27-02-2020

 

                                                                                                                                     La marimba, trait d'union tra passato e presente
          In tutti i continenti l'incontro-scontro di civiltà diverse (nel caso specifico occidentali ed africane) ha visto il fiorire di forme di arte e di cultura incredibilmente ricche di elementi variegati ed assolutamente originali. Personalmente mi sono imbattuta nella moderna civiltà degli Indios del Messico, dove la religione cristiana si è sovrapposta alla religione animista (completamente avvolta in elementi naturalistici) degli antichi Maya ripercorrendone abitudini, costumi e credenze, ed introducendo i Santi che hanno preso il posto delle divinità Maya. I ritmi, i princìpi e le tradizioni delle etnie africane fanno da sfondo alla cultura africana moderna, che rivisita le antiche tradizioni animiste autoctone e cristiane assieme. Inconfondibili ritmi africani si mescolano quindi ad una più moderna concezione della musica e della vita africana moderna: un mescolamento che spesso si ritrova negli artisti moderni: musicisti, cantanti e danzatori che ancora sfuggono all'occhio dello studioso europeo. Sotto ai nostri occhi ecco l'incontro tra culture, canti religiosi antichi, propri della tradizione africana, e canti religiosi della moderna cristianità introdotta nel continente dai coloni. È la nuova cultura, quella auspicata da Wole Soyinka che tanto l'ha predicata ed inculcata, e da Nelson Mandela, poi incarnata in cantanti di rango internazionale come Miriam Makeba. Essa si impone come alternativa all'ormai sorpassato movimento della Negritudine di Leopold Sedar Senghor ed Aime Césaire, e soprattutto per gli eventi storici che si sono mano a mano susseguiti fino agli ultimi e recenti accadimenti dei Paesi nordafricani. Ebbene, lo sforzo dell'Africanista è pertanto oggi quello di individuare e cogliere la trasformazione della transizione del linguaggio musicale, nei suoi ritmi, propri della cultura africana contrassegnata dai suoi costanti e crescenti, tamburellanti e sempre più incalzanti e coinvolgenti ritmi in Africa, in particolare sempre strettamente connessi alla danza, che in questo continente assume ancora caratteri rituali ed al contempo di intrattenimento. Famosa è la danza rituale con i suoi ritmi, primi lenti e poi sempre più veloci, tesa al raggiungimento dello stato di incoscienza dell'individuo, che cade quindi in trance ed entra in contatto, secondo la religione animista, con Dio: questo è un fenomeno ancora oggi studiato con grande interesse dagli esperti di Storia delle religioni africane. La marimba, strumento di origine africana, è stata introdotta nell’America centrale dagli schiavi negri e più tardi si diffuse anche negli Stati Uniti e in Europa nell’ambito del jazz e della musica leggera. Il termine “marimba” deriva dal plurale di libimba che, in lingua bantu, indica uno xilofono fatto con tavolette di legno provviste di risonatori.
         Sull’origine della marimba ci sono opinioni contrastanti. P. R. Kirby dà per certa l’origine africana della marimba, mentre altri studiosi sostengono che essa è il risultato dell’involuzione di strumenti più perfezionati di origine orientale. Ma il modello africano possiede caratteristiche che non si riscontrano in quelli dell’Asia orientale. Al Nord del Deserto del Sahara, la marimba è sconosciuta, probabilmente non solo per la mancanza di legno, ma anche per ragioni storiche e culturali. Nel Sud Africa lo strumento più elaborato è lo xilofono con risonatori, chiamato mbila o ambira. In Angola viene tuttora chiamato marimba, mentre nel Congo è noto come pende, e nell’Africa occidentale come balafon. La marimba è stata introdotta in Europa nel XVI secolo e contemporaneamente in Ecuador e nelle Antille, da dove si è diffusa nell’America Centrale e del Sud. Attualmente si può trovare anche in Messico (con il nome locale di zapotecano), in Perù, in Colombia, in Honduras, nel San Salvador ed a Portorico.
           Si ritiene che la marimba a tastiera orizzontale sia stata inventata dagli Indiani Tecomates dello Stato del Chiapas in Messico. Tuttavia, il nome dello strumento fu importato dai Paesi africani perché, già nei primi anni del 1500, il commercio degli schiavi negri avveniva principalmente tra il Senegal, il Camerun e l’America del Sud. Nel Chiapas questo strumento, che talvolta ha un’estensione di 6/7 ottave, può essere suonato contemporaneamente da 7/8 esecutori. Lo strumento attraverso i secoli ha subìto delle considerevoli trasformazioni: in origine era costituito da tavolette di diversa lunghezza ed intonazione, appoggiate su telai a cornice e munite al di sotto di zucche vuote con funzione di risonatori. Nell’America Centrale erano utilizzati come risonatori canne di bambù o tubi di legno chiusi inferiormente. Nelle tradizioni popolari di tutti i Paesi e popolazioni del mondo la danza, così come il canto, rappresentano un momento importante di socializzazione e di celebrazione. Danza e canto, a loro volta, sono intimamente legati all'uso degli strumenti musicali. In Africa, fin dai tempi più remoti, la danza, insieme alle altre espressioni di musicalità dei popoli africani, ha avuto molte funzioni: da quella di accompagnare cerimonie religiose a quella di festeggiare particolari avvenimenti (matrimoni, nascite, cerimonie di iniziazione, feste per il raccolto, conflitti eccetera) ed è stata praticata anche nei villaggi più sperduti e nascosti delle immense foreste o degli altipiani.
           Attualmente vi sono molti complessi africani che trasferiscono anche sui palcoscenici di città di tutto il mondo le proprie esperienze musicali, anche se la tradizione continua, inalterata e genuina, in tutti i Paesi del grande continente africano. La "danza" si sviluppa con una continua articolazione delle 4 bacchette, presentando un ottimo esempio di colpi doppi laterali alternati e di colpi. La sezione successiva invece è costituita da una fuga dove mano destra e sinistra si sovrappongono indipendentemente, presentando soggetto e contro soggetto. Dopo un periodo “molto mosso” in cui la marimba si muove imitando la tecnica a due bacchette dello xilofono, questo tempo si conclude con una ripresa del tema iniziale di danza. Il quarto tempo si intitola “despedida” cioè conclusione. Il tema è proposto dalla mano destra, che si muove spesso con due note in ottava, e si appoggia sulla ritmica costante, tenuta dalla mano sinistra. Il centro di questo tempo è la cadenza: vengono ripresi frammenti di tutto il concerto, ognuno con il proprio particolare aspetto tecnico. Il tempo si conclude con la ripresa del tema iniziale e con note ribattute molto veloci. In conclusione, la marimba nell'Africa australe si pone come trait-d'union tra passato e presente e risulta adatta a riprodurre testi tradizionali animisti e dell'attuale moderna società africana.
Emanuela Scarponi

