13-08-2020


                                                                                                                           L'Umbria ed i tesori nascosti in Acquasparta

 


          Lontana dal mare, nel cuore della penisola, l’Umbria sembra raccogliersi intorno ai suoi verdi colli. Prese il nome dai suoi antichi abitanti: gli Umbri.
Pellegrini di tutto il mondo vengono a visitarla per le sue colline, per i suoi borghi, per la sua arte, per le sue chiese: dappertutto si respira un messaggio di amore, un invito alla pace. Tra questi borghi ricordiamo “Acquasparta“ ubicata in un paesaggio verdeggiante, con colli, campi coltivati a vigneti ed uliveti un po' dappertutto. I girasoli tutti intorno ci guardano rendendo il paesaggio quasi unico al mondo. Questo nome «Acquasparta» proviene dal fatto di essere un piccolo centro circondato dalle acque in ogni sua parte.
C'è la fonte dell'Amerino, che ricorda il passaggio di San Francesco, visibile all'entrata, la fonte di Furapane, la fonte di San Faustino ed infine quella di Sangemini, tutte acque conosciute ed apprezzate, grazie ai minerali che contengono e alle loro capacità curative.
Nella chiesa di Acquasparta, esattamente «San Francesco» c’è una tela che merita veramente di essere descritta, non solo per la sua bellezza, ma soprattutto per il suo valore storico ed artistico.
          La Chiesa, posta fuori le mura, fu fatta costruire nel 1294 dal cardinale Matteo Bentivegna, Padre Generale dei Padri Francescani Conventuali. Quando essi furono cacciati dall’occupazione napoleonica, la chiesa ebbe un periodo piuttosto travagliato ma, in seguito ai lavori voluti dagli abitanti, la chiesa è stata restaurata ed è tornata ad essere visitabile.
Nel 1882 al di sopra dell’altare fu collocata una statua lignea della Madonna della Stella, per cui essa fu chiamata già da allora “Chiesa della Madonna della Stella.
Ma l’opera pregevole, per fattura e per contenuto spirituale, è sicuramente la tavola francescana, copia della Pala Bardi, che si trova all’interno della cappella dei Bardi nella chiesa di santa Croce a Firenze.
Per alcuni studiosi, l’autore di questa pala sembra ignoto e la datazione sembra risalire agli anni che vanno tra il 1243 ed il 1257; essa è basata sulla «Vita Prima» di Tommaso da Celano, per la canonizzazione di San Francesco. La Pala Bardi, dopo svariate interpretazioni da parte di storici e studiosi dell’arte, si può considerare un modello e fu copiata con grande bravura nelle due tele conservate, una a Collevaldelsa ed un’altra proprio qui ad Acquasparta.
La tela della chiesa della Madonna della Stella o di San Francesco, come si può chiamare, si può considerare dai critici «copia perfetta».
L’unica parte mancante è quella inferiore, cioè in fondo, perché nell’originale erano compresi quattro episodi della vita del Santo di Assisi.
          La mancanza di documenti diretti sulla Chiesa e sul convento non ci permettono di conoscere la data di questa copia, ne capire bene quale fosse l’autore e il perché di questa parte mancante.
Secondo autorevoli osservatori, la tela di Acquasparta dovrebbe risalire ai primi anni del XVII secolo ed aveva lo scopo di proporre ai religiosi del convento e al popolo di Acquasparta la figura e gli insegnamenti di vita offerti dal poverello di Assisi. Eloquenti sono le parole scritte sul cartiglio: “Hunc exaudite perhibenthem dogmata vitae“.
          I quadri di codesta Pala sono tutti episodi della vita del Santo di Assisi, che il Celano precedentemente lo paragonò agli apostoli, dicendo: «La provvidenza di Dio mandò nel mondo quest’uomo perché fosse testimone della Verità a tutti gli uomini!».
In questa pala meravigliosa si nota: Francesco liberato dalla prigionia paterna, La rinuncia dei beni, La scelta dell’abito, L’ascolto del Vangelo, L’approvazione della regola, Il Natale di Greccio, La predicazione agli uccelli, L’esempio, Le stimmate, La cura del lebbrosi, La morte di San Francesco, I miracoli alla tomba, La sua canonizzazione, Lo scampato naufragio, Il ringraziamento dei marinai, La guarigione del paralitico Bartolomeo.
Anche se in questa tela di Acquasparta mancano alcuni episodi non cambia e non diminuisce la bellezza della medesima e tantomeno la ricchezza del messaggio.

Emanuela Scarponi



30-07-2020


                                                                                                                                                        Cecil Rhodes

     Cecil Rhodes, son of an Anglican pastor, was born on July 5th, 1853 in Hertfordshire. He arrived for the first time to Natal in 1870, hosted by his brother, owner of a cotton plantation, to treat a lung disease that afflicted him all his life. After a few months he moved to Kimberley, where a real “gold and diamond fever” attracted adventurers from all over the world. Here he demonstrated all his ability as a businessman: he bought mining concessions and made huge profits, so much so that he could afford to finance the railway between Cape Town and Kimberley, facilitating connections between the capital of diamonds and the rest of the British colony. Rhodes was only 23 at the time, but he was already very rich. In the following years, heedless of scandals and gossips, he continued in his successes. With the support of the Rothschilds he managed to defeat all rivals in controlling the diamond shafts and ended up clashing with the rival group of Barney Barnato. It was a fierce struggle, which ended with Rhodes' victory: with a check of 5 million pounds, Rhodes bought the Kimberley mine in Barnato and by merging the two companies - we are in 1883 - he created the De Beers Consolitated Mines, a powerful and active company still today, guided, after Rhodes, by Ernest Oppenheimer and his son Harry. At the age of 35, Rhodes possessed a huge capital: he controlled 90% of the diamonds of the world and a share of the gold thread discovered in the Witwatersrand, near Johannesburg. But diamonds and gold were no longer enough: he wanted a personal empire. In 1889 he founded BSAC, the British South Africa Company, obtained the mining concession in Zimbabwe and financed the railway that reached Bulawayo: above all he paved the way for British troops for the integration of Anglo-Saxon possessions from North to South of the continent and financed the wars against the Boers, thus deleting an whole generation of Afrikaners. With the support of some unscrupulous gentlemen like him, Cecil Rhodes managed to put Beachuanaland, in Botswana, under British control and to persuade Lobenguela, lord of Matabeleland and Mashona territory, the heart of Zimbabwe, to subscribe an agreement with him, the authorization to "dig a well", but, in reality, it was a matter of conferring the mining concession on the whole territory of the kingdom in exchange for a thousand rifles, ten thousand cartridges, a run-down steamship and a hundred pounds monthly salary, until Lobenguela's death. In seven years, Rhodes and his allies occupied all Lobenguela lands, who contracted smallpox and died a year after treaty. Becoming prime minister of the Cape Colony in 1890, Cecil quickly realized his dreams: the British Crown entrusted him with a special mandate that land which then, five years later, in his honour, will be called Rhodesia and included the actual Zambia and Zimbabwe.

