, è quello di accrescere la sensibilità e la conoscenza delle conseguenze di tale fenomeno, grazie anche all'organizzazione di conferenze internazionali che vengono tenute proprio dalle Università coinvolte. Le conferenze diventano un'occasione di riflessione e di denuncia degli abusi e delle violenze subite da questi minori durante i conflitti armati.
Ribadisco che lavoriamo per la protezione di minori di ogni Paese in situazioni di conflitto; le Università coinvolte provengono da Europa, Africa, America del Nord, America Latina e Paesi del Medio Oriente. Vi sono anche università italiane.

Emanuela SCARPONI. In Italia dove operate?

SIMONA LANZELLOTTO. Ci sono diverse Università che fanno parte del Network. Siamo presenti come Network nell'Università di Perugia, ma anche a Milano, Roma, Napoli, Genova e in altre città.
Mano a mano che cresce la nostra Rete, le richieste di adesioni di Università proveniente da diverse parti del mondo avanzano. Infatti, più il Network è ampio, più la nostra azione diventa concreta, con il contributo delle nuove realtà.

Emanuela SCARPONI. Avete un ufficio o una sede dove operate?

SIMONA LANZELLOTTO. C'è un gruppo operativo, del quale faccio parte, che tiene i contatti ed i rapporti con le altre Università, le Istituzioni e coordina le varie attività.
Ci stiamo muovendo per creare una sorta di Consorzio di Università Internazionale, in modo da avere una struttura più solida.

Emanuela SCARPONI.Quindi voi, al momento, operate su computer, virtualmente, sulla Rete?

SIMONA LANZELLOTTO. Allo stato attuale, operiamo organizzando conferenze, lezioni, studi e spiegando le normative e le giurisdizioni che riguardano questa tematica.
Per quanto riguarda le conferenze, tutto si svolge online, soprattutto in questo momento particolare che stiamo vivendo.


Emanuela SCARPONI. Le persone che si dedicano a quest'attività specifica come lei, quante sono?

SIMONA LANZELLOTTO. Ci sono delle collaborazioni che però sono difficili da quantificare. Dipende molto dal lavoro. C'è chi si occupa dell'aspetto legale, chi dell'organizzazione delle conferenze e i seminari di studio, chi dei social. Cerchiamo di suddividerci il lavoro.

Emanuela SCARPONI. In questo progetto vi patrocina il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale in Italia?

SIMONA LANZELLOTTO. Sì, è fondamentale il supporto del Ministero, soprattutto per quanto riguarda i rapporti diplomatici con i vari Paesi.

Emanuela SCARPONI. Non vorrei entrare in tematiche piuttosto delicate in questo periodo, ma operate anche nel Congo?

SIMONA LANZELLOTTO. Sì, certo, operiamo anche nel Congo e siamo anche abbastanza attivi.

Emanuela SCARPONI. Malgrado gli attentati?

SIMONA LANZELLOTTO. Quella della morte dell'Ambasciatore Attanasio, è stata purtroppo una notizia terribile, però evidenzia anche un estremo bisogno della nostra attività per il Congo, dove sussistono varie forme di violenza anche nei confronti dei bambini.

Emanuela SCARPONI. Quando è nata l'idea di fondare il Network?

SIMONA LANZELLOTTO. È nata nel 2020, poi è stata presentata in Italia e in Europa e da lì si è tentato a novembre del 2020 di lanciare il Network attraverso le prime teleconferenze. Sono state promosse anche altre attività - come dicevo prima – una settimana accademica, seminari e studi per sensibilizzare su questo dramma. Da novembre ad oggi abbiamo organizzato e partecipato ad almeno sei teleconferenze. Anche i social sono fondamentali per promuovere il Network.
Adesso dovremmo, entro ottobre prossimo, organizzare un’altra settimana accademica e delle attività di formazione che prevedono videolezioni, studi e approfondimenti a cura dei docenti delle Università del Network e con il coinvolgimento di diverse organizzazioni internazionali. Le attività sono tante, stiamo procedendo molto velocemente e di questo siamo molto felici; speriamo di poter riuscire a continuare così.

Emanuela SCARPONI. In cosa consisteranno queste lezioni online. Sono corsi di formazione di carattere sociale?

SIMONA LANZELLOTTO. Si tratterà di lezioni che approfondiscono l'aspetto giuridico e normativo relativo al tema dei bambini coinvolti in conflitti armati.

Emanuela SCARPONI. Quanto durerà questa attività formativa?

SIMONA LANZELLOTTO. Due settimane.

Emanuela SCARPONI. Come vi trovate a interagire con i Paesi musulmani?

SIMONA LANZELLOTTO. Non è assolutamente un problema. Al Network può aderire qualunque Università che abbia a cuore il tema della tutela dei bambini nei conflitti armati.

Emanuela SCARPONI. Vediamo il caso della vicenda recentissima che è avvenuta in Turchia. A livello diplomatico per i rappresentati europei è stato un po' difficile interagire, soprattutto in questo momento storico, con certe realtà.