 16-02-2020

 

                                                                                              Lo Stenografo parlamentare e la sua evoluzione nella storia

        Di tutto e di più si dice su questa figura concentrata ed attenta, orecchie e mani tese, pronte a scattare appena i fatidici parlamentari pronunciano una sola sillaba! Funzionano meglio di un registratore le preziose mani dello stenografo professionista che volano oltre la velocità del suono - grazie ad una tastierina che permette di utilizzare cinque dita per volta per trascrivere, invece delle solite due che guidano la penna - contemporaneamente alle parole pronunciate da un oratore, specialmente laddove interviene fuori microfono e le cui parole non risultano dalla registrazione-audio.
        La Costituzione disciplina la pubblicità dei lavori camerali in due noti articoli, in corrispondenza di due diversi aspetti delle attività parlamentari: all'articolo 64, in relazione all'Assemblea; all'articolo 72, in relazione alle Commissioni in sede deliberante-legislativa.
Nel primo dei due articoli si dispone che le sedute delle Camere devono essere «pubbliche» e che, «tuttavia ciascuna Camera e il Parlamento a Camere riunite possono deliberare di adunarsi in seduta segreta»; all'articolo 72 si stabilisce che sia il Regolamento delle Camere a «determinare» le «forme di pubblicità dei lavori delle Commissioni». Lo stenografo parlamentare è guardato con grande curiosità da tutti gli oratori, i cui ragionamenti incessantemente egli segue per cinque minuti consecutivi, enfatizzando e facendo proprio il ragionamento che da teorico, diviene una composizione scritta.
Lo stenografo parlamentare effettua questa operazione con tutti: maggioranza ed opposizione, in eguale misura e con eguale trasparenza. Guai se così non fosse: ne verrebbe meno l'equilibrio del funzionario istituzionale che, a differenza di un giornalista, il cui compito è quello di dare una sua interpretazione di quanto espresso, deve rispettare il pensiero degli oratori tutti, a garanzia del principio democratico, alla base del nostro Paese.
      E così, da oltre un secolo, gli stenografi parlamentari occupano la loro postazione al centro di ogni Aula parlamentare democratica per "garantire" la pubblicità dei lavori parlamentari e rendere così fruibile ai cittadini tutti, senza distinzione alcuna, tramite la pubblicazione quotidiana del Resoconto stenografico, quanto avviene nelle Aule del Parlamento. Esso è solitamente considerato dai cittadini organo estremamente lontano dalla vita quotidiana, quando invece al suo interno si decide l'andamento politico, economico e culturale di un Paese, la cui storia e progresso civile sono indispensabili per la sopravvivenza stessa dei suoi cittadini.
Solo conoscendo ciò che accade tra queste mura si può prendere atto di quanto si decide e quindi condividere, contrastare, avere una visione critica di ciò che accade e maturare una coscienza politica.
È stato introdotto anche un canale satellitare per trasmettere, in corso d'opera, le sedute parlamentari di Aula. "...Così è possibile dire oggi che rendono pubblici i lavori parlamentari tre grandi categorie di mezzi: quella diretto-testimoniale della presenza del pubblico; quella documentaria della comunicazione scritta; quella della comunicazione audio-visiva delle trasmissioni via etere.