      A few years later, however, the setting changed. Rhodes, in late 1895, secretly financed the expedition of one of his men, Starr Jameson, to the Witwatersrand, with the intent to provoke a revolt among the foreigners who worked in the gold mines and to remove this rich area from the possession of the Boer Republic of Transvaal, led by Paul Kruger, his historic enemy. But the attempt failed and the truth got out and Rhodes was forced to resign from prime minister. Rhodes died on March 26th, 1902. He left most of his possessions to the Rhodes Scholarship, a foundation that still today deals with the study of young fellows from all Commonwealth countries at the University of Oxford. By his express will, he was buried on the hills of Matopo, not far from the tomb of King Mzilikazi, Lobenguela father. There are also traces of Rhodes in South Africa: his office in Kimberley, the imposing mausoleum dedicated to him in Cape Town; and also in Zimbabwe: the Rhodes Museum and the Rainbow Nyanga Lodge.
Emanuela Scarponi

traduzione

Cecil Rhodes, figlio di un pastore anglicano, nacque il 5 luglio 1853 nell'Hertfordshire. Arrivò per la prima volta nel Natal nel 1870, ospite dal fratello, proprietario di una piantagione di cotone, per curare una malattia polmonare che lo afflisse tutta la vita. Dopo alcuni mesi si spostò nel Kimberley, dove una vera e propria febbre dell'oro e dei diamanti aveva attirato avventurieri da ogni parte del mondo. Qui dimostrò tutta la sua abilità di uomo d'affari: comprò concessioni minerarie e realizzò ingenti guadagni, tanto che potè permettersi di finanziare la ferrovia tra Città del Capo e Kimberley, agevolando i collegamenti tra la capitale dei diamanti ed il resto della colonia britannica. Rhodes aveva solo 23 anni a quell'epoca, ma era già ricchissimo.
Negli anni successivi, incurante di scandali e chiacchiere, continuò nei suoi successi. Con l'appoggio dei Rothschild riuscì a sbaragliare tutti i rivali nel controllo dei pozzi diamantiferi e finì per scontrarsi con il gruppo rivale di Barney Barnato. Fu una lotta feroce, che si concluse con la vittoria di Rhodes: con un assegno di 5 milioni di sterline, Rhodes comprò la miniera di Kimberley di Barnato e fondendo le due società siamo nel 1883 creò la De Beers Consolitated Mi nes, società ancora oggi potente ed attiva, alla cui guida, dopo Rhodes, vi furono prima Ernest Op penheimer e poi suo figlio Harry.
A soli 35 anni, Rhodes possedeva un capitale enorme: basti pensare che controllava il 90% dei diamanti di tutto il mondo ed una quota del filone d'oro scoperto nel Witwatersrand, nei pressi di Johannesburg. Ma i diamanti e l'oro non gli bastavano più: voleva un impero personale. Nel 1889 fondò la B.S.A.C., la British South Africa Company, ottenne la concessione mineraria nello Zimbabwe e finanziò la ferrovia che raggiungeva Bulawayo: soprattutto aprì la strada alle truppe inglesi per l'unificazione dei possedimenti anglosassoni dal nord al sud del continente e finanziò le guerre contro i Boeri, cancellando così un'intera generazione di afrikander.
Con l'appoggio di alcuni gentiluomini privi di scrupoli quanto lui, Cecil Rhodes riuscì poi a mettere sotto il controllo britannico il Beachuanaland, in Botswana, ed a convincere Lobenguela, signore del Matabeleland e del Mashona land, le due aree che rappresentano il cuore dell'attuale Zimbabwe, a sottoscrivere un accordo con lui.
Nell'accordo si parlava dell'autorizzazione a “scavare un pozzo”, ma, in realtà, si trattava del conferimento della concessione mineraria su tutto il territorio del regno in cambio di mille fucili, diecimila cartucce, un malandato battello a vapore ed una rendita di cento sterline al mese, da quel momento fino alla morte di Lobenguela. Il risultato fu che nell'arco di sette anni, Rhodes e i suoi alleati, riuscirono ad occupare tutti i possedimenti di Lobenguela, che per altro morì prematuramente di vaiolo un anno dopo aver firmato quel trattato.
Divenuto primo ministro della Colonia del Capo, nel 1890, Cecil riuscì in breve tempo a realizzare i suoi sogni: la Corona britannica gli affidò con un mandato speciale quella terra che poi, cinque anni più tardi, in suo onore, prenderà il nome di Rhodesia e che comprendeva gli attuali Zambia e Zimbabwe.
Alcuni anni dopo, però, lo scenario cambiò. Rhodes, verso la fine del 1895, finanziò di nascosto la spedizione di un suo uomo, Starr Jameson, nel Witwatersrand, con l'intento di provocare una rivolta tra gli stranieri che lavoravano nelle miniere d'oro e sottrarre questa ricca zona al possesso della Repubblica Boera del Transvaal, guidata da Paul Kruger, suo storico nemico. Ma il tentativo fallì e la verità venne a galla e Rhodes fu costretto a dimettersi dalla carica di primo ministro.
Rhodes morì il 26 marzo del 1902. Lasciò gran parte dei suoi beni alla Rhodes Scholarship, fondazione che ancora oggi si occupa di far studiare i giovani borsisti provenienti da tutti i Paesi del Commonwealth all'università di Oxford. Per suo espresso volere venne sepolto sulle colline di Ma topo, non lontano dalla tomba del re Mzilikazi, padre di Lobenguela.
Tracce di Rhodes ci sono anche in Sudafrica: il suo ufficio a Kimberley, l'imponente mausoleo a lui dedicato a Città del Capo; ed anche in Zimbabwe: il Rhodes Museum ed il Rainbow Nyanga Lodge.



