20-06-2020

                                                                                                                                           Organizzazione dell’Unione africana (Oua) e la giornata dell’Africa

     Ogni anno il 24 ed il 25 maggio si festeggia tradizionalmente la giornata dell’Africa, in concomitanza con l’anniversario della nascita della OUA, Organizzazione dell’unione africana. Nel 1963 i leader di trentadue Stati africani indipendenti si riunivano ad Addis Abeba per avviare un processo lungimirante di integrazione, libertà e sviluppo, fondando l'Organizzazione dell'Unità Africana.
L'organizzazione dell'Unione africana, con le sue funzioni e la sua evoluzione, è determinante nel processo di autodeterminazione dei popoli dei Paesi dell'Africa in evoluzione, che stanno realizzando il passaggio da regime totalitario a democratico. L'auspicio è che questa organizzazione oggi più che mai sia potenziata di contenuti e di autorità per accompagnare il processo di modernizzazione, in base ad autogoverno, democrazia, frutto del processo di globalizzazione dovuto ai nuovi mezzi di comunicazione di massa quali Internet.
     Dal 1963 l'Africa ha fatto enormi passi in avanti. Ma soprattutto negli ultimi venti anni l’Africa ha compiuto uno straordinario salto di qualità. Non è mai semplice individuare una data spartiacque tra la fine e l’inizio di una nuova fase storica.
Ma dal 2002, da quando l’OUA si è trasformata in Unione Africana, l’Africa ha iniziato una radicale trasformazione politica, sociale ed economica. Sotto il profilo economico, nell’ultimo decennio, il reddito reale pro-capite degli Africani è aumentato di più del 30 per cento, gli investimenti diretti esteri sono triplicati e, tra i dieci Paesi al mondo in più rapida crescita, sei sono Stati africani.
Quanto ai riflessi sociali, la classe media è aumentata in maniera esponenziale: sono 300 milioni gli Africani che ne fanno parte. I decessi per malaria in alcuni dei Paesi più colpiti sono diminuiti del 30 per cento e le infezioni da HIV di più del 70 per cento. La speranza di vita è aumentata in media del 10 per cento e il tasso di mortalità infantile in gran parte dei Paesi è diminuito vertiginosamente.
Anche se presenta ancora tante fragilità e contraddizioni, quindi, non possiamo continuare a vedere l'Africa con la lente offuscata dagli stereotipi del passato.
L’Africa è un continente giovane e pieno di opportunità, da cui l’Italia ha anche da imparare. Se è radicalmente cambiata l’Africa, deve radicalmente cambiare anche l’approccio dell’Italia all’Africa. Occorre pertanto un’azione più incisiva rispetto al passato per cogliere i frutti di questa nuova fase in Africa.
     Auspico che l'Italia possa, posizionata come è al centro del Mediterraneo, condurre pertanto una funzione guida, tesa a promuovere la cooperazione e lo sviluppo di questi Paesi vicinissimi, affrontando il fenomeno dell'immigrazione clandestina con razionalità ed umanità, trasformandone gli effetti disastrosi in un reale vantaggio per l'Italia, interrompendo questo processo - che sembra irreversibile - di migliaia e migliaia di disperati che rischiano la vita nell'attraversamento del mare con imbarcazioni disagiate.
L'Italia deve promuovere nei Paesi del Nord Africa progetti di sviluppo del territorio che possano finalmente rendere vivibili le zone più aride, con l'apporto dei nostri tecnici e scienziati di ogni settore, su cui certamente l'Italia può contare.
Non ci sono solo luci in Africa, ma anche ombre. Le transizioni nei Paesi dell'Africa sono irte di ostacoli e dense di incognite.
Ed il rischio di strumentalizzazione di forze regressive che perseguono la destabilizzazione è sempre altissimo. E' preoccupante la fascia di instabilità che si estende dall’Atlantico al Mar Rosso, vedi l'ultima crisi nel Tigray.
Per il successo di tutte queste azioni è importante coinvolgere, oltre a governi e parlamenti, i cittadini tutti. Il sostegno dell’opinione pubblica è vitale anche per creare reti di attivisti in grado di promuovere i diritti in altri campi.
Emanuela Scarponi



03-06-2020

 

                                                                                                                                          The population: yesterday and today in Zimbabwe

      The first human settlements in this area date back to the Stone Age, 30,000 years before Christ: groups who lived in caves and shelters and who used rudimentary tools made of small stones to hunt. Also here, as in the rest of Southern Africa, the San, the Bushmen appeared, who lived by hunting, and to which the numerous cave paintings are attributed, and, immediately after, the Khoi Khoi, the Hottentots, who instead of hunting began raising livestock and producing pottery, giving itself a tribal organization. At the beginning of the Iron Age (2,300 BC) the Bantu ("man" in their language) came from the North; some of them, those belonging to the Gokomere culture, settled permanently in the savannahs and on the highlands of Zimbabwe, working the iron and cultivating the fields. Gradually, the San and the other peoples emigrated westward: part of them were enslaved, others were slowly assimilated by the Bantu society, an important ethnic group in the following centuries. Today, most of Zimbabwe's population belongs to ethnic groups of Bantu origin. 76% are Shona - divided into Ndau, Rozwi, Korekore, Ka ranga, Manyika and Zezuru in two thirds of the country, in the eastern regions, while 18% are Ndebele and live in the southwestern part. 2% is Batonga and lives in the area around Kariba Lake. The rest of the Shangaan and Venda ethnic groups are settled in Lower Veld and in the south side.
Overall, Zimbabwe is a country of young people: almost half of the population is under 13 years old and only 2.7% are over 63 years old.
Harare is the capital and is situated between jacarandas and skyscrapers: Harare literally means "place where crickets sing", but there are other names, equally evocative, such as "city of the shining sun" and "garden city". Harare, the capital of the country, is located in the heart of Mashonoland, a fruitful and rich land, between 1,200 and 1,500 meters high from the sea.
With excellent climate, it is completely surrounded by large parks and avenues of periwinkle jacarandas. Economic, social and political centre of the country, the population is about 2 millions.
European is the style in Harare: colonial buildings and skyscrapers built in the last decades. The most exclusive residential districts, surrounded by green parks, with large manor houses surrounded by high walls and guarded by armed guards, are situated in the North and East side. Further away, to the West and South sides, there are the industrial areas and neighbourhoods inhabited by blacks, including Mbare, a sort of Zimbabwean township.
Great Zimbabwe is famous for the stone giants: the name should come from the expression dzirriba dza mabwe, which means "large stone houses". Great Zimbabwe, 700 hectares large at 1,213 meters from the sea, is surrounded by rounded shaped granite hills with stone giants that provided the material to build it, the capital of the richest and most powerful kingdom in Black Africa in the past. Today the city, declared a UNESCO World Heritage Site, with its precious megalithic remains, represents the most authentic symbol of Zimbabwe's national identity and its centuries-old history.
      Accompanied by the scent of flowering jacarandas and the rhythmic beating of drums, we crossed the gates of the archaeological area of the mysterious and incredible great centuries-old civilization of Zimbabwe. During its heyday, Great Zimbabwe, the wonderful capital of the Shona kingdom, was inhabited by about 40,000 people and stretched from Zimbabwe to Mozambique, Botswana and South Africa.