SIMONA LANZELLOTTO. Certamente! Ci sono realtà locali in cui è necessaria la presenza di un soggetto che faccia da tramite con il Governo locale per confrontarsi e affrontare in modo pragmatico queste tematiche.

Emanuela SCARPONI. L'iniziativa è tutta italiana?

SIMONA LANZELLOTTO. No, nel senso che - come dicevo - sono coinvolte Università di diversi Paesi.

Emanuela SCARPONI. Sì, ma l'iniziativa personale è sua? È lei che ha ideato questo Network?

SIMONA LANZELLOTTO. No, l'idea è nata dalla collega Laura Guercio che poi ha coinvolto me ed altre persone. Poi, pian piano si è allargata, interagendo con nostri contatti e professori in varie parti del mondo ai quali abbiamo proposto l’idea di creare un Network e nel giro di pochi mesi ci siamo ritrovati di fronte a una realtà che fino a luglio dello scorso anno non esisteva.

Emanuela SCARPONI. Il vostro obiettivo dunque è smuovere l'opinione pubblica, garantire la tutela dei bambini in conflitto. Proteggerli! Creare una rete di protezione scientifica e giuridica.

SIMONA LANZELLOTTO. Sì, sicuramente! L'obiettivo è anche quello di accrescere le conoscenze.
La questione fondamentale è quella di creare rapporti tra le nazioni, anche con i mezzi di comunicazione, con l'interazione delle ONG e delle Istituzioni internazionali, parlavamo prima delle Nazione Unite, sicuramente fondamentali, come anche i rapporti tra le Nazioni e la società civile.
Alle nostre conferenze partecipano sempre rappresentanti di ONG e delle Nazioni Unite, oltre che i rappresentanti delle Università di altri Paesi.

Emanuela SCARPONI. Lei sa che Africanpeople è una ONG, siamo un'organizzazione non governativa, e la prima cosa che ha fatto è quella di creare un'agenzia di stampa per l'Africa e un mass media che potesse fare da traino all'Africa. Quindi, siamo ben contenti di fare questo tipo d'interviste e vi garantiamo dello spazio su questo.

SIMONA LANZELLOTTO. Questo è fondamentale per noi, per quello che facciamo con la gente. Più persone conoscono le nostre attività e i nostri obiettivi e più diventa una forza. Lavorando voi in Africa sicuramente manterremo i contatti.

Emanuela SCARPONI. Intanto la ringrazio per questa intervista e spero di risentirla presto. A presto e grazie ancora.

Emanuela Scarponi

20-05-2021
                                                                                                                                                         Great Zimbabwe

       The name of Great Zimbabwe appeared for the first time in some Portuguese documents only in 1522, but the first settlements in this wonderful place began already around the year 1000.
Two hundred years later, Swahili merchants made their way here from the coast of Mozambique to exchange Chinese porcelain, Persian crockery, Indian jewellery and gold and ivory objects, of which the city was very rich. During this period the inhabitants of Great Zimbabwe, in contact with other cultures, assimilated new habits.
      Around 1500 a sort of ecological collapse caused Dan Shona to abandon the city: the forest disappeared, the water tables and the land depleted, the gold mines ended; the population and quantity of cattle, considered more precious than gold and a symbol of power and high social status, dramatically grew. From that moment the city was used as a residence and refuge until 1800.
      In 1871, Cari Mauch, the first westerner who came to these places, developed a fascinating theory that would shortly become a legend. Having found fragments of wood in some beams which he believed to be cedar of Lebanon, Mauch gave substance to the thesis that the city must have been an outpost of the reign of the Queen of Sheba, extraordinarily rich in precious mines, from which King Solomon extracted the its gold.
      Fifty years of studies and research had to pass on the territory, to understand the true origins of the city. In fact, between 1911 and 1914, the archaeologist Curator Wallace began the excavation campaign and the restoration of the archaeological site. But it was not until 1932 that Gertrude Caton Thompson, after having carefully studied the ruins for three years, scientifically demonstrated that the city had been founded by Bantu populations and the subsequent dating of the finds found by radiocarbon confirmed the deductions of the English archaeologist.  Thus, the fanciful theses supported by the Rhodesian government until independence were confirmed, according to which the origins of Great Zimbabwe were not African but Phoenician, Greek, Egyptian, Arab and Jewish, and its foundation dates back to the pre-Christian era.
     What about the alleged Lebanese cedar? Two decades later, in 1950, the wood found inside the archaeological area was classified as tamboti wood, a local tree, and not as Lebanese cedar, differently from it was supposed. Thus the hypotheses on the Mediterranean and European origin of the city definitively was definitively abandoned. The restoration continued and was completed in 1982. Four years later, UNESCO included Great Zimbabwe on the World Heritage list.

