15-09-2019

                                                                                             Boko Haram e la Nigeria di oggi


   In Nigeria, il più popoloso Paese d’Africa, le elezioni legislative e presidenziali sono occasione ormai quasi quotidianamente di assalti dei fondamentalisti islamici nel Nord-Est. Il capo di Stato uscente Goodluck Jonathan, cristiano del Sud, si è ricandidato. L’opposizione appoggia il musulmano del Nord Muhammadu Buhari, già al potere in Nigeria negli anni ’80 durante la dittatura dei militari.
    L'analisi di questi Paesi dunque non può prescindere dunque da una visione politico-religiosa. Questo intreccio tra la storia moderna degli Stati africani a Nord ed a Sud del Sahara, scritta dagli Occidentali segnando confini decisi su mappe geografiche che non hanno mai tenuto conto delle differenti etnie, lingue, culture e tradizioni, rendono l'Africa un continente in via di sviluppo sempre a rischio endemico di guerre, spesso silenti, tra etnie locali, rivolte, esodi per la fame e la povertà, finanziate da gruppi di potere esterni, di volta in volta differenti. Non si possono pertanto affrontare separatamente problematiche concernenti Paesi a Nord ed a Sud del Sahara, strettamente interconnessi con i Paesi del vicino Medio Oriente.
    La religione animista è tutt'oggi praticata in ogni parte del continente africano, ma si devono considerare come attori protagonisti religiosi i numerosi focolai islamici che hanno attecchito un po' ovunque in questo continente ed il cristianesimo che, introdotto dal colonialismo europeo, ne ha frenato lo sviluppo, ponendosi pertanto in contrasto anche dal punto di vista politico con le popolazioni di religione islamica.
    La Nigeria, ufficialmente Repubblica Federale della Nigeria, è un Paese dell'Africa occidentale, il più popoloso del continente. Confina con il Benin ad Ovest, il Ciad e il Camerun ad Est, il Niger a Nord e a Sud si affaccia sull'Oceano atlantico nel Golfo di Guinea. Comprende 36 Stati. Il territorio nigeriano è abitato sin dal 9000 a.C e ne sono testimonianza i numerosi e meravigliosi manufatti giacenti oggi nei musei.
Dal punto di vista religioso la popolazione si divide quasi perfettamente tra cristiani e musulmani. Conta 923.768 chilometri quadrati e 160.423.182 di persone. Stato più popoloso dell'Africa, in Nigeria abita approssimativamente un quinto della popolazione dell'Africa intera. Nonostante meno del 25 per cento dei Nigeriani viva in un'area urbana, all'incirca 24 città hanno più di 100.000 abitanti.
    La grande varietà di lingue, costumi e tradizioni tra i 250 gruppi etnici nigeriani danno al Paese una ricca diversità. Il gruppo etnico dominante nel Nord è quello degli Hausa-Fulani, la maggioranza dei quali è di religione islamica.

     Dal 1999 la questione religiosa diventa proprio strumento di violenza interreligiosa in Nigeria e vede contrapposti milizie di fanatici islamici e cristiani: i primi lottano per l'inserimento della Shari'a in tutti gli Stati nigeriani a maggioranza islamica mentre i secondi lottano per opporsi all'avanzare prepotente delle violenze anticristiane. E tra il 1999 ed il 2001 viene introdotta la Sha'ria in nove Stati a maggioranza islamica (Zamfara, Kano, Sokoto, Katsina, Bauchi, Borno, Jigawa, Kebbi, Yobe), mentre in altri tre Stati (Kaduna, Niger, Gombe) viene accettato l'utilizzo di una parte delle norme della legislazione islamica riguardo diritto civile e penale nelle regioni a maggioranza musulmana.
Come in epoche passate, dobbiamo immaginare una linea immaginaria in Nigeria, che dal Nord scende di traverso fino al confine orientale, tagliando fuori lo spigolo di Paese che si incunea tra il Camerun, ad Est, Ciad e Niger a Nord, difficile da attraversare oggi giorno: non ci si avventurano ormai quasi più neanche i nigeriani del Sud, che un tempo vi si affollavano per stabilire fiorenti commerci.
     Al di là si estende un lembo di terra dai panorami sconfinati di savana aperta che si rarefà via via in deserto man mano che si sale a Nord: poche città grandi, simili più a paesoni di casette basse dal tetto di lamiera ondulata, strade polverose battute da un sole implacabile: il resto è campagna, punteggiata di villaggi di fango, ombreggiati da rade acacie, catene montuose, impervie colline di pietra compatta grigio scura, mandrie di buoi gibbosi dalle lunghe corna diritte accompagnate dai nomadi Fulani, i folletti delle pianure, che vivono in simbiosi con gli animali nel loro eterno peregrinare.
     Ed ecco spuntare all'improvviso Maiduguri (o Yerwa in lingua kanuri) la città della Nigeria, capitale dello Stato federale di Borno, che conta 1.126.195 abitanti. Fondata dagli inglesi nel 1907 come avamposto militare, in un'area appartenuta per secoli agli imperi di Kanem-Bornu, Maiduguri è cresciuta fino a diventare la città principale del Nord-Est della Nigeria. La religione dominante è quella islamica, ma vi è un'importante minoranza cristiana.
    È stata più volte, fin dagli anni '60, sede di tensioni violenze a sfondo etnico e religioso. Nel febbraio 2006 scoppia una violenta sommossa in seguito alla pubblicazione delle caricature di Maometto da parte del quotidiano danese Jyllands-Posten, che provoca la morte di almeno 15 persone e la distruzione di 12 chiese cristiane. La setta fondamentalista islamica Boko Haram, responsabile di notevoli disordini negli anni 2000, è stata fondata nel 2002 proprio in questa città.
Luogo di scambio e commercio tra il deserto del Sahara ed il Golfo di Guinea, Maiduguri è diventata d'improvviso tragico palcoscenico di violenza feroce che mira a dividere e imporre odio tra i musulmani, costretti ad abbracciare il credo del fanatismo, ed i cristiani che devono abbandonare tutto e lasciare la città o convertirsi. Tutto questo è nel mirino degli integralisti: chi non si piega viene ucciso o vive nel terrore di poter essere lui il prossimo a lasciarci la pelle.
Il termine "Boko Haram" deriva dalla parola hausa boko che significa "educazione occidentale" e la parola araba harām, che indica un divieto legale, metaforicamente il "peccato"; "l'educazione occidentale è sacrilega"o "vietata" o "peccato". Il nome è dovuto alla dura opposizione all'Occidente, inteso come corruttore dell'Islam.
   Il gruppo viene fondato da Ustaz Mohammed Yusuf nel 2001 o nel 2002 nella città di Maiduguri con l'idea di instaurare la shari'a nel Borno con l'ex governatore Ali Modu Sheriff. Yusuf fonda un complesso religioso che comprende una moschea ed una scuola, dove le famiglie povere della Nigeria e degli Stati vicini possano iscrivere i propri figli.