Emanuela Scarponi


La popolazione: chi c'era e chi c'è

I primi insediamenti umani in quest'area risalgono all'Età della Pietra, 30.000 anni avanti Cristo: gruppi che vivevano in grotte e rifugi e che per cacciare usavano strumenti rudimentali fatti di piccole pietre. Anche qui, come nel resto dell'Africa Australe, comparvero i San, i Boscimani, che vivevano di caccia, ed a cui si attribuiscono i numerosi dipinti rupestri, e, subito dopo, i KhoiKhoi, gli Ottentotti, che invece di cacciare iniziarono ad allevare il bestiame e produrre vasellame, dandosi un'organizzazione tribale.
All'inizio dell'Età del Ferro (2.300 a.C.) da Nord giunsero i Bantu (“uomo” nella loro lingua); alcuni di loro, quelli appartenenti alla cultura Gokomere, si stanziarono stabilmente nelle savane e sugli altipiani dello Zimbabwe, lavorando il ferro e coltivando i campi. A poco a poco, i San e gli altri popoli emigrarono verso ovest: parte di loro furono fatti schiavi, altri vennero lentamente assimilati dalla società bantu, destinata a conoscere un importante sviluppo etnico nei secoli successivi.
Oggi, la maggior parte della popolazione dello Zimbabwe appartiene a gruppi etnici di origine Bantu. Il 76% sono Shona - suddivisi in Ndau, Rozwi, Korekore, Ka ranga, Manyika e Zezuru stanziati sui due terzi del Paese, nelle regioni orientali, mentre il 18% sono Ndebele e abitano nella parte sudoccidentale.
Il 2% è Batonga e vive nella zona attorno al Lago Kariba. Gli altri dell'etnia Shangaan e Venda sono insediati nel basso Veld e nell'estremo sud.
Complessivamente lo Zimbabwe è un Paese di giovani: quasi la metà della popolazione ha meno di 13 anni e solo il 2,7% ha più di 63 anni.
La capitale è Harare ed è ricca di jacarande e grattacieli. Harare letteralmente significa “luogo dove cantano i grilli”, ma c'è anche chi a questa splendida città ha dato altri appellativi, altrettanto evocativi, come “città del sole splendente” e “città giardino”. Non a caso, Harare, la splendida capitale del Paese, si trova nel cuore del Mashonoland, una terra fertile e ricca, ad un'altitudine compresa fra 1.200 e i 1.500 metri. È completamente immersa nella natura, circondata da grandi parchi e viali di jacarande color pervinca e gode di un ottimo clima. Centro economico, sociale e politico del Paese, ha una popolazione di circa 2 milioni di abitanti.
L'impronta europea è visibile nel centro, sia nei palazzi coloniali, sia nei grattacieli sorti negli ultimi decenni. A nord e a est si trovano i quartieri residenziali più esclusivi, immersi nel verde, dove grandi ville padronali sono cinte da alte mura e presidiate da guardie armate. Più lontano, a ovest e a sud, le zone industriali e i quartieri abitati dai neri, fra cui Mbare, una sorta di township zimbabwana.
Great Zimbabwe è famoso per i colossi di pietra. Il nome dovrebbe derivare dall'espressione dzirriba dza mabwe, che significa “grandi case di pietra”. Great Zimbabwe, adagiata per oltre 700 ettari a 1.213 metri di altitudine, è circondata da colline di granito dalle forme arrotondate, giganti di pietra che hanno fornito il materiale per la sua costruzione, un tempo capitale del regno più ricco e potente dell'Africa Nera.
Oggi la città, dichiarata dall'Unesco Patrimonio dell'umanità, con i suoi preziosi resti megalitici, resta il simbolo più autentico dell'identità nazionale dello Zimbabwe e della sua secolare storia. Accompagnati dal profumo delle jacarande fiorite e dal battere ritmico dei tamburi, varcati i cancelli che immettono nell'area archeologica, entriamo nella storia misteriosa e fantastica di una civiltà secolare.
Nel periodo della sua massima potenza, Great Zimbabwe, la splendida capitale del regno degli Shona, era abitata da circa 40.000 persone e si estendeva dallo Zimbabwe fino al Mozambico, al Botswana ed al Sudafrica.