03-06-2020

 

                                                                                                                                          The population: yesterday and today in Zimbabwe

      The first human settlements in this area date back to the Stone Age, 30,000 years before Christ: groups who lived in caves and shelters and who used rudimentary tools made of small stones to hunt. Also here, as in the rest of Southern Africa, the San, the Bushmen appeared, who lived by hunting, and to which the numerous cave paintings are attributed, and, immediately after, the Khoi Khoi, the Hottentots, who instead of hunting began raising livestock and producing pottery, giving itself a tribal organization. At the beginning of the Iron Age (2,300 BC) the Bantu ("man" in their language) came from the North; some of them, those belonging to the Gokomere culture, settled permanently in the savannahs and on the highlands of Zimbabwe, working the iron and cultivating the fields. Gradually, the San and the other peoples emigrated westward: part of them were enslaved, others were slowly assimilated by the Bantu society, an important ethnic group in the following centuries. Today, most of Zimbabwe's population belongs to ethnic groups of Bantu origin. 76% are Shona - divided into Ndau, Rozwi, Korekore, Ka ranga, Manyika and Zezuru in two thirds of the country, in the eastern regions, while 18% are Ndebele and live in the southwestern part. 2% is Batonga and lives in the area around Kariba Lake. The rest of the Shangaan and Venda ethnic groups are settled in Lower Veld and in the south side.
Overall, Zimbabwe is a country of young people: almost half of the population is under 13 years old and only 2.7% are over 63 years old.
Harare is the capital and is situated between jacarandas and skyscrapers: Harare literally means "place where crickets sing", but there are other names, equally evocative, such as "city of the shining sun" and "garden city". Harare, the capital of the country, is located in the heart of Mashonoland, a fruitful and rich land, between 1,200 and 1,500 meters high from the sea.
With excellent climate, it is completely surrounded by large parks and avenues of periwinkle jacarandas. Economic, social and political centre of the country, the population is about 2 millions.
European is the style in Harare: colonial buildings and skyscrapers built in the last decades. The most exclusive residential districts, surrounded by green parks, with large manor houses surrounded by high walls and guarded by armed guards, are situated in the North and East side. Further away, to the West and South sides, there are the industrial areas and neighbourhoods inhabited by blacks, including Mbare, a sort of Zimbabwean township.
Great Zimbabwe is famous for the stone giants: the name should come from the expression dzirriba dza mabwe, which means "large stone houses". Great Zimbabwe, 700 hectares large at 1,213 meters from the sea, is surrounded by rounded shaped granite hills with stone giants that provided the material to build it, the capital of the richest and most powerful kingdom in Black Africa in the past. Today the city, declared a UNESCO World Heritage Site, with its precious megalithic remains, represents the most authentic symbol of Zimbabwe's national identity and its centuries-old history.
      Accompanied by the scent of flowering jacarandas and the rhythmic beating of drums, we crossed the gates of the archaeological area of the mysterious and incredible great centuries-old civilization of Zimbabwe. During its heyday, Great Zimbabwe, the wonderful capital of the Shona kingdom, was inhabited by about 40,000 people and stretched from Zimbabwe to Mozambique, Botswana and South Africa.

