LA PRIVACY E’ UN BENE COMMERCIALE O PIUTTOSTO UN DIRITTO?

Di Alessandra Di Giovambattista

 

Con la parola “privacy”, tradotta nella nostra lingua con il termine di riservatezza, si indica il diritto che ha ogni individuo ad avere una sfera personale e privata non conoscibile e fruibile da parte di altri soggetti. Il concetto si sviluppa sin dall’antica Grecia quando i filosofi, tra cui anche Aristotele, differenziavano la sfera pubblica dell’individuo che implicava lo svolgimento delle attività cittadine - il cui svolgimento era di fondamentale importanza se si voleva una vita politica attiva - da quella privata, riconducibile alla vita familiare, domestica del singolo, nella quale occuparsi delle proprie necessità. Tale differenziazione aiutava anche a tracciare un confine tra quanto era di interesse pubblico e quanto era di interesse privato, personale; quest’ultimo però rappresentava un ambito prodromico al riconoscimento ed alla tutela del corretto funzionamento della sfera pubblica la quale era considerata la sola che permettesse lo sviluppo della personalità umana (all’epoca esclusivamente maschile).

Solo dopo il disgregarsi dell’età feudale l’idea di libertà personale iniziò a delinearsi meglio fino ad arrivare al periodo post-rinascimentale in cui le riforme religiose, lo sviluppo della classe borghese e l’inizio dell’istruzione consentono di mettere sempre meglio a fuoco i diritti personali dei singoli separandoli da quelli collettivi e pubblici e segnando l’inizio di un periodo di intensa concettualizzazione circa i principi posti a base della giurisprudenza.

Si deve però all’approfondimento di due giuristi statunitensi (Luis Brandeis e Samuel Warren) il concetto di diritto di riservatezza (“The right of privacy”); in particolare nel 1890 essi pubblicarono la prima monografia volta a riconoscere il diritto ad essere lasciato da solo (“the right to be let alone”) inteso quale tutela di una propria ed inviolabile intimità, in cui si determinano vicende personali e familiari che non hanno, per i terzi estranei, un interesse socialmente e pubblicamente apprezzabile. Quindi la privacy era intesa come un ambito della propria vita dal quale escludere gli altri, tenuti a rispettare un diritto personale, inteso come un proprio spazio inaccessibile. Espresso in tal modo evidenziava il contenuto negativo di esclusione da informazioni non ritenute di interesse e dominio pubblico laddove era ancora latente il suo contenuto positivo, esprimibile come la possibilità e necessità di controllo sui propri dati personali e le proprie informazioni, in particolare quando queste ultime possono essere gestite e diffuse dai mezzi di comunicazione. Naturalmente tale limitazione di significato era legata al contesto storico in cui il concetto era venuto a svilupparsi; era il periodo della rivoluzione industriale in cui il ceto borghese acquisiva sempre più consapevolezza di sé, dei propri diritti e più in generale puntava alla tutela del proprio ambito vitale affinché terzi estranei non interferissero in spazi di personale dominio.

In quel periodo, per la prima volta nella storia, si era di fronte all’innovazione tecnologica nell’ambito della comunicazione; nel 1875 Robert Barclay inventò la stampa in offset (o litografia), utilizzata poi per la tiratura di tutti i quotidiani negli anni a seguire. Questa metodologia di stampa si basa sulla creazione dell’immagine su una lastra, questa viene trasferita su una superficie di gomma e poi stampata sul foglio di carta. La gomma consente di stampare su superfici non perfettamente lisce con un elevato livello di precisione, potendo quindi utilizzare anche diversi tipi di carta. In più, nel 1839 Louis Daguerre aveva messo a punto la tecnica fotografica chiamata dagherrotipo che sfruttava procedimenti chimici al fine di ottenere delle foto nitide in pochi secondi. Quindi tale innovazione affiancata a quella della stampa offset consentì il rapido sviluppo del mercato delle informazioni su larga scala rappresentato dalla nascita di grandi testate giornalistiche tuttora diffuse: nel 1851 venne fondato il New York Times.

Quindi l’evoluzione della stampa permise alla fine del secolo XIX di dare ampia diffusione a notizie e fotografie relative a persone senza che queste sapessero e rilasciassero il loro consenso all’utilizzo; fu proprio tale circostanza che spinse Warren e Brandeis a tutelare il diritto di riservatezza dei cittadini che potevano vedere propagare dati e notizie personali attraverso la vendita di migliaia e migliaia di copie di quotidiani.