03-05-2020


                                                                                                                                                   Namibia, la gemma d’Africa
       Spesso, la Namibia viene descritta come il viso più ottimistico dell'Africa e non a torto. Oltre a giovarsi di uno dei contesti più piacevoli, pacifici e stabili del continente africano, vanta infrastrutture paragonabili a quelle di un qualsiasi Paese occidentale. La ricchezza naturale del Paese è esuberante. I principali settori dell'economia della Namibia sono l'industria mineraria, la pesca, l'agricoltura e il turismo. Nei ricchi giacimenti minerari, si coltivano diamanti e uranio di prim'ordine, rame, piombo, zinco, oro, pietre semipreziose, minerali industriali, sale e fluoro. Grazie alle sue acque, ricche di specie demersali e pelagiche, l'industria del pesce della Namibia è annoverata nelle prime dieci al mondo. Le sue terre sono coltivate in prevalenza a miglio perla, frumento, mais, arachidi, fagioli e cotone. Negli ultimi anni, l'industria della carne rossa ha fatto registrare un notevole sviluppo. Nel settore dei servizi, il turismo si sta imponendo sempre più quale fonte principale d valuta nonché quale generatore di introiti per la nazione. La Namibia offre ottime opportunità d'investimento in questi settori e in molti altri Gran parte delle risorse primarie del Paese sono destinate all'esportazione mentre i prodotti di consumo vengono importati. Pertanto, le possibilità d'investimento nel settore della manifattura, destinata sia al mercato locale che a quello internazionale, sono considerevoli. Essendo uno dei quattordici Paesi soci della Southern African Development Community (SADC), la Namibia usufruisce di un accesso commerciale preferenziale ai 190 milioni di abitanti di questa sub-regione, grazie all'ottima infrastruttura dei trasporti. Appartiene altresì all'Unione Doganale dell'Africa Meridionale (SACU), fatto questo che le consente d'immettere i propri prodotti e servizi nel mercato sudafricano, del tutto esente dal versamento di quote e dazi. La Namibia aderisce altresì all'Accordo di Cotonou, in forza del quale è in grado di commercializzare un'ampia gamma di manufatti e prodotti agricoli, esentasse, nell'ambito dell'Unione Europea. Inoltre, nel quadro dell’ African Growth and Opportunity Act (AGOA), la Namibia può accedere liberamente all’interessante mercato degli Stati Uniti, senza dover versare né quote né dazi. Le opportunità d'investimento e le agevolazioni fiscali per le aziende straniere sono davvero numerose. La sua politica d'incentivazione agli investimenti ha dato risultati assai positivi, come testimoniano gli investimenti milionari in Namibia provenienti da varie parti del mondo come l'Unione Europea, il Sudafrica, l'Australia, gli Stati Uniti e il Canada. Particolarmente interessati all'accesso a questo mercato africano sono pure alcuni Paesi asiatici, soprattutto Cina e Malesia. La politica improntata agli incentivi agli investimenti stranieri, evidenzia la ferma convinzione del Governo della Namibia di sostenere la crescita della propria economia e di garantire la prosperità del suo popolo. Oltre a un regime fiscale interessante per i capitali stranieri, il Paese dispone di infrastrutture di alto livello atte a garantire lo stabilimento di ogni sorta di aziende e a creare un contesto idoneo per il commercio.
Emanuela Scarponi


 23-05-2020


                                                                                                                    Buccio di Ranallo: il Castaldato di Antrodoco e l'alleanza con l'Aquila
                                                                                                                                                               A.D. 1228 - 137  Centro d’Italia