     La prima forma antica non è praticabile in tutte le sedi dei lavori parlamentari e non è accessibile a tutti contemporaneamente; la seconda, impostasi con la modernità grazie alla introduzione della stampa ed alla alfabetizzazione generalizzata, rende la conoscenza dei lavori parlamentari potenzialmente disponibile a tutti; la terza avviene con la diffusione radiofonica e poi televisiva.
Lo stenografo parlamentare produce "...i resoconti, questi documenti a stampa, nei quali sono riportati le discussioni (i dieta), le deliberazioni (gli acta) e ogni altro accadimento proceduralmente significativo delle sedute parlamentari di Assemblea, di Commissione e di altre sedi collegiali delle due Camere: un vero e proprio genere letterario, con due specie redazionali, quella del resoconto sommario e quella del resoconto stenografico.
Questi sono documenti che non si esauriscono nella semplice operazione di trasferimento del parlato dalla oralità alla scrittura, con il trattamento della parola che questa operazione comporta, ma che riportano anche l'annotazione dei modi e delle forme con cui la discussione si è svolta e la deliberazione adottata, oltre che di quanto altro può avere caratterizzato l'andamento dei lavori (fisionomia). Questi aspetti non sempre sono legati alla stretta verbalità ma riguardano anche in comportamenti, e che, annotati nel resoconto, ne vanno a costituire (per usare il lessico corrente) la cosiddetta fisionomia.
Due aspetti caratterizzano dunque il resoconto: il mutamento della forma originaria della oralità nella forma definitiva della scrittura e l'attestazione dell'avvenuto non-verbale, proceduralmente rilevante. Entrambi servono alla pubblicità dei lavori, ma anche alla piena esistenza giuridica delle procedure documentate.
      La pubblicità dei lavori parlamentari assicurata dai resoconti ai nostri occhi appare oggi nella natura delle cose; in realtà si tratta di una acquisizione relativamente recente: vi sono più di quattro secoli di Parlamenti senza resoconti e la storia di questi atti tipicamente parlamentari si intreccia significativamente con altre storie: quella del giornalismo politico e della libertà di stampa e quella della nascita di governi responsabili, che hanno il loro avvio, in Inghilterra, nella seconda metà del Seicento.
La difesa della libertà di stampa contro la censura politica è sostenuta da Milton fin dalla metà del secolo (1644), con il noto argomento che la verità prevale sull'errore, quando entrambi possono essere liberamente attestati. Essa sembra convincere i Comuni che, nel 1695, non raggiungono l'accordo sul testo della legge che avrebbe dovuto confermare la censura preventiva, con il risultato forse non voluto della liberalizzazione della stampa politica.
La nuova libertà invogliò presto alcuni periodici ad avventurarsi anche sul terreno dei lavori parlamentari che - censura o non - continuavano ad essere al riparo della pubblicità, in forza di un privilegio che il Bill of Rights aveva riservato alla esclusiva competenza del Parlamento.
     Nascono i primi resoconti parlamentari; «resoconti-pirata», se si vuole, in violazione di quel privilegio: ma la violazione tollerata, di buon grado o non, dalle Camere, andò avanti per tutto il corso del Settecento, fino a che - come è destino di ogni fortezza assediata - anche quel privilegio venne espugnato, con la rinunzia ad esso, da parte dei Comuni nel 1803 e dei Lord nel 1807.
Da allora i resoconti parlamentari divennero legittimi. Nel Continente, la Costituzione francese aveva consacrato qualche anno prima (1791) il principio che le discussioni dell'Assemblea legislativa dovessero essere pubbliche e che i loro atti dovessero essere dati alle stampe, ma a quella data questo costituiva un uso ormai consolidato da decenni per la libera stampa britannica.
Ma che genere di resoconti erano? Si trattava di semplici servizi giornalistici, non sistematici, saltuari, non integrali, di parte, affidati alla buona o cattiva volontà, se non alla fantasia, del reporter.
Questa era la situazione quando, nel 1803, W. Cobbett, volendo curare uno studio di storia costituzionale, prese a raccogliere ordinatamente servizi sulle discussioni parlamentari secondo i criteri critici della storiografia moderna.
    La raccolta, pubblicata settimana per settimana sul Political Register, finì per costituire una fonte di conoscenza dei lavori parlamentari integrale, affidabile, insostituibile: cioè, quel resoconto che sarebbe poi stato preso a modello da ogni Parlamento.
Non politiche né giuridiche sono le origini di questo classico atto parlamentare, ma - almeno nella patria della «madre di tutti i Parlamenti» - ispirate alle esigenze della obiettività e della conformità al vero, proprie di una attestazione storica in senso moderno.".
Si annovera tra gli altri lo scrittore Charles Dickens, stenografo parlamentare del Parlamento inglese, la cui prima opera letteraria è The Pickwick Papers, concernente i pettegolezzi del Parlamento!
     Da qualche anno a questa parte, la presenza dello stenografo parlamentare è prevista per prassi anche in sedi non istituzionalmente sancite dal Regolamento.
Se sono obsoleti o non questi stenografi parlamentari è la domanda che molti si pongono cui non segue mai alcuna risposta, dato che gli stenografi non hanno come compito quello di parlare ma di trascrivere, passando il più possibile inosservati!
Sostituire tale figura presenta grossi problemi: pensare di lasciare tutto nelle mani di un giornalista è impensabile, come presero atto i Parlamenti nei secoli scorsi; di un registratore è altrettanto impensabile poiché ne deriverebbe l'impossibilità dì leggere ed analizzare gli atti. La questione rimane aperta da anni nei vari Parlamenti, in attesa di nuove tecnologie.

 Emanuela Scarponi


28-01-2020

 


Intervista al Console della Namibia, dr. Petter Johannesen

 

 

 

Emanuela Scarponi - Buongiorno. Mi chiamo Emanuela Scarponi e sono qui per divulgare il libro sulla Namibia scritto in collaborazione dell'Isiao. Come stanno gli Himba che non vedo dal 1995?

Petter Johannesen, console onorario della Namibia in Italia - Stanno benissimo, grazie!