Emanuela Scarponi

 

(Il nome Great Zimbabwe comparve per la prima volta in alcuni documenti portoghesi solo nel 1522, ma i primi insediamenti in questo luogo meraviglioso ebbero inizio già intorno all'anno 1000. Duecento anni dopo, i mercanti swahili si spinsero fin qui dalla costa del Mozambico per scambiare porcellane cinesi, terrecotte persiane, gioielli e tessuti indiani con oro e avorio, di cui la città era molto ricca e fu in questo periodo che gli abitanti di Great Zimbabwe, a contatto con culture di altri popoli, assimilarono nuovi usi e abitudini.
Intorno al 1500 una sorta di collasso ecologico provocò l'abbandono della città da parte dei Dan shona: le foreste erano scomparse, le falde d'acqua e i terreni si erano impoveriti, le miniere d'oro erano state esaurite; la popolazione e la quantità di bovini, considerati più preziosi dell'oro e simbolo di potere e di elevato status sociale, era cresciuta a dismisura. La città da quel momento venne usata come dimora e rifugio fino al 1800. Nel 1871, Cari Mauch, il primo occidentale che giunse in questi luoghi, elaborò un'affascinante teoria che di lì a poco sarebbe divenuta leggenda. Avendo rinvenuto in alcune travi dei frammenti di legno che ritenne essere cedro del Libano, Mauch diede corpo alla tesi secondo cui la città doveva essere stata un avamposto del regno della regina di Saba, straordinariamente ricco di miniere preziose, dalle quali il re Salomone estraeva il suo oro. Dovettero trascorrere cinquant'anni di studi e ricerche sul territorio, per capire quali fossero le vere origini della città. Tra il 1911 ed il 1914, infatti, l'archeologo Curator Wallace iniziò la campagna di scavi ed il restauro del sito archeologico. Ma fu solo nel 1932 che Gertrude Caton Thompson, dopo aver studiato accuratamente le rovine per tre anni, dimostrò scientificamente che la città era stata fondata da popolazioni bantu ed anche la successiva datazione con il radiocarbonio dei reperti rinvenuti confermò le deduzioni dell'archeologa inglese. Furono così confutate le tesi fantasiose sostenute dal governo rodesiano fino all'indipendenza, secondo cui Great Zimbabwe avrebbe avuto origini non africane bensì fenicie, greche, egizie, arabe ed ebraiche, e la sua fondazione sarebbe risalita all'era precristiana. E il presunto cedro del Libano? Due decenni più tardi, nel 1950, il legno rinvenuto all'interno dell'area archeologica venne classificato come legno di tamboti, un albero locale, e non come cedro del Libano, contrariamente a quanto fino a quel momento si era supposto. Caddero così definitivamente le ipotesi sull'origine mediterranea ed europea della città. Il restauro proseguì e nel 1982 fu completato. Quattro anni più tardi, l'Unesco inserì il Great Zimbabwe nell'elenco dell’ World Heritage.).

 

 

 

 

 