      L'Aquila, Amatrice, Antrodoco e Rieti sono nel mezzo della penisola italiana, dal punto di vista geografico. Con un lungo passato archeologico alle spalle in corso di studi lungo al Salaria, era luogo abitato sin dall'epoca romana. Decaduto l’Impero romano d’Occidente, le città si spopolano a causa delle invasioni dei Longobardi e vengono costruiti castelli all’interno dei quali vivere protetti.
Nel Medio Evo questi centri situati sugli Appennini vissero quindi un periodo di grande tranquillità con la costruzione di grandi castelli, a difesa dei nemici, di cui vi sono tante testimonianze ancora oggi intorno a l'Aquila, facilmente visibili dall'antica strada Cecilia romana che si snoda verso Sud fino a Pescara.
Il Medio Evo è considerato un periodo difficile per la grande povertà, la fame e le carestie. Ma non è solamente così. Esso rappresenta un'epoca di passaggio, che ha lasciato molto a noi e dal quale dobbiamo tanto ancora imparare, compresa la lingua italiana che è nata proprio agli inizi del Medioevo.
        Il Castello dell'Aquila era una rocca abbastanza grande, che prevedeva anche l'abitazione della castellana, esso era imprendibile per la sua posizione strategica rispetto alle vie di comunicazione allora in uso, ma anche per il fatto di stare sulla cima di una collina, che scendeva a picco sul fiume da una parte e sulla terra ferma dall'altra.
Ma lasciamo parlare Buccio di Ranallo in persona, poeta e scrittore italiano in lingua volgare, per alcuni anche giullare, conosciuto principalmente come precursore del filone letterario delle cronache aquilane, che ebbe un notevole seguito grazie a una folta schiera di suoi epigoni e imitatori: “Sono nato nel Medioevo, nel XIII secolo, Anno domini 1294 o 1295, non si è mai scoperto. Non è che ci fossero le banche-dati o qualcuno che segnasse qualcosa; il parroco, quando battezzava, lo scriveva su un libro e se eri fortunato questo documento passava i secoli, altrimenti andava disperso nel primo incendio, nel primo saccheggio o semplicemente venduto come carta da macero.
        Sono morto intorno al 1362 di peste; anche Antrodoco subì tantissime vittime durante la grande peste, il grande morbo del 1362.
Sono stato un soldato. Ho combattuto contro Amatrice nel 1318 e contro Rieti nel 1320. I Reatini, infatti, avevano preso una campana di palazzo, l'hanno portata a Rieti e l'hanno chiamata Aquilanella. Siamo arrivati ed abbiamo distrutto Rieti fino alle fondamenta, abbiamo riportato la campana a L'Aquila e da quel momento suona sul palazzo e la chiamiamo Reatinella.
Non che non fossimo una grande armata, all'epoca L'Aquila - di cui porto i simboli - L'Aquila bianca in campo rosso, L'Aquila di Federico, L'Aquila degli Svevi - aveva una grossa armata e riuscì a mettere in campo almeno 6.000 stadi, che per l'epoca era qualcosa d'importante. C'era il richiamo dei quattro quarti, perché anche noi eravamo divisi in quattro quarti. I quarti de L'Aquila, legati in parte con i locali degli antichi castelli - la leggenda vuole fossero 99 - vennero suddivisi nel 1276, e sono ancora oggi il San Giorgio o Santa Giusta, Santa Maria, San Pietro e San Giovanni d'Amiterno o anche San Marciano.
Santa Maria Paganica e San Pietro, il mio quarto, adesso si chiama San Pietro di Pontida, all'epoca era Popletum, dal nome dei pioppi che circondavano il paese., Era una vecchia fortificazione, che era sorta sul fiume Averno e aveva partecipato, insieme a Pagano, a San Giovanni e a San Giorgio, alla fondazione della città de L'Aquila. Lo stesso che fece di Antrodoco un pezzo della provincia di Rieti, togliendola a quella che era la provincia madre.
       Non sono molto importante nella storia medievale, lo sono nella storia locale de L'Aquila, di Amatrice, di Rieti e di Antrodoco, perché tutte le volte che abbiamo marciato contro i miei cari amici abbiamo avuto una rocca, un paese, ancorché piccolo, che ci ha fatto un sacco di danni. Ogni volta che ci siamo scontrati con le milizie antrodocane, siamo stati costretti e per settimane assediati. Non so perché diavolo ci avete dato tutto questo fastidio, però ce l'avete dato e questo ha portato a due cose: un grande rispetto fra Aquilani ed Antrodocani, perché se passi anni a scannarti, alla fine ti rispetti ed una certa forma di odio e amore civico ancora oggi si prova.
Nel 1424, il principe di Capua, difensore del Regno di Napoli assegnava a L'Aquila, il titolo di migliori mercenari del regno che combattevano intorno alle mura amatriciane e urlavano:"Amatriciani: gavazzaturi e ladri, mangioni e ladri”.
Gli Antrodocani, sempre con rispetto parlando, stanno sempre in mezzo. La nostra è una grande città. Dobbiamo ricordarci perché ad un certo punto in questa piana c'è stata questa unione. Perché è nato tutto questo? Solo la coscienza della storia ce lo può dire.
Per dire basta, bisognava trovare un nuovo potente appoggio politico su cui far leva. Il XII secolo è l'epoca del contrasto forte tra impero e papato; ognuno rivendica territori, potere di scelta dei vescovi, che sono anche amministratori pubblici e nel caso dell'impero, persino dei papi.
       Se dunque c'è il desiderio di svincolarsi dal potere imperiale, rappresentato dagli Svevi, che nel frattempo hanno soppiantato i Normanni nel Regno delle due Sicilie, bisogna quindi rivolgersi al Pontefice. C'è anche un aggancio giuridico che risale ad un paio di secoli avanti: il 13 febbraio 962, infatti, Ottone I, da poco incoronato imperatore del Sacro Romano Impero, che secondo gli storici ha fatto rinascere l'impero in Europa dopo la scomparsa dell'Impero carolingio, sottoscrive il cosiddetto privilegium othonis, che è un atto con il quale l'imperatore conferma al Papa tutte le proprietà che sono state concesse ai Franchi.
In cambio però Ottone stabilisce che il Papa non può venire eletto senza il consenso dell'imperatore.
Le terre aquilane dunque, per antico editto, ricadono sotto la tutela del vescovo di Roma. Nel 1829, sul soglio di Pietro, siede Papa Gregorio IX. Non si sa che cosa sia stato scritto di preciso, poiché la lettera che arriva a Papa Gregorio IX non è mai stata né travagliata né pervenuta. Si conosce al contrario la risposta del Papa, anzi le due risposte che portano le date del 27 luglio e del 7 settembre 1229.
Leggendo queste due missive si capisce perché la popolazione delle valli delle montagne aquilane chiedono di essere liberate dal gioco feudale, che in questo momento storico ha voce, volto, autorità e arma degli Svevi. Si parla di angherie, impiccagioni, torture, persino di riduzione in servitù. Uomini e donne subiscono la rapina dei beni. A chi produce serve sempre di più produrre, mentre al contrario chi se ne appropria con forza ottiene ricchezza ulteriore, una ricchezza che viene spesa in maniera vergognosa sulle spalle di una popolazione sempre più impoverita. Ma il passaggio più interessante è quello con cui il Papa fa riferimento alle richieste di entrare a far parte delle maglie della Chiesa e di autorizzare la fondazione di una località chiamata Aquila. Il tutto in cambio di una grossa somma di denaro a favore del Vescovo di Roma.
      A ben leggere quei documenti è chiaro, sin dall'inizio del XIII secolo, la volontà degli Aquilani di liberarsi della feudalità ed assumere un'iniziativa autonoma, che possa garantire quindi la massima libertà possibile, sempre tenuto conto del contesto politico e militare. Ed è per questo che L'Aquila, nel XIII secolo e in quelli successivi, convincerà i feudatari dell'epoca, il Papa, gli Svevi, gli Angioini, i Francesi e gli Aragonesi ad agire. Trasforma la sua posizione, limite Nord del Regno delle due Sicilie, in avamposto e acquisisce una forza strategica e logistica che nessuno potrà migliorare.
Il Papa concede che la città venga costruita, ma la storia de L'Aquila non viene fondata in questo momento, all'inizio sembra cadere nel vuoto. L'Aquila sorgerà trent'anni dopo e non grazie al Papa, almeno ufficialmente, ma dai tanto odiati Svevi.
      Così nasce L'Aquila nel 1362. Nel maggio 1362 partecipai alla festa patronale di San Massimo, i cui solenni festeggiamenti chiudono la narrazione della Cronica; nel 1363 ci fu, però, una epidemia di peste, probabilmente a causa di focolai rimasti dalla peste nera del 1348, e ne rimasi vittima, morendo nella seconda metà di quell'anno.
Il mio nome sarà tramandato alla storia come Buccio di Ranallo, colui che ha scritto le cronache dell'Aquila e nell'Aquila tante volte viene citato Antrodoco ed a questi territori, che danno importanza ai nostri confini, soprattutto per l'arte della lana, posso solo dedicare la frase che chiude le mie cronache, dedicandola anche alla grande storia di Antrodoco:

"Lo cunto serrà d'Aquila, magnifica citade
et de quilli che la ficero con grande sagacitade.
Per non esser vassali cercaro la libertade
et non volere signore set non la magestade".