    L'organizzazione ha adottato il nome ufficiale di "Gruppo della Gente della Sunna per la propaganda religiosa e per il Jihād" (in arabo: جماعة أهل السنة للدعوة والجهاد, Jamāʿat Ahl al-Sunna li-daʿwa wa l-Jihād) ma nella città di Maiduguri, dove essa si era formata, le fu dato il soprannome di Boko Haram.
Il centro si dà altri obiettivi politici e lavora per reclutare i futuri jihadisti per combattere lo Stato federale, include membri provenienti dai confinanti Ciad e Niger e parla solamente arabo. Nel 2004 il complesso sposta la propria sede nel villaggio di Kanamma, vicino il confine col Niger.
Il gruppo è divenuto noto internazionalmente dopo le violenze religiose in Nigeria del 2009. Dopo la morte di Ustaz Mohammed Yusuf, avvenuta nel 2009, il suo posto è stato preso da Abubakar Shekau. Pur combattendo per obiettivi diversi, il nuovo leader Shekau ha aperto i propri orizzonti dialogici con l'Is: infatti egli ne ha adottato atteggiamenti, come ad esempio, la propaganda via web con video ad effetto (emblematico quello in cui Shekau proclama la fondazione del proprio gruppo emulando goffamente il video di "presentazione" dell'Is con protagonista Al Baghdadi). Inoltre pare che l'Is finanzi eventuali nuovi gruppi terroristici, mossa da uno spirito di fratellanza e supporto con e verso questi.

Emanuela Scarponi


 12-09-2019
                                                                               Senghor et la "Civilisation de l’Universel" .

     Questo figlio del continente africano, cui sono state sempre rivolte le sue attenzioni, ha scritto tutta la sua produzione letteraria in lingua francese, in prosa e in versi. In un articolo pubblicato sulla rivista Esprit nel novembre del 1962 Senghor asseriva:"Je pense en francais; je m'exprime mieux en francais la que dans ma langue maternelle". Ciò non soltanto per i molti anni da lui trascorsi nell’Hexagone, non soltanto per aver insegnato francese e lingue classiche in più di un liceo della Francia, la quale lo ha visto anche deputato all'Assemblea costituente nel 1945 e l'anno dopo all'Assemblea nazionale e l'ha accolto inoltre segretario di Stato alla Presidenza del Consiglio, ma perché il francese è "lingua di cultura". Senghor è fiero di costatare che anche dopo l'indipendenza politica o I'autonomia, i territori africani francofoni hanno proclamato questo idioma "langue officielle de l'Etat”. La sua forza ed il suo prestigio non si fermano qui, ma - come asserisce il nostro autore - "il y a mieux après le Ghana, qui, pourtant, n'est pas tendre pour la France, les Etats anglophones, l'un après l'autre, introduisent le francais dans leur enseignement du second degré, allant, parfois, jusqu'à le rendre obligatoire".
   La sua risposta alla domanda: "che cosa rappresenta, per uno scrittore negro, l'uso del francese" gli offre lo spunto per innalzare un inno a questa lingua ch'egli non esita a definire "éminemment poétique".
   La ricchezza del lessico, la musicalità dei vocaboli, l'interesse internazionale, tutto ciò serve a formare quel "merveilleux outil" che è la lingua francese.
   Il passo verso la francofonia è ben presto compiuto; la francofonia è per 'Senghor quell'“Humanisme intégrale che si tesse intorno alla terra, quella simbiosi delle energie dormenti di tutti i continenti, di tutte le razze che si risvegliano al loro calore complementare".
   Il congresso internazionale sulla letteratura africana di espressione francese, inauguratosi a Dakar il 26 marzo 1963, gli permette di riprendere un argomento che gli sta molto a cuore e di esporre le sue idee nel modo più chiaro possibile. Poiché si tratta di letteratura, dice Senghor, si tratta dell'Uomo (con iniziale maiuscola). Si tratta di costrure la civilisation de l'universel, con questa letteratura che va nella direzione dell'Universale, scritta in francese, lingua degli autori negri che non hanno scelto, ma che hanno trovato nella loro "situation de colonisés"·.
    Eppure, precisa Senghor, se una lingua si fosse dovuta scegliere, nous aurions choisi le français. Non par sentiment, je dis par raison". Non soltanto - è sempre il pensiero del Senghor - perché "la Négritude est fruit de la Révolution" da cui sono scaturiti gli"immortali princìpi" del 1789, ma anche perché il francese proprio in quel secolo che doveva concludersi con l'avvenimento storico della Rivoluzione è stato proposto "comme langue de culture, à l'Universel, et accepté comme telle ".
Senghor sa bene che altre lingue quali il cinese, l'inglese, il russo e forse anche lo spagnolo devono essere collocate prima del francese per il numero delle persone che le parlano ma, egli aggiunge, soltanto in base alla quantità ma non alla qualità. ''Mais il n'y a pas que la quantité, il y a la qualité".
Precisando però, subito dopo, che questa sua asserzione non significa affatto che il francese superi per bellezza o per ricchezza le lingue prima menzionate. La lingua di Voltaire e di Victor Hugo, di Chateaubriand e di Claudel egli la prende insieme con molti altri scrittori africani perché la considera una lingua di comunicazione per eccellenza, "une langue de gentillesse et d'honneté", una lingua di cortesia e di estrema chiarezza, senza affatto sottovalutare l'altro elemento fondamentale: per cui si tratta dell'idioma - il secondo - appreso nell'infanzia, curato nell'adolescenza e nella prima giovinezza, padroneggiato nell'età matura.
    La letteratura negra di espressione francese - ecco il punto saliente e conclusivo del suo discorso inaugurale al congresso tenutosi a Dakar - costituisce "une contribution importante à la littérature généralisée: à la Civilisation de l'Universel. C'est que, communicable par le fait qu'elle est écrite en français,elle fait symbiose deux acts extremes du Génie humain. Par quoi elle est humanisme intégral".
    Molto spesso nella sua produzione in prosa, Senghor insiste sulla festa dello spirito, festa della cultura, sulla cultura, "esprit de la civilisation”. Tale argomento ricorrente e che gli sta a cuore si trova in molte delle sue conferenze o prefazioni o in parecchi articoli di riviste letterarie; una buona parte di questi suoi scritti sono raccolti nel volume che porta il titolo “Liberté, Négritude et Humanisme”. In questo tomo si trova anche l'allocuzione ch'egli pronunciò il 9 dicembre del 1959 per l’inaugurazione dell'Università di Dakar.
   Chi avrebbe mai potuto presagire che il giovanissimo Senghor in partenza per la Francia nel 1928 un trentennio più tardi avrebbe dato lustro, con la sua presenza di uomo ormai famoso, all'inaugurazione della prima università del Senegal? L'ateneo che veniva inaugurato nella città di Dakar, la quale alla fine degli anni Cinquanta annoverava già quattrocentomila abitanti, avrebbe insegnato "surtout le génie français; la clarté et la rigueur, l'esprit de finesse à coté de l'esprit de géométrie".
   Era la civiltà europea che si metteva a servizio dell'Africa, un'università francese che, invece di aggiungersi alle altre diciassette esistenti nel 1959 nell'Hexagone, s'impiantava nella capitale del Senegal sull'esempio delle sorelle francesi. Queste avrebbero travasato la loro civiltà, mentre il Paese del continente nero avrebbe fornito l’aspect négro-africain de la Civilisation.
   Così facendo, in questo incontro del XX secolo ci sarebbero stati dei doni da entrambe le parti per edificare la sola civiltà umana: "La Civilisation de l'Universel". "Je salue, en l'Université de Dakar, - esclama Senghor - le haut lieu africain du donner et du recevoir".
Emanuela Scarponi

 


30-08-2019

Leopold Sedar Senghor: L'uomo, il personaggio, l’uomo politico.