24-04-2021


                                                                                                Il Vietnam e la sua storia recente


         Quella dei Vietnamiti, una intelligente e laboriosa popolazione discesa in Indocina dalla Cina, prima dell'era cristiana, da duemila anni cercarono di costruirsi un Paese libero dalle dominazioni straniere. L'Impero cinese esercitò un diretto controllo sul Vietnam per un millennio, dal I secolo a.C. al X d.C..  In seguito, sebbene ritiratisi, i Cinesi continuarono a mantenere una pressante influenza sul Vietnam, diviso sotto la signoria di più famiglie, tra cui emersero gli Nguyen, nel Centro Sud, ed i Trin, nel Nord finché arrivarono i Francesi che sottomisero l'intera regione tra il 1858 ed il 1884. Durante la Seconda Guerra Mondiale si ebbe l'occupazione giapponese.
Caduto l'Impero del Sol Levante, con la Conferenza di Potsdam, nell'estate 1945, le grandi potenze divisero il Vietnam in due parti: il Nord sotto la guida di Ho Chi Min che, fondatore nel 1941 del movimento Viet Minh "Lega per l'indipendenza del Vietnam" che nel 1945 traghettò il Paese verso l'indipendenza. Ma la strada verso il riconoscimento internazionale dell'indipendenza era ancora lontana.
Nel '46 infatti la Francia cercò di imporre di nuovo con le armi il suo dominio. La guerra durò fino al maggio 1954, quando l'esercito francese subì una disfatta a Dien Bien Phu.
Con la conferenza a Ginevra, fu quindi sancita la divisione al 17esimo parallelo tra i due Vietnam e Ho Chi Min fu acclamato Presidente della Repubblica democratica del Vietnam del Nord. Guidò la nazione fino al 1969, anno della sua morte.
        Tra le potenze mondiali, la Cina e l'Unione Sovietica si schierarono con il Nord, mentre gli Stati Uniti appoggiarono il Sud. Nel 1957 ebbe inizio così una vera e propria guerra.
Dunque, in queste distese d'acqua, tra le risaie e le paludi alimentate dalle acque del fiume Mekong e dalle abbondanti acque monsoniche, si sono impantanati molti eserciti stranieri: i Francesi colonialisti fino al 1854, i Giapponesi durante la Guerra Mondiale e l'esercito americano per 15 anni circa dal 1960 al 1975.
         Infatti, il clima, la foresta pluviale, ed i numerosi villaggi isolati nel territorio vasto hanno reso estremamente difficile il combattimento fra le varie parti. Ciò è facilmente visibile ancora oggi. Abbiamo cognizione di quanto accaduto in Vietnam dai film che si sono susseguiti e dalle immagini riportate quotidianamente dai notiziari di tutte le tv del mondo. Chi non ricorda le riprese dell'elicottero che lascia l'ambasciata americana di Saigon, mentre veniva occupata?
Molti film americani hanno raccontato la tragedia vissuta sia dai soldati americani sia da quelli vietnamiti, senza distinzione di origine. La guerra del Vietnam è stata fonte di ispirazione anche di tristi canzoni in quanto persero la vita molti giovani americani.
Dopo quasi quindici anni di guerra durata dal 1960 al 1975, infatti, gli Stati Uniti, lacerati da forti contrasti interni alla classe dirigente e all'opinione pubblica riguardo alla guerra in Vietnam, dopo una serie di rovesci militari e l'avanzata dell'esercito Vietcong nel Sud, dovettero improvvisamente ritirare le proprie truppe dal Paese, lasciando dietro di sé una nazione distrutta ed oltre un milione di morti, feriti, fucili, armi, carri armati abbandonati lungo le strade, dove rimasero per lungo tempo.
Nel 1976 il Vietnam fu ufficialmente riunificato sotto il controllo del governo del Nord con il nome di "Repubblica Socialista del Vietnam" e Saigon venne rinominata Ho Chi Min, col nome della sua guida politica. Oggi la città è disseminata di monumenti in suo onore ed è rispettato tutt’oggi come un padre ed un eroe nazionale.
       Le strade di Saigon sono affollate di auto e di una infinità di bici e l'ambasciata americana non è più visibile, poiché i suoi cancelli sono stati sostituiti da un muro.
Il Vietnam si estende oggi per oltre 2000 km lungo la costa della penisola indocinese. Confina con la Cina, il Laos, la Cambogia e si affaccia sul Mare Cinese meridionale.
Grazie alla sua posizione ed al periodo di pace e tranquillità oggi vive un'epoca di benessere anche grazie all'afflusso di turisti.

Emanuela Scarponi

 

04-05-2021

 