Emanuela Scarponi


La popolazione: chi c'era e chi c'è

I primi insediamenti umani in quest'area risalgono all'Età della Pietra, 30.000 anni avanti Cristo: gruppi che vivevano in grotte e rifugi e che per cacciare usavano strumenti rudimentali fatti di piccole pietre. Anche qui, come nel resto dell'Africa Australe, comparvero i San, i Boscimani, che vivevano di caccia, ed a cui si attribuiscono i numerosi dipinti rupestri, e, subito dopo, i KhoiKhoi, gli Ottentotti, che invece di cacciare iniziarono ad allevare il bestiame e produrre vasellame, dandosi un'organizzazione tribale.
All'inizio dell'Età del Ferro (2.300 a.C.) da Nord giunsero i Bantu (“uomo” nella loro lingua); alcuni di loro, quelli appartenenti alla cultura Gokomere, si stanziarono stabilmente nelle savane e sugli altipiani dello Zimbabwe, lavorando il ferro e coltivando i campi. A poco a poco, i San e gli altri popoli emigrarono verso ovest: parte di loro furono fatti schiavi, altri vennero lentamente assimilati dalla società bantu, destinata a conoscere un importante sviluppo etnico nei secoli successivi.
Oggi, la maggior parte della popolazione dello Zimbabwe appartiene a gruppi etnici di origine Bantu. Il 76% sono Shona - suddivisi in Ndau, Rozwi, Korekore, Ka ranga, Manyika e Zezuru stanziati sui due terzi del Paese, nelle regioni orientali, mentre il 18% sono Ndebele e abitano nella parte sudoccidentale.
Il 2% è Batonga e vive nella zona attorno al Lago Kariba. Gli altri dell'etnia Shangaan e Venda sono insediati nel basso Veld e nell'estremo sud.
Complessivamente lo Zimbabwe è un Paese di giovani: quasi la metà della popolazione ha meno di 13 anni e solo il 2,7% ha più di 63 anni.
La capitale è Harare ed è ricca di jacarande e grattacieli. Harare letteralmente significa “luogo dove cantano i grilli”, ma c'è anche chi a questa splendida città ha dato altri appellativi, altrettanto evocativi, come “città del sole splendente” e “città giardino”. Non a caso, Harare, la splendida capitale del Paese, si trova nel cuore del Mashonoland, una terra fertile e ricca, ad un'altitudine compresa fra 1.200 e i 1.500 metri. È completamente immersa nella natura, circondata da grandi parchi e viali di jacarande color pervinca e gode di un ottimo clima. Centro economico, sociale e politico del Paese, ha una popolazione di circa 2 milioni di abitanti.
L'impronta europea è visibile nel centro, sia nei palazzi coloniali, sia nei grattacieli sorti negli ultimi decenni. A nord e a est si trovano i quartieri residenziali più esclusivi, immersi nel verde, dove grandi ville padronali sono cinte da alte mura e presidiate da guardie armate. Più lontano, a ovest e a sud, le zone industriali e i quartieri abitati dai neri, fra cui Mbare, una sorta di township zimbabwana.
Great Zimbabwe è famoso per i colossi di pietra. Il nome dovrebbe derivare dall'espressione dzirriba dza mabwe, che significa “grandi case di pietra”. Great Zimbabwe, adagiata per oltre 700 ettari a 1.213 metri di altitudine, è circondata da colline di granito dalle forme arrotondate, giganti di pietra che hanno fornito il materiale per la sua costruzione, un tempo capitale del regno più ricco e potente dell'Africa Nera.
Oggi la città, dichiarata dall'Unesco Patrimonio dell'umanità, con i suoi preziosi resti megalitici, resta il simbolo più autentico dell'identità nazionale dello Zimbabwe e della sua secolare storia. Accompagnati dal profumo delle jacarande fiorite e dal battere ritmico dei tamburi, varcati i cancelli che immettono nell'area archeologica, entriamo nella storia misteriosa e fantastica di una civiltà secolare.
Nel periodo della sua massima potenza, Great Zimbabwe, la splendida capitale del regno degli Shona, era abitata da circa 40.000 persone e si estendeva dallo Zimbabwe fino al Mozambico, al Botswana ed al Sudafrica.


 24-07-2020

                                                                                                                                                         Sulle invasioni in Africa

         Parlare oggi di Africa è diventato un fatto quasi comune e coloro che ne sanno attrarre l'attenzione per circa due ore rimangono in pochi.
Non sono delle parole severe ma solo delle considerazioni e spunti che ho avuto modo di conoscere con l'illustrazione di un'ampia carrellata di immagini che presentano l'Africa come un illustre sconosciuto nell'esposizione del professor Stelio Venceslai che ha concluso la lezione recentemente poco prima della sera, il giorno 24 maggio scorso.
Le lotte di sterminio di razze hanno sempre caratterizzato il continente a noi più vicino: le cifre sono impressionanti come ad esempio 2.500.000 di watussi trucidati. Per noi Europei, l'Africa appare sempre misteriosa su di un territorio di 30.000.000 di chilometri quadrati al passaggio di quattro meridiani, solcato da centinaia di popolazioni, un migliaio di lingue, 300 chilometri. di mare dall'isola della Sicilia.
Un gigante poco conosciuto che vede tante invasioni fin dal 4.000 a.C. La storia dell'Africa è fatta di primi insediamenti a Nord, lungo il Mediterraneo: i Fenici, i Punici ed i Romani che arrivarono nell'attuale Marocco.
Testimonianza dell'invasione romana è presente dalla Numidia fino a Khartoum.
Scipione l'africano fu il difensore della zona del deserto del Sahel e sfortunatamente venne catturato da una nave pirata cristiana; riuscì a sfuggire e fu fatto di nuovo prigioniero e venduto al Papa che invece lo liberò a patto che continuasse a viaggiare.
Gli Arabi conquistarono l'Egitto e a loro volta vennero cacciati nell'Africa settentrionale. Si imposero con il controllo delle spezie provenienti dalle Indie che vennero impiegate per la conservazione delle carni.
I Portoghesi irruppero in Sudan, in Etiopia, in Tanzania e nel Gabon, toccando il Capo di Buona Speranza e raggiunsero l'Olanda. Gli olandesi si stabilirono con il percorso inverso a Città del Capo e la lingua parlata divenne l'africans mista di elementi francesi inglesi ed olandesi.
         L'Africa venne attaccata dai Boeri e subì le penetrazioni francesi in Marocco, Tunisia e Algeria. Le popolazioni indigene vennero deportate  e vendute come schiavi. La schiavitù divenne un triste esempio di ricchezza.
Con l'avvento della Rivoluzione francese e le leggi per le guerre di secessione americane le cose si modificarono anche se gli Africani hanno descritto le loro sofferenze patite nell'isola di Haiti. Gli africani con i loro canti gospel diffusero il ritmo della musica jazz in America del Nord e nell'America del Sud hanno dato luogo a figure religiose miste. Portoghesi e Francesi popolarono il Madagascar. In Etiopia arrivarono gli Italiani.
La conferenza di Berlino stabilì la composizione dell'Africa da parte delle potenze europee. Le risorse dell'Africa del tempo corrispondevano al controllo delle piantagioni di caffè e di cacao.
Dal 1922 la Libia assiste a presenze italiane e da quella data numerosi Etiopi guardano alla Svezia. Durante la Seconda Guerra Mondiale gli Italiani occupano la Somalia. Arriva a passi scanditi il processo di decolonizzazione dal 1959 al 1965, dando l'indipendenza a più territori. L'Africa multirazziale contraddistinta da diverse religioni a tutt'oggi rappresenta una grande risorsa di persone e di terre ricche di minerali preziosi, teatro di forti tensioni ma anche tentativi di dialoghi conciliativi.