     Quindi Federico II, imperatore di Svevia e Re della futura Germania era innamorato dell'Italia e trascorse quasi tutta la sua vita in Italia dove è morto. Ebbe per primo l'intuito di aver capito quanto fosse importante questo posto, quanto fosse strategico possederlo ed egli stesso s'impegnò moltissimo per la ricostruzione del castello, del suo ampliamento, della fortificazione. Poi ascoltava Antrodoco per affidare al castellano grandezza e difesa del castello.
Federico II è venuto sicuramente due volte ad Antrodoco. Nel Rinascimento si farà riferimento ad una Corte. Egli non si muoveva mai da solo, era accompagnato da almeno un centinaio di persone, tutte ben vestite e ricche. Portava con sé animali rarissimi, mai visti - perlomeno ad Antrodoco - come cammelli, pavoni, tigri che spaventavano ma anche che si facevano ammirare dalla popolazione, dal volgo.
Federico II fu una persona molto colta, parlava molte lingue, era intelligentissimo e riuscì a strutturare l'organizzazione del suo grande Stato in maniera, sì, accentrata, perché il potere era il suo, ma lo affidava a persone di sua fiducia, che rispondevano personalmente all'imperatore e fu scomunicato ben tre volte dai vari Papi. Perché tutte queste scomuniche?
Si combatté moltissimo con il papato, perché tra i primi ebbe l'intuizione che il Papa, il rappresentante della religione cristiana, dovesse occuparsi delle cose dell'anima e non delle cose della terra. Quindi il potere spirituale doveva essere ben diviso dal potere temporale e questo naturalmente dai Papi non era ben visto. Quindi Federico II è stato un grande imperatore che, come dicevo, è stato un protagonista per la storia di Antrodoco e ne ha segnato le sorti per molto tempo.

      Ecco quindi spiegata l'origine di questa festa che si revoca ogni anno ad Antrodoco.
Ogni anno ormai è tradizione consolidata la sfilata in costume nel centro città, accompagnata da tamburi e sbandieratori, in occasione della quale la città di Antrodoco si fa medievale per un giorno, persino adottando le antiche monete del castaldato. Partecipano alla grande sfilata storica i Capi Rione di Antrodoco così come sono i nostri rioni: Lu Bagnu, Centro storico, San Terenziano, Rocca di corno, la Cona.

Emanuela Scarponi

 

 02-05-2020


                                                                                                                                             La rappresentazione scenica dei drammi in Wole Soyinka

          Allo scopo di valutare appieno la produzione artistica di Wole Soyinka riteniamo importante a questo punto, ricondurre le sue opere drammatiche al luogo ad esse espressamente destinate: il teatro. E’ questo l'ambito che ci consente di recuperare quel la prospettiva tridimensionale in cui risiede, essenzialmente, il potere evocativo dell'arte soyinkiana. Le opere di Soyinka non sono tecnicamente facili da mettere in scena, sia per gli ambienti, sia per i personaggi, sia per le situazioni che egli intende rappresentare simbolicamente. Di tutte le sue opere, si ritiene che A Dance of the Forest sia quella più difficile da mettere in scena. Essa richiede un set e uno scenario che possano effettuare la transizione da un mondo all'altro tramite trasformazioni quasi istantanee. Inoltre richiede una scena separatamente illuminata sullo sfondo, per le transizioni dalla foresta all'umida radura primitiva, e dalla foresta alla corte di Mata Kharibu.
         Lo scenario deve offrire le chiavi visive istantanee in rapporto alla realtà che evoca: una tela naturale per la foresta, con i suoi effetti sonori contrastanti deve coesistere sia con uno scenario soprannaturale e misterioso sia con lo splendore barbarico della corte del re di Mata Kharibu. Anche i personaggi sono oggetto di attento studio: alcuni di essi devono incarnare contemporaneamente gli stessi personaggi nel passato e nel presente? Essi, pertanto, devono avere dei simboli evidenti del loro stato specifico, facilmente individuabili dal pubblico. Costumi, trucchi e gesti, devono essere inventati per rendere riconoscibili istantaneamente tali medium. L'intera sequenza ha bisogno inoltre di una coreografia attenta e ben costruita. Kongi's Harvest è invece molto più semplice; si tratta di teatro totale, brillantemente costruito per articolare un confronto dialettico tra il vecchio e il nuovo, non tanto un'azione drammatica, quanto grazie ai mezzi teatrali. Il significato è infatti comunicato dal disegno, dalla musica, dai costumi, dallo stile del gesto che porta a scoprire il dialogo all'interno dell'azione. La scena necessita di una forma trittica, in cui il vecchio e il nuovo siano posti l'uno di fronte all'altro, mediati attraverso uno stadio che è la loro sintesi. La produzione richiede quindi un set statico, con tre distinte aree, illuminate e arredate ciascuna in forma tipica. La scena finale occuperà tutto il palco.
La musica è sempre molto importante: il vecchio capo sarà costantemente accompagnato dal tamburellare e dai canti tradizionali, mentre il nuovo dittatore sarà accompagnato dalla musica della marcia rituale amplificata elettronicamente. Costumi e colori sottolineano ancora il contrasto; le luci devono essere indipendenti l'una dall'altra per la rapidità del cambiamento dei campi d'azione.