Spesso anche i buoni testi di storia della letteratura ignorano oppure esaminano solo nelle linee generali autori africani o asiatici che in questo nostro secolo hanno presentato una ricca produzione letteraria - in versi e/o in prosa - nella lingua inglese o in quella francese. Per quanto concerne il campo della letteratura africana di espressione francese, un personaggio africano di particolare rilievo è Léopold Sedar Senghor.
Per poter meglio apprezzare l'autore occorre prima presentare la sua origine, il suo luogo natale, l'uomo, il personaggio: tutto ciò esercita un’influenza determinante sulla sua formazione e produzione letteraria.
Infatti dell'opera di questo figlio del continente africano, a cui egli è rimasto sempre molto legato, nulla si potrebbe gustare se non si tenesse conto dei seguenti fattori decisivi: la sua patria, il Senegal, il suo paese natio, Joal, situata ad un centinaio di chilometri a Sud di Dakar; le sue profonde radici nella terra africana, alla quale egli si é abbeverato sin dalla nascita ed ha analizzato i complessi problemi socio-politico-culturali; la sua seconda patria, la Francia, dov'egli ha trascorso parecchi anni, ha compiuto una parte dei suoi studi, ha insegnato assimilando giorno dopo giorno la lingua francese, fino a farla diventare il suo secondo idioma, anzi il primo quale mezzo internazionale di comunicazione del suo pensiero, dei suoi appelli, dei suoi sentimenti.
Se si dà uno sguardo alla carta geografica, si nota che nel continente africano il Senegal confina a Nord con la Mauritania, a Sud con la Guinea e Guinea Bissau, ad Est con la Repubblica del Mali, mentre ad Ovest esso ha di fronte l'enorme distesa dell’Oceano Atlantico. E' in questa terra lambita in parte dalle acque dell'Oceano che il piccolo Léopold ha visto la luce nel 1906 da padre cattolico, grande proprietario terriero che fece fortuna con il commercio. Ruolo importante fu svolto soprattutto dalla madre, la quale per le consuetudini in vigore nel gruppo dei Sérères continuò a rimanere legata, anche dopo il matrimonio, al suo clan, continuò a fruire dei suoi beni e ad essere considerata e rispettata.
A tale proposito sarebbe di particolare interesse uno studio dal titolo: “La donna nell'opera di Senghor”. Balzerebbe subito evidente l'ammirazione che egli ha sempre avuto per la donna, vista soprattutto nel difficile ma nobile compito dell'educazione dei figli. E’ un'educazione nella quale il bambino si abbevera alla fonte dell'africanità, di cui egli riceve l'essenza.
Il prenome Léopold si spiega perché egli è figlio di un cristiano, mentre Sedar è giustificato dalla sua appartenenza alla razza Sérère. I primi anni della sua vita sono caratterizzati dall'ambiente africano; anche la lingua nella quale egli esprime la gioia o il lamento, la preghiera e la gratitudine è africana: il Serere.
Nel 1913, mentre l'Europa sente già i prodromi della lunga e tremenda guerra mondiale, il piccolo Léopold Sedar entra nella scuola missionaria di Joal ed inizia lo studio di quella lingua internazionale - il francese - nella quale dovrà poi eccellere come insegnante e come scrittore.
La sua educazione si svolge in un ambiente cattolico sotto la guida dei "Pères du Saint Esprit" nel collegio Libermann a pochi chilometri dal citato villaggio di Joal. Se in Europa, la guerra è ormai scoppiata ed infuria, in quella piccola località del Senegal, il ragazzo Senghor progredisce nella cultura francese, impara a servir messa e prende dimestichezza con i canti della liturgia romana.
Dal natio villaggio di Joal al liceo di Dakar il passo è importante: c'è il primo impatto con un grande centro, la capitale della sua terra africana, c'è l'inizio dei suoi studi liceali.
Nel ragazzo, divenuto più maturo, spiccano le doti del giovane avido di conoscere; a differenza dei suoi coetanei egli preferisce la lettura ai giochi, lo scrivere alla pratica di gare sportive.
Che cosa poté provare l'africano poco più che ventenne quando all'inizio del 1928, ottenuta una borsa di studio, partì per la Francia, di cui egli aveva tanto studiato la storia ed i vari aspetti della cultura? Quale emozione dovette soffocare quando si trovò per la prima volta nella città di Parigi, delle cui luci e della cui fama egli aveva sentito parlare nel suo liceo in terra d'Africa?
Lasciamo la parola allo stesso Senghor:“...c'est un professeur de la Sorbonne, M. Ernout, je crois, que je dois la chance d'etre au lycee Luis-le grand. J'etais dèbarquè à Paris un jour gris d'octobre 1928. Malgré tout ce que j'en avais lu, le dépaysement fut grand, qui s'accentua, quelques semaines après, lorsque je m'assis dans un amphithéâtre de la Sorbonne. Livré à la liberté de l'étudiant, je n'arrivais pas à m'organiser, à travailler, j'étais désemparé.
Quel giorno Leopold Sèdar Senghor sentì la nostalgia del suo Paese natio. Comme vedremo, la nostalgia costituirà uno dei temi fondamentali nella creazione letteraria del nostro autore. Erano i suoi compagni di studio uomini che eccelleranno nel campo della letteratura, quali Thierry Maulnier e Paul Guth, oppure nell'ambito della politica come George Pompidou, Primo ministro del Presidente de Gaulle, e successivamente anche lui Capo di Stato, dal 1969 al 1974.
Agli inizi degli anni Trenta, Senghor conseguì la licence dès lettres per poi ottenere, nel 1935, l'agrégation de grammaire. Questi due titoli universitari gli procurarono la soddisfazione d'insegnare materie classiche in un liceo francese, prima nella città di Tours dal 1935 al 1944 e poi a Parigi dal 1944 al '48.
Ne aveva compiuta di strada l'africano del Senegal quando il 3 settembre del 1939 la Francia insieme con la Gran Bretagna scesero in guerra a fianco della Polonia invasa dalle truppe naziste del Terzo Reich! Ma il cammino sarebbe stato molto più lungo e costellato di tappe gloriose, sia dal punto di vista politico, sia da quello letterario.
Prima di entrare nella parte centrale di questa conversazione, ossia quella concernente Senghor ed il movimento letterario noto con il nome di Negritudine, Senghor e la civiltà dell'universale, Senghor poeta, mi sia concesso di spendere qualche parola sull’uomo politico.
Pochissimi sono stati, nello stesso tempo, figli del loro Paese africano e naturalizzati cittadini francesi, com'è il caso del nostro autore.
E' pur vero che non capita spesso di assorbire profondamente la cultura del Paese europeo nel quale si è accolti ed amare questa terra fino al punto di servirla in guerra nelle vesti di semplice soldato, subire per essa la prigionia e soffrire nei campi di concentramento.
Questo figlio, naturalizzato francese, non era rimasto insensibile all'appello lanciato dal Generale de Gaulle quando nel 1940 tutto sembrava che in Francia sprofondasse nelle tenebre dell'occupazione nazista.
Ecco però che, dopo gli anni bui coincidenti con il Governo di Vichy, uno sprazzo di luce ritorna, e Senghor riprende il "cursus honorum che lo porterà in tre lustri dalla cattedra di lingue e culture africane nell'Ecole Nationale della Francia d'Oltre-Mare a Presidente del suo Senegal, la terra a lui così cara. Infatti dal 1949 al I960 egli s'impone non soltanto come letterato, ma anche come personalità politica a livello internazionale. Le molteplici missioni da lui svolte con abilità in noti centri del nostro continente - quali Bruxelles, Lisbona, Firenze, Strasburgo - giustificano ampiamente la sua dichiarazione di affetto «à l'Europe à qui nous sommes liès par le nombril».
E' un altro esempio luminoso di legame tra letteratura e politica come la Francia ha più volte dato in questi ultimi due secoli. Basti pensare a Chateauxbriand, a Lamartine, a Stendhal nel XIX secolo ed a Claudel, a Saint-John Perse, a Giraudoux in questo XX secolo.

