AGRIVOLTAICO IN ITALIA: SI PARTE?
di Alessandra Di Giovambattista

Una delle chiavi per la decarbonizzazione del nostro Paese nel settore agricolo è la diffusione dell’agri-voltaico. Ma cosa si intende per decarbonizzazione? Facciamo chiarezza: il termine indica la progressiva eliminazione del carbonio attraverso il processo di conversione del sistema economico attuale in un modello produttivo e di sviluppo in chiave sostenibile che implichi l’eliminazione delle emissioni di monossido di carbonio (CO2) e l’uso di fonti fossili come carbone, petrolio, gas. Tale processo è strettamente legato anche alle politiche di transizione energetica che prevedono il passaggio alla produzione e all’uso di fonti di energia pulita e rinnovabile; in particolare tale transizione si fonda su determinati pilastri come quello delle energie rinnovabili (es. fotovoltaico ed eolico), dell’efficienza energetica, dell’elettrificazione e mobilità sostenibile, delle comunità energetiche (ne abbiamo parlato in un precedente articolo), delle infrastrutture di rete (da rendere più flessibili) e dell’economia circolare (con la riduzione degli sprechi e ottimizzazione delle risorse).
La politica di decarbonizzazione ha come obiettivo il raggiungimento di una modalità di attività economica ad impatto zero entro il 2050 - con zero emissioni nell’ambiente - cioè con emissioni di CO2 che vengono assorbite attraverso tecnologie innovative, con lo scopo di contenere il cambiamento climatico e l’aumento della temperatura al di sotto dei 2 gradi centigradi. L’obiettivo del 2050 è stato fissato dall’Europa che ha definito una strategia chiamata patto verde europeo (c.d. Green Deal europeo). Nell’ambito di quest’ultimo è stata proposta una prima legge europea sul clima dove sono stati presi in considerazione tutti i settori economici strategici, tra cui anche quello agricolo. Quindi tutti gli Stati membri sono obbligati a considerare soluzioni a lungo termine con l’obiettivo di ridurre le emissioni di gas serra, pensando che nel 2050 oltre l’80% dell’elettricità sarà prodotta da energie rinnovabili. Questo cambiamento epocale permetterà di sviluppare tecnologie come il fotovoltaico e l’eolico e creerà nuovi posti di lavoro.
Il 22 dicembre 2023, con un comunicato stampa del Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica, si è appreso che il Ministro Gilberto Pichetto Fratin ha trasmesso alla Corte dei Conti il decreto che contiene gli incentivi per la diffusione dell’agri-voltaico innovativo in Italia con l’obiettivo di installare 1,04 gigawatt entro il 30 giugno del 2026. Le misure si basano sull’utilizzo dei fondi messi a disposizione dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) come contributo in conto capitale (nella misura del 40% e finanziato per oltre un miliardo di euro) e come tariffa incentivante sulla produzione di energia elettrica netta immessa in rete (per un importo annuo di 21 milioni di euro a valere sugli oneri di sistema). L’agri-voltaico è una delle misure utilizzate per la decarbonizzazione del nostro paese in un settore strategico, quale l’agricoltura, in cui si mira ad un utilizzo razionale e sostenibile del suolo, contestualmente alla produzione di energia rinnovabile. L’innovazione consta di strutture verticali con moduli ad alta efficienza che catturano più energia possibile in cui però vi è la coesistenza con le tecniche agricole per il raggiungimento della migliore redditività ed il recupero dei terreni inutilizzati. Soggetti destinatari sono gli agricoltori, le imprese agricole e le associazioni temporanee di imprese, mentre il soggetto che gestirà il meccanismo incentivante nella sua interezza è il Gestore dei Servizi Energetici (GSE).
L’agri-voltaico, pur essendo una grande opportunità per il nostro Paese a prevalente vocazione agricola, all’inizio ha trovato molti ostacoli nella sua implementazione sia di natura normativa, sia di politica agraria. Il divieto di installazioni a terra di impianti fotovoltaici introdotto per arginare l’occupazione di molti terreni agricoli risale al decreto legge n. 1 del 2012 che ha vietato la fruizione di incentivi statali per l’installazione di impianti fotovoltaici su terra in aree agricole, con l’obiettivo di preservarne l’ecosostenibilità e la destinazione d’uso.
Tuttavia, nel 2021 il decreto semplificazioni ha provato ad intervenire mediante lo sblocco degli incentivi destinati per alcuni impianti fotovoltaici sui terreni agricoli prevedendo delle eccezioni per gli impianti da realizzare su aree dichiarate siti di interesse nazionale e sulle discariche. Sempre lo stesso decreto ha anche aperto agli incentivi per impianti agri-voltaici che utilizzano strutture di montaggio verticale dei moduli, elevati rispetto al suolo, e che ruotano per inseguire la luce e permettere, contestualmente, la coltivazione agricola del suolo sottostante, l’attività pastorizia e di allevamento in generale. In ogni caso è previsto che gli incentivi siano subordinati ad attività di monitoraggio sull’attività e la produttività agricola, il risparmio idrico ed il benessere economico delle aziende agricole interessate; qualora tali parametri non siano positivi e migliorativi è previsto che cessino gli incentivi.