Emanuela Scarponi - Un caro saluto a tutti loro! Ho tentato sempre di ricontattarli, senza riuscirci. Colgo questa occasione per conoscere da lei l’attuale situazione politica della Namibia, con particolare riferimento al tipo di democrazia.

Petter Johannesen, console onorario della Namibia in Italia.- La Namibia è indipendente da venti anni. Abbiamo appena avuto le elezioni presidenziali e parlamentari che si sono svolte assolutamente in piena trasparenza e con grande soddisfazione. Il Presidente uscente Pohamba è stato rieletto. Il partito al Governo della Swapo ha mantenuto le sue quote, cedendo una piccolissima frazione. La Namibia è una democrazia compiuta che funziona. Non ci sono problemi di carattere politico!

Emanuela Scarponi - Quanti partiti ci sono?

Petter Johannesen, console onorario della Namibia in Italia - Ci sono una decina di partiti: otto partiti importanti e due assolutamente inutili. Però abbiamo un sistema bicamerale, di cui una è la Camera alta, suprema, paragonabile alla Camera delle Regioni tedesca, fatta di persone nominate dal Presidente. Il sistema politico namibiano non è basato su una rappresentanza maggioritaria, ma proporzionale. Pertanto sono rappresentati anche i piccolissimi partiti. Ma la Swapo è il partito pesante della Namibia, e conta il 63 per cento della popolazione.

Emanuela Scarponi - Sono rappresentati gli Himba in Parlamento?

Petter Johannesen, console onorario della Namibia in Italia - Gli Himba non sono rappresentati in Parlamento. Noi abbiamo una distinzione di carattere politico e non etnico. Ci sono partiti politici e sicuramente gli Himba votano per la Swapo come gli Herero. In Namibia non c’è una rappresentanza etnica. Dal mio punto di vista è un grande passo avanti. Il Parlamento non deve rappresentare le etnie. I partiti sono trasversali alle etnie.

Emanuela Scarponi - Vanno dalla destra alla sinistra come in Europa?

Petter Johannesen, console onorario della Namibia in Italia - Non c’è destra o sinistra. Sono partiti giovani ancora legati alla rivoluzione, alla indipendenza ed alla lotta di classe, di acquisizione dei diritti.

Emanuela Scarponi - Siete tutti felici della indipendenza della Namibia?

Petter Johannesen, console onorario della Namibia in Italia - Molti namibiani bianchi di estrazione boera avrebbero preferito rimanere parte del Sud Africa ma con l’evoluzione del Sud africa credo che adesso stanno meglio.
Emanuela Scarponi - Mi può descrivere la situazione dei bianchi in Namibia?

Petter Johannesen, console onorario della Namibia in Italia - I bianchi subiscono ancora la discriminazione della maggioranza. Questo è un problema non solo in Sud Africa ma in tutti i mondi dove i bianchi sono stati sistema di potere e dove i neri sono stati tenuti lontano dalle scelte politiche. Adesso che è il rovescio devono accettare democraticamente lo stato dell'arte dato che sono in netta minoranza, (8,10 percento).

Emanuela Scarponi - Che mi dice del sistema scolastico?

Petter Johannesen, console onorario della Namibia in Italia - Il sistema scolastico è buono. La Namibia è uno dei paesi africani con un elevatissimo grado di scolarizzazione: il 94 per cento dei bambini va a scuola.

Emanuela Scarponi - Quali lingue studiano?

Petter Johannesen, console onorario della Namibia in Italia - Studiano l’inglese e l’afrikaans. Ci sono anche le scuole tedesche.

Emanuela Scarponi - Il bantu si studia?

Petter Johannesen, console onorario della Namibia in Italia - No. È solo una lingua orale.

Emanuela Scarponi - Che mi dice del rapporto tra bianchi e neri in Namibia?

Petter Johannesen, console onorario della Namibia in Italia - Il rapporto tra bianchi e neri in Namibia è complesso soprattutto perché adesso che i bianchi soffrono di un complesso di superiorità non solo in Africa. In secondo luogo, gli africani prescindendo dal colore sono ignavi per natura. Non c’è differenza sostanziale tra bianco e nero. Fa parte del Dna. Immaginiamo che il bianco pensi come noi in Europa. Attribuiamo loro dei meriti che non hanno perché siamo illusi. Il bianco africano è identico al nero solo che noi, siccome siamo bianchi, li vediamo con occhi diversi ma se si scava in fondo sono uguali. Hanno un livello di educazione leggermente superiore e per questo sguazzano in questa loro apparente superiorità di conoscenza. Ma il rapporto tra bianco e nero è buono. In questo momento la convivenza è civile e la riconciliazione è stata compiuta.

Emanuela Scarponi - Da quante generazioni è in Namibia?

Petter Johannesen, console onorario della Namibia in Italia - Abbiamo bianchi di origine tedesca che vivono in Namibia dal 1870-'80.
Emanuela Scarponi - Quali sono i rapporti economici e istituzionali col nostro Paese?

Petter Johannesen, console onorario della Namibia in Italia - I rapporti economici e istituzionali con l'Italia sono fin troppo pochi e modesti, a causa di tre fattori: il mercato domestico namibiano è piccolo anche se ci sono due milioni di abitanti. Abbiamo qualche poche decine di migliaia di famiglie. Pertanto il mercato interno domestico è modesto ed è difficile per un operatore internazionale globalista come quello italiano andare in Namibia perché gli costa troppo ed allora usa il tramite commerciale che si trova in Sud Africa.
Quanto alle esportazioni namibiane, siamo molto forti per il pellame. Oltre il 70 per cento delle pelli prodotte in Namibia vengono in Italia; seguono poi la carne bovina, che vorremmo esportare maggiormente, la pelle di karakul prodotto straordinario, ed infine il turismo che sta diventando un elemento dell’economia interna importantissimo e l’Italia si affaccia in competizione agli altri attori europei.