Quanto detto aiuta a comprendere come la problematica della tutela della riservatezza sia strettamente connessa all’evoluzione tecnologica; le innovazioni, i sistemi sociali, l’epoca storica e le mode socio/culturali generano problematiche sempre nuove che producono effetti giuridici che meritano tutela e protezione.

La problematica esplose poi, in tutta la sua importanza, con l’avvento degli elaboratori elettronici in grado di trattare migliaia di dati ed informazioni, con ciò modificando le modalità di raccolta e gestione dei dati personali e sensibili. Soprattutto a partire dagli anni ‘70, con lo sviluppo delle prime grandi banche dati elettroniche, la tutela dei diritti alla privacy ed alla riservatezza si sentirono in tutta la loro rilevanza. Era necessario il monitoraggio della raccolta, dell’elaborazione e della diffusione elettronica dei dati personali che ha aggiunto, al diritto alla riservatezza, anche il diritto al trattamento dei dati personali. La tutela della privacy non può quindi consistere nel mero divieto della raccolta ed elaborazione dei dati personali senza che si sia ottenuto il preventivo permesso del diretto interessato; ciò sarebbe eccessivo perché annullerebbe l’irreversibile processo evolutivo delle tecnologie delle informazioni, ed insufficiente in quanto ottenere il consenso del diretto interessato potrebbe significare, per paradosso, non tutelare proprio i soggetti più deboli e più esposti alla circolazione di informazioni sensibili. In tale complesso panorama si riscontra l’atteggiamento lungimirante di Warren e Brandeis anche se essi, di fatto, non si posero il problema di far assurgere la tutela della privacy ad un vero e proprio diritto fondamentale da garantire e salvaguardare attraverso una apposita norma legislativa.

Al contrario in Europa la spinta a considerare riservatezza e protezione dei dati personali come diritti fondamentali e costituzionalmente protetti, sono stati elementi caratterizzanti fin dal 1950; infatti la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) ha considerato il diritto alla riservatezza propria e dei propri familiari come un diritto fondamentale dell’uomo; successivamente la Convenzione di Strasburgo nel 1981 ha compattato il diritto alla riservatezza ed il diritto alla protezione dei dati personali ad un unico diritto fondamentale, espressione e condizione essenziale di libertà. Queste scelte sono state poi ribadite e rafforzate prima con la Direttiva 95/46/EC e poi con la Carta europea dei diritti fondamentali (Carta di Nizza).

Ai fini della messa a punto della definizione odierna di privacy viene in aiuto il pensiero del politico italiano Stefano Rodotà per il quale tale diritto di riservatezza sancisce un’impossibilità di ingresso in uno spazio altrui. Pertanto se agli inizi l’ambito era circoscritto alla sfera della vita privata recentemente, soprattutto con l’avvento dei social network, il diritto alla privacy indica il diritto, più ampio, al controllo dei propri dati personali, affinché questi siano trattati ed utilizzati esclusivamente in caso di reale necessità.

Un aspetto da tener presente è la diversa modalità di tutela e di significato concettuale che la privacy ha nel mondo anglosassone rispetto a quello europeo. La differenza non è banale e conoscerne la sostanza può aiutare a tutelarsi meglio; entriamo un po’ nel dettaglio. Intanto la prima osservazione da fare riguarda l’indispensabile utilità di essere a conoscenza delle diverse tutele se si pensa all’enorme massa di dati che vengono inseriti sui social network e che transitano in tutte le direzioni del globo. La maggior parte delle aziende che gestiscono dati sono multinazionali statunitensi e qualunque condivisione di informazioni in ultima istanza finisce per essere trasferita negli USA. Pertanto conoscere le differenze di tutele e di leggi sulla privacy è di fondamentale importanza.

