SANT’ANTONIO ABATE PADRE DEL MONACHESIMO di Alessandra Di Giovambattista
SANT’ANTONIO ABATE PADRE DEL MONACHESIMO
di Alessandra Di Giovambattista
Il 17 gennaio di ogni anno si ricorda Sant’Antonio Abate; un santo molto amato dai fedeli soprattutto da chi è in contatto con la natura e con gli animali. Tuttavia, noi cristiani di occidente, quando sentiamo parlare di Sant’Antonio pensiamo immediatamente a Sant’Antonio da Padova (nato a Lisbona, ma vissuto e morto a Padova). Invece la chiesa orientale fa riferimento immediato a Abba (padre) Sant’Antonio abate detto il Grande e definito Teoforo, ossia portatore di Dio, vissuto per la maggior parte del tempo nel deserto della Tebaide (Egitto). La tradizione vuole che nel giorno della ricorrenza vi sia la benedizione degli animali, una sorta di riconciliazione tra l’uomo e la natura nonché simbolo della ricerca di un legame rispettoso tra esseri viventi. In diversi paesi d’Italia si può assistere a festose processioni dove i fedeli portano i propri animali, sia da compagnia sia da lavoro, a ricevere la benedizione impartita dal sacerdote. Altra tradizione è quella dell’accensione dei falò, chiamati anche fuochi di Sant’Antonio, che vengono accesi la notte del giorno prima (cioè il 16 gennaio) con la finalità di ricordare la vittoria di Padre Antonio sulle tentazioni demoniache (bruciate nella fiamma dello Spirito Santo) nonché di fungere da simbolo della luce che ogni cristiano deve rappresentare all’interno delle comunità e nel mondo.
Riguardo alla vita di Abba Antonio il Grande non si hanno molti scritti ma, uno dei più attendibili, è la “vita di Antonio” scritta del vescovo Atanasio di Alessandria, che peraltro era stato suo discepolo ed aveva ricevuto aiuto nella lotta contro l’arianesimo (una dottrina divulgata dal diacono Ario, nei primi anni del 300 d.C., secondo la quale nella Trinità soltanto il Padre può considerarsi veramente Dio, non generato e non creato, eterno e immutabile, mentre il Figlio Gesù, intermediario tra Dio e il mondo, fu creato dal nulla con la finalità di redimerci. Questa dottrina fu considerata eretica dal concilio di Nicea del 325 d.C.). Il libro è stato tradotto in diverse lingue ed ha contribuito a far conoscere la vita ma soprattutto il messaggio di Sant’Antonio ed il suo amore per la vita eremitica vista come via per il raggiungimento del discernimento attraverso lo Spirito Santo. Antonio non lascia scritti di suo pugno in quanto ritiene che l’unica parola da seguire sia la parola di verità del Vangelo, così come non lascia neanche una regola per coloro che vorranno seguirlo nella vita anacoretica.
Rimangono anche delle lettere e degli apoftegmi (parola di derivazione greca con la quale si intende definire un “detto”, una “massima”, un “aneddoto” che nella estrema sintesi del suo enunciato evidenzia una verità profonda con una valenza morale, etica o religiosa) riportati in forma scritta dai suoi discepoli per non dimenticare gli insegnamenti ricevuti. Mentre le lettere hanno come destinatari determinati soggetti - come ad esempio le prime due che contengono essenzialmente delle indicazioni di vita e di condotta per i monaci - gli apoftegmi hanno la caratteristica di essere validi per la persona a cui sono indirizzati, nel luogo e nel momento in cui sono stati proferiti. L’apoftegma non nasce quindi come una sentenza, come una massima sapienziale enunciata in astratto e universalmente valida, ma è una parola donata da un direttore spirituale a un discepolo che lo interroga. E’ una parola scaturita dalla vita esperienziale di preghiera e di discernimento di Antonio e inserita nella vita dei suoi discepoli desiderosi sempre di sapere il pensiero del loro padre spirituale.