Emanuela Scarponi

 06-02-2020


                                                                                                                                                                    I San del Kalahari
      Il quadro etnico anteriore all’arrivo degli Europei nell’Africa australe si presenta vivo e complesso e molto più articolato di quanto normalmente si ritenga. Gli studi storici, con una metodologia comparata che trae spunto dalle tradizioni orali e si avvale dell’analisi dei dati archeologici, etnologici, linguistici e botanici sono oggi progrediti nella ricostruzione del passato remoto dell’Africa. Le genti più antiche dell’Africa meridionale sono indubbiamente i Khoisan. Sono questi i nomi, Khoi e San, con cui gli studiosi preferiscono indicare rispettivamente gli Ottentotti e i Boscimani, termini di spregio coniati dai primi Europei. I Khoi furono detti Ottentotti con voce onomatopeica, perché nella loro fonetica vi sono frequenti suoni gutturali a schiocco (click), mentre i San furono detti uomini della boscaglia (Bosjeman in olandese, da cui l’inglese Bushman) perché dediti alla caccia. In realtà oggi si è inclini a considerarli due gruppi in uno, legati da una forma instabile di dipendenza tra padroni e servi corrispondenti a pastori e cacciatori, per cui era normale per un cacciatore San tentare di acquisire bestiame e trasformarsi in pastore, oppure per un pastore Khoi, se perdeva il suo armento, vivere esclusivamente di caccia. Agli antichi Khoisan appartengono le pitture rupestri disseminate nelle caverne e sotto i ripari dei kopjes di quasi tutte le regioni dell’Africa meridionale. Lo stile le raccorda con le pitture rupestri preistoriche dell’Africa e dell’Europa, dalla Tanzania al Sahara, dal Nord Africa alla Spagna e alla Francia. Ma l’evidente analogia delle forme e dello stile non viene considerata motivo sufficiente per supporre un’unità etnica o anche solo culturale dei loro autori. I Khoisan odierni non praticano più la pittura di questo genere. Vi sono però testimonianze che l’attestano viva ancora nel secolo scorso. Le incisioni sembrano più antiche.

     In genere ritraggono animali: gazzelle, antilopi, elefanti, struzzi. Mentre nel Sahara la fauna serve a stabilire l’antichità delle pitture, nell’Africa meridionale, dove gli animali dipinti sono ancora quelli di oggi, non si presta sempre allo scopo. La stratigrafia dei colori mostra che le pitture monocrome sono anteriori alle pitture bicrome e queste alle policrome. Il verismo delle figure animali è talvolta sorprendente per la raffinatezza. Vi sono rappresentati cacciatori singoli o coordinati in battuta, raduni sociali o rituali con uomini seduti a cerchio. Le figure umane sono quasi filiformi, ma colgono bene l’agilità dei movimenti. Spesso è possibile riconoscere l’appartenenza etnica delle figure: i Khoisan sono ritratti con statura bassa, colore giallo, rosso e bruno; i Bantu sono alti e di colore nero; gli Europei portano vestiti e sono armati di fucile. Il periodo pre-Bantu si fa risalire a prima del 1600; quello delle figure europee al XVIII e XIX secolo. Nell’interpretazione delle figurazioni non è necessario ipotizzare fantastici richiami storico-culturali. Per esempio, gli abiti sumeriani di alcune pitture non hanno nulla di sumerico, ma riproducono il modo di coprirsi degli abitanti delle montagne del Lesotho. Così pure, la singolare figura della gola di Tsibab nella Namibia, detta la dama bianca di Brandberg, è certamente un uomo africano ricoperto di decorazioni bianche e di perline secondo l’abitudine di moltissimi popoli africani. Se la spiegazione delle pitture per motivi magici può sembrare plausibile, sarebbe far violenza alle cose non riconoscere nel gusto della pittura, oltre l’abilità tecnica, il senso estetico di genti abituate al contatto della natura e a un grado notevole di partecipazione sociale. L’insediamento dei Bantu nell’Africa meridionale è relativamente recente. Risale ai primi secoli dopo Cristo. Tuttavia i movimenti migratori, con la formazione di nuovi gruppi etnici, non erano cessati ancora nel XIX secolo. Dei più antichi spostamenti ci sono rimaste numerose vestigia archeologiche che vengono alla luce con il progredire degli studi e delle quali le più imponenti sono quelle di Zimbabwe, conosciute ai più. Ma i Bantu si spingono oltre, espandendosi fino all’estremità dell’Africa australe dove incontrano mescolandosi i Khoisan che, in netta minoranza, risalgono verso Nord. La Namibia, Stato indipendente di recente istituzione, non può essere trattata quindi distintamente dal Sud Africa dal punto di vista storico-geografico ed etnico.

 Emanuela Scarponi



27-01-2020


                                                                                                                          INTERVISTA ad ingegner Bruno Grassetti La Sapienza di Roma, esperto di Cina 

27-01-2020 
Scarponi (SSP). Ingegnere Grassetti, come esperto di Cina, siamo qui a chiederle della Nuova via della seta. Le do senz'altro la parola.