        The Road e Madmen and Specialists sono più complessi a causa del loro messaggio ambiguo, L'opera The Road è ambientata nei pressi di un parcheggio di camion ed ha lo scopo di evocare la vita quotidiana diana nigeriana; mentre Madmen and Specialists, invece,non è legato ad alcun ambiente specifico, quindi potrebbe essere ambientato dovunque ci sia una moderna guerra ideologica. The Road, a causa dei suoi riferimenti geografici, richiede un naturalismo stilizzato della scena e della recitazione. Ogni sforzo deve essere fatto per mettere insieme il colore locale mediante il ritmo, l'ingegno e le tematiche che. I flash-back della masquerade dovrebbero essere chiaramente evidenziati attraverso un cambiamento di luci e rallentamento dell'azione. Madmen and Specialist invece è più astratto; dovrebbe essere realizzata in stile cabarettistico, molto ritmico, corredato da attente coreografie. Dovrebbe esserci inoltre un lento e monotono rullo di tamburi che rievochi l'ambiente dell'Africa occidentale. La tentazione più facile nell'interpretare i drammi brillanti di Soyinka sulla scena è quella di sviluppare eminentemente il loro aspetto realistico, a scapito della pregnanza simbolica dei contenuti; è a questa dimensione, invece, che dobbiamo ricondurci se intendiamo diamo cogliere il valore universale dell'opera soyinkiana.

Emanuela Scarponi


14-05-2020

                                                                                                                                                               I Copti d’Egitto e d’Etiopia:
                                                                                                                                  la chiesa ortodossa e cattolica a confronto e l’Arca dell’alleanza

         Il termine copto qualifica nello stesso tempo una lingua, un popolo (che vive in Egitto), un culto e una Chiesa con una propria gerarchia. Oggi i Copti appartengono a tre chiese principali: la maggioranza dei fedeli s'identifica con la chiesa più antica: quella ortodossa Tawahedo; gli altri fanno parte della più recente Chiesa cattolica copta e delle chiese protestanti. Il numero di Copti in Egitto oscilla tra i 10 ed i 12 milioni di credenti, pari a circa il 15 per cento della popolazione.
Ma ripercorriamo la storia dei Paesi che si affacciano sul Mare nostrum per comprendere l’origine della presenza di cristiani in Egitto ed in Etiopia. L'Egitto, divenuto Provincia romana nel 30 a.C., continuò a rivestire grande importanza nell'età romana e bizantina: vasto produttore di grano nel Mediterraneo, ricco di miniere e di cave di pietre pregiate (rame, basalto, granito, porfido, alabastro e turchese), era sede d'industrie artigiane e anche di generi di lusso. Queste attività diedero vita a vasti commerci marittimi, che raggiunsero sia il Nord Europa sia l'Oriente e furono fiorenti almeno fino al IV secolo d.C.. La vita economica era in mano a Greci e Romani, grandi possessori di terre, commercianti e funzionari che risiedevano nelle grandi città. La popolazione indigena ed egizia risiedeva nella campagna ed esercitava funzione subalterne mantenendo intatte le credenze dell'età faraonica.
Nel 451 d.C., il Patriarca di Alessandria aderì all'eresia monofisita, condannata da Costantinopoli e convertì ad essa il popolo, dando origine alla Chiesa nazionale copta. I Copti d’Egitto oggi costituiscono la più grande comunità cristiana del Medio Oriente, che fa parte delle Chiese ortodosse orientali.
         Nella Chiesa copta il titolo di "Papa" spetta al Patriarca di Alessandria. Dopo più di quarant'anni di ministero di Shenouda III, deceduto il 17 marzo 2012, ora il Patriarca è Teodoro II, 118esimo Papa della Chiesa copto ortodossa, fatto Papa nella cattedrale del Cairo. Nel corso del XVIII secolo una parte della chiesa copta è tornata in comunione con il Papa di Roma. Oggi sussiste sotto il nome di Chiesa cattolica copta. Di qui la copresenza di due Chiese: ortodossa e cattolica.
La Chiesa ortodossa Tewahedo d’Etiopia storicamente dipendeva da Alessandria d’Egitto e il vescovo o Abun veniva nominato dal Patriarca egiziano.
Con l’occupazione italiana dell’Etiopia questa sudditanza s’interruppe. L'Abun prima era stato sempre egiziano, non capiva la lingua locale, non conosceva gli usi e costumi etiopi, e la liturgia era celebrata in arabo e non nella tradizionale lingua ge’ez.
Dal 1948 inizia la gerarchia ortodossa etiope con i primi vescovi ortodossi etiopi ed oggi ci sono almeno 8 diocesi, più alcune all’estero.
Il primo Abun è stato Basilios, mentre l'attuale è Mathias. L’attuale arcivescovo della Chiesa cattolica di Addis Abeba è un missionario lazzarista Berhaneyesus Demerew Souraphiel, creato cardinale da Papa Francesco nel 2015. La Chiesa ortodossa Tewahedo è stata la Chiesa di Stato sino al 1974: chi nasce in Etiopia nasce come cristiano ortodosso.
         Tutte le volte che l’imperatore, ma anche chi è venuto dopo di lui, come Menghistu Hailè Maryam e i suoi successori, parlava in pubblico alla nazione, aveva alla sua destra sempre un rappresentante della Chiesa ortodossa, l’Abun. Attualmente ha cominciato a comparire alla sinistra del Capo di Stato, l’Imam, cioè un capo religioso islamico.
Di per sé, l’autorità più importante non è l’Abun, ma l’Ichege, cioè l’abate del monastero di Debra Libanos, nell’ex provincia della Shoa oggi Oromia, situato a circa 80 chilometri da Addis Abeba.
Quando il generale Rodolfo Graziani, viceré d’Etiopia, subì un attentato nel 1937, come ritorsione ci fu una strage di civili nella capitale, ma il fatto fu preso a pretesto per l’uccisione in massa di oltre trecento monaci inermi di Debra Libanos perché il monastero era ritenuto il centro spirituale della resistenza all’occupazione italiana. Per questi avvenimenti l'Italia non ha mai presentato scuse ufficiali; tuttavia nel 1961, come risarcimento, ha finanziato la costruzione dell'edificio principale del monastero: una splendida e ampia chiesa dedicata alla Santa Croce e cinque scuole religiose.
         In tutta l'Etiopia i monaci ortodossi sono circa 80.000. Ai tempi dell’imperatore ad Addis Abeba c’era una buona facoltà teologica, che fu chiusa dalla rivoluzione marxista-leninista. Recentemente è stata riaperta e riceve l’apporto intellettuale e scientifico del mondo panortodosso. Il vescovo (Abun) viene eletto tra i monaci perché deve essere celibe mentre i preti si possono sposare ma non possono accedere all’Episcopato. Gli Etiopi asseriscono di custodire l’Arca dell’alleanza in una chiesetta-cappella annessa alla antichissima Chiesa di Nostra Signora di Sion, ad Axum: la leggenda vuole che la regina d’Etiopia, Makeda, sia andata da Salomone a Gerusalemme e da lui avesse generato un figlio, da cui discendono tutti gli imperatori e che come regalo avesse ricevuto in dono l’Arca dell’alleanza. Tuttavia vi sono altre varianti sulla leggenda: l’arca è in legno d’acero, rivestita d’oro.
Si possono avere dei dubbi, ma di sicuro c’è il vivo interesse d’Israele che nella città ha aperto un consolato. Nessuno può vedere l’arca ed un monaco la custodisce a vita e a vista senza mai allontanarsi e viene sostituito solo dopo la morte.
Un altro centro religioso ed archeologico molto importante è Lalibela, dal nome dell’imperatore Gebre Meskel Lalibela (XII-XIII secolo) dove ci sono splendide chiese rupestri scavate nella viva roccia, un'impresa così colossale da dare origine ad una leggenda che le chiese siano state scavate dagli angeli stessi.
         Tuttavia il sistema di realizzazione presenta delle forti analogie con edifici coevi realizzati in India, nella colonia di Goa, e quindi si ipotizza un intervento dei Portoghesi. La chiesa di San Giorgio ha la pianta a forma di croce greca. Lalibela, dichiarata Patrimonio dell'Unesco (1968) s’ispira a Gerusalemme, città visitata ripetutamente dagli imperatori che la presero a modello e la ricostruirono secondo il loro genio e possibilità in terra etiopica.