                                                                                                                                                                     La civiltà Kmer

      Documenti e testimonianze del regime dispotico dei Kmer sono giunti a noi tramite i pochissimi sopravvissuti. Ne è un documento storico il film Urla del silenzio (The Killing Fields) del 1984 diretto da Roland Joffé, pellicola britannica ispirata alla vicenda della guerra civile in Cambogia e alla susseguente presa del potere da parte degli Kmer rossi e il loro leader PolPot che racconta l’incredibile esperienza di un giornalista cambogiano riuscito a raggiungere la Thailandia, attraversando la Cambogia di fiume in fiume, nascosto dal verde intenso della foresta. Oggi il carcere di Phnom Pen è un museo a cielo aperto, nel centro città.
“Le strade sono dissestate e non è consigliabile andare via terra” ci dice la guida. Si sale su un aereo cambogiano da PhnomPen ad Angkor Wat, sorvolando la foresta pluviale sottostante, interrotta solo dal corso del fiume Mekong e da tratti di strada sterrata, bianca, polverosa che di tanto in tanto fa capolino.
      E' una emozione unica giungere, dopo il volo aereo, alle rovine della città-Stato di Angkorwat, costruita dagli antichi Kmer, tra i pochi siti archeologici risparmiati da Polpot, che rase al suolo tutto quanto potesse lontanamente ricordare o far riaffiorare l’idea di Occidente e che impedisse la sperimentazione della nascita del nuovo regime di stampo comunista di tipo cambogiano, di cui era l’ideologo.
Oggi da Phnom Penh è possibile raggiungere via fiume Siem Reap, la città che custodisce il sito archeologico più particolare al mondo, Angkor Wat. Il tragitto dura circa 8 ore e le barche partono presso il porto cittadino.
La mia vuole essere una breve disquisizione sulla civiltà degli antichi Kmer, di cui si sa pochissimo per mancanza di fonti.
Siamo nella pianura alluvionale a Nord del lago Tonlé Sap, ove giace l'eredità più grande che ci ha lasciato questa antica civiltà: Angkor, nell'odierna provincia di Siem Reap appunto.
     Il sito archeologico, uno dei più vasti ed importanti dell'Asia, ospitò diverse capitali del regno e testimonia lo splendore e la ricchezza dell'impero Kmer.
Le uniche tracce scritte a noi pervenute sono, infatti, iscrizioni su pietra. L'odierna conoscenza storica della civiltà Kmer deriva quindi principalmente da scavi archeologici, ricostruzioni ed indagini; iscrizioni su stele e su pietra nei templi, gli unici edifici sopravvissuti, in quanto costruiti in pietra.
    L'inizio dell'era angkoriana della storia Kmer è fissata nell'anno 802, quando Jayavarman II viene proclamato monarca universale e la sua fine nel 1431, data di un'invasione Thai, che fece il centro politico ed economico verso Sud-Est, lungo il Mekong.
    Gli unici resoconti scritti sono le cronache di Zhou Daguan, diplomatico cinese sotto l'imperatore Chengzong della dinastia Yuan, che visitò nel 1296 la città-Stato di Angkor, fornendo informazioni sulla Cambogia del XIIIesimo secolo e prima.
Le descrizioni di Zhou Daguan riguardano anche la vita delle donne del mercato di Angkor. Esso era all’aperto ed i mercanti sedevano per terra su stuoie di paglia intrecciate e vendevano le loro merci. Alcuni commercianti si proteggevano dal sole con semplici parasole, ricoperti di paglia. Un certo tipo di tassa o affitto veniva prelevato dai funzionari per ogni spazio occupato dai commercianti nel mercato. Il commercio e l'economia nel mercato di Angkor erano principalmente gestiti da donne.
    Quindi, quando un cinese va in questo Paese, la prima cosa che deve fare è prendere una donna, con l'intento di trarre profitto dalle sue capacità commerciali. Le donne invecchiano molto velocemente, senza dubbio perché si sposano e partoriscono quando sono troppo giovani. Quando hanno venti o trenta anni, sembrano donne cinesi che hanno quaranta o cinquanta anni. Il loro ruolo nel commercio e nell'economia suggerisce che godevano di diritti e libertà significativi, grazie alle loro capacità.
    La loro pratica di sposarsi presto potrebbe aver contribuito all'alto tasso di fertilità e all'enorme popolazione del regno, narra Zhou Daguan.
Riso, pesce ed acqua sono, dunque, alla base della prosperità dell’impero Kmer, fondato su vaste reti di comunità agricole dedite al riso. Infatti, fuori delle mura vivevano i contadini che piantavano il riso sulle rive dei fossi, tutti attorno alla città-Stato, raggiungibile attraverso imponenti ponti.
   Il re ed i suoi funzionari vivevano all’interno della città-Stato ed erano al comando della gestione dell'irrigazione e della distribuzione dell'acqua, fatta da una un'intricata serie di infrastrutture idrauliche, come canali, fossati ed enormi serbatoi chiamati barays, bacini idrici artificiali.
    Il riso era il principale alimento insieme al pesce, lavorato come pasta di pesce essiccata al vapore o arrostita o al vapore ,avvolta in foglie di banana. Era importante anche l'allevamento dei maiali, dei bovini e del pollame, tenuti sotto le case dei contadini, posizionate su palafitte.
    Palme da zucchero, alberi da frutta e ortaggi fanno da cornice a questo meraviglioso quadro naturale, mentre forniscono lo zucchero di palma, il vino di palma, il cocco, i vari frutti tropicali e le verdure. All’orizzonte si intravede il mercato dove i contadini sono ancora oggi soliti scambiare prodotti e vendere souvenir ad Angkor.
Raggiungiamo le imponenti mura della città, in cima alle quali emergono profili di re Kmer, che testimoniano la grandezza e la maestosità della loro civiltà: in basso si sentono le voci dei bambini che, ignari dei turisti, si divertono a giocare assieme in acqua.


Emanuela Scarponi

 

 