Nel mondo anglosassone i dati e le informazioni sono considerati un bene commerciale e pertanto la privacy è tutelata esclusivamente nell’ambito delle relazioni e dei rapporti di natura commerciale (la tutela è prevista nei soli casi sanitari o finanziari). Quindi le modalità di rispetto della privacy sono calibrate a seconda dei soggetti e delle tipologie di servizi che vengono offerte; in tal modo le tutele non sono univoche e si adattano alla tipologia di contratto che si va a sottoscrivere. Invece in Europa il regolamento sulla privacy è molto più stringente e considera la tutela dei dati personali un diritto inviolabile; la raccolta dei dati ha bisogno pertanto dello specifico consenso degli utenti, mentre negli USA la tutela dei dati riguarda solo il loro utilizzo, mentre la raccolta di informazioni è consentita, indiscriminata e non di rado carpita in modo subdolo.

Si pensi che le forze dell’intelligence statunitense possono utilizzare le informazioni tratte dai servizi di condivisione delle banche dati a prescindere dalla nazione alla quale i dati appartengono; il solo fatto che questi vengano utilizzati nell’ambito del mercato statunitense fa sì che la loro gestione ricada sotto la giurisdizione degli USA. Tale aspetto si trova in netto contrasto con quanto espresso nel regolamento europeo definito come "General Data Protection Regulation" (GDPR). L’utilizzo da parte degli USA della gran massa di dati (c.d. big data) che sono presenti nelle banche dati, nasce dalla necessità di avere libero accesso ad informazioni e a prove elettroniche utilizzate nei grandi processi e nelle indagini internazionali. L’Europa tuttavia ha immediatamente sottolineato che tale pratica si presenta in netto contrasto con i diritti umani fondamentali, poiché non rispetta le norme sulla tutela della privacy dei cittadini, ostacolando anche le attività di protezione dati svolte da aziende europee (essenzialmente tedesche e francesi). In particolare l’articolo 48 del GDPR afferma che nessuna organizzazione può trasferire dati personali verso un paese terzo senza che vi sia un previo accordo internazionale.

Da quanto detto risulta ancora più chiara la differenza tra il concetto di privacy e della sua tutela tra i due mondi, quello anglosassone e quello europeo: pensare alla privacy come ad un bene economico che può essere venduto o negoziato in cambio di benefici o servizi, allontana dal concetto europeo di privacy visto come un diritto fondamentale dell’uomo che deve essere protetto da ogni forma di abuso o di utilizzo indiscriminato e non autorizzato di proprie informazioni da parte di terzi, siano essi soggetti pubblici o privati.

Non vi è dubbio che ambedue le impostazioni hanno come obiettivo la tutela della privacy dei cittadini, evitando però di compromettere il mercato che si basa sui flussi di dati; come esempio si consideri che l’intelligenza artificiale si fonda sull’uso dei c.d. big data opportunamente connessi tra loro e tradotti in algoritmi. Ma ciò rende vulnerabile ed indifeso il cittadino su più fronti: quello dell’uso dei dati personali e quello della loro manipolazione per individuare politiche, progetti e programmi finalizzati alla determinazione ed al governo del pensiero di massa (c.d. pensiero unico). Siamo di fronte ormai ad un mercato di dati ed informazioni che vede il singolo come parte debole della catena; egli rappresenta il soggetto che fornisce i suoi dati ed allo stesso tempo ne rimane vittima. Immaginiamo il tutto calato in una qualsiasi realtà politica: saremmo di fronte ad uno Stato autoritario che non tutela il benessere ed i diritti, conformato come un tribunale che fa giustizia utilizzando informazioni personali come possibili prove di colpevolezza di ogni individuo. E’ il caso di chiudere dicendo che ogni cosa detta o fatta da noi potrà comunque essere utilizzata contro di noi!

LE POLITICHE FINANZIARIE DI CONTRASTO DEL COVID19
di Alessandra Di Giovambattista