 Emanuela Scarponi

 

 

 


 09-09-2019

                                                            Articolazione delle tematiche in rapporto alle singole opere di Wole Soyinka

Soyinka esordisce, nelle sue primissime opere, risalenti agli anni a cavallo del 1960, affrontando un tema ricorrente in molti autori, non soltanto nigeriani, di quel periodo, cioè la contrapposizione tra tradizione e progresso. E' chiaro che questo problema era molto sentito, in quanto l'indipendenza non era stata ancora conquistata; il rapporto tra bianchi e neri era ancora da risolvere e sussisteva pure il problema dell'asservimento alla cultura occidentale da parte di tutta quella tradizione africana, considerata primitiva o addirittura inesistente dagli Europei.
Capisce bene, Soyinka, che soprattutto l'assenza di autonomia culturale diventava forza politica e sociale indirizzata verso un'affermazione sempre più massiccia del potere occidentale in Africa; per questo, egli proclama proprio l'indipendenza culturale come prerequisito di ogni altro tipo di indipendenza. Egli agisce dunque contro tali prevaricazioni rivalutando quel retroterra culturale della popolazione nigeriana, che si materializza nelle opere più svariate, della cultura Yoruba e che gli permette di contrapporsi coscientemente e orgogliosamente a quelle idee di falso progresso e di facili ricchezze insite nella cultura occidentale.
Il nostro autore, nello stesso tempo, si rende conto che le imposizioni non vengono solo dall'esterno; noi possiamo diventare schiavi del progresso tecnologico tanto da non riuscire più ad usarlo né ad esserne padroni, ma l'imposizione e il ristagno intellettuale nascono anche dall'accettazione passiva di una religione ormai bigotta e superficiale, come quella descritta nel villaggio di The Swamp-Dwellers.
Soyinka, insomma, vuole insegnare ai Nigeriani ad essere critici e a ragionare. Questo obiettivo riguarda ovviamente non solo la suddetta opera, composta all'inizio della sua carriera; tutta la sua strada, fino ad oggi, è infatti un continuo stimolo per i lettori e conoscitori della sua produzione a porsi criticamente di fronte ai problemi, ed eventualmente a farsi essi stessi portatori di tali consapevolezze. La conquista di un'autonoma coscienza della tradizione e del progresso rappresentata in modo chiaro proprio in The Swamp-Dwellers. L'opera fu messa in scena per la prima volta a Londra nel 1958, con l'autore stesso nel ruolo dell'eroe Igwezu. Costui, recatosi in città, contrariamente al fratello, torna nel villaggio in un momento ben preciso: la stagione del raccolto.
Sebbene ritornato perché insoddisfatto della realtà cittadina, si rende tuttavia conto delle incongruenze insite nella vita del villaggio, e si rende altresì consapevole dell'impossibilità di reintegrarsi negli schemi del passato, soprattutto in riferimento a quel tradizionale senso religioso, diventato solo un'imposizione esteriore e priva di significati. Infatti, ritrovatosi a vivere nel villaggio, attacca ed accusa il ben piazzato e soddisfatto Kadije, capo religioso del villaggio:
... why are you so fat, Kadije? I think perhaps you did not slay the fatted calf... you lie upon the land, Kadije, and choke it in the folds of your flesh.
Il giovane Igwezu, così, con il suo atto di coraggio, dà la possibilità agli abitanti del villaggio di crescere spiritualmente, di riflettere sulla loro fede religiosa e di capirne i limiti. Igwezu, insomma, rappresenta l'individuo che sacrifica se stesso per la sua società, un eroe che rischia la sua libertà in nome del gruppo a cui appartiene. Ma il gruppo è esiguo ed egli non può rimanere a coltivare il suo seme. L'opera, infatti, si conclude con la fuga di Igwezu, costretto a scappare dal villaggio per sfuggire alla vendetta di Kadije.
Vagliando il cammino spirituale di Igwezu, notiamo già la consapevolezza del giovane Soyinka sull'insoddisfazione dell'uomo, costantemente alla ricerca di qualcosa che non riesce a trovare; alle sue domande non c'è risposta né nel villaggio né nella città. Il conflitto illustrato in The Swamp-Dwellers viene nuovamente riproposto in The Lion and The Jewel, dove l'autore manifesta tuttavia una maggiore condiscendenza verso le forme della tradizione.
Il tema viene sviluppato tramite l'agilità ed il brio delle commedie, così che il clima in cui i personaggi si muovono è scherzoso e divertente. Le forme che discendono dalla tradizione yoruba esplodono a tratti sulla scena in mimiche, mascherate rappresentazioni dentro la rappresentazione, frantumando ogni differenza tra passato e presente - almeno nella tecnica - e dando una corposità, uno spessore speciale alla comunicazione.
In quest'opera, che è la seconda pubblicata da Soyinka, è analizzato ancora più chiaramente lo scontro tra i due contrapposti mondi culturali. La novità provocatoria, però, sta nella scelta definitiva di Sidi, la più bella ragazza del villaggio, che preferisce il vecchio capo di Ilujinle al giovane e moderno insegnante Lakunle, anello di congiunzione con la nuova civiltà.
Lakunle ha infatti cercato di attirare la ragazza con gli aspetti più appariscenti e fatui della società consumistica occidentale; le sue armi sono il rossetto, i tacchi a spillo e le fotografie. Tuttavia egli non risulta complessivamente uno stereotipo, o un personaggio monocorde, in quanto ha già dimostrato una propria poliedricità nella prima parte della commedia.
L'opera comunque non si risolve soltanto nello scontro tra due culture; al di là di questo, comincia infatti a delinearsi quell'interesse per il potere che si chiarirà nella successiva produzione di Wole Soyinka, il quale nel marzo del 1960 conclude The Trials of Brother Jero, un'opera satirica contro quel tipo di potere obsoleto e velatamente politico che è il falso potere profetico.
La storia si incentra infatti sulla figura di Brother Jero, il quale si presenta subito all'auditorio come un "trickster", un imbroglione celato dalle vesti del capo religioso. Jero vive infatti raggirando gli altri e, compiacendosi di ciò, ci invita personalmente ad essere testimoni di una delle sue giornate, avvertendoci, nella sua sfrontatezza, del fatto di considerare il suo lavoro come una vera e propria professione, che gli permette di condurre una vita agiata e che gli offre la possibilità di esercitare un grande potere. Questo è infatti il suo scopo: ottenere il potere tramite il denaro. Ci sono momenti in cui i suoi inganni lo mettono nei guai, ma alla fine riesce sempre ad avere la meglio. Tra i vari sistemi che adotta per incastrare la gente, Jero manifesta una grande padronanza delle tecniche linguistiche, strumento necessario per manipolare non solo la gente comune, ma anche personaggi politici.
Attraverso questa figura, compare dunque quel tipico carattere satirico di Soyinka nei confronti della religione e della politica mentre, da un punto di vista più strettamente legato ai problemi sociali della Nigeria, l'opera intende colpire il violento spirito settario tipico del popolo nigeriano. Per quanto riguarda l'aspetto politico, è invece particolarmente importante rilevare che The Trials of Brother Jero fu scritta prima dell'indipendenza nigeriana del 1960; essa rimane quindi un interessante presagio degli eventi politici che seguirono l'indipendenza.
Dopo The Trials of Brother Jero, l'atteggiamento di Soyinka ne1l'affrontare problemi politici e sociali subisce un cambiamento, che si sviluppa nel passaggio da un'analisi satirica della realtà, ad una più profonda indagine tesa allo studio dei problemi morali e spirituali connessi alla vita dell'uomo.
E' per questo che la successiva A Dance of the Forest segna un punto di fondamentale importanza nell'evoluzione artistica del nostro autore; essa è tra l'altro considerata la prima, opera drammatica di Wole Soyinka. A Dance of The Forest, oltre ad apparire come un approfondimento di The Trials of Brother Jero, presenta una simbologia e uno spessore di tematiche di gran lunga maggiore rispetto all'opera precedente. E' la prima volta, infatti, che la consapevolezza dell'inquietudine umana, esemplificata nella situazione nigeriana ed emersa come tema dominante della opera di Soyinka, viene espressa ad un livello profondamente intimo e meditativo.
Attraverso l'invenzione del raduno delle tribù Soyinka, in un'atmosfera di grande suggestione e per mezzo di una maestosa struttura in cui ogni personaggio ha una ben precisa collocazione, rappresenta i grandi temi dello scontro tra tradizione e progresso e tra vita e morte.
In questo quadro universale e possente grande parte è riservata al rapporto tra mondo umano e divino, nonché alla figura del destino nel contrasto tra mito e realtà. Sopra a tutta questa immensa costruzione emerge comunque sempre l'artista, unico protagonista capace di comprendere le spire di violenza e di orrore insite sulla natura stessa dell'uomo, sia antico che moderno. L'immediato riferimento all'opera è la celebrazione dell'indipendenza nigeriana, in occasione della quale era stata scritta; l'intento dell'autore è dunque quello di avvertire tutta la Nigeria circa le difficoltà insite nella lotta per il raggiungimento di un futuro più luminoso, troppo presto prospettato all'albore, dell'indipendenza dei capi nigeriani.