GRASSETTI. Vorrei dare innanzitutto una visione generale: stiamo parlando della Via della Seta, quali sono fondamentalmente le tematiche da affrontare?
La prima cosa è conoscere, perché sappiamo poco di questo mondo, quali sono i Paesi coinvolti, perché sono così interessanti, quale è stata la loro storia, da dove vengono. Credo che bisogna fare innanzitutto un inquadramento storico e invito chi ci ascolta a fare una ricerca al riguardo.
La seconda cosa è chiedersi perché sono così ricchi. Evidentemente il punto più interessante è che questi Paesi sono ricchi; altrimenti nessuno si sarebbe fatto venire in mente la Via della Seta. Ci sono risorse, materie prime, fonti energetiche. Ed è questo che fa di quei Paesi un argomento così interessante.
Terzo: e allora, se vengono da lontano, perché non ricordiamo che in quelle zone c'è la Persia con i famosi Parti, che hanno litigato con Roma ai tempi di Traiano ed Aureliano. Noi non l'abbiamo avuta vinta con loro. L'unico che è riuscito a penetrare quei territori e ad avanzare veramente molto in là è stato Alessandro Magno, il figlio del famoso Filippo il Macedone, che aveva avuto come maestro - te lo ricorderai - Aristotele. Questi sono i presupposti culturali e storici della Via della Seta, tutta materia da approfondire.
Il nome Via della Seta viene da un ricercatore tedesco, che gli ha dato questo nome che in effetti è la Via della Seta, la Via delle Spezie, la Via dei Tappeti e cioè di tutto quello che si poteva trafficare e commerciare, come hanno fatto i famosi Polo (Marco Polo, lo zio, il padre, eccetera). In fondo perché sono andati fino a laggiù? Perché erano attratti dalla voglia di fare commerci sempre più interessanti e sempre più ricchi. Tra l'altro, quando loro sono stati in Cina, la Cina non era comandata dai cinesi, ma dai mongoli.
Infatti ti racconto un piccolo episodio della mia vita: per tre volte sono stato invitato addirittura - perché da quelle parti devi essere invitato - dalla televisione interna della Mongolia, perché tramite una mia amica cinese sono stato messo in contatto con colui che aveva scritto tutta la sceneggiatura di un grande film su Marco Polo, del quale film mi avevano incaricato di essere una sorta di delegato, di ambasciatore per raccogliere fondi in Europa.
Mi divertiva questo fatto di essere coinvolto e allora abbiamo fatto riunioni, siamo stati alla televisione della Mongolia, perché poi era la loro tv interna e adesso avrai capito perché ci metteva un sacco di soldi.
Inesorabilmente però è venuto il momento in cui abbiamo dovuto chiedere il permesso alla televisione cinese, che sarebbe stata lei poi, oltre alla televisione della Mongolia interna, a mandare in onda il film. Dopo una serie di riunioni ci ha detto di no: "Noi non ve la accettiamo. E sapete perché?" Proprio perché in quel periodo la Cina non era comandata dai cinesi, ma dai mongoli. Ed i cinesi dicono: "Non vi diamo dei soldi per far vedere la Cina comandata da altri".
Hai capito? Ed io, dopo tre viaggi nell'arco di otto mesi, ho dovuto rinunciare a questo incarico, perché la CCTV, televisione di Stato mi aveva detto di no.
Però, tornando ai territori, ci sono dentro tutti, perché se partiamo da qui, dall'Europa Orientale quindi dalla Polonia, attraversi subito l'Ucraina, poi già sei sul Caspio e quindi hai tutto il Caucaso, l'Azerbaijan, sotto la Persia, poi l'Afghanistan, un po' più in là c'è il Tajikistan, il Turkmenistan, sopra il Kazakistan, l'Uzbekistan, fino a che non arrivi in Cina.
Quindi si incontrano tutti questi Paesi, che secoli fa hanno avuto l'invasione dei Mongoli arrivati fino alle nostre parti e la Turchia è stata poi abitata da una serie di popolazioni mongole, pure di origine turca, da dove deriva anche il suo nome attuale.
E l'Impero romano è stato molto a contatto con queste popolazioni. Poi da qui si sono spostati al centro e sono diventati Unni; poi dalla Svezia sono venuti i Vandali, pian piano sono scesi giù e sono andati addirittura in Africa. Ti ricorderai che la parte settentrionale come il Marocco, piuttosto che la Libia e l'Algeria sono stati per un periodo controllati dai Vandali, dagli Svedesi. Quindi c'è una storia alle spalle veramente impressionante. Detto questo, su che cosa c'è dentro, sul perché sono importanti, sul perché c'è tanta ricchezza veniamo al giorno d'oggi.
Nessuno fino ad oggi aveva inventato un'operazione, come quella che si è inventata Xi Jinping. Cosa si è inventato questo grande uomo?
Mentre gli Americani si sono inventati di andare a fare la guerra all'Iraq, poi sono andati in Afghanistan mettendosi a fare la guerra anche lì, eccetera, i cinesi cosa hanno detto? A noi con questi Paesi ci interessa fare gli affari.
Certo lo fanno alla loro maniera, come chi è padrone dei quattrini, il quale viene e ti dice: "ti do i quattrini, tu ti indebiti con me e allora o mi paghi con il manganese, con il petrolio, con quello che hai in casa o altrimenti in qualche maniera ti leghi” e nel mondo tutti sono impauriti da questo modo di fare.
L'altro modo di fare, che la gente non gradisce a livello globale e di pensiero, soprattutto in Occidente, è che la Cina ci fa lavorare i suoi operai. Però anche questi sono casi singoli e che se vai a vedere poi anche i casi singoli scopri che invece non è vero, nel senso che la Cina ha tutto l'interesse a far sì che ci siano le maestranze locali, che sanno parlare innanzitutto la lingua del luogo, che quindi evidentemente oltre a creare posti di lavoro, aiuta anche a formarsi.
Questo modo di fare dei Cinesi, si può confrontare con quello dei paesi occidentali che, sottolineando l’importante aiuto religioso e delle varie opere educative e di carità, sostanzialmente i Francesi hanno imposto a 14 Paesi di parlare la lingua francese, i Portoghesi hanno imposto ad Angola e Mozambico di parlare portoghese, mi dici cosa vuol dire?
Nel Sudafrica, hanno imposto di parlare l'olandese. Allora, scusate, ci sono due modi differenti di fare colonialismo. Il colonialismo occidentale non è stato molto gentile al riguardo. Quello della Cina sarà pure non gentile altrettanto, perlomeno le opere le fa.