Per contenere i danni derivanti dalla pandemia da COVID19, il Governo ha varato delle disposizioni con la finalità di sostenere la liquidità delle imprese ed i redditi delle famiglie ed assicurare l’accesso al credito prestando delle garanzie pubbliche. I termini per gli adempimenti fiscali sono stati fatti slittare così come anche i pagamenti di natura contributiva e fiscale. La spesa pubblica è pertanto aumentata da un lato per la proroga dei pagamenti tributari e contributivi (versante delle entrate), dall’altro per garantire in ambito sanitario una risposta efficace alla crisi da COVID19 e per sostenere famiglie ed imprese nelle proprie attività (versante delle spese e dei trasferimenti).
Sostegni ed aiuti provengono al nostro Paese anche da parte dell’Unione europea (UE) e delle banche centrali; in particolare si sottolineano le misure fortemente espansive della Banca centrale europea (BCE) e dell’Autorità europea di vigilanza delle banche (EBA) per sostenere la liquidità del sistema bancario e permettere agli istituti di credito di finanziare adeguatamente le attività produttive e le famiglie. Fin dall’inizio della pandemia l’Europa ha varato provvedimenti volti a contrastare la crisi economica; immediatamente si è reso meno rigido il meccanismo del vincolo di bilancio pubblico, conferendogli più flessibilità in termini di saldo, e si sono resi meno stringenti i limiti degli aiuti di Stato.
Poi tra le prime misure vi è stata l’autorizzazione di un pacchetto di aiuti di un valore di 540 miliardi di euro a favore dell’occupazione, dei lavoratori, delle imprese e degli Stati membri dell’UE. La ripresa ha richiesto sforzi congiunti da parte di tutti i Paesi membri; così è stato concordato, il 21 luglio 2020, un pacchetto di finanziamenti che riguarda per 1.074 mld di euro il bilancio UE a lungo termine (2021 – 2027) e per 750 mld di euro gli obiettivi da raggiungere con i finanziamenti definiti con NextGenerationEU (NGEU). Queste due misure costituiscono insieme lo strumento principale in risposta all’emergenza sanitaria da COVID19 per un ammontare complessivo di 1.824 mld di euro che a prezzi correnti corrispondono a più di 2.300 mld di euro.
Il bilancio a lungo termine della UE (dal 2021 al 2027) rappresenta la base di tutti i programmi pensati per superare la crisi e creare posti di lavoro nell’ottica di un’economia sostenibile per le future generazioni; il bilancio di lungo termine traccia una strada ai Governi per far sì che tutti i Paesi cerchino di raggiungere i medesimi obiettivi che comprendono anche la transizione verde (green deal europeo) ed il passaggio all’era digitale (futuro digitale europeo). Il tutto finalizzato affinché gli Stati diventino più sostenibili dal punto di vista ambientale e resilienti ai futuri shock economico/finanziari/sociali.
Con lo strumento di ripresa NGUE l’Unione Europea intende affrontare la pandemia da COVID19 mediante la sottoscrizione di prestiti fino ad un importo massimo di 750 mld di euro; tali risorse saranno utilizzate solo per far fronte alle conseguenze della crisi attraverso gli obiettivi del NGUE ed il termine finale per il rimborso dei prestiti è fissato al 31 dicembre 2058. Gli importi del programma sono erogati in ragione di sette sottoprogrammi che saranno finanziati sotto forma di prestiti o sovvenzioni: - dispositivo per la ripresa e resilienza (672,5 mld di euro), - REACT-UE (47,5 mld di euro), - orizzonte Europa (5 mld di euro), - InvestEU (5,6 mld di euro), - sviluppo rurale (7,5 mld di euro), - fondo per la transizione giusta (10 mld di euro), - rescEU (1,9 mld di euro).
Nel corso del 2021 e del 2022 gli Stati aderenti all’Unione Europea sono stati chiamati a presentare dei piani nazionali per la Ripresa e la Resilienza (PNRR), che rappresentano i programmi a cui sono state destinate la maggior parte delle risorse del NGEU (672,5 mld di euro) di cui prestiti per 360 mld di euro e sovvenzioni per 312,5 mld di euro. La differenza tra prestiti e sovvenzioni riguarda il fatto che i primi andranno restituiti (l’orizzonte è stato fissato alla fine del 2058), mentre le seconde sono erogazioni a fondo perduto e pertanto non richiedono forme di restituzione. Le sovvenzioni sono state impegnate negli anni 2021 e 2022 per una quota del 70% e sono state distribuite in base ai seguenti criteri:
- Disoccupazione nel periodo 2015-2019;
- Inverso del PIL pro capite;
- quota di popolazione presente sul territorio.
Il restante 30% sarà impegnato entro la fine del 2023 in base ai seguenti criteri:
- calo del PIL reale nel 2020;
- diminuzione del PIL reale nel periodo 2020-2021;
- inverso del PIL pro capite;
- percentuale di popolazione rispetto ai territori.
Gli Stati membri per ottenere le risorse sono chiamati a presentare dei programmi di investimento in sei settori specifici: - transizione verde, - trasformazione digitale, - occupazione e crescita intelligente, sostenibile ed inclusiva, - coesione sociale e territoriale, - salute e resilienza, - politiche per la prossima generazione, comprese istruzione e competenze didattico/professionali.
I piani presentati sono sottoposti ad una Commissione che decide in base ad una serie di criteri tra i quali: l’attinenza del piano alle raccomandazioni indicate per i diversi Paesi nel semestre europeo, la capacità di rafforzamento del potenziale di crescita, della creazione di posti di lavoro e della resistenza sociale ed economica dei diversi Stati membri, l’effettiva destinazione di parte delle risorse (almeno il 37% del bilancio) allo scopo di raggiungere gli obiettivi di transizione verde e digitale. La valutazione dei piani viene approvata dal Consiglio europeo a maggioranza qualificata su proposta della Commissione e i pagamenti sono autorizzati in ragione del conseguimento di determinati indicatori di obiettivo intermedi e finali.