Tra il 1965 al 1985 la produzione letteraria di Soyinka tratta con sempre maggior approfondimento i temi esposti in A Dance of the forest, realizzando però quella formidabile sintesi ideologico-culturale che va sotto la denominazione di "cannibalismo", e che fa di Soyinka non solo un grande letterato, ma anche un attento critico dei fatti politici ed economici del nostro tempo. In questi vent'anni vengono concepite opere del calibro di Kongi's Harvest,(1965), Madmen and Specialist, (1971), Opera Wonyosi, (1981), A Play of Giants, (1984), Requiem for a Puturologist, (1985).
Il critico G. Moore sostiene che tutte le opere del 1965 denunciano il timore delle conseguenze della violenza che i politici stessi avevano invocato per intimorire i loro oppositori. Esse mostrano la consapevolezza del grossolano materialismo che stava deteriorando i valori tradizionali, e l'indolente indulgenza con la quale venivano comunemente considerate la corruzione e la malvagità. A questo proposito è opportuno rileggere ancora una volta il diario che lo stesso Soyinka redasse segretamente dal 1967 al 1970.
In Kongi's Harvest il cannibale è il dittatore Kongi che, sebbene mostri aspetti caricaturali, richiama precise memorie di dittatori africani di quegli anni. Soyinka affronta dunque in quest'opera il problema dell'autoritarismo e della lotta per il potere fine a se stesso; egli analizza la personalità di un dittatore e del suo raccolto finale, risultato del suo comportamento, come lo stesso titolo annuncia. Kongi, con analisi sottilmente psicologica, è presentato come un isterico megalomane che sceglie di vivere da solo, su un palco, sempre isolato dal resto del mondo; egli discende tra i suoi simili solo nella scena finale, in occasione di una festa, durante la quale si aspetta di ricevere l'ossequio del vecchio capo religioso Oba. Le sue aspettative, però, vengono deluse dall'azione di due giovani oppositori che mostrano, come alternativa alla sottomissione, la possibilità di una lotta contro la dittatura. Essi indicano alla loro gente il cammino della rivolta; ma, quando cala il sipario, la vittoria finale è ancora lontana.
In Madmen and Specialist il tema del cannibalismo assume toni diversi: in quest'opera viene analizzato l'effetto corrompente del potere, ormai legalizzato e sfuggente ad ogni controllo, sulla vita di un giovane medico.Il giovane specialista ha lasciato la medicina per diventare una forza politica e tirannica, dopo essere stato a combattere sul fronte.
Non a caso, Madmen and Specialist è del 1971, dopo la guerra civile nigeriana; questa, con gli orrori e le vendette che l'hanno accompagnata, ha distrutto in molti autori nigeriani le ultime speranze nella società del dopo indipendenza; ha definitivamente spento gli entusiasmi che avevano accompagnato l'autogoverno e l'illusione del futuro, che per qualche tempo aveva relegato in secondo piano l'urgenza di gravi problemi sociali ed economici.
Per lo stesso Soyinka la guerra civile, che significa prigionia, è stato un momento rilevante e significativo che lo ha portato al rifiuto del presente e dello stato di fatto. L'opera in esame appare dunque come il frutto di un'intensa partecipazione e come il tentativo di fissare la realtà nell'intento di decifrare il bisogno di umanità che la sottende. Il presente è visto dunque come potere e conoscenza che si autogiustificano nella figura dello specialista.
Il Dottor Bero, lo specialista, aspira a dominare gli altri, a forzare i singoli, ad interpretare il mondo a suo modo con qualsiasi mezzo disponibile; anzi, mette la sua conoscenza a completa disposizione per raggiungere i massimi risultati. Egli è un cannibale, pagato per deformare le sue creature e portarle a pensare all'unisono con lo stato totalitario a cui appartengono.
Dopo il 1971, l'impegno di Soyinka si rivolge soprattutto alla narrativa e alla poesia; solo nel 1981 compare una grande nuova opera teatrale, l'"Opera Wonyosi ", in cui viene dimostrato che non solo la guerra, ma anche quella pace tipicamente occidentale, permeata da un benessere solo epidermico e futile, porta all'aberrazione e al cannibalismo.
In questo lavoro i protagonisti, tutti facenti parte di quella borghesia legata al commercio, alla politica o alla cultura, vengono trattati come dei veri e propri mendicanti, non tanto di denaro, quanto di potere. E' interessante notare l'analogia con l"Opera da tre soldi" di B. Brecht, anch'essa imperniata su questa critica tagliente alla società borghese, dalle facili aspirazioni consumistiche. In Opera Wonyosi. l'autore si diverte ad esprimere la sua ironia perfino nel titolo; esso gioca infatti sui significati della parola "opera" in lingua yoruba ed in lingua inglese.
La traduzione nel significato yoruba è:"il pazzo compra"; in inglese, invece, il termine si riferisce ad una forma molto elaborata e cara di teatro, in cui ogni parola è cantata ed accompagnata da una grande Orchestra. Il termine "wonyosi", infine indica un tipo di merletto molto costoso (costava circa 1000 $ al metro!) molto in voga a quel tempo nell'alta società nigeriana e considerato quindi qualificante.
Nel 1984 viene pubblicata A Play of Giants, un'opera esplicitamente "dedicata" a quattro grandi cannibali della moderna Africa dittatoriale. In questo scritto, in cui il cannibalismo viene inteso anche nella sua accezione più prettamente antropomorfa, Soyinka condanna senza appello, come tiranni sanguinari, i capi Idi Amin (Ugnda), Mobutu (Congo Kinshaso), Ngumo (Guinea Equatoriale) e Bokassa (Repubblica Centrale Africana). Ecco come si esprime Soyinka nei loro confronti: "Ci sono furfanti tra i re in Africa, sanguinari; i re sono dannosi, sotto il loro volto benevolo, paterno, essi sporcano chiunque. Quando scrissi Kongi's Harvest pensai che quella fosse una buona opportunità per pagare un tributo a ciò che io pensavo fosse stato il loro passato pittoresco. Molti di loro sono dei furfanti adorabili...mi mancheranno quando ci saremo liberati di loro.
Dopo A Play Of Giants, in cui l'impegno sociale di Soyinka si fa ancor più sentito e convinto, nel 1985 viene edita l'opera Requiem For a Futurologist, in cui l'attenta mente di Soyinka mette a fuoco il problema della massificazione di una società frastornata. Il problema più importante è proprio in questa incapacità decisionale dei singoli individui, facenti ormai parte di una massa informe e irragionevole. L'opera narra di un parapsicologo condannato a morire dalla convinzione della massa, succube delle parole di un falso indovino; nella descrizione della moltitudine delle persone, tutto lo studio psicologico di Soyinka emerge nel migliore dei modi.
Per concludere, ritengo opportuno soffermare l'attenzione su un concetto sottilmente, ma allo stesso tempo profondamente legato al cannibalismo, e cioè a quella particolare interpretazione del sacrificio che permea tutta l'attività di Soyinka e che lo vede impegnato in prima persona. Il sacrificio, infatti, appare dovunque nelle opere di Soyinka, sia in quelle teatrali che non; nelle poesie come nei romanzi e nei saggi, il suo appello è continuo; importante conferma è venuta anche dall'interessantissimo colloquio avuto con lui durante la stesura di questo lavoro.
A proposito di questo incontro, vorrei sottolineare la grandissima levatura morale e l'intelligenza che traspaiono sia dalle parole, sia dalla figura e dai modi del nostro autore; in un'ora di colloquio sempre estremamente interessante e serio, pur non mancando momenti più sereni e scherzosi, si è rivelato appieno quel personaggio conosciuto tramite centinaia di pagine bianche e nere e la freddezza di qualche foto sbiadita; lo scrittore e l'uomo sono emersi nella loro completezza svelando caratteristiche ed emozioni che solo un dialogo ed un incontro possono rivelare. Soyinka è insomma apparso in tutta la sua umanità, in tutta la sua fierezza e nobiltà di idee; un uomo convinto ed orgoglioso della sua vita e della sua missione; un onesto e un coraggioso segnato in viso dalle difficoltà, dalle sofferenze e dalla stanchezza, ma ancora capace di regalare un sorriso di amicizia o uno sguardo di sfida a tutti i tiranni e i falsi profeti.
Riallacciandomi, quindi, al tema più specifico del sacrificio, è proprio l'artista, cioè il sacrificato, che svolge un ruolo fondamentale per le scelte che compie, soprattutto nei momenti più significativi. Proprio una morte espiatoria è quella di Eman in The Strong Breed, in cui il solitario straniero si offre volontariamente in sacrificio, salvando cosi un idiota dal suo inconsapevole quanto inutile ruolo di capro espiatorio. Nella "bellissima figura di Eman, Soyinka raggiunge uno dei suoi massimi vertici espressivi; la grandezza del personaggio è resa infatti mirabilmente per mezzo di un isolamento da un lato divino, dall'altro drammaticamente umano. Eman è solo, perduto in un universo non suo, disperso in un mondo che capi scena da cui non è compreso. I suoi sforzi sono inutili, il suo impegno è misconosciuto, e l'unica via che gli resta è il sacrificio, la morte come espiazione. Mai come in questo caso la realtà dell'artista Soyinka si fonde con il personaggio della scena; Eman è Soyinka, che testimonia con il suo sacrificio quell'altruismo e quell'impegno a favore del suo popolo che ne fa un vero e degno rappresentante di quella parte dell'umanità che egli stesso definisce razza forte.
Emanuela Scarponi