23-04-2021


                                                                                                                           Recenti scoperte nell’antica città romana di Falerii Novi presso Viterbo

       Il Lazio torna ad essere protagonista indiscusso dell’archeologia moderna che continua a fare scoperte di indiscussa grandiosità della storia antica di Roma, del suo enorme impero e territorio che ricade in gran parte nella nostra regione, ma che poi si sviluppa nel massimo del suo splendore spingendosi fino al deserto del Sahara in Africa a Sud e fino al muro di Adriano in Scozia a Nord.
L’Etruria, già sede della grande civiltà etrusca, viene sottomessa da Roma nella battaglia del lago Vadimone combattuta nel 309 a.C. tra Romani ed Etruschi. Questa fu la più grande battaglia che questi due popoli combatterono l'uno contro l'altro. I Romani vinsero, e fu la definitiva consacrazione della loro egemonia sull'Etruria.
       Da quel momento diviene centro indiscusso dell’Impero e sede di urbs.
Una recente scoperta, effettuata nel Lazio, ha permesso il ritrovo dettagliato della città romana di Falerii Novi, grazie ad alcuni sistemi innovativi. L’esistenza di questo sito non è certo nuova, essa infatti era un insediamento dell’Etruria meridionale presso Viterbo.
Insieme all’altra località “Falerii Veteres” identificata a Civita Castellana, esse sono tuttora oggetto di studi specifici e approfonditi.
Falerii Novi fu distrutta, secondo alcune fonti, in età repubblicana e fu ricostruita più a valle con il nuovo nome di “Falerii nuova”, eretta tra Civita Castellana e Fabrica di Roma. Di origine etrusca, non fu molto frequentata e citata in età imperiale. Oggi si ricorda la Chiesa medievale cistercense dell’XII secolo. In questi ultimi anni tutta l’area è stata riveduta e dalle indagini eseguite si è potuto ricostruire la topografia della città. Si è potuto riconoscere la piazza e quindi il foro, il teatro. Fuori del cinto murario sono stati riconosciuti l’anfiteatro, le necropoli ed i mausolei. Le informazioni, anche se frammentarie, ed il materiale epigrafico ci hanno dimostrato la presenza di edifici religiosi, pubblici, così pure i lavori di manutenzione sulle strade ci hanno permesso di conoscere meglio la storia di questa città vicinissima a Roma dove regnava il potere. Recentemente una collaborazione tra le università di Cambridge e Gand hanno dato risultati eccellenti, grazie a particolari ricerche ed ad un sondaggio magnetometrico sul luogo.
       La ricostruzione della città in 3D è l’esito finale di un’analisi basata sull’utilizzo del GPR, un tipo di radar che penetra in profondità, facendoci conoscere perfettamente ciò che si trova nel sottosuolo. All'interno delle mura sono riconoscibili terme con sale e vasche, portici, colonne, fontane pubbliche, cisterne, piscine termali, colture. Il caso di Falerii Novi offre una grande mole di lavoro e tempi lunghi per la sua completa conoscenza. Il progresso delle tecnica e queste nuove apparecchiature velocizzeranno, così, la storia dell'archeologia e quindi il suo futuro.
Emanuela Scarponi

 

27-04-2021

                                                                                              Nucleo centrale delle tematiche di fondo di Wole Soyinka basato sull'intervista rilasciata ad Emanuela Scarponi

