24-04-2021


                                                                                                Il Vietnam e la sua storia recente


         Quella dei Vietnamiti, una intelligente e laboriosa popolazione discesa in Indocina dalla Cina, prima dell'era cristiana, da duemila anni cercarono di costruirsi un Paese libero dalle dominazioni straniere. L'Impero cinese esercitò un diretto controllo sul Vietnam per un millennio, dal I secolo a.C. al X d.C..  In seguito, sebbene ritiratisi, i Cinesi continuarono a mantenere una pressante influenza sul Vietnam, diviso sotto la signoria di più famiglie, tra cui emersero gli Nguyen, nel Centro Sud, ed i Trin, nel Nord finché arrivarono i Francesi che sottomisero l'intera regione tra il 1858 ed il 1884. Durante la Seconda Guerra Mondiale si ebbe l'occupazione giapponese.
Caduto l'Impero del Sol Levante, con la Conferenza di Potsdam, nell'estate 1945, le grandi potenze divisero il Vietnam in due parti: il Nord sotto la guida di Ho Chi Min che, fondatore nel 1941 del movimento Viet Minh "Lega per l'indipendenza del Vietnam" che nel 1945 traghettò il Paese verso l'indipendenza. Ma la strada verso il riconoscimento internazionale dell'indipendenza era ancora lontana.
Nel '46 infatti la Francia cercò di imporre di nuovo con le armi il suo dominio. La guerra durò fino al maggio 1954, quando l'esercito francese subì una disfatta a Dien Bien Phu.
Con la conferenza a Ginevra, fu quindi sancita la divisione al 17esimo parallelo tra i due Vietnam e Ho Chi Min fu acclamato Presidente della Repubblica democratica del Vietnam del Nord. Guidò la nazione fino al 1969, anno della sua morte.
        Tra le potenze mondiali, la Cina e l'Unione Sovietica si schierarono con il Nord, mentre gli Stati Uniti appoggiarono il Sud. Nel 1957 ebbe inizio così una vera e propria guerra.
Dunque, in queste distese d'acqua, tra le risaie e le paludi alimentate dalle acque del fiume Mekong e dalle abbondanti acque monsoniche, si sono impantanati molti eserciti stranieri: i Francesi colonialisti fino al 1854, i Giapponesi durante la Guerra Mondiale e l'esercito americano per 15 anni circa dal 1960 al 1975.
         Infatti, il clima, la foresta pluviale, ed i numerosi villaggi isolati nel territorio vasto hanno reso estremamente difficile il combattimento fra le varie parti. Ciò è facilmente visibile ancora oggi. Abbiamo cognizione di quanto accaduto in Vietnam dai film che si sono susseguiti e dalle immagini riportate quotidianamente dai notiziari di tutte le tv del mondo. Chi non ricorda le riprese dell'elicottero che lascia l'ambasciata americana di Saigon, mentre veniva occupata?
Molti film americani hanno raccontato la tragedia vissuta sia dai soldati americani sia da quelli vietnamiti, senza distinzione di origine. La guerra del Vietnam è stata fonte di ispirazione anche di tristi canzoni in quanto persero la vita molti giovani americani.
Dopo quasi quindici anni di guerra durata dal 1960 al 1975, infatti, gli Stati Uniti, lacerati da forti contrasti interni alla classe dirigente e all'opinione pubblica riguardo alla guerra in Vietnam, dopo una serie di rovesci militari e l'avanzata dell'esercito Vietcong nel Sud, dovettero improvvisamente ritirare le proprie truppe dal Paese, lasciando dietro di sé una nazione distrutta ed oltre un milione di morti, feriti, fucili, armi, carri armati abbandonati lungo le strade, dove rimasero per lungo tempo.
Nel 1976 il Vietnam fu ufficialmente riunificato sotto il controllo del governo del Nord con il nome di "Repubblica Socialista del Vietnam" e Saigon venne rinominata Ho Chi Min, col nome della sua guida politica. Oggi la città è disseminata di monumenti in suo onore ed è rispettato tutt’oggi come un padre ed un eroe nazionale.
       Le strade di Saigon sono affollate di auto e di una infinità di bici e l'ambasciata americana non è più visibile, poiché i suoi cancelli sono stati sostituiti da un muro.
Il Vietnam si estende oggi per oltre 2000 km lungo la costa della penisola indocinese. Confina con la Cina, il Laos, la Cambogia e si affaccia sul Mare Cinese meridionale.
Grazie alla sua posizione ed al periodo di pace e tranquillità oggi vive un'epoca di benessere anche grazie all'afflusso di turisti.