 

 

 29-08-2019

La Négritude.
         Se si vuole meglio comprendere la creazione letteraria di L. S. Senghor si deve prima affrontare e chiarire il tema della Négritude. Per quanto esista in lingua italiana un vocabolo corrispondente (Negritudine), preferisco lasciarlo in francese, com'esso è stato presentato negli anni Trenta, cercando di precisarne il significato e di farne apprezzare il valore. Si faccia anzitutto, come propone il Memmi, la distinzione tra “négrité e négrisme e Negritudine.
La Négrité è "l'insieme di persone, gruppi e popoli negri"; négrisme è "l'insieme dei valori tradizionali e culturali dei popoli negri"; Négritude è "il modo di sentirsi e di essere negri", mentre nel Grand Larousse Enciclopedie troviamo la seguente definizione: "l'ensemble des valeurs culturelles et spirituelles du monde noir". Come si nota il Larousse invece non fa grande distinzione.
Nel decennio che precedette la Seconda Guerra Mondiale, ossia negli anni compresi tra il 1930 ed il 1940, gli studenti africani che abitavano a Parigi solevano incontrarsi con gli scrittori americani di razza negra ed erano affascinati da alcuni temi maggiormente trattati, quali il culto degli antenati, l’esaltazione della razza, una certa nostalgia del paese natio, quasi sempre l'Africa.
Senghor africano sin nel più profondo del suo cuore fondò con Aimé Césaire e con altri studenti negri La Revue du Monde Noir: era il 1934.
Aimé Césaire, figlio della Martinica, scrittore e uomo politico, anche lui poeta, adoperò per la prima volta il termine Négritude qualche anno dopo nel suo Cahier d'un retour au pays natal. Ecco le definizione che in questo Cahier egli dà della Négritude. "...è il semplice riconoscimento del fatto di essere negro, l’accettazione di questo fatto, del nostro destino di negri, della nostra storia e della nostra cultura". Si tratta da un lato dell'amore per il Paese natio, l'amore per la Négritude, dall'altro dell'accusa contro il colonialismo.
Alle poesie di Césaire fecero eco quelle del senegalese Senghor e di Léon Damas della Guyana. Per Senghor la Négritude è "l’insie­me dei valori culturali del mondo negro, valori che si esprimono nella vita, nelle istituzioni e nelle opere dei negri. Dico che questa è una realtà: un intreccio di realtà. Non siamo noi che abbiamo inventato le espressioni "arte negra”, “musica negra”, "danza negra”. Non siamo stati noi (che abbiamo inventato) la legge di "partecipazione”. Sono dei bianchi europei. Per noi, la nostra preoccupazione, dopo gli anni 1932-34, la nostra unica preoccupazione è stata di accettarla consapevolmente, questa Négritude, vivendola e, avendola vissuta, di approfondirne il significato. Per presentarla, al mondo, come una pietra angolare nell'edificazione della "Civilisation de l'Universel", che sarà l'opera comune di tutte le razze, di tutte le civiltà differenti oppure non lo sarà affatto.
Quando la Francia si trovò sotto l'oppressione nazista, anche la voce de L'Etudiant Noir fu soffocata. Si dovette attendere la fine del 1947 perché, contemporaneamente a Dakar e a Parigi, comparisse la prima copia della rivista Présence Africaine. Vi collaborarono scrittori africani, mentre i maggiori rappresentanti della cultura francese dell'epoca avevano costituito un comitato di patronato: Gide, Sartre e Camus spiccavano tra gli intellettuali francesi, mentre tra gli scrittori africani si doveva annoverare anzitutto Senghor.
La prefazione a quel primo numero della rivista fu scritta da André Gide, il quale tra l'altro asseriva che il periodo dello sfruttamento e quello della commiserazione susseguitasi erano terminati; era subentrata la fase nella quale i popoli europei, i bianchi, e soprattutto i Francesi avrebbero – sì - pensato di educare, ma si sarebbero anche lasciati istruire dalla cultura africana. Era finito il tempo di disconoscere i valori della Négritude. Se E. Mounier interveniva con la sua Lettre à un ami africain, Senghor auspicava e sollecitava incontri proficui tra scrittori negri e colleghi europei. Sarebbero dovuti essere "rendez-vous de donner et de recevoir".
Alla fine degli anni Quaranta, precisamente nel 1948, veniva alla ribalta anche Jean-Paul Sartre, il quale prendeva posizione sull'argomento con la sua ricca prefazione all'antologia della nuova poesia negra e malgascia. Intervenendo con tutto il prestigio della sua personalità di filosofo e letterato, Sartre dava un titolo significativo, Orphée noir, così da presentare la sua prefazione come un manifesto, anzi il manifesto, della Négritude.
Questo Orfeo negro avrebbe dovuto svegliare l'Africa dal suo sonno troppo lungo e metterla in marcia, farle sentire la sua missione. Sartre però vedeva in questo movimento come una reazione, quasi una rivolta dei popoli di colore contro i bianchi, "un racisme anti-raciste". Al filosofo francese che scriveva testualmente: “Ainsi le noir qui revendique sa Négritude dans un mouvement révolutionnaire se place d'emblée sur le terrain de la Réflexion, soit qu'il veuille retrouver certain traits objectivement constatés dans les civilisations africaines, soit qu'il espère découvrir l'Essence noire dans le puits de son coeur", rispondeva puntualizzando l'africano del Senegal, e in più riprese.
Parlando infatti alla Sorbona il 21 aprile 1981, Senghor precisava: "Jean-Paul Sartre n'a pas tout à fait raison quand, dans Orphée Noir, il définit la Négritude "un racisme antiraciste”; il a surement raison quand il la présente comma une certaine attitude affective à l’égard du monde"".
Due anni dopo, in un articolo dal titolo “Négritude et civilisation de l'universel” pubblicato dalla rivista Présence Africaine, Senghor chiariva maggiormente il suo pensiero con la seguente osservazione: "La Négritude n'est ni racisme ni contorsions. C'est tout simplement l'ensemble des valeurs de civilisation du monde noir. Non pas valeurs du pasjgé, mais culture authentique."
La lira dell'Orfeo negro, il risveglio auspicato da Sartre hanno sortito il loro effetto: invero dal settembre del 1956 scrittori ed artisti negri organizzano congressi, internazionali con un certo ritmo regolare. Il primo si è tenuto a Parigi nella data predetta, il secondo è stato organizzato a Roma nel 1959 dall'Istituto Italiano per l'Africa. Alquanto polemico il primo, più pacato e più mirante ad un'intesa culturale il secondo. Pablo Picasso raffigurava gli uomini in cammino verso una meta comune, Senghor insisteva sul contributo che ognuno avrebbe potuto recare alla "Comunità universale senza razze e senza frontiere".
Emanuela Scarponi