Ma addentriamoci nella vita di Antonio per scoprire come il suo percorso di santità sia molto semplice, basato sugli insegnamenti di Gesù, trascritti nei Vangeli, che il Padre del deserto ha vissuto nei fatti, nella quotidianità della sua vita. Antonio nacque nella città di Coma (attuale Qumans) in Egitto nel 251 d.C. (morì 105 anni dopo nel 356 nel deserto della Tebaide in luogo sconosciuto; infatti per umiltà, non volendo far sapere il luogo della sua sepoltura, chiese ai suoi discepoli Atanasio e Macario di seppellirlo senza dire la località) da una famiglia molto ricca e di fede cristiana copta. Infatti nell’epoca di Antonio in Egitto si parlava la lingua copta, di derivazione egizia, da cui prese poi il nome la chiesa del luogo: cristiano copta. Sant’Antonio abate fu il primo eremita ad essere chiamato “monaco” e fu anche il primo a fondare un monastero cristiano costruito nella zona del Mar Rosso, il Monastero di Sant’Antonio, che è il più antico del mondo. Ma torniamo all’Abba: all’età di 18 anni perse i genitori e si ritrovò solo con una sorella più piccola di lui e con la necessità di dover amministrare un patrimonio cospicuo formato da vastissimi appezzamenti di terreno, case, denaro e beni mobili di diverso genere. Essendo cristiano si recava ogni domenica in chiesa e proprio durante una celebrazione ascoltò e meditò il passo del vangelo di Matteo in cui il giovane ricco - dietro l’esortazione di Cristo di vendere tutti i suoi beni, di donarne il ricavato ai poveri e di andare con Lui - decide di non accettare l’invito a seguire Gesù perché possedeva molte ricchezze. Invece, a 250 anni di distanza da quell’incontro narrato nelle sacre scritture, Antonio risponde positivamente all’invito del Signore e in due momenti diversi vende tutti i suoi beni, distribuisce il ricavato ai poveri, affida la sorella a delle vergini perché la educhino al loro modo di vita e decide di recarsi in una zona solitaria poco fuori dalla sua città. Infatti gli anacoreti egiziani dei primi secoli del cristianesimo non solevano recarsi nel deserto per la meditazione, la preghiera ed il discernimento; questa era una pratica seguita dal monachesimo giudaico. Così Antonio, poco distante da quella che era stata la sua casa, inizia la sua vita di meditazione e si confronta con degli anziani che vivevano in solitudine per imparare la pratica dell’ascesi, il cui significato non è assolutamente “elevazione” bensì “continuo esercizio” nella preghiera e nel discernimento della parola di Dio. Sarà poi Antonio tra i primi a recarsi nel deserto della Tebaide dove inizierà la sua vera vita contemplativa.
Un elemento che contraddistinguerà sempre l’abate sarà la sua profonda umiltà; attraverso essa chiederà lo Spirito Santo che lo guiderà nel discernimento tra il bene ed il male, che lo fortificherà nei confronti delle tentazioni e dei continui assalti del maligno, che gli darà il coraggio di ascoltare, di chiedere perdono e di convertirsi continuamente per ottenere la santità e che gli donerà uno slancio di amore fraterno per guarire i mali dello spirito e del corpo. Per Antonio è molto importante considerare l’uomo nella sua unità corporale e spirituale; occorre che l’uomo nella sua interezza sia purificato e stia bene. Non è possibile riconciliarsi con Dio se non si ristabilisce l’equilibrio originario dell’uomo (cioè quello di cui godeva l’essere umano nella creazione) che prevede la contemporanea salute dell’anima e del corpo. Ciò però non significa che il corpo non debba avere delle patologie o delle difficoltà o delle anomalie, ma implica che occorre stabilire il controllo e la costante accettazione della propria condizione fisica come mezzo attraverso il quale si ottiene la santificazione dell’anima affinché tutto l’essere si senta amato, in quanto figlio di un unico Padre misericordioso, in qualunque condizione fisica esso si trovi.