Emanuela Scarponi

 

 

23-04-2021


                                                                                                                           Recenti scoperte nell’antica città romana di Falerii Novi presso Viterbo

       Il Lazio torna ad essere protagonista indiscusso dell’archeologia moderna che continua a fare scoperte di indiscussa grandiosità della storia antica di Roma, del suo enorme impero e territorio che ricade in gran parte nella nostra regione, ma che poi si sviluppa nel massimo del suo splendore spingendosi fino al deserto del Sahara in Africa a Sud e fino al muro di Adriano in Scozia a Nord.
L’Etruria, già sede della grande civiltà etrusca, viene sottomessa da Roma nella battaglia del lago Vadimone combattuta nel 309 a.C. tra Romani ed Etruschi. Questa fu la più grande battaglia che questi due popoli combatterono l'uno contro l'altro. I Romani vinsero, e fu la definitiva consacrazione della loro egemonia sull'Etruria.
       Da quel momento diviene centro indiscusso dell’Impero e sede di urbs.
Una recente scoperta, effettuata nel Lazio, ha permesso il ritrovo dettagliato della città romana di Falerii Novi, grazie ad alcuni sistemi innovativi. L’esistenza di questo sito non è certo nuova, essa infatti era un insediamento dell’Etruria meridionale presso Viterbo.
Insieme all’altra località “Falerii Veteres” identificata a Civita Castellana, esse sono tuttora oggetto di studi specifici e approfonditi.
Falerii Novi fu distrutta, secondo alcune fonti, in età repubblicana e fu ricostruita più a valle con il nuovo nome di “Falerii nuova”, eretta tra Civita Castellana e Fabrica di Roma. Di origine etrusca, non fu molto frequentata e citata in età imperiale. Oggi si ricorda la Chiesa medievale cistercense dell’XII secolo. In questi ultimi anni tutta l’area è stata riveduta e dalle indagini eseguite si è potuto ricostruire la topografia della città. Si è potuto riconoscere la piazza e quindi il foro, il teatro. Fuori del cinto murario sono stati riconosciuti l’anfiteatro, le necropoli ed i mausolei. Le informazioni, anche se frammentarie, ed il materiale epigrafico ci hanno dimostrato la presenza di edifici religiosi, pubblici, così pure i lavori di manutenzione sulle strade ci hanno permesso di conoscere meglio la storia di questa città vicinissima a Roma dove regnava il potere. Recentemente una collaborazione tra le università di Cambridge e Gand hanno dato risultati eccellenti, grazie a particolari ricerche ed ad un sondaggio magnetometrico sul luogo.
       La ricostruzione della città in 3D è l’esito finale di un’analisi basata sull’utilizzo del GPR, un tipo di radar che penetra in profondità, facendoci conoscere perfettamente ciò che si trova nel sottosuolo. All'interno delle mura sono riconoscibili terme con sale e vasche, portici, colonne, fontane pubbliche, cisterne, piscine termali, colture. Il caso di Falerii Novi offre una grande mole di lavoro e tempi lunghi per la sua completa conoscenza. Il progresso delle tecnica e queste nuove apparecchiature velocizzeranno, così, la storia dell'archeologia e quindi il suo futuro.
Emanuela Scarponi

17-02-2021

 