 08-09-2019

                                                           Prigionia e sue ripercussioni sull'evoluzione della personalità artistica di Soyinka



      Nel 1967, Soyinka si trova a Londra, per la pubblicazione della raccolta di poesie Idanre and other Tales: in cui sono comprese poesie giovanili e poesie più mature apparse in precedenza in riviste e antologie come Encounter, Ibadan, Black Orpheus, Modem Poetry from Africa.
Nell'estate dello stesso anno viene nominato presidente del "Drama Department and the Arts Theatre" dell'Università di Ibadan; ma alcune settimane dopo la nomina, è nuovamente arrestato per essersi opposto alla soluzione militare della situazione biafrana. Da questo momento egli vive confinato in cella d'isolamento per due anni nel corso dei quali riesce a comporre alcune poesie, che giungono miracolosamente ad un amico londinese.
      Le poesie, raccolte nel '69 e nel '72 in Poems from Prison e A Shuttle in the Crypt, sono dominate da una simbologia tragica, con scene di morte, massacri, olocausti privi di ogni significato. La realtà nigeriana con i suoi orrori, le sue assurde violenze, si presenta alla mente del poeta come un giardino di cadaveri: “Da una lontana spiaggia gridano, dove sono finiti tutti i fiori? Io non lo so. qui i giardini mostrano solchi silenziosi e nudi”.
Rilasciato agli inizi del 1970, Soyinka costituisce una nuova compagnia teatrale, "The Theatre Arts Company", con cui inaugura la stagione statunitense.
È proprio a Watford, nel Connecticut, che rappresenta, infatti, la nuova commedia Madmen and Specialists. Quest'ultimo impegno teatrale, che vede trattata la figura messianica in modo meno protagonistico, si basa su un tema portante estremamente profondo, qual è infatti quello dell'”erosion of humanity in a well-organized, tightly controlled, authoritarian society".
     Queste parole rivelano ancora di più la ormai globale visione del mondo contemporaneo che ha Soyinka, e la sua grande capacità di capire i meccanismi che sono alla base del moderno sistema economico e sociale della nostra civilizzazione. L'opera rappresenta anche un'evoluzione della drammaturgia di Soyinka, poiché l'artista ha ormai acquisito una profonda consapevolezza dello strumento teatrale, che domina con sicura padronanza.
Ma è nel 1972 che appare il diario-documento The Man Died (Notes from Prison), in cui lo scrittore ripercorre con voce sardonica e luttuosa gli anni di detenzione. Il titolo del libro nasce da un suggerimento occasionale. Soyinka stava compiendo delle ricerche su un amico di Londra, quando ricevette un telegramma che ne annunciava in modo laconico la morte;
      A cable bearing the very simple words: The Man Died.I was struck first by the phrasing. It sounded weird, yet familiar(...) I heard the sound in man different voices from the past and from the future. It seemed to me that this really is the social condition of tyranny (,..); This evening I recognize in it the only title for this book. I address this book to the people to whom I belong, not to the new élite, not to the broad stratum of privileged slaves who prop up the marble palaces of today's tyrants, SOYINKA, Wole, The Man Died, Londra, 1973, pg.5-15. (Traduzione di Itala Vivan).
“Un telegramma con questa parola semplicissima: L'uomo è morto. Fui colpito per la prima cosa dal modo della frase. Mi suonava strana ed allo stesso tempo familiare (...). Udii il suono di molte voci diverse, provenienti dal passato e dal futuro. Mi parve che questa fosse realmente la condizione sociale della tirannia (…); Stasera ho conosciuto in questa frase l'unico titolo per questo libro.... Dedico questo libro al popolo cui appartengo, non alla nuova élite, non a quello ampio strato di schiavi privilegiati che erigono i palazzi marmorei degli odierni tiranni).
      Cosi Itala Vivan commenta la scelta del titolo: "E' importante notare come lo stesso Soyinka dichiari di avere riconosciuto, nel testo del telegramma, il titolo del libro. Conoscere è appunto riconoscere, è riportare a se stesso e alla propria interezza di uomo la verità e la talora sconvolgente difficoltà dell'esperienza. Nello stupore attonito e meraviglioso del riconoscimento, l'esperienza viene estratta dal gran fiume del divenire e collocata in un ordine diverso, che appartiene alla storia dell'uomo".
Ma il brano non si spiega tutto soltanto nel titolo; in esso compare anche una memoria personale degli anni passati nella cella di isolamento, in compagnia della sola "morte", sempre vicina e pronta a balzare su di lui. E’ un brano, quindi, che rivela in maniera ancor più profonda la sensibilità dell'artista, la sua sofferenza ed il suo dolore in quei giorni di morte, vinti dalla fede nella sua convinzione e dal disprezzo non solo per i despoti, ma anche per "quell'ampio strato di schiavi privilegiati che erigono i palazzi marmorei degli odierni tiranni.
    La stessa denuncia dell'ottusa brutalità della tirannia compare nel romanzo di Soyinka Season of Anomy, apparso nel'73. Quest'opera narrativa risulta costruita su strutture archetipe e densa di echi mitici; in uno scenario di morte e di stragi, il "viaggio" del protagonista Ofeyi, in cerca della donna amata Iriyise, si muta in una simbolica ricerca della vita. Irìyise è, infatti, il principio femminile rigenerativo, la Madre Terra. Ma la vita è negata e Ofeyi ritrova la donna morente in un cerchio infernale di lebbrosi e dementi, ultimi testimoni dell'assurdità della guerra.
    Nel 1976 è l'opera saggistica Myth, literature and African World, in cui Soyinka analizza i miti della cultura madre e commenta la recente produzione letteraria africana. Dal 1970 in poi, Soyinka ha viaggiato molto, facendo però sempre riferimento alla Nigeria.
Tra i suoi numerosi viaggi, egli ha avuto la possibilità di visitare anche l'Italia, e precisamente Firenze dove, nel giugno del 1977 è stato intervistato dal giornalista Pietro Petrucci per conto de La Repubblica. Alla domanda su quale fosse oggi 'in Africa la condizione dell'uomo di cultura, ha risposto ribadendo le posizioni già delineate in occasione della Conferenza di Stoccolma del 1967:"Bisogna tener conto che tutti gli artisti africani contemporanei sono venuti su in seno alla classe dirigente, sono fra coloro che hanno combattuto per l'indipendenza e dopo averla ottenuta, l'hanno gestita (..,). Questo matrimonio fra gli intellettuali e gli altri (politici, sindacalisti, militari) ha resistito durante le prime due stagioni della cultura africana moderna - quella dominata dalla lotta al colonialismo e quella dell'entusiasmo per l'indipendenza. Insieme alla terza stagione, quella delle delusioni succedute all'alzabandiera, è venuto il divorzio (...).
      L'Africa oggi è teatro di una furibonda lotta per il potere (...), è un'atmosfera pesante che tende ad emarginare l'intelligenza, la ragione, le idee. Il disimpegno non è nemmeno pensabile. A chi tenta di emarginarci dobbiamo rispondere denunciando l'arroganza, l'ignoranza, l'intolleranza. Appare evidente che, con queste parole, Soyinka non si limita soltanto a riaffermare i concetti di Stoccolma; a dieci anni di distanza, infatti, egli ha di fronte il quadro drammaticamente chiaro e disperato di un'Africa martoriata dalle lotte per la spartizione di un potere inesistente. Infatti, accanto alle più diverse ideologie di guerra, continuamente in lotta, sopravvive una popolazione stanca, povera, che conta migliaia di morti di fame ogni giorno e cerca solo un momento di pace e di stabilità per sollevarsi da quell'ignoranza e da quel sottosviluppo endemico che la attanagliano è dunque questa la voce di Soyinka; è questa la voce di un uomo che rifiuta il disimpegno, la stanchezza, la delusione e la paura, e che continua a combattere contro l'arroganza e l'intolleranza di tutti coloro che ancora oggi, per ingiustificati motivi economici e politici, fanno dell'Africa una terra di conquista e di morte.
Emanuela Scarponi