Emanuela Scarponi


 23-05-2020


                                                                                                                    Buccio di Ranallo: il Castaldato di Antrodoco e l'alleanza con l'Aquila
                                                                                                                                                               A.D. 1228 - 137  Centro d’Italia

      L'Aquila, Amatrice, Antrodoco e Rieti sono nel mezzo della penisola italiana, dal punto di vista geografico. Con un lungo passato archeologico alle spalle in corso di studi lungo al Salaria, era luogo abitato sin dall'epoca romana. Decaduto l’Impero romano d’Occidente, le città si spopolano a causa delle invasioni dei Longobardi e vengono costruiti castelli all’interno dei quali vivere protetti.
Nel Medio Evo questi centri situati sugli Appennini vissero quindi un periodo di grande tranquillità con la costruzione di grandi castelli, a difesa dei nemici, di cui vi sono tante testimonianze ancora oggi intorno a l'Aquila, facilmente visibili dall'antica strada Cecilia romana che si snoda verso Sud fino a Pescara.
Il Medio Evo è considerato un periodo difficile per la grande povertà, la fame e le carestie. Ma non è solamente così. Esso rappresenta un'epoca di passaggio, che ha lasciato molto a noi e dal quale dobbiamo tanto ancora imparare, compresa la lingua italiana che è nata proprio agli inizi del Medioevo.
        Il Castello dell'Aquila era una rocca abbastanza grande, che prevedeva anche l'abitazione della castellana, esso era imprendibile per la sua posizione strategica rispetto alle vie di comunicazione allora in uso, ma anche per il fatto di stare sulla cima di una collina, che scendeva a picco sul fiume da una parte e sulla terra ferma dall'altra.
Ma lasciamo parlare Buccio di Ranallo in persona, poeta e scrittore italiano in lingua volgare, per alcuni anche giullare, conosciuto principalmente come precursore del filone letterario delle cronache aquilane, che ebbe un notevole seguito grazie a una folta schiera di suoi epigoni e imitatori: “Sono nato nel Medioevo, nel XIII secolo, Anno domini 1294 o 1295, non si è mai scoperto. Non è che ci fossero le banche-dati o qualcuno che segnasse qualcosa; il parroco, quando battezzava, lo scriveva su un libro e se eri fortunato questo documento passava i secoli, altrimenti andava disperso nel primo incendio, nel primo saccheggio o semplicemente venduto come carta da macero.
        Sono morto intorno al 1362 di peste; anche Antrodoco subì tantissime vittime durante la grande peste, il grande morbo del 1362.
Sono stato un soldato. Ho combattuto contro Amatrice nel 1318 e contro Rieti nel 1320. I Reatini, infatti, avevano preso una campana di palazzo, l'hanno portata a Rieti e l'hanno chiamata Aquilanella. Siamo arrivati ed abbiamo distrutto Rieti fino alle fondamenta, abbiamo riportato la campana a L'Aquila e da quel momento suona sul palazzo e la chiamiamo Reatinella.
Non che non fossimo una grande armata, all'epoca L'Aquila - di cui porto i simboli - L'Aquila bianca in campo rosso, L'Aquila di Federico, L'Aquila degli Svevi - aveva una grossa armata e riuscì a mettere in campo almeno 6.000 stadi, che per l'epoca era qualcosa d'importante. C'era il richiamo dei quattro quarti, perché anche noi eravamo divisi in quattro quarti. I quarti de L'Aquila, legati in parte con i locali degli antichi castelli - la leggenda vuole fossero 99 - vennero suddivisi nel 1276, e sono ancora oggi il San Giorgio o Santa Giusta, Santa Maria, San Pietro e San Giovanni d'Amiterno o anche San Marciano.
Santa Maria Paganica e San Pietro, il mio quarto, adesso si chiama San Pietro di Pontida, all'epoca era Popletum, dal nome dei pioppi che circondavano il paese., Era una vecchia fortificazione, che era sorta sul fiume Averno e aveva partecipato, insieme a Pagano, a San Giovanni e a San Giorgio, alla fondazione della città de L'Aquila. Lo stesso che fece di Antrodoco un pezzo della provincia di Rieti, togliendola a quella che era la provincia madre.
       Non sono molto importante nella storia medievale, lo sono nella storia locale de L'Aquila, di Amatrice, di Rieti e di Antrodoco, perché tutte le volte che abbiamo marciato contro i miei cari amici abbiamo avuto una rocca, un paese, ancorché piccolo, che ci ha fatto un sacco di danni. Ogni volta che ci siamo scontrati con le milizie antrodocane, siamo stati costretti e per settimane assediati. Non so perché diavolo ci avete dato tutto questo fastidio, però ce l'avete dato e questo ha portato a due cose: un grande rispetto fra Aquilani ed Antrodocani, perché se passi anni a scannarti, alla fine ti rispetti ed una certa forma di odio e amore civico ancora oggi si prova.
Nel 1424, il principe di Capua, difensore del Regno di Napoli assegnava a L'Aquila, il titolo di migliori mercenari del regno che combattevano intorno alle mura amatriciane e urlavano:"Amatriciani: gavazzaturi e ladri, mangioni e ladri”.
Gli Antrodocani, sempre con rispetto parlando, stanno sempre in mezzo. La nostra è una grande città. Dobbiamo ricordarci perché ad un certo punto in questa piana c'è stata questa unione. Perché è nato tutto questo? Solo la coscienza della storia ce lo può dire.
Per dire basta, bisognava trovare un nuovo potente appoggio politico su cui far leva. Il XII secolo è l'epoca del contrasto forte tra impero e papato; ognuno rivendica territori, potere di scelta dei vescovi, che sono anche amministratori pubblici e nel caso dell'impero, persino dei papi.
       Se dunque c'è il desiderio di svincolarsi dal potere imperiale, rappresentato dagli Svevi, che nel frattempo hanno soppiantato i Normanni nel Regno delle due Sicilie, bisogna quindi rivolgersi al Pontefice. C'è anche un aggancio giuridico che risale ad un paio di secoli avanti: il 13 febbraio 962, infatti, Ottone I, da poco incoronato imperatore del Sacro Romano Impero, che secondo gli storici ha fatto rinascere l'impero in Europa dopo la scomparsa dell'Impero carolingio, sottoscrive il cosiddetto privilegium othonis, che è un atto con il quale l'imperatore conferma al Papa tutte le proprietà che sono state concesse ai Franchi.
In cambio però Ottone stabilisce che il Papa non può venire eletto senza il consenso dell'imperatore.
Le terre aquilane dunque, per antico editto, ricadono sotto la tutela del vescovo di Roma. Nel 1829, sul soglio di Pietro, siede Papa Gregorio IX. Non si sa che cosa sia stato scritto di preciso, poiché la lettera che arriva a Papa Gregorio IX non è mai stata né travagliata né pervenuta. Si conosce al contrario la risposta del Papa, anzi le due risposte che portano le date del 27 luglio e del 7 settembre 1229.
Leggendo queste due missive si capisce perché la popolazione delle valli delle montagne aquilane chiedono di essere liberate dal gioco feudale, che in questo momento storico ha voce, volto, autorità e arma degli Svevi. Si parla di angherie, impiccagioni, torture, persino di riduzione in servitù. Uomini e donne subiscono la rapina dei beni. A chi produce serve sempre di più produrre, mentre al contrario chi se ne appropria con forza ottiene ricchezza ulteriore, una ricchezza che viene spesa in maniera vergognosa sulle spalle di una popolazione sempre più impoverita. Ma il passaggio più interessante è quello con cui il Papa fa riferimento alle richieste di entrare a far parte delle maglie della Chiesa e di autorizzare la fondazione di una località chiamata Aquila. Il tutto in cambio di una grossa somma di denaro a favore del Vescovo di Roma.
      A ben leggere quei documenti è chiaro, sin dall'inizio del XIII secolo, la volontà degli Aquilani di liberarsi della feudalità ed assumere un'iniziativa autonoma, che possa garantire quindi la massima libertà possibile, sempre tenuto conto del contesto politico e militare. Ed è per questo che L'Aquila, nel XIII secolo e in quelli successivi, convincerà i feudatari dell'epoca, il Papa, gli Svevi, gli Angioini, i Francesi e gli Aragonesi ad agire. Trasforma la sua posizione, limite Nord del Regno delle due Sicilie, in avamposto e acquisisce una forza strategica e logistica che nessuno potrà migliorare.
Il Papa concede che la città venga costruita, ma la storia de L'Aquila non viene fondata in questo momento, all'inizio sembra cadere nel vuoto. L'Aquila sorgerà trent'anni dopo e non grazie al Papa, almeno ufficialmente, ma dai tanto odiati Svevi.
      Così nasce L'Aquila nel 1362. Nel maggio 1362 partecipai alla festa patronale di San Massimo, i cui solenni festeggiamenti chiudono la narrazione della Cronica; nel 1363 ci fu, però, una epidemia di peste, probabilmente a causa di focolai rimasti dalla peste nera del 1348, e ne rimasi vittima, morendo nella seconda metà di quell'anno.
Il mio nome sarà tramandato alla storia come Buccio di Ranallo, colui che ha scritto le cronache dell'Aquila e nell'Aquila tante volte viene citato Antrodoco ed a questi territori, che danno importanza ai nostri confini, soprattutto per l'arte della lana, posso solo dedicare la frase che chiude le mie cronache, dedicandola anche alla grande storia di Antrodoco:

"Lo cunto serrà d'Aquila, magnifica citade
et de quilli che la ficero con grande sagacitade.
Per non esser vassali cercaro la libertade
et non volere signore set non la magestade".

     Quindi Federico II, imperatore di Svevia e Re della futura Germania era innamorato dell'Italia e trascorse quasi tutta la sua vita in Italia dove è morto. Ebbe per primo l'intuito di aver capito quanto fosse importante questo posto, quanto fosse strategico possederlo ed egli stesso s'impegnò moltissimo per la ricostruzione del castello, del suo ampliamento, della fortificazione. Poi ascoltava Antrodoco per affidare al castellano grandezza e difesa del castello.
Federico II è venuto sicuramente due volte ad Antrodoco. Nel Rinascimento si farà riferimento ad una Corte. Egli non si muoveva mai da solo, era accompagnato da almeno un centinaio di persone, tutte ben vestite e ricche. Portava con sé animali rarissimi, mai visti - perlomeno ad Antrodoco - come cammelli, pavoni, tigri che spaventavano ma anche che si facevano ammirare dalla popolazione, dal volgo.
Federico II fu una persona molto colta, parlava molte lingue, era intelligentissimo e riuscì a strutturare l'organizzazione del suo grande Stato in maniera, sì, accentrata, perché il potere era il suo, ma lo affidava a persone di sua fiducia, che rispondevano personalmente all'imperatore e fu scomunicato ben tre volte dai vari Papi. Perché tutte queste scomuniche?
Si combatté moltissimo con il papato, perché tra i primi ebbe l'intuizione che il Papa, il rappresentante della religione cristiana, dovesse occuparsi delle cose dell'anima e non delle cose della terra. Quindi il potere spirituale doveva essere ben diviso dal potere temporale e questo naturalmente dai Papi non era ben visto. Quindi Federico II è stato un grande imperatore che, come dicevo, è stato un protagonista per la storia di Antrodoco e ne ha segnato le sorti per molto tempo.