                                                                                                                  La bicicletta in Africa


Il mio primo pensiero è andato al film di Bernardo Bertolucci "Il the nel deserto" del 1990, che credo abbia dato il via all'idea di girare il Nord Africa in bicicletta:" nessuno potrà mai dimenticare l'immagine dei due protagonisti, Port e Ki, che si recano in bicicletta su un'altura limitrofa, e lì ritrovano l'armonia dello stare insieme".
Pensare, però, alla bicicletta in Africa appare a prima vista arduo. Ma di certo i tempi cambiano ed oggi vediamo gli immigrati africani che giungono in Italia fare prevalentemente uso di biciclette. Nel 2018 è stata infatti istituita la Giornata mondiale della bicicletta, che ricorre ogni 3 giugno. È stata approvata, in un Risoluzione del 12 aprile 2018, come giornata ufficiale delle Nazioni unite per la consapevolezza dei benefici sociali derivante dal suo uso.
La bicicletta viene, infatti, usata dagli Africani per trasportare merce (mattoni, pacchi, animali), essendo spesso l'unico mezzo di trasporto economico, di cui possono avvalersi, sena sostenere altre spese.
Ma chi va in bicicletta in Africa? Le strade asfaltate sono pochissime e spesso si snodano nel mezzo della savana: è riuscito nell'impresa Obes Grandini, un italiano, che ha scritto un libro sul suo difficile viaggio dal titolo:“Due ruote attraverso l’Africa”. In questo libro, racconta il passaggio attraverso il continente africano iniziato il 24 maggio del 2010 da Città del Capo in Sud Africa, attraversando Sud Africa, Zambia, Malawi, Tanzania, Burundi, Ruanda, Uganda, Sudan del Sud, Sudan ed Egitto, completando il rientro passando per Giordania, Siria, Turchia, Grecia, Albania, Montenegro, Croazia e Slovenia. Il 27 maggio 2011 ha appoggiato la bicicletta al muro di casa dopo circa 20450 km percorsi.
Ci sono a ben vedere una infinità di vantaggi nel percorrere le strade su una bicicletta, si apprezza meglio il paesaggio che non passa come un film dal finestrino, si é vicini alla popolazione locale (che usa la bicicletta spesso come principale mezzo di locomozione) si ha un impatto negativo inferiore sull’ambiente. Si può ricevere un passaggio in camion, in barca, in aereo senza grossi problemi. Di contro si può spesso essere troppo “vulnerabili all’ambiente esterno”, alcune tappe risultano impossibili da realizzare in un continente come quello africano, si ha una autonomia ridotta, il clima lo si sperimenta sulla propria pelle (polvere, sabbia, sale, sole..). Il problema principale è che spesso le distanze sono notevoli e se non si ha un mezzo d’appoggio non è pensabile percorrere cosi grandi spazi a meno di ricevere un passaggio. Queste limitazioni hanno rilegato le pedalate spesso in limitate aree (Marocco, Tunisia, Togo, Benin) dove l’autonomia e le distanze sono più alla portata dei ciclisti.
Ebbene, per una viaggiatrice come me sarebbe plausibile utilizzare i propri piedi per girovagare, senza sosta, per il mondo. Ma non avrei mai immaginato che potesse esistere qualcuno in grado di attraversare l'Africa con le due ruote come mezzo di trasporto. Per me l'impresa sarebbe impossibile, ma di certo può rappresentare un modo nuovo ed economico per viaggiare, con grande tranquillità e serenità interiore, alternandolo magari all'utilizzo del treno o degli autobus in un continente enorme come l'Africa. Specialmente in terre sconfinate e senza traffico viaggiare su due ruote è effettivamente una esperienza unica. E forse oggi con l'energia solare si può pensare di utilizzare la bicicletta con meno fatica.
Ho viaggiato in bicicletta per brevi tratti in Paesi del Nord Africa ed in Medio Oriente e funziona. Anzi, il clima è perfetto per le due ruote. La sensazione più bella è quella di sentire il rumore del vento del deserto, nel totale silenzio delle terre antiche africane. In questi panorami mozzafiato, come l'altura rinvenibile nel film il “The nel deserto” del Nord Africa pensare di percorrere le strade per lo più sterrate su due ruote significa imparare ad ascoltare l'essenza della vita, della natura, significa diventare parte della stessa natura ancestrale e silente dell'Africa, il vento tra i capelli, la sabbia che assume forme diverse sotto le ruote, i versi di piccoli esseri viventi nascosti sotto un ciuffo d'erba, silenti agli occhi dei più ma pur vitali. Laddove ci si accosta in punta di piedi a questi fenomeni, essi rendono assolutamente nuovo il tutto: è come entrare in un mondo sconosciuto con la lente di ingrandimento.
In Africa il rapporto uomo-ambiente è molto più forte che da noi in Europa. È questo che gli Europei cercano quando esplorano l'Africa. Ebbene, la possibilità di avvicinarsi in punta di piedi ed entrare negli anfiteatri naturali africani, dove micromondi s'incontrano in una pace senza tempo ed in un silenzio totalizzanti, fanno il viaggio di per sé, che acquisisce così di significato filosofico.
Questo è il momento a cui l'Uomo deve tendere quando viaggia perché la mente si apra alla bellezza ed all'armonia della vita naturale. Prende vita la dimensione più profonda del nostro essere, nascosta, che nella routine quotidiana purtroppo non percepiamo più.
Emanuela Scarponi 