Il 13 luglio 2021 il Consiglio europeo ha dato il via libera ai primi 12 paesi dell’Unione che hanno presentato i piani di utilizzo delle risorse stanziate per i vari PNRR, così individuati: Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Grecia, Italia, Lettonia, Lussemburgo, Portogallo, Slovacchia e Spagna. Il 28 luglio del 2021 si sono aggiunti altri quattro Paesi: Cipro, Croazia, Lituania e Slovenia a cui sono seguiti, l’8 settembre dello stesso anno le nazioni di Cechia e Irlanda. Successivamente il 5 ottobre si è aggiunta anche Malta ed il 29 ottobre 2021 l’Estonia, la Finlandia e la Romania. Nell’anno successivo, il 2022, e precisamente il 3 maggio sono stati autorizzati i PNRR di Bulgaria e Svezia, mentre il 17 giugno è stato dato il via libera per lo Stato della Polonia. Concludono l’Europa dei 27 i Paesi Bassi con autorizzazione data il 4 ottobre e l’Ungheria con il benestare dato il 16 dicembre 2022.
Dopo aver ottenuto la notifica ufficiale delle decisioni del Consiglio che approvano i vari PNRR gli Stati membri possono iniziare a firmare convenzioni bilaterali di sovvenzione e di prestito con la Commissione che prevedono, per i soli piani autorizzati nel 2021, di ricevere un prefinanziamento fino ad una quota del 13% dell’importo totale stanziato per la ripresa e la resilienza. Con la sottoscrizione delle convenzioni si definiranno anche le condizioni e le date entro le quali saranno erogate ulteriori risorse, ma solo dopo che la Commissione avrà verificato il raggiungimento degli obiettivi intermedi e finali posti a condizione dei finanziamenti complessivi dei diversi PNRR presentati dagli Stati membri.
Infine si evidenzia che dopo l’inizio del conflitto tra Russia e Ucraina la Commissione europea ha aggiunto, all’interno dei fondi da destinare ai PNRR dei diversi Stati membri, l’ulteriore obiettivo del piano REPowerEU finalizzato a superare la crisi del mercato dell’energia. Il PNRR contribuirà all’attuazione del programma di trasformazione del sistema energetico della UE che ha come focus l’eliminazione graduale da ogni forma di dipendenza dai combustibili fossili provenienti dalla Russia, finanziando infrastrutture e sostenendo riforme nel settore energetico. Pertanto all’interno dei diversi PNRR presentati dagli Stati dovranno trovare posto degli obiettivi dedicati al piano REPowerEU i quali, alla stregua del procedimento suddetto, dovranno essere valutati dalla Commissione al fine di consentirne il finanziamento.
Ad oggi la Commissione Europea ha versato all’Italia 24,9 mld di euro il 13 agosto del 2021 sotto forma di prefinanziamento; ha poi pagato la prima rata di 21 miliardi di euro (10 mld di euro in sovvenzioni a fondo perduto e 11mld di euro in prestiti) ad aprile 2022 dopo aver certificato che l’Italia aveva raggiunto le 51 scadenze fissate per la fine del 2021.
La seconda rata è pervenuta l’8 novembre del 2022, in tal caso il versamento di 21 mld di euro è arrivato dopo la certificazione da parte dell’UE del raggiungimento dei 45 obiettivi previsti entro il 30 giugno del 2022.
L’11 settembre del 2023 la Commissione europea ha dato il via libera al pagamento della terza rata del PNRR, per cui ad inizio ottobre dovrebbero arrivare circa 18,5 mld di euro; tale rata prevedeva il raggiungimento di 55 obiettivi entro la fine del 2022, tuttavia alcuni di essi non sono stati raggiunti e sono stati fatti slittare sulla quarta rata (nello specifico il focus verteva sull’ampliamento numerico degli alloggi per studenti).
La quarta rata è attesa per la fine del 2023 e per essa a fine luglio è arrivato il parere favorevole della Commissione per il citato trasferimento degli obiettivi che dovevano raggiungersi per ottenere la terza rata.
In totale le rate sono 10 e sono semestrali; finora le erogazioni complessive sono state pari a 85,4 mld di euro.
Per finanziare gli investimenti necessari al raggiungimento degli obiettivi del PNRR l’Italia ha integrato i finanziamenti con risorse nazionali creando il Fondo Nazionale Complementare per un importo di 30,6 mld di euro per gli anni dal 2021 al 2026. Il Fondo finanzia quindi un Piano nazionale complementare (PNC) che ha modalità di funzionamento analoghe al PNRR: sono individuati interventi e programmi con obiettivi iniziali, intermedi e finali, coerenti con la tempistica e la natura degli obiettivi contenuti nel PNRR.
Si è fatto notare che l’aumento dei costi dei progetti, causato dall’elevato tasso di inflazione e l’adattamento alle nuove norme che progressivamente si adottano, hanno causato una minore spesa delle risorse ricevute dall’UE rispetto al cronoprogramma. Per ora i ritardi di spesa non stanno causando ripercussioni negative sulle erogazioni dei fondi perché di fatto le scadenze hanno riguardato quasi esclusivamente riforme, con l’approvazione di norme specifiche e l’avvio di bandi, pertanto tutte attività prodromiche agli investimenti ed alla reale attività produttiva. Le cose potrebbero cambiare quando si dovranno aprire i nuovi cantieri e dalle parole si passerà alla concretezza dei fatti. Oggi, il problema principale e paradossale, rimane quello di avere la capacità di spendere in tempo tutte le risorse stanziate dagli organismo europei.