     Come si è potuto rilevare dall'analisi di The Road, le tematiche di cui Soyinka s'è fatto portatore sono molteplici, ma possono essere ricondotte ad un fondamentale conflitto tra due protagonisti: l'uomo ed il destino.
I protagonisti delle sue opere teatrali possono presentarsi sotto vari aspetti nelle diverse occasioni; ma, sotto qualsiasi forma si presentino, l'uomo non potrà sfuggire alla morte, che il destino gli riserva. La sola certezza che l'uomo ha è quella di diventare un nulla; egli è come un condannato che aspetta la sentenza capitale e vive nell'attesa della morte. Questa consapevolezza prende forma, come già abbiamo visto, nella simbologia della strada, elemento centrale dell'opera di Soyinka. Qui si riportano le parole dello stesso Wole Soyinka in tema di cannibalismo, estrapolate dall'opera Madmen and specialist: L'uomo è un viaggiatore senza meta, lungo la strada che conduce ad un'unica destinazione: la morte. Infatti, torna spesso nelle sue opere il concetto della strada affamata di vite umane, della strada che esige il suo tributo di sangue umano e dalla quale bisogna difendersi, evitando di percorrerla in determinati momenti. Tuttavia, l'uomo è un pellegrino che deve viaggiare, quindi tali esortazioni sono futili: la strada è dunque il simbolo di un mostro che divora gli uomini senza possibilità di scampo.
Il progresso, quindi, non ha aiutato l'uomo a vincere il destino, ma lo ha esposto a forme ancora più terribili di morte. Il trionfo della morte è certo, ma tale consapevolezza è ancora più triste nei casi in cui si vede che l'uomo si allea con la morte stessa e va contro i suoi simili.
      Questo avviene in particolare nelle guerre, dove, oltretutto, i soldati muoiono spesso senza neppure sapere per quale motivo sacrificano la loro vita.
Nelle opere di Soyinka c'è la presenza continua della morte come elemento costante e comune denominatore dell'esperienza umana. Essa si presenta sotto vari aspetti, ma il più evidente e caratterizzante è quello che si ricollega alla figura di "Abiku", personaggio derivante dalla religione e dai miti della gente yoruba. Secondo Idowu, Abiku è un fenomeno generato dagli spiriti maligni chiamati Elere o Onere." Gli Yoruba credono che essi siano spiriti di bambini errabondi, che si divertono ad inserirsi nelle donne incinte e a nascere solo per morire, per il sottile piacere del male. Abiku è quindi l'incarnazione della mortalità del genere umano che può vincere qualsiasi altra lotta, ma non la morte.
       E' vero che tutti gli esseri viventi sono condannati a morire; ma nessuna creatura come l'uomo, sperimenta una cosi drammatica angoscia nei confronti della morte, perché egli è il solo essere consapevole della sua perduta "battaglia contro il destino,del suo inesorabile viaggio. L'unica consolazione per il genere umano è che la morte è imparziale. Tuttavia essa, secondo Soyinka, oltre ad essere inevitabile, può assumere un valore particolarmente importante per coloro che rimangono. Ci sono infatti degli uomini eletti che sono spinti da un impulso interiore a trasmettere la propria energia agli altri, o mediante gesti particolari o con la loro stessa morte, sacrificando, comunque, la propria vita (tema del sacrificio -The Strong Breed). In tal caso la morte assume un significato e serve come momento di riflessione per una crescita interiore. Nelle opere di Soyinka, questi eroici personaggi cercano di andare contro il destino. Essi appartengono naturalmente alla famiglia della razza forte, il cui "Blood is strong like no other" debbono sopportare la croce della comunità ed espiarne i peccati. Essi fanno parte di un'aristocrazia spirituale e diventano i capri espiatori dei gruppi a cui appartengono: "The Whole forest stinks of human obscenities ", dice il protagonista Eschoro in A Dance of the forests.
        Lo spirito eletto a causa della sua più acuta sensibilità, sente più drammaticamente la situazione di tutti gli uomini, l'angoscia di essere moralmente deboli. Egli agonizza a causa della sua consapevolezza dolorosa che gli fa prendere coscienza di essere un'immagine distorta dell'uomo perfetto. Egli sa che, malgrado la sua buona volontà, ed il suo onesto sforzo, il tentativo di ridurre la discrepanza tra ciò che egli è e ciò che dovrebbe essere è futile.
E' solo un raggio di luce che rischiara le tenebre in cui l'uomo si dibatte; ma esso è sufficiente per dargli la consapevolezza della sua nullità di fronte al destino. Intorno a tali uomini "forti", ne esistono tanti altri che, invece, si disperdono attirati da falsi valori, quali: sesso, alcool, corruzione, superficialità, vigliaccheria. L'eroe deve lottare contro tali pericoli con i mezzi che la sua natura individuale gli mette a disposizione.
Nasce così il concetto dell'artista che, per mezzo delle sue realizzazioni, invia messaggi ed indica al genere umano le strade da percorrere, al fine di combattere contro tutto ciò che frustra i tentativi dell'uomo tesi alla conquista della felicità. L'artista nella concezione yoruba, proprio per l'importante ruolo che svolge, è stato sempre protetto dal dio Ogun.
       Infatti, con le sue opere, rinnova continuamente il primo atto di volontà del dio stesso; questi, secondo il mito, attraversò l'abisso tra gli dei e gli uomini,con la precisa volontà di riunire il cosmo in un unico insieme. In ogni tempo, l'artista prende quindi a modello Ogun per le scelte che compie e per gli impegni sentiti come urgenti, soprattutto nei periodi di crisi.
        L'uomo,tuttavia, non può sperare nell'aiuto degli esseri superiori; gli dei sono indifferenti di fronte al suo destino, anzi, sono addirittura ostili. E' inutile pregarli, offrire loro sacrifici; essi non cambiano il corso degli eventi:
"The floods can come again. Will continue to laugh at our endeavours know that we can feed the serpent of the swamp and corrupt the tassels of the corn". (Le inondazioni possono venire di nuovo. Continueremo a ridere dei nostri sforzi, sappiamo che possiamo nutrire il serpente della palude e corrompere le nappe del grano). L'ostilità degli dei verso gli uomini arriva a manifestarsi anche direttamente con atti violenti. Infatti il dio Ogun, signore della guerra, protettore dei deboli e distruttore dei forti, con il ferro che ha strappato ai fianchi della montagna per aprirsi un varco negli abissi ed unirsi agli Uomini nell'anelito della perfezione, ebbro per il vino di palma, si rivolge in modo spietato ai suoi uomini e li annienta. In tal modo Soyinka esprime il dramma rituale,contemporaneamente umano e divino, che in Ogun trova la sua sintesi.
       Nel poema Idanre, Ogun viene addirittura chiamato con il termine di "cannibal" ; il dio viene quindi antropomorfizzato a tal punto, da essere associato alle colpe degli uomini, esempio preso anche da A Dance of the Forest.
Il cannibalismo di Ogun è da intendersi nel suo significato più ampio, di sopraffazione morale e materiale, ma nello stesso tempo rappresenta il desiderio Freudiano di compartecipare della natura della persona uccisa. Il concetto del cannibalismo è strettamente legato alla natura distruttrice dell'uomo, come l'autore stesso afferma in un'intervista: "I find that the main thing is my own personal conviction or observation that world so that their main preoccupation seems to be eating up one another".(Trovo che la cosa principale sia la mia convinzione personale o osservazione di quel mondo in modo che la loro preoccupazione principale sembri mangiarsi l'un l'altro).
       A tale convincimento è strettamente associato all'idea del sacrificio della vittima, di cui abbiamo parlato precedentemente.
La dicotomia cannibale/vittima si trova in continuazione nell'opera di Soyinka, ed è scaturita da una situazione culturale, di cui il mito di Ogun, con la sua ambivalenza creazione/distruzione, è diretto ispiratore.
Come nel mito di Ogun spesso coesistono le due componenti così i due aspetti della natura umana sono strettamente collegati ed interagenti. Accanto alle vittime destinate al sacrificio, volontario o meno, troviamo i responsabili di tali sofferenze: costoro a volte vengono classificati come cannibali, a volte sono da considerarsi dei falsi profeti. In tali falsi profeti si configurano, non meno che nel cannibale, la corruzione e l'istinto di sfruttamento insito nell'uomo soyinkiano. Il cannibalismo diviene emblematico anche dì un processo dì disfacimento della sensibilità umana, a cui l'uomo va incontro in particolari situazioni; infatti la sopraffazione e la violenza possono creare delle aberrazioni negli animi umani:"The Man dies in "all who keep silent in the face of tyranny". In an anima cage, in the spiritual isolation of the first few days, the prospect became real and horrifying, It began as an exercise to arm myself against the worst, it plunged into horrors of the immagination". "The monstrous, aggressive, yet mournful stridencies of gates falling to, and bolts themselves imprisoned in air-tight holes"."Bach prison has its quota of lunatius; before long the cry of one from a distant block began to pour out the dark secrets of his soul" A Clank's of his restraining chains accompanied it ". (The Man Died). (L'Uomo muore in "tutti coloro che tacciono di fronte alla tirannia". In una gabbia dell‘anima, nell'isolamento spirituale dei primi giorni, la prospettiva si fece reale e terrificante, iniziò come un esercizio per armarmi contro il peggio, sprofondò negli orrori dell'immaginazione". "Il mostruoso, aggressivo, eppure stridio lugubre di cancelli che cadono, e chiavistelli imprigionati in buchi a tenuta d'aria”. “La prigione ha la sua quota di pazzi; in poco tempo il grido di uno da un isolato distante cominciò a versare i segreti oscuri della sua anima" Un clank delle sue catene lo accompagnò).
     Leggendo queste frasi si intuisce l'allusione ad un conflitto di proporzioni grandiose, e tale da alterare la natura stessa dell'uomo, non solo fisica, ma anche morale. E' un conflitto che supera il mondo africano, per assumere i caratteri di dramma universale; Soyinka, quindi, tramite il processo d'individuazione di recupero e di estrinsecazione del ricco patrimonio connesso alla civiltà yoruba, si colloca a pieno titolo nell'ambito del teatro universale.
"L'Uomo muore in tutti coloro che rimangono silenziosi dì fronte alla tirannia". In una gabbia nell'isolamento spirituale dei primi giorni, la prospettiva e la speranza divennero reali ed orribili. Divenne come un esercizio per armarmi contro il peggio, s'immerse negli orrori dell'immaginazione...". “Il mostruoso, aggressivo, eppure triste stridio dei cancelli che cadono e spranga coloro che sono imprigionati in buchi impenetrabili dall'aria”. “Ogni prigione ha la sua quota di pazzi; dopo breve tempo, il pianto di uno di un blocco lontano, iniziò a versare gli oscuri segreti della sua anima. Un rumore delle sue catene lo accompagnava”.
Emanuela Scarponi