Emanuela Scarponi


04-02-2020


                                                                                                                 I Boscimani: la caccia e la danza

     I Boscimani sono il popolo più antico dell’Africa meridionale. Nonostante il loro stile di vita in una prospettiva prettamente etnocentrica ci possa apparire primitivo, essi vantano una lunga serie di tradizioni dal carattere piuttosto articolato.
Fra queste, quelle che sembrano particolarmente interessanti sono il modo in cui intendono la caccia e il valore “sacro” attribuito alla danza. La dieta dei Boscimani è costituita soprattutto dalle noci, ma essi tuttavia si dedicano alla caccia, prevalentemente la caccia alle antilopi.
     Per i Boscimani cacciare vuol dire cercare gli animali e parlare con essi. La caccia viene praticata per mezzo della sistemazione di trappole o utilizzando l’arco o la lancia. Prima di trovare un’antilope devono aspettare anche molti giorni: una volta avvistato l’animale, devono correre e quasi immedesimarsi con esso, i Boscimani dicono che correndo diventano come l’antilope. Finito l’inseguimento, inseguito ed inseguitori sono sfiniti, i Boscimani guardano l’animale negli occhi e comunicano con esso. L’animale in questo modo dovrebbe riuscire a capire che deve dare loro la sua energia, per permettere ai loro bambini di sopravvivere.
Si verifica così una sorta di assimilazione fra la preda ed i cacciatori, grazie alla quale si esplica un intento comunicativo, segno di una lotta ancestrale che si combatte ad armi pari. Ancora oggi i San si tramandano le medesime conoscenze.
     Per quanto riguarda la caccia può essere interessante spiegare come essa si svolge: innanzitutto vengono preparate le frecce, legando a piante simili a canne di bambù dei resti di ossa, usate come punte, che vengono coperte di veleno, estratto da particolari coleotteri, con un ramo elastico ed assieme a filamenti di piante fibrose viene preparato l’arco.
     Fin da piccoli i bambini vengono addestrati alla caccia che richiede anni di addestramento, esperienza ed allenamento nella ricerca, e cacciare di animali.
    Il cacciatore deve infatti rendersi conto di ogni più piccola traccia, che può rilevare la presenza dell'animale da cacciare. Ai bambini viene regalato un vero e proprio corredo, con archi e frecce giocattolo, per esercitare la mira. Ma, con il tempo, viene perfezionato, e tra i 15 ed i 18 anni, il ragazzo uccide la sua prima preda. Questo segna il suo passaggio verso l'età adulta, sancito da riti, tatuaggi ed incisioni sulla pelle. Dopo di ciò, il ragazzo viene considerato pronto per il matrimonio, altro rito di passaggio che porta quindi ad un miglioramento del proprio status.
     A proposito di ricerca di tracce e caccia, esistono molti termitai nel deserto ed i Boscimani seguono le tracce fresche dei formichieri che uccidono subito e li svuotano delle termiti che invece gli uomini rimettono in libertà, lasciandole sopravvivere.
    Un importante valore viene attribuito dai Boscimani alla danza, che considerano come una preghiera in grado di attivare le forze soprannaturali. Essi credono in una divinità celeste, che, per esempio in Namibia viene chiamata N!adima, ossia cielo o creatore.
Considerano una divinità anche la luna, ritenendola all’origine della morte. Poteri soprannaturali vengono attribuiti anche alle forze della natura e agli eroi protagonisti della loro storia più antica, ricordati oralmente attraverso racconti di generazione in generazione.
      Durante la danza i Boscimani tremano, saltano e sembrano entrare in trance, per invocare l’aiuto dei loro antenati e delle divinità. Questi devono aiutarli a scacciare le malattie e devono assisterli durante i riti di iniziazione.
     La danza di guarigione dura in genere circa sei ore, ma in alcune occasioni può durare anche un giorno intero. Le occasioni in cui si pratica la danza possono essere diverse: durante la caccia, la semina e la produzione artistica.
     Le donne stanno in cerchio e gli uomini ballano intorno a loro; il tutto avviene attorno ad un fuoco. I giri di danza diventano sempre più vorticosi e l’atmosfera inizialmente allegra si trasforma: alcuni entrano in trance, cominciano a sudare e il loro respiro diventa affannoso.
     E’ proprio questo il momento in cui si realizza l’obiettivo propiziatorio della danza e colui che la mette in atto entra in contatto con la divinità.
     La cultura della popolazione “San” del deserto del Kalahari, rimarcando la matrice culturale dell’area oggetto di studio, crea un ponte diretto tra la tradizione millenaria dei Boscimani e la nostra formazione classica di ricerca delle origini.
E quanto detto è particolarmente vero in questa circostanza, che ci permette di approfondire la conoscenza di una popolazione nomade di cacciatori e raccoglitori dell’Africa australe che vive nel territorio da almeno 20.000 anni, con ritrovamenti anche ben più antichi.
    Oltremodo interessante è l’origine genetica particolare che sembra costituire uno dei più antichi rami dell'evoluzione dell'Uomo moderno, essendo i Boscimani rimasti isolati geneticamente per un tempo stimato di 100.000 anni circa, oltre all'uso di un linguaggio di comunicazione unico del tutto originale basato su schiocchi, il linguaggio “clic”, e su segnali manuali trasmessi durante la caccia (infatti sono anche chiamati per tale caratteristica “uomini scorpione”).
Non meno significative sono le arti visuali, presenti in numerosi siti archeologici e caratterizzate dalla chiarezza di “petroglifi”, che risultano particolarmente significative ai fini di una comprensione della capacità espressiva primordiale umana, intesa anche come capacità di trasmissione e conservazione della cultura e della filosofia di un popolo.
Emanuela Scarponi