 

L’ECONOMIA ITALIANA DEL POST COVID19

di Alessandra Di Giovambattista

 

Dopo il picco della pandemia da malattia identificata con la sigla COVID19 tutte le analisi di mercato sono state aggiornate, con riferimento alle previsioni sulla crescita economica per il 2020, verso un forte ribasso. In Italia, la crisi sanitaria è succeduta ad una fase in cui l’economia già dava segni di rallentamento. In estrema sintesi possiamo ricordare che la crisi del 2010, dei mutui c.d. subprime e del fallimento della banca Lehman Brothers aveva trascinato verso il basso il PIL italiano; successivamente mentre si avevano dei modesti segnali di crescita, si è presentata la crisi dell’euro e dello spread che ha fatto registrare una seconda recessione proseguita fino nel 2013. Negli anni successivi la crescita è stata molto lenta ed il PIL nel 2018 e 2019 è aumentato rispettivamente dello 0,8% e dello 0,5%. A ridosso di tale precaria situazione economica le misure anti Covid del 2020 sono state così stringenti che hanno prodotto un shock pesante per il nostro mercato già fragile, tanto da indurre il Fondo monetario internazionale a stimare un calo del PIL italiano nel 2020 pari al -9,1% (a consuntivo si è attestato al -9%) a fronte di una media dell’area europea del -7,5%. In generale si può dire che è ormai da più di un decennio che l’Italia viaggia sui valori più bassi del PIL registrati nell’area dell’eurozona.

Le misure di distanziamento sociale introdotte nel nostro Paese sono state severe, forse tra le più severe, ed hanno riguardato prima la chiusura delle scuole e la sospensione di eventi pubblici, poi a partire dal 9 marzo 2020 si è assistito all’introduzione di diverse limitazioni alla libera circolazione di persone anche all’interno dei confini nazionali e finanche dei confini comunali. Dopo il 28 marzo si sono fermate le attività in diversi settori produttivi ritenuti non essenziali e si è iniziato ad implementare il lavoro da remoto (c.d. smart working). Poi le restrizioni sono state lentamente rimosse a partire dal 4 maggio del 2020. 