 

 

15-04-2021                                                                                                           Il frottage e la civiltà Kmer in Cambogia

 

 

                                                                                                         

 

 

 

        Grandi produttori di riso ed abili scultori della pietra, gli artigiani cambogiani sono bravissimi nel produrre carta con il riso, tradizionalmente preparata mescolando amido, acqua e tapioca o farina di riso. Su di essa sono soliti imprimere con un gessetto nero i bassorilievi che raffigurano eventi bellici, vita di palazzo, miti e, in alcuni casi, anche la vita di tutti i giorni.
Negli anni Venti questa tecnica fu denominata frottage da Max Ernst che la riscoprì in maniera singolare ed ottenne il primo esempio di frottage appoggiando un foglio sul pavimento in legno del suo studio e ricalcandone le venature a matita. Ma prima di lui Leonardo da Vinci la riprese, osservando casualmente come un’impronta su una parete si poteva trasformare in immagine. Evidentemente pero già nell’antica Cina e nella Grecia classica si sperimentava questa tecnica, utilizzando carta di riso o pergamena per ricalcare i bassorilievi.
       I bassorilievi dei templi di Angkor, come quelli di Bayon, descrivono la vita quotidiana dell'antico regno Kmer, comprese scene di vita del palazzo, battaglie navali sul fiume o sui laghi e
scene comuni del mercato e costituiscono quindi un’enciclopedia e fonte indelebile della storia e della civiltà Kmer. I palazzi all’interno sono rimasti invariati nei secoli, protetti ed avvolti dalla natura verde imponente che si riprende il suo spazio radicando i suoi alberi secolari alla pietra, diventando una unica opera d’arte dell’uomo e della natura, ormai indissolubile.
In questo quadro le piccole donne cambogiane restano nascoste sotto i loro cappelli di paglia in silente posizione di preghiera per ore ed ore all'interno dei palazzi della città-stato di Angkor, offrendo in voto agli dei una candela accesa che crea giochi d’ombra e luci nell’oscurità delle stanze del tempio.
Emanuela Scarponi

 

 

 

 