      Ecco quindi spiegata l'origine di questa festa che si revoca ogni anno ad Antrodoco.
Ogni anno ormai è tradizione consolidata la sfilata in costume nel centro città, accompagnata da tamburi e sbandieratori, in occasione della quale la città di Antrodoco si fa medievale per un giorno, persino adottando le antiche monete del castaldato. Partecipano alla grande sfilata storica i Capi Rione di Antrodoco così come sono i nostri rioni: Lu Bagnu, Centro storico, San Terenziano, Rocca di corno, la Cona.

Emanuela Scarponi



 20-06-2020

                                                                                                                                           Organizzazione dell’Unione africana (Oua) e la giornata dell’Africa

     Ogni anno il 24 ed il 25 maggio si festeggia tradizionalmente la giornata dell’Africa, in concomitanza con l’anniversario della nascita della OUA, Organizzazione dell’unione africana. Nel 1963 i leader di trentadue Stati africani indipendenti si riunivano ad Addis Abeba per avviare un processo lungimirante di integrazione, libertà e sviluppo, fondando l'Organizzazione dell'Unità Africana.
L'organizzazione dell'Unione africana, con le sue funzioni e la sua evoluzione, è determinante nel processo di autodeterminazione dei popoli dei Paesi dell'Africa in evoluzione, che stanno realizzando il passaggio da regime totalitario a democratico. L'auspicio è che questa organizzazione oggi più che mai sia potenziata di contenuti e di autorità per accompagnare il processo di modernizzazione, in base ad autogoverno, democrazia, frutto del processo di globalizzazione dovuto ai nuovi mezzi di comunicazione di massa quali Internet.
     Dal 1963 l'Africa ha fatto enormi passi in avanti. Ma soprattutto negli ultimi venti anni l’Africa ha compiuto uno straordinario salto di qualità. Non è mai semplice individuare una data spartiacque tra la fine e l’inizio di una nuova fase storica.
Ma dal 2002, da quando l’OUA si è trasformata in Unione Africana, l’Africa ha iniziato una radicale trasformazione politica, sociale ed economica. Sotto il profilo economico, nell’ultimo decennio, il reddito reale pro-capite degli Africani è aumentato di più del 30 per cento, gli investimenti diretti esteri sono triplicati e, tra i dieci Paesi al mondo in più rapida crescita, sei sono Stati africani.
Quanto ai riflessi sociali, la classe media è aumentata in maniera esponenziale: sono 300 milioni gli Africani che ne fanno parte. I decessi per malaria in alcuni dei Paesi più colpiti sono diminuiti del 30 per cento e le infezioni da HIV di più del 70 per cento. La speranza di vita è aumentata in media del 10 per cento e il tasso di mortalità infantile in gran parte dei Paesi è diminuito vertiginosamente.
Anche se presenta ancora tante fragilità e contraddizioni, quindi, non possiamo continuare a vedere l'Africa con la lente offuscata dagli stereotipi del passato.
L’Africa è un continente giovane e pieno di opportunità, da cui l’Italia ha anche da imparare. Se è radicalmente cambiata l’Africa, deve radicalmente cambiare anche l’approccio dell’Italia all’Africa. Occorre pertanto un’azione più incisiva rispetto al passato per cogliere i frutti di questa nuova fase in Africa.
     Auspico che l'Italia possa, posizionata come è al centro del Mediterraneo, condurre pertanto una funzione guida, tesa a promuovere la cooperazione e lo sviluppo di questi Paesi vicinissimi, affrontando il fenomeno dell'immigrazione clandestina con razionalità ed umanità, trasformandone gli effetti disastrosi in un reale vantaggio per l'Italia, interrompendo questo processo - che sembra irreversibile - di migliaia e migliaia di disperati che rischiano la vita nell'attraversamento del mare con imbarcazioni disagiate.
L'Italia deve promuovere nei Paesi del Nord Africa progetti di sviluppo del territorio che possano finalmente rendere vivibili le zone più aride, con l'apporto dei nostri tecnici e scienziati di ogni settore, su cui certamente l'Italia può contare.
Non ci sono solo luci in Africa, ma anche ombre. Le transizioni nei Paesi dell'Africa sono irte di ostacoli e dense di incognite.
Ed il rischio di strumentalizzazione di forze regressive che perseguono la destabilizzazione è sempre altissimo. E' preoccupante la fascia di instabilità che si estende dall’Atlantico al Mar Rosso, vedi l'ultima crisi nel Tigray.
Per il successo di tutte queste azioni è importante coinvolgere, oltre a governi e parlamenti, i cittadini tutti. Il sostegno dell’opinione pubblica è vitale anche per creare reti di attivisti in grado di promuovere i diritti in altri campi.
Emanuela Scarponi


14-05-2020

                                                                                                                                                               I Copti d’Egitto e d’Etiopia:
                                                                                                                                  la chiesa ortodossa e cattolica a confronto e l’Arca dell’alleanza