Quindi, gli effetti del lockdown, in aggiunta alla già precaria situazione economica, sono apparsi subito molto pesanti per il nostro Paese; le previsioni sulle prospettive economiche rese note dalle istituzioni internazionali hanno mostrato delle ricadute della crisi molto più forti in Italia rispetto a quanto stimato per le altre economie sviluppate ed in particolare quelle dell’eurozona. Ciò è dipeso da vari fattori in particolare legati al maggior prolungamento del distanziamento sociale rispetto ad altri Paesi, che ha impattato negativamente sulle attività dei settori in cui si è imposto il fermo produttivo ed ha generato un deterioramento delle relazioni intersettoriali. Inoltre la dura politica sociale che ha previsto la perdita del lavoro a fronte della scelta di non voler effettuare la vaccinazione senza offrire una valida attività lavorativa alternativa, ove possibile, da poter svolgere da remoto, ha creato sfiducia ed incertezza che si sono tradotti, in ultima analisi, in diminuzione del reddito disponibile e pertanto in un calo dei consumi. In più l’economia italiana che si caratterizza per la forte vocazione turistico alberghiera, la quale con tutto l’indotto contribuisce al PIL per una quota superiore al 13% (dato del 2017), è stata più duramente colpita e provata dalle misure di chiusura dei flussi internazionali, ed anche nazionali, del turismo, rispetto ad altre nazioni. Questo implica che gli effetti della pandemia sul terzo settore si sentiranno più intensamente e per un periodo più lungo rispetto a settori come quello primario (agricoltura e allevamento) e secondario (industriale). L’Italia è poi un’economia fortemente dipendente dalle esportazioni e anche dalle importazioni di materie prime; questo ultimo aspetto è peraltro venuto marcatamente fuori con la recente e tutt’ora in atto guerra russo-ucraina. A ridosso della pandemia da COVID19 il calo del commercio internazionale ha contribuito in modo rilevante al crollo del PIL in Italia.

Il clima di sfiducia, anche verso le istituzioni, derivante dalla crisi sanitaria, ha avuto conseguenze sociali che in Italia sono state più rilevanti rispetto agli altri Paesi europei; un’indagine pubblicata nel 2020 (promossa dall’osservatorio dell’Istituto Toniolo e dal Ministero per le Pari Opportunità e la Famiglia) ha evidenziato che tra i giovani italiani in età compresa tra i 18 ed i 34 anni, circa il 60% di essi ritiene che l’emergenza sanitaria segnerà negativamente i propri piani e progetti futuri a fronte del 46% e del 42% dei giovani rispettivamente francesi e tedeschi a cui è stato rivolto il medesimo questionario. In particolare è emerso che i giovani italiani dichiarano di dover rinunciare ai propri progetti, mentre i ragazzi europei affermano di dover solo posticipare i propri progetti.

Una tale situazione denota, a modesto avviso, una sensazione di sfiducia causata da una percezione di abbandono da parte delle istituzioni che ormai poco curano la scuola, e più in generale le politiche giovanili per il lavoro, lo sport ed il tempo libero. In più si aggiunga che assistiamo ad un rapido crollo dei valori socio familiari che invece di proporre sicurezza e stabilità, si basano sempre più su modelli egoistici ed effimeri.

Le ricadute molto pesanti sul mercato del lavoro, sebbene siano stati erogati gli ammortizzatori sociali implementati dal Governo (che purtroppo hanno generato, a causa del mancato controllo, anche situazioni di frode), si sono concretizzate in una diminuzione delle ore lavorate e del numero degli occupati; la perdita si è concentrata soprattutto tra i lavoratori autonomi e tra quelli con contratto a termine, con una particolare penalizzazione di giovani e donne. Ciò ha prodotto una compressione del livello dei consumi, nonostante la politica fortemente espansiva da parte dello Stato, che ha portato con sé anche una crescita della povertà assoluta in Italia.