26-01-2020

 

                                                                                         Islanda: orsi polari
    Dopo aver attraversato il villaggio di Kirkjubaejarlaustur, proseguiamo lungo la costa meridionale verso il Parco Nazionale di Skaftafell, un’oasi verde fra le lingue di ghiaccio che precipitano dai ghiacciai Oraefajokull e Vatnajokull fino all’oceano, per perdersi nella laguna glaciale di Jokulsarlon.
    Qui gli iceberg galleggianti creano un’atmosfera magica poiché capita che trasportino orsi polari provenienti dalla lontana Groenlandia, naufraghi sulle coste islandesi a bordo di "scialuppe" di ghiaccio. Ciò accade a causa del surriscaldamento del Pianeta Terra e dello scioglimento dei ghiacciai eterni.
Sono immagini per me nuove di un paesaggio incantato, lontano dalla nostra vecchia Europa: siamo vicini al Polo Nord ed assistiamo al miracoloso spettacolo del tramonto artico, visibile solo grazie ad un fortunoso cielo splendente, fenomeno assai raro a queste latitudini.
     Cielo e acqua si incontrano in un susseguirsi di gradazioni del colore blu, che sembrano richiamare le infinite sfaccettature dell'animo umano, dal celeste del cielo al blu profondo del Mare Artico, nel quale sono numerose le foche che nuotano e che smuovono acque altrimenti immobili, e sullo sfondo del quale un orso silenzioso e quieto le attende mimetizzato. Il paesaggio è surreale e ricorda l'ambientazione propria delle antiche Saghe Vichinghe.
      Comincio a scattare fotografie senza sosta, come un vero esploratore che d'improvviso si perde nell'immensità della bellezza del paesaggio celestiale che ha di fronte, abitato da fate, elfi, gnomi e folletti.
     Come in un incantesimo mi sento sospesa tra cielo e acqua, sorretta dai ghiacciai eterni sotto di me, su cui sosto immobile, e dai trasparenti iceberg delle forme più variegate, che galleggiano elegantemente sulle acque fredde, scolpiti dai venti forti del Nord e dal calore del sole che, penetrandoli, creano meravigliosi giochi di luci e di ombre: su di essi puntello le mie scarpe da trekking per andare un po' più in là....e camminare sulle fredde acque del Mare Artico, timorosa di scivolare e perdermi per sempre nel blu profondo sotto di me.
    A tratti, in questo paesaggio artico, si intravede il colore marrone intenso della nostra amata terra...
    Ma, ad una osservazione più attenta, propria di una antica cacciatrice vichinga, che le mie fattezze ricordano secondo Margaret, la mia guida islandese, emerge - immobile come roccia - un enorme animale dalla coltre pelliccia marrone a chiazze più chiare e più scure....è l'orso polare!
    Si volta, probabilmente tormentato dal flash della mia macchinetta fotografica, ed il suo muso scuro finisce per rispecchiarsi nelle acque limpide ed immobili del mare sottostante, a distanza ravvicinata dalle foche che nuotano indisturbate, ignare della presenza del loro predatore.
    Una lunga ed ampia distesa di ghiacciai eterni sullo sfondo, situata tra antichi vulcani e terre desolate e piatte, ricoperte di lava innevata, fa da cornice a questo paesaggio incantato...siamo al Polo Nord!
    Un ultimo scatto prima di lasciare questo paradiso incantato....presto
il sole tramonterà dietro l'orizzonte polare e la leggendaria stella Vega si ergerà luminosa per guidare i viaggiatori nella lunga notte artica, forse per ricordarci che non esistono confini nel ricercare la vita e l’amore e le bellezze nelle molteplici forme e sembianze in cui si manifestano, sul nostro pianeta come su altri.
     Mentre tutto sembra acquietarsi nella lunga notte artica, ecco d'improvviso l'aurora boreale colorare di verde smeraldo la volta del cielo, effetto dei venti solari che attratti dai poli magnetici terrestri, rendono il paesaggio artico incantato.

Emanuela Scarponi