         Il termine copto qualifica nello stesso tempo una lingua, un popolo (che vive in Egitto), un culto e una Chiesa con una propria gerarchia. Oggi i Copti appartengono a tre chiese principali: la maggioranza dei fedeli s'identifica con la chiesa più antica: quella ortodossa Tawahedo; gli altri fanno parte della più recente Chiesa cattolica copta e delle chiese protestanti. Il numero di Copti in Egitto oscilla tra i 10 ed i 12 milioni di credenti, pari a circa il 15 per cento della popolazione.
Ma ripercorriamo la storia dei Paesi che si affacciano sul Mare nostrum per comprendere l’origine della presenza di cristiani in Egitto ed in Etiopia. L'Egitto, divenuto Provincia romana nel 30 a.C., continuò a rivestire grande importanza nell'età romana e bizantina: vasto produttore di grano nel Mediterraneo, ricco di miniere e di cave di pietre pregiate (rame, basalto, granito, porfido, alabastro e turchese), era sede d'industrie artigiane e anche di generi di lusso. Queste attività diedero vita a vasti commerci marittimi, che raggiunsero sia il Nord Europa sia l'Oriente e furono fiorenti almeno fino al IV secolo d.C.. La vita economica era in mano a Greci e Romani, grandi possessori di terre, commercianti e funzionari che risiedevano nelle grandi città. La popolazione indigena ed egizia risiedeva nella campagna ed esercitava funzione subalterne mantenendo intatte le credenze dell'età faraonica.
Nel 451 d.C., il Patriarca di Alessandria aderì all'eresia monofisita, condannata da Costantinopoli e convertì ad essa il popolo, dando origine alla Chiesa nazionale copta. I Copti d’Egitto oggi costituiscono la più grande comunità cristiana del Medio Oriente, che fa parte delle Chiese ortodosse orientali.
         Nella Chiesa copta il titolo di "Papa" spetta al Patriarca di Alessandria. Dopo più di quarant'anni di ministero di Shenouda III, deceduto il 17 marzo 2012, ora il Patriarca è Teodoro II, 118esimo Papa della Chiesa copto ortodossa, fatto Papa nella cattedrale del Cairo. Nel corso del XVIII secolo una parte della chiesa copta è tornata in comunione con il Papa di Roma. Oggi sussiste sotto il nome di Chiesa cattolica copta. Di qui la copresenza di due Chiese: ortodossa e cattolica.
La Chiesa ortodossa Tewahedo d’Etiopia storicamente dipendeva da Alessandria d’Egitto e il vescovo o Abun veniva nominato dal Patriarca egiziano.
Con l’occupazione italiana dell’Etiopia questa sudditanza s’interruppe. L'Abun prima era stato sempre egiziano, non capiva la lingua locale, non conosceva gli usi e costumi etiopi, e la liturgia era celebrata in arabo e non nella tradizionale lingua ge’ez.
Dal 1948 inizia la gerarchia ortodossa etiope con i primi vescovi ortodossi etiopi ed oggi ci sono almeno 8 diocesi, più alcune all’estero.
Il primo Abun è stato Basilios, mentre l'attuale è Mathias. L’attuale arcivescovo della Chiesa cattolica di Addis Abeba è un missionario lazzarista Berhaneyesus Demerew Souraphiel, creato cardinale da Papa Francesco nel 2015. La Chiesa ortodossa Tewahedo è stata la Chiesa di Stato sino al 1974: chi nasce in Etiopia nasce come cristiano ortodosso.
         Tutte le volte che l’imperatore, ma anche chi è venuto dopo di lui, come Menghistu Hailè Maryam e i suoi successori, parlava in pubblico alla nazione, aveva alla sua destra sempre un rappresentante della Chiesa ortodossa, l’Abun. Attualmente ha cominciato a comparire alla sinistra del Capo di Stato, l’Imam, cioè un capo religioso islamico.
Di per sé, l’autorità più importante non è l’Abun, ma l’Ichege, cioè l’abate del monastero di Debra Libanos, nell’ex provincia della Shoa oggi Oromia, situato a circa 80 chilometri da Addis Abeba.
Quando il generale Rodolfo Graziani, viceré d’Etiopia, subì un attentato nel 1937, come ritorsione ci fu una strage di civili nella capitale, ma il fatto fu preso a pretesto per l’uccisione in massa di oltre trecento monaci inermi di Debra Libanos perché il monastero era ritenuto il centro spirituale della resistenza all’occupazione italiana. Per questi avvenimenti l'Italia non ha mai presentato scuse ufficiali; tuttavia nel 1961, come risarcimento, ha finanziato la costruzione dell'edificio principale del monastero: una splendida e ampia chiesa dedicata alla Santa Croce e cinque scuole religiose.
         In tutta l'Etiopia i monaci ortodossi sono circa 80.000. Ai tempi dell’imperatore ad Addis Abeba c’era una buona facoltà teologica, che fu chiusa dalla rivoluzione marxista-leninista. Recentemente è stata riaperta e riceve l’apporto intellettuale e scientifico del mondo panortodosso. Il vescovo (Abun) viene eletto tra i monaci perché deve essere celibe mentre i preti si possono sposare ma non possono accedere all’Episcopato. Gli Etiopi asseriscono di custodire l’Arca dell’alleanza in una chiesetta-cappella annessa alla antichissima Chiesa di Nostra Signora di Sion, ad Axum: la leggenda vuole che la regina d’Etiopia, Makeda, sia andata da Salomone a Gerusalemme e da lui avesse generato un figlio, da cui discendono tutti gli imperatori e che come regalo avesse ricevuto in dono l’Arca dell’alleanza. Tuttavia vi sono altre varianti sulla leggenda: l’arca è in legno d’acero, rivestita d’oro.
Si possono avere dei dubbi, ma di sicuro c’è il vivo interesse d’Israele che nella città ha aperto un consolato. Nessuno può vedere l’arca ed un monaco la custodisce a vita e a vista senza mai allontanarsi e viene sostituito solo dopo la morte.
Un altro centro religioso ed archeologico molto importante è Lalibela, dal nome dell’imperatore Gebre Meskel Lalibela (XII-XIII secolo) dove ci sono splendide chiese rupestri scavate nella viva roccia, un'impresa così colossale da dare origine ad una leggenda che le chiese siano state scavate dagli angeli stessi.
         Tuttavia il sistema di realizzazione presenta delle forti analogie con edifici coevi realizzati in India, nella colonia di Goa, e quindi si ipotizza un intervento dei Portoghesi. La chiesa di San Giorgio ha la pianta a forma di croce greca. Lalibela, dichiarata Patrimonio dell'Unesco (1968) s’ispira a Gerusalemme, città visitata ripetutamente dagli imperatori che la presero a modello e la ricostruirono secondo il loro genio e possibilità in terra etiopica.

Emanuela Scarponi