 06-02-2021

                                                                                                                       Santa Maria extra moenia ed il suo Battistero ad Antrodoco

        Provenendo dalla Salaria, se si percorre la via parallela, che passa per il piccolo borgo sul Velino, dal nome appunto di Borgovelino, ci appare il maestoso complesso della chiesa di Santa Maria extra moenia ed il suo Battistero.
È situata al centro del grandioso prato con alle spalle la parte cimiteriale e le montagne dell’Appennino abruzzese con l’austero Monte Giano e Monte Nuria.
Sono evidenti i rifacimenti fatti nel passato.
       Edificata sembra nel V secolo, costituiva un punto di riferimento per i Cristiani della valle, guidati da Severo che presumibilmente fu il suo primo parroco, come ricorda Gregorio Magno nei suoi scritti.
Nella primitiva chiesa sono stati utilizzati materiali presi dagli edifici di epoca imperiale: colonne, capitelli, cornici di marmo, lastre sepolcrali; una seconda fase di lavori tra l’ottavo, il nono ed il decimo secolo, è riconoscibile grazie a frammenti scultorei, murati sia all’esterno che all’interno della chiesa. Risale invece al 1051 l’atto ufficiale della rinascita della medesima e si fa menzione della stessa in due bolle papali: l’una con Anastasio IV e la seconda col Papa Lucio Terzo. Nel frattempo, essendo costruita una nuova chiesa all’interno delle mura nell’abitato di Antrodoco, Santa Maria assume la denominazione di “extramoenia“ cioè fuori le mura per distinguerla dall’altra. La facciata è a capanna semplice, asimmetrica per la presenza del campanile; al centro di essa c’è un elegante portale proveniente forse da una chiesa aquilana, ornato di colonnine lisce e tortilì, in cima due sculture di animali ed un tralcio di uva con due uccelli che beccano gli acini.
        Al centro campeggia l’“agnus dei“ con una croce, vessillo di vittoria. Alzando gli occhi, vediamo il bel campanile con monofore centinate, bifore, trifore, con l’inserzione di mattoni rossi ed anche un eccellente affresco che ricorda la figura del Cristo “pantocrator“ sulla parete che dà sulla Via Salaria. L’abside, piccolo esempio di costruzione romanica, è ispirata ai modelli benedettini, ed è di forma semicircolare con tre monofore, ed una finestrella a forma di croce per l'illuminazione.
Le tre finestre vogliono richiamare i misteri fondamentali della fede cristiana: la Trinità e il mistero pasquale di Cristo  Nell’interno l’edificio è a tre navate; nella parte destra ci sono due porticine che facevano parte di un pulpito più ligneo che marmoreo mentre nella parte sinistra ci sono colonne sormontate da semplici blocchi di pietra.
        Gli affreschi sono molti ma ridotti in pessime condizioni: si notano figure di profeti, il Cristo giudice e salvatore, tondi con figure di pontefici e “velarium” decorato con animali e piante. Ci sono poi l’affresco con la Santa Vergine, quello di Santa Caterina d’Alessandria, quello di San Giovanni Battista, quello con il matrimonio mistico di Santa Caterina d’Alessandria, quello con il Cristo in gloria e molti altri, di cui alcuni databili. Accanto alla Chiesa si trova il Battistero, un edificio a pianta esagonale, collocato nella parte destra della medesima; molti studiosi hanno rilevato una particolare originalità, sia per la collocazione sia per la struttura, sia per i suoi affreschi.
Sono rari i battisteri a pianta esagonale. Ce ne sono alcuni nella zona Nord-centro-adriatica; forse anche questo proviene da modelli adriatici arrivati dalla Salaria fino ad Antrodoco.
Il Battistero antrodocano rappresenta una rarità e potrebbe risalire all’epoca paleocristiana: forse fondato dal presbitero Severo che divenne anche Papa, anche la sua porticina laterale, ben visibile all’interno, non ha neppure traccia all’esterno, quindi è difficile datare il tutto.  Il numero dei lati va rintracciato nei testi biblici: Dio creò il mondo e l’uomo in sei giorni, anche Sant’Agostino interpreta così i brani biblici e così via.
Questo edificio divenne in seguito un oratorio frequentato dalla Confraternita di San Giovanni Battista ed, entrando, si scopre che tutte le pareti erano ricoperte di affreschi.
        I più recenti restauri hanno ripristinato gran parte delle immagini, alcune databili alla prima metà del 400, altri nel 500 come La Fuga in Egitto, La Strage degli Innocenti, Il giudizio di Erode, Le storie del Battista, Il battesimo di Cristo, Il giudizio finale, Cristo giudice, San Michele, le rappresentazioni dell’Inferno e del Paradiso, San Giovanni Battista e la pietà, l’affresco dei Santi, Santa Caterina d’Alessandria, San Martino, Santa Lucia, Santa Apollonia e Santa Margherita, San Cristoforo, San Leonardo e San Giuliano, la crocifissione e la salita al Calvario; gli altri due attribuiti a Bartolomeo Torresani, importante pittore dell'epoca.
        Al “Maestro di Antrodoco“ l’anonimo artista del Trittico si deve l’opera più importante della decorazione ad affresco del Battistero, forse commissionata dalla Confraternita di San Giovanni Battista, pertanto egli merita di essere ricordato anche se a volte emerge la sua limitata capacità nella prospettiva e nelle proporzioni. Guardando entrambi gli edifici, si nota alla sinistra del portale della Chiesa una colonna sormontata da una sfera metallica con una lapide: esse ci ricordano che ci troviamo presso l”Umbilicus Italiae”, “Centro d’Italia”, titolo attribuito dai cartografi al paese nel passato.