28 agosto 2019                                    Fuori strada? Stati Uniti, Europa, e Regno Unito in un Medio Oriente in transizione. 

Conferenza internazionale sulla geopolitica delle grandi potenze in Medio Oriente nell’era di Brexit e Donald Trump: "Going Astray? The United States, Europe and the United Kingdom in a Changing Middle East".

Il giorno 27 agosto 2019 si è svolta presso la Sala del Refettorio di Palazzo San Macuto, complesso della Camera dei deputati a Roma, una interessantissima conferenza sulla strategia politica da attuare post-Brexit tra Europa, Gran Bretagna, Stati Uniti e Medio Oriente.
L'uscita del Regno Unito dall'Unione europea, nota anche come Brexit, sincrasi formata dall'inglese Britain, "Gran Bretagna", ed exit, "uscita", è stata il processo che ha posto fine all'adesione del Regno Unito all'Unione europea, secondo le modalità previste dall'articolo 50 del Trattato sull'Unione europea.
A seguito del referendum sulla permanenza del Regno Unito nell'Unione europea, il 52 per cento ha votato per lasciare l'Unione mentre il 48 per cento ha votato per rimanere nell'Unione europea. Il governo britannico ha quindi formalmente annunciato il ritiro del Paese a marzo 2017, avviando i negoziati Brexit. L'uscita è stata ritardata dal Parlamento britannico e non è ancora conclusa.
La conferenza é stata organizzata dall’Euro-Gulf Information Center, (EGIC), un’associazione internazionale fondata nell’ottobre 2015 a Roma. Si avvale di professionisti di significativa esperienza di relazioni tra Europa e Mondo Arabo ed Europa e Golfo ed ha il compito di promuovere e produrre informazione e conoscenza sulle due regioni e sulle loro relazioni e creare opportunità di dibattito, confronto, collaborazione e scambio. Questi collaboratori di livello internazionale sono intervenuti nel corso del convegno rispondendo alla domanda: "Going Astray? The United States, Europe and the United Kingdom in a Changing Middle East". “Fuori strada? Gli Stati Uniti, l’Europa, ed il Regno Unito, in un Medio Oriente in cambiamento”.
Il relatore principale è stato l’europarlamentare Amjad Bashir, del Partito Conservatore del Regno Unito, di origine pakistana, favorevole alla fuoriuscita del Regno unito dall’Unione europea, il quale ha delineato le linee-guida per un nuovo modello di interazione tra l’Occidente e il mondo Arabo; un modello che, riconoscendo i limiti dell’approccio tra governi, dia rinnovata enfasi alle relazioni economiche come strumento di stabilità. In seguito al suo discorso ha avuto inizio il panel della conferenza.
Per primo, è intervenuto l’onorevole Graham Brady, membro del Parlamento inglese, il quale nel referendum del 2016 si è schierato per la fuoriuscita delle Gran Bretagna dall'Unione Europea. Ha parlato della strategia del Regno Unito dopo la Brexit e della volontà del governo inglese di rilanciare la Gran Bretagna nella regione mediorientale, rafforzando la partnership con gli alleati tradizionali con nuove iniziative politiche ed economiche.
Poi è intervenuto il dottor Riccardo Alcaro, coordinatore delle ricerche dell’Istituto affari internazionali (IAI) e responsabile del programma “Attori globali” dello IAI. I suoi interessi di ricerca si concentrano sulle relazioni transatlantiche, in particolare sulle politiche di Stati Uniti ed Europa nel vicinato europeo.
Nel suo intervento ha messo in evidenza come il processo di divorzio tra Regno Unito ed Unione europea potrebbe far emergere punti di contrasto, anche nella politica estera delle due potenze, come ad esempio una diversa prospettiva sulla gestione del delicato accordo nucleare con l’Iran, che l’Unione europea intende far funzionare.
Il terzo relatore è stato il colonnello Filippo Bonsignore, direttore della Middle East Faculty della Nato Defense College di Roma, facoltà del Medio Oriente dell’università di Difesa della Nato, che ha parlato di come il ruolo della Nato, messo in discussione dal nuovo Presidente americano Donald Trump, potrebbe diventare più efficace se si concentrasse sulla lotta al terrorismo e se riuscisse a trovare un consenso interno per determinare le priorità dell’organizzazione.
Infine, è intervenuto il dottor Mitchell Belfer, Presidente dell’Euro-Gulf Information Center, che ha parlato della nuova prospettiva degli Stati Uniti sotto Donald Trump, contesi tra l’inconciliabile dicotomia della protezione dei loro molti interessi strategici nella regione mediorientale ed un nuovo interesse per l’isolazionismo; una dicotomia che tentano di risolvere, affidandosi sempre più a partner locali.
L’evento si è concluso con un dibattito pubblico, incentrato sulle implicazioni per l’Italia in quanto Paese del Mediterraneo e con l’impegno dello Euro-Gulf Information Center a mantenere alta l’attenzione su questo complesso aspetto con futuri eventi e ricerche.

Emanuela Scarponi