Emanuela Scarponi


 30-04-2020

 


                                                                                                                IL TEATRO COME RAPPRESENTAZIONE DRAMMATICA DELL'ESISTENZA
                                                                                                                                              in Wole Soyinka


        Ad una radicale indagine del mistero che è l'uomo e ad una profonda immaginazione creativa, si affianca in Soyinka una profonda capacità di sintesi, che gli ha permesso di interiorizzare a tal punto la cultura madre, da elaborare una mitologia personale, che svincola la sua opera da meccanici parallelismi con il sistema Yoruba.
La popolazione Yoruba vive nell'area dell'odierna Nigeria occidentale e degli adiacenti Stati del Dohomey e Togo. La maggior parte dei grandi centri urbani della Nigeria, come Lagos e Ibadan sono abitati da popolazione Yoruba. La città di Ife, è probabilmente il primo insediamento degli Yoruba in Africa occidentale. L'origine di questa etnia, che è costituita da numerosi clans,è piuttosto dubbia. Buie sono le teorie al riguardo: la prima ipotesi sostiene che i capi Yoruba provengano dall'Iraq.
La seconda ipotesi sostiene che tale popolazione discenda da un re della Mecca. (Rev. Johnson,8., 1921). Comunque si sa che un gruppo di conquistatori occuparono la Nigeria Sud-occidentale fra il Seicento e il Mille dopo Cristo e furono assorbiti dalle popolazioni locali dando origine alla popolazione e cultura Yoruba. Infatti gli Yoruba combinano due tradizioni nettamente distinte della "famiglia" degli dei e delle dee che riflettono la vita sociale dell'uomo: distinguono degli antenati immigrati e degli altri popoli che si trovavano già in quella terra.
       Da un'iniziale forma di governo che si basava su un'autonomia delle varie città che però gravitavano tutte intorno alla città di Ife, la struttura politica Yoruba si evolse in senso sempre più aristocratico fino a giungere alla costituzione dell'impero Oyo. Quest'impero subì il tracollo al tempo della tratta dei negri. Yoruba erano infatti la maggioranza dei negri dell'Africa sud-occidentale portati nelle Americhe tra il Settecento e l'Ottocento. Ciò ha portato una fusione della religione Yoruba con quella cattolica, dando origine a culti misti come il Vudu ad Haiti.il Candobles a Bahia e la Santeria a Cuba.
La personale elaborazione di elementi tratti dalla tradizione per esprimere nuovi significati, testimonia una profonda consapevolezza dell'arte e dei suoi simboli, a cui Soyinka dà una precisa direzione intellettuale al fine di affermare le sue idee.
         La sua opera funge infatti da portatrice dei valori fondamentali dell'uomo, espressi come meglio il suo popolo poteva intenderli; tramite cioè, l'uso della mitologia, utilizzata come codice linguistico. A questo proposito cito le sue parole pronunciate nella mia intervista al nostro autore: "Io nelle mie opere ho adottato la figura di Ogun, il dio della guerra, del ferro, dell'energia creativa; è una metafora dell'esistenza, ma è anche il simbolo del riscatto.
Il mito dunque è inteso come entità vivente e in trasformazione: "Sono io, spiegò Soyinka, che faccio i miti, perché scelgo ciò di cui ho bisogno. Penso che altrettanto abbiano fatto tutti gli artisti, da Omero in poi; che abbiano piegato la mitologia ai propri scopi. Del resto, gli scrittori piegano la stessa storia alle proprie esigenze: cosi, almeno fanno gli scrittori progressisti".
         Ecco dunque come questo sguardo disincantato che percorre ogni pagina dell'opera di Soyinka, si concilia con la fortissima presenza dei miti e dei suoi motivi tradizionali: i proverbi, l'inno, la danza e l'idea della festa, i quali sono evidenti riferimenti che rimandano alla visione del mondo, e della cultura Yoruba. Il suo debito nei confronti di questa non è una trasposizione passiva dei contenuti, ma una reinterpretazione profondamente personalizzata. Dei proverbi l'autore fa ampio uso, per sottolineare un'affermazione a cui si vuole dare un risalto particolare, o per meglio far comprendere la natura di un personaggio.
L'inno, la danza e l'idea della festa sono invece usati con un diverso intento; questi aspetti indicano "momenti" intensamente radicati nella cultura Yoruba. Soprattutto la festa, tempo di celebrazione comune, avvenimento che coinvolge tutti, produce una elevata tensione sociale. Questi elementi sono usati dall'autore per comunicare con maggiore forza di penetrazione il suo messaggio, come veri codici linguistici.
Infatti, il teatro di Soyinka non lo si percepisce solo, o soprattutto, a partire dal piano verbale: in The Road è la danza della festa degli autisti a comunicare l'atmosfera eccitata. In A Dance of the Forest è la celebrazione del raduno delle tribù che ci introduce nel climax dell'opera.
          Le radici del teatro di Soyinka, dunque, affondano nei riti eseguiti dalla sua gente, e a cui sicuramente potè assistere da piccolo, prima che si svilissero perdendo il loro carattere di sacralità, di coesione sociale, per poi spesso diventare semplici manifestazioni di esotismo ad uso di turisti affamati di colore locale.