Emanuela Scarponi


20-03-2021


                                                                                                                                   La Namibia e la sua flora
         La Namibia è unica e diversa da qualsiasi altra regione africana. I suoi ambienti e paesaggi sono estremi. Lungo la Skeleton Coast (Costa degli scheletri), famosa per gli mai rugginosi relitti di navi, unico approdo naturale è la Baia di Walvis, che ospita la più numerosa colonia di fenicotteri dell'Africa australe. Proprio a causa delle freddi correnti dell'Atlantico prosperano in grandissime quantità colonie di pinguini e di foche. I fenomeni climatici, assolutamente unici della Namibia, sono causati dalla corrente fredda del Benguela, proveniente dall'Antartide. Le dune mobili del deserto del Namib trasportate dal vento giungono fino al mare e creano paesaggi unici al mondo.
        La Namibia è il Paese più secco, situato a Sud del Sahara. La flora è caratterizzata da specie tipiche delle regioni aride africane. Tra le particolarità floristiche vi è il kokerboom, albero delle faretre, una specie di aloe che cresce soltanto nella Namibia meridionale. Il suo tronco può arrivare a 7 metri e presenta una superficie coperta da scaglie estremamente taglienti. I rami sono lisci e resi biancastri da una polvere prodotta dalla pianta, che ha lo scopo di proteggerli dal calore solare. I rami si biforcano ripetutamente, da cui il nome Aloidendron dichotomum, "diviso in due", e danno luogo ad una corona complessivamente tondeggiante. Le foglie, di colore verde e blu marino, si trovano alle estremità dei rami, e sono strette e appuntite. All'inizio dell'inverno, tra giugno e luglio, produce fiori di un colore giallo acceso.
          Nelle pianure ghiaiose, a Est della Skeleton Coast, cresce la bizzarra welwitschia mirabilis, una gimnosperma, a seme nudo, che si sviluppa lentamente a terra e vive più di 1000 anni. Friedric Martin Joseph Welwisch, medico e naturalista austriaco, scoprì la Welwitschia mirabilis vicino a Cabo negro in Angola il 3 settembre del 1859 e Charles Darwin la definì poi l’ornitorinco del regno vegetale.
            Gli Herero, come altri numerosi gruppi etnici africani, utilizzano numerose piante per il trattamento di un ampio spettro di malattie. Nei secoli infatti hanno imparato a conoscere le proprietà medicinali di erbe, piante e altri elementi.
Nonostante la scienza abbia fatto passi da giganti e le medicine occidentali siano facilmente reperibili sul territorio Herero, i guaritori tradizionali, gli stregoni e gli indovini continuano ad utilizzare la medicina tradizionale che ricopre un ruolo importante nella loro società. Una delle piante utilizzate dagli Herero è l’aloe, il cui nome scientifico è aloe littoralis.