La sua vita nel deserto non fu facile perché fu sempre assalito dalle tentazioni demoniache che riuscì a vincere attraverso la via delle parole di vita e di verità contenute nel Vangelo; tuttavia le tentazioni erano considerate un banco di prova da Antonio il quale in uno degli apoftegmi esplicitamente dice che le tentazioni sono il modo per entrare nel regno dei Cieli; se si tolgono le tentazioni nessuno si salverà. Ogni vittoria sulla tentazione infatti rafforza la fede, rappresenta il traguardo di un nuovo equilibrio interiore migliore del precedente, attraverso la quale il Signore plasma giorno dopo giorno Antonio e lo rende una persona nuova. E’ nella tentazione che impara a conoscere sé stesso e le proprie debolezze, impara a diffidare delle sue forze e a confidare nel Signore, in un pellegrinaggio interiore di continua conversione verso la perfezione. Nel deserto, come afferma in un altro apoftegma, ci si libera dalla guerra dell’udito, della lingua e degli occhi; ne rimane solo una, quella del cuore. Per questo Antonio si mette alla ricerca della solitudine e la custodisce, nello spazio e nel tempo, e attraverso essa discerne i pensieri del proprio cuore e si mette in ascolto di Dio per combattere la sua battaglia interiore. Veglia su di sé e non dà giudizi sull’operato divino perché non spettano all’uomo; nella più completa umiltà Antonio riconosce il giusto posto di Dio e dell’uomo secondo verità. Egli intende affrontare la battaglia contro la separazione dell’uomo dal suo creatore; la vittoria che conduce all’unicità del cuore e dell’anima è assicurata solo con la meditazione esercitata nel silenzio.
Quindi il deserto sarà la sua casa, da Antonio il Grande nascerà il monachesimo eremitico e sarà di esempio per molti altri uomini alla ricerca di Dio; ma sarà anche il monachesimo cenobitico (è la forma di monachesimo praticata in piccole comunità di monaci che vivono, lavorano, mangiano e pregano insieme, sotto la guida di un direttore spirituale e sottoposti ad una regola) a prendere le mosse dall’abate. Infatti anche se il fondatore dei monasteri cenobiti è San Pacomio, egli fu discepolo di Antonio, e ne seguì gli insegnamenti. Il cenobitismo in realtà nasce dalla volontà di quei monaci che, pur volendo condurre una vita di meditazione, non riuscivano a raggiungere il rigore di ascetismo e di solitudine del padre Antonio. Ed allora l’abate offre la via per la vita contemplativa, valida per tutti i monaci; in particolare si legge in un apoftegma che all’inizio della sua vita nel deserto Antonio fu preso da grande sconforto, frutto della tentazione di voler tornare alla sua vita precedente; ma Antonio nella sua grande umiltà chiede al Signore di essere salvato comprendendo di non essere capace con le sue sole forze di contrastare gli assalti del maligno. Così il padre ebbe una visione: vide uno come lui che stava seduto e lavorava, poi si alzava dal lavoro e pregava, poi di nuovo si sedeva ed intrecciava la corda, poi di nuovo si alzava per pregare. Era un angelo del Signore inviato a correggere Antonio e a rassicurarlo. E udì l’angelo che diceva “fa così e sarai salvato”. All’udire queste parole si sentì incoraggiato, fece così e si salvò. In realtà l’angelo insegnò ad Antonio la regola dell’”ora et labora”, ripresa poi come regola da Pacomio prima e da Benedetto poi. Quindi Antonio con il lavoro provvede alle sue necessità, e riserva una parte del guadagno ai poveri, ma contemporaneamente prega con fervore e ciò in perfetto accordo con la lettera di San Paolo ai Tessalonicesi dove è chiaramente detto che chi non vuole lavorare neanche mangi.
Antonio tuttavia pur vivendo un monachesimo di solitudine è guida per tutti coloro che chiedono aiuto per ottenere o concedere il perdono e arrivare alla correzione del cuore. In Antonio questo insegnamento diventa modello di vita; egli è sempre pronto ad ammonire e a correggere i suoi discepoli e con tutta umiltà è disposto anche a correggere sé stesso, ad ascoltare padri saggi e a chiedere misericordia agli altri e a Dio. Infatti per Antonio c’è posto per tutti, perché tutti hanno una missione, per tutti c’è un progetto di vita, anche per coloro che sembrano vivere nelle tenebre più fitte. Il silenzio aiuta a ritrovare la vera essenza della vita e diviene la guida verso la ricerca del massimo bene. In questa relazione biunivoca di amore e misericordia c’è solo da guadagnare; ci si corregge, ci si perdona, si impara a scegliere il bene, ci si salva. Questa è l’eredità che lascia abba Antonio il Grande Teoforo, a tutti coloro che vogliono farsi cercatori di Dio.