 

15-04-2021                                                                                                           Il frottage e la civiltà Kmer in Cambogia

 

 

                                                                                                         

 

 

 

        Grandi produttori di riso ed abili scultori della pietra, gli artigiani cambogiani sono bravissimi nel produrre carta con il riso, tradizionalmente preparata mescolando amido, acqua e tapioca o farina di riso. Su di essa sono soliti imprimere con un gessetto nero i bassorilievi che raffigurano eventi bellici, vita di palazzo, miti e, in alcuni casi, anche la vita di tutti i giorni.
Negli anni Venti questa tecnica fu denominata frottage da Max Ernst che la riscoprì in maniera singolare ed ottenne il primo esempio di frottage appoggiando un foglio sul pavimento in legno del suo studio e ricalcandone le venature a matita. Ma prima di lui Leonardo da Vinci la riprese, osservando casualmente come un’impronta su una parete si poteva trasformare in immagine. Evidentemente pero già nell’antica Cina e nella Grecia classica si sperimentava questa tecnica, utilizzando carta di riso o pergamena per ricalcare i bassorilievi.
       I bassorilievi dei templi di Angkor, come quelli di Bayon, descrivono la vita quotidiana dell'antico regno Kmer, comprese scene di vita del palazzo, battaglie navali sul fiume o sui laghi e
scene comuni del mercato e costituiscono quindi un’enciclopedia e fonte indelebile della storia e della civiltà Kmer. I palazzi all’interno sono rimasti invariati nei secoli, protetti ed avvolti dalla natura verde imponente che si riprende il suo spazio radicando i suoi alberi secolari alla pietra, diventando una unica opera d’arte dell’uomo e della natura, ormai indissolubile.
In questo quadro le piccole donne cambogiane restano nascoste sotto i loro cappelli di paglia in silente posizione di preghiera per ore ed ore all'interno dei palazzi della città-stato di Angkor, offrendo in voto agli dei una candela accesa che crea giochi d’ombra e luci nell’oscurità delle stanze del tempio.
Emanuela Scarponi