            Di questa pianta si utilizzano le foglie, omazo in lingua herero, per curare alcuni problemi tra cui l’herpes labiale, il mal di stomaco e le infezioni del tratto urinario. Ci sono due modi per utilizzare le foglie: il primo prevede che le foglie vengono fatte essiccare al sole per alcuni giorni e poi ridotte in polvere. Queste vengono successivamente setacciate e riposte in un contenitore, pronte per essere utilizzate. Un modo alternativo di utilizzare l’aloe è quello di tagliare le foglie in pezzi, farle bollire fino a quando l’acqua non diventa acida. A quel punto, si rimuovono le foglie e si lascia raffreddare il liquido; una volta freddo tutto è pronto per l’utilizzo.
            Nel deserto del Kalahari è tipica la presenza dell'acacia: l'acacia mellifera si trova sia nelle secche ed aride aree dell’Africa ma anche nella penisola arabica.
           Essa cresce in forma di cespugli a forma di corona o in tronchi d’albero che arrivano fino a 7 metri di altezza o da uno solo, che può raggiungere l’altezza di 9 metri. In alcune aree dell’Africa è considerata una specie invasiva e non è molto amata. E' utilizzata come materiale per costruire i recinti, a difesa dei villaggi, e come materiale per realizzare le capanne. Il suo legno è molto utile per accnedere il fuoco. Le sue foglie contengono una alta percentuale di proteine e sono prezioso nutrimento per gli animali domestici allevati sia per gli animali selvatici della zona, specialmente nelle aree secche dell'Africa. I suoi fiori sono ricolmi di nettare per le api che producono il miele e contengono un’alta percentuale di proteine. Sono spesso mangiati dai kudu ma anche dagli elefanti, dai rinoceronti e dalle giraffe. Anche se le loro spine sono un po' pericolose e bisogna stare attenti a toccarle, con i rami delle acacie si costruiscono trappole per cacciare i “Grandi uccelli”, la specie dei più grandi uccelli al mondo in grado di volare che vivono indisturbati in Namibia.
Vi è poi l'”acacia erioloba”, una specie della famiglia delle mimosaceae diffuse in Sudafrica, Botzwana e Namibia, in passato famosa come acacia giraffae in uso già dal XVIIIesimo secolo, molto importante per la sopravvivenza degli uccelli ma anche dei nostri Boscimani.
        Ed ecco perché: i picchi producono dei buchi in questi alberi per fare i loro nidi Durante il periodo delle piogge, gli uccelli devono lasciare il nido che si riempie di acqua. Quindi i Boscimani si dissetano, infilando delle cannucce fatte, per esempio, di piuma di struzzo in queste riserve di acqua. Utilizzano anche le uova di struzzo come contenitori e ci mettono dentro l'acqua avanzata dai nidi che sotterrano sotto la sabbia per oltre tre mesi, senza ovviamente segnalarne la presenza.
In questi ultimi tempi si stanno ipotizzando progetti di coltivazione di aloe, che può essere utilizzata in diverse applicazioni e settori.
Emanuela Scarponi

 


24-01-2021                                                                                                                          Gonarezliou National Park, the elephant refuge in Zimbabwe 

 