Parlando del teatro africano e soprattutto di quello della sua Nigeria, Soyinka usa sempre gli aggettivi "rituale", "sacro". “ African drama as one of man's formal representation of experience is not simply a difference of style or form, nor is it confined to drama alone. It is rappresentative of the essential differences between two world-views, a difference between one culture whose very artefacts are evident of a cohesive understanding of irreducible truths and another, whose creative impulse are directed by period dialectics”.
(Il dramma africano come rappresentazione formale dell'esperienza dell'uomo non è semplicemente una differenza di stile o di forma, né è limitato al solo dramma. È rappresentativo delle differenze essenziali tra due visioni del mondo, una differenza tra una cultura i cui stessi artefatti sono evidenti di una comprensione coesa di verità irriducibili e un'altra, il cui impulso creativo è diretto dalla dialettica del periodo).
Soyinka dice che nell'esperienza teatrale l'individuo perde la sensazione del proprio "io" come essere distinto dalla società, per diventare parte integrante della comunità, come dell'auditorio; egli acquisisce cosi un nuovo valore culturale basato su una rinnovata consapevolezza dei valori e dei credi di tutta la comunità, come pure della società intera. Dunque Soyinka definisce il dramma come mezzo di sviluppo della consapevolezza sociale, sottolineando così la dinamica di questo processo artistico”.
         La differenza tra il teatro europeo e quello africano non è semplicemente differenza di stile e di forma, né concerne esclusivamente il teatro. E' rappresentativa delle differenze essenziali tra due concezioni del mondo, è differenza tra una cultura i cui prodotti evidenziano una comprensione coesiva dì verità irriducibili, e un'altra, i cui impulsi creativi sono dominati da una periodica dialettica. Egli considera il dramma come la forma di espressione artistica più dinamica e rivoluzionaria; dice a questo proposito:”The theatre is simply but effectively in it an operational totality, both performance and audience, and there exists already in this truth a straight forward dynamic of drama... A tension, if you prefer the word, an active, creative and translatable tension which need not to be announced in words or action (from the auditorium) but which occasionally spills over into manifested response referred to as audience "partecipation”. (Il teatro è semplicemente ma effettivamente in esso una totalità operativa, sia spettacolo che pubblico, ed esiste già in questa verità una dinamica diretta del dramma... Una tensione, se si preferisce la parola, una tensione attiva, creativa e traducibile che non devono essere annunciate con parole o azioni (dall'auditorium) ma che occasionalmente si riversano in risposte manifestate denominate "partecipazione del pubblico).
Nell'esperienza del dramma, dunque, è lo spettacolo teatrale che forza l'auditorio, visto come un insieme di individui consapevoli della loro appartenenza alla società. Come membro dell'auditorio, l'individuo sperimenta le sue reazioni sia in comunione con gli altri sia singolarmente, tramite la tensione che gli attori riescono a comunicare.
         Il teatro è, semplicemente ma effettivamente nella sua totalità di operazioni, sia rappresentazione che auditorio, ed è già presente in questa verità una chiara dinamica del dramma... una tensione, se preferite la parola, attiva, creativa e traducibile che non ha bisogno di dover essere rivelata con parole o con gesti, ma di quando in quando si svela nel responso manifestato dalla partecipazione del pubblico.
Oltre ad usare riti specifici, miti, aspetti della lingua e della cultura Yoruba, allusioni letterarie e personaggi stereotipi, egli fa uso dei flash-back, del monologo diretto col pubblico, della teatralità della parola. L'utilizzazione del gioco verbale, esteso fino a creare una ricchezza di modulazioni, sta alla base del potere evocativo abilmente esercitato dal drammaturgo nigeriano sulle masse popolari del suo paese, Soyinka ha infatti una grande padronanza dei vari registri della lingua inglese: quello letterario, quello quotidiano e il cosiddetto Pidgin. Questo idioma è usato correntemente in Nigeria come strumento di comunicazione orale, sia per quanto riguarda l'uso quotidiano della lingua, sia per quanto riguarda la trasmissione delle tradizioni culturali indigene. Il Pidgin fu introdotto dai naviganti portoghesi che nel XII secolo approdarono in Africa. Questo idioma subì vari influssi attraverso i secoli. Determinante fu quello inglese. In Pidgin esiste soltanto una documentazione scritta: si tratta di un diario del 1700, scritto da un commerciante africano di schiavi. In rapporto a quest'ultimo aspetto, ci si pone oggi il problema di trovare un sistema di trascrizione grafica del Pidgin, in modo da favorire una più adeguata utilizzazione dì questa lingua in tutti i contesti comunicativi, incluso quello letterario.
Emanuela Scarponi