Nel termine di povertà assoluta si fanno rientrare le famiglie con una spesa mensile pari o inferiore al valore della soglia di povertà assoluta, cioè quella legata alle necessità fisiologiche di base e si ricollega quindi al concetto di mancanza di beni e servizi primari, a prescindere dal livello socio economico del contesto in cui le famiglie stesse vivono. I dati ISTAT ci dicono che nel 2020, si contano oltre 2 milioni di famiglie in povertà assoluta, con un’incidenza che passa dal 6,4% nel 2019 al 7,7% ne 2020, concentrate numericamente più nel nord che nel centro e nel mezzogiorno; tuttavia molte famiglie, pur scivolando nell’area della povertà assoluta, hanno comunque mantenuto una spesa per consumi prossima ad essa, grazie alle misure pubbliche di sostegno. La povertà assoluta è sostanzialmente cresciuta per  le famiglie con una persona di riferimento produttrice di reddito in età lavorativa, mentre nelle famiglie con la persona di riferimento percettrice di reddito da pensione l’incidenza è stata notevolmente minore, essendo i redditi da pensione garantiti e protetti molto più dei redditi da lavoro. A ciò si aggiunga la già ricordata discutibile misura di escludere dal lavoro, anche part time, i soggetti non vaccinati che ha contribuito ad innalzare tale indicatore e ha indotto i soggetti a situazioni di sottoccupazione e di lavoro sommerso. Inoltre la povertà assoluta è salita molto di più nei nuclei composti da stranieri e nei nuclei più numerosi ed è cresciuta per tutte le classi di età; tuttavia c’è da sottolineare che sono oltre 1 milione i minori in povertà assoluta.

Complessivamente si è assistito soprattutto ad un elevato disagio economico che, esaminando le variabili e considerando gli aiuti ed i sostegni erogati, non è tanto da imputare a condizioni economiche degradate, quanto piuttosto al senso si incertezza legato alla consapevolezza del carattere temporaneo dei sostegni, oltre che al permanere di rischi sui tempi ed i modi con i quali è stata affrontata l’emergenza sanitaria. Il tutto amplificato dai media che, se da un lato hanno contribuito fortemente ad allineare le persone a favore delle misure sanitarie decise dal Governo, dall’altro hanno aumentato la psicosi sulla mancanza di cure adeguate, ed hanno giocato sulla pressante informazione negativa senza fare distinzioni chiarificatrici di tipo statistico sanitario circa, ad esempio, le incidenze dei morti da COVID19 rispetto ai soggetti malati. Inoltre ha pesato psicologicamente il venire meno di elementi di benessere e di svago impraticabili durante la pandemia.

Altri fattori che sono emersi nell’analisi dell’aumento della povertà hanno riguardato l’età ed il titolo di studio: la fascia di età lavorativa più avanzata ed il titolo di studio più elevato hanno prodotto un effetto barriera protettivo nei confronti della crisi. Indubbiamente un altro elemento fortemente determinante è stato anche il settore economico di attività in quanto i lavoratori più penalizzati sono stati quelli legati al commercio, all’agricoltura ed all’industria, tutti settori dove più forte si è sentito il peso della sospensione e della discontinuità dell’attività.

Considerando tutti i fattori si può sinteticamente affermare che nel 2020 i problemi di povertà derivanti dalla crisi pandemica hanno inciso sul Mezzogiorno in modo rilevante, andandosi ad aggiungere e problemi socio-economici già presenti in questa area (il 20,7% della popolazione ha avuto difficoltà economiche); i disagiati hanno raggiunto la quota del 9,5% nel Centro Italia, mentre il Nord ha registrato una percentuale di aumento della povertà del 12%. Per le stesse aree nell’anno 2019 il disagio era rappresentato dalle seguenti percentuali: 11,8%, 5% e 4,8% risultando così che il peggioramento al Nord è stato relativamente più ampio rispetto alle altre due zone d’Italia in una sorta di convergenza verso il basso.

Nel 2021 non ci sono state notevoli differenze, le famiglie in povertà assoluta sono poco più di 1,9 milioni su un totale di persone indigenti di circa 5,6 milioni, di cui 1,4 milioni sono minorenni. Bisogna sottolineare tuttavia che a fronte di un miglioramento sanitario e di una lenta ripresa produttiva si è assistito ad un peggioramento di natura economica, dovuto all’aumento dell’inflazione che ha eroso il reddito reale delle famiglie. Differenze si colgono anche nel fatto che il Nord migliora la sua posizione rispetto alla povertà, mentre il Sud scivola sempre più verso il basso; è inoltre in ripresa la spesa per consumi delle famiglie.

I dati per il 2022 non sono ancora disponibili essendo stati modificati i criteri di stima, per cui l’ISTAT farà conoscere le rilevazioni nel prossimo mese di ottobre