           In Eland kingdom, about 150 kilometres from Mutare, near Chimanimani village, along the slopes of the Nyamzure hill (commonly called Pork Pie Hill, Hill of the Pie Pie), there is the Chimanimani Eland Sanctuary & Nyamzure, where many specimens of alkine antelope are used to live. Extraordinary powerful and majestic animal, the eland is the largest antelope in Africa: it has a light brown coat, can weigh up to 600 kilograms and 2 meters tall. The park, 8 square kilometres large, is also inhabited by jumping antelopes, duikers, swamp cobe, zebras and baboons and is also a paradise for botanists, with giant ferns, orchids and six varieties of proteins.
Gonarezliou National Park is the elephant refuge.
           The name means "elephant refuge", because more than 7,000 pachyderms lived in the 5,000 square kilometres Gonarezliou National Park, covered by trees and savannah. The connection with the etymology may not be so evident. Starting from the 70s, in fact, the delicate and precious ecosystem of the park was tested and largely compromised by the reckless action of unscrupulous people: by the Mozambican guerrillas, for example, who used it as a source of fresh meat supply, or by the groups of poachers, looking for ivory, the white gold paid at a very high price.
           Between 1990 and 1994, a terrible drought swept the country: a lot of Loxodonta Africana - whose this area was so populated that Harare government did not subscribe the international ivory bloc- died of thirst and destroyed the few areas with water and food. It was only with Ele-evacuation - operation availed of a loan of $ 20,000, the surviving specimens could be saved: the 750 surviving elephants were asleep and transferred to protected areas (essentially converted farms to wild conditions).The park was then reopened in the late 1990s and the elephants today are among the largest number in Africa.

Emanuela Scarponi

 

 

 


Traduzione

Nel regno degli Eland

A circa 150 chilometri da Mutare, nelle immediate vicinanze del paesino di Chimanimani, lungo i versanti dell'altura Nyamzure (chiamata comunemente Pork Pie Hill, Collina del Pasticcio di Maiale), si apre il Chimanimani Eland Sanc tuary & Nyamzure, dove vivono numerosi esemplari di antilope alcina. Straordinario animale, possente e maestoso, l'eland è l'antilope più grande di tutta l'Africa: ha il mantello marrone chiaro, può raggiungere i 600 chilogrammi di peso e i 2 metri di altezza. Il parco, che si estende per 18 chilometri quadrati, è abitato inoltre da antilopi saltatrici, duiker, cobi di palude, zebre e babbuini e costituisce un paradiso anche per i botanici, con felci giganti, orchidee e sei varietà di protee.
Il Gonarezliou National Park è il rifugio degli elefanti. Il suo nome significa “rifugio degli elefanti”, perché nei 5.000 chilometri quadrati di alberi e savana del Gonarezliou National Park vivevano fino alla metà del secolo scorso più di 7000 pachidermi. A dire il vero, però, a leggere la sua storia negli ultimi decenni, il collegamento con l'etimologia può non risultare così evidente. A cominciare dagli anni 70, infatti, il delicato e prezioso ecosistema del parco venne messo alla prova ed in gran parte compromesso dall'agire sconsiderato di gente senza scrupoli: dai guerriglieri mozambicani, ad esempio, che lo utilizzarono come fonte di approvvigionamento di carne fresca, o dai gruppi di bracconieri affamati di avorio, l'oro bianco tanto ricercato e pagato ad un prezzo salatissimo. A questo si aggiunse, tra il 1990 e il 1994, una terribile siccità in tutto il paese: i Loxodonta Africana, questo è il nome della razza che contava nel paese numerosissimi esemplari talmente numerosi che il governo di Harare non reputò necessario aderire al blocco internazionale dell'avorio - in gran parte morirono di sete e distrussero le poche aree che offrivano acqua e cibo. Fu solo con quella che venne definita l'operazione Eieevacuazione, avvalsasi di un finanziamento di 20.000 dollari, che gli esemplari superstiti poterono essere salvati: i 750 elefanti sopravvissuti vennero addormentati e trasferiti in aree protette (essenzialmente fattorie riconvertite a condizioni di natura selvaggia). Il parco venne poi riaperto alla fine degli anni Novanta e gli elefanti che oggi lo abitano sono fra i più grandi dell'Africa.