Gli obiettivi contenuti nella politica dell’agri-voltaico sono rappresentati da un’agricoltura sostenibile coniugata con la produzione di energia da fonti rinnovabili; in tal modo si ipotizza che si ridurranno i costi di approvvigionamento energetico del settore agricolo (che oggi rappresentano il 20% dei costi aziendali) e si migliorerà la situazione climatica con una diminuzione potenziale di 0,8 mln di tonnellate di CO2 (ad oggi il settore agricolo è responsabile del 10% delle emissioni di gas serra in Europa). Quindi l’innovazione riguarderà l’implementazione di sistemi ibridi basati sul potenziamento dell’agricoltura e della produzione energetica che non comprometta quindi la produttività dei terreni, anche valorizzando i bacini idrici attraverso soluzioni galleggianti. Si crede che un accurato monitoraggio delle realizzazioni innovative e della loro efficacia con la raccolta dei dati specifici permetterà di valutare il microclima, il risparmio idrico, il recupero della fertilità del suolo, la resistenza ai cambiamenti climatici e la produttività agricola. Quindi con l’agro-voltaico sarà possibile ed auspicabile combinare l’attività agricola e la produzione di energia elettrica rinnovabile e pulita.
Attualmente in agricoltura l’utilizzo del fotovoltaico avviene mediante impianti su serre, su tetti delle stalle e di impianti produttivi in genere; l’agro-voltaico si presenta come una soluzione innovativa ed economica in quanto consentirà risparmio in termini di costi di energia elettrica, diminuzione di emissioni di gas serra, detrazioni fiscali ed incentivi, reddito aggiuntivo derivante dalla produzione di energia elettrica rivenduta al GSE. Questo progetto include anche il monitoraggio dell’efficacia dell’impianto al fine di valutare gli effettivi impatti sia sulla qualità della produzione agricola sottostante agli impianti fotovoltaici sollevati da terra, sia sulla produttività delle diverse colture impiantate, sia sul risparmio idrico, sulla fertilità del suolo e sul contrasto ai cambiamenti climatici. La precedente tecnologia permetteva di installare pannelli fotovoltaici direttamente sul terreno agricolo impedendone così ogni utilizzo per la produzione agricola; le recenti innovazioni hanno invece consentito il montaggio di pannelli posizionati nei campi secondo altezze e geometrie che consentono di continuare a sfruttare il terreno per l’attività agricola. Inoltre i pannelli presentano superfici bifacciali in vetro in modo da catturare l’energia solare sia frontalmente che posteriormente, convertendola in energia elettrica. L’innovazione del pannello bifacciale risale al 2018 ed è frutto di un team di ricerca del Dipartimento di Scienza dei materiali dell’Università Milano-Bicocca che ha sviluppato la tecnologia dei vetri fotovoltaici che, a differenza dei normali vetri, presentano delle nanosfere che catturano l’energia solare.
Di norma i nuovi pannelli di agro-voltaico vengono installati su terreni agricoli a basso reddito, terreni in prossimità di linee elettriche o che lambiscono strade ed autostrade. L’installazione può avvenire in linea, in righe che tra loro sono distanti circa 8 metri e le colture a maggior vocazione sono vigneti, alberi da frutta, mais o grano, ma si presta bene anche per l’allevamento di animali, pascoli ed alveari.
Il Piano nazionale di ripresa e resilienza destina per gli anni 2022-2026 complessivamente 1,1 miliardi di euro, così suddivisi: per il 2022 circa 184 milioni, per il 2023 circa 115 milioni, per il 2024 e per il 2025 circa 338 milioni mentre per il 2026 circa 210 milioni di euro.
In Italia, ad oggi, si hanno diversi impianti di moduli fotovoltaici sollevati dal terreno, alti oltre quattro metri che modificano la loro posizione ruotando su se stessi in base al bisogno di ombreggiatura delle piante sottostanti e della massima cattura dei raggi solari. Le produzioni sotto coltivate sono: mais, che da un esame a posteriori elaborato dall’Università di Piacenza, crescono del 4,3% in più rispetto al campo aperto, insalate, e filari di vite, con crescite incrementali che vanno dal 15% al 30%, soia, indivia, cavolo pomodori e grano. Quindi ci si aspetta che il 2024 rappresenti un anno di svolta per l’agri-voltaico che ormai annovera realtà come Borgo Virgilio (Mantova) che utilizza 11 ettari di terreno per produrre energia pulita che supera i 3,3 milioni di Kw ora all’anno, Scicli con un parco agri-voltaico di 9,7 megawatt e con progetti per le zone del Foggiano, in Emilia-Romagna su vigneti ed in Lombardia su coltivazioni di cereali e foraggi.
L’innovazione agricola coniugata con il risparmio energetico e la produzione di energia pulita è un connubio che sembra garantire anche un valore aggiunto alle produzioni agricole in quanto le protegge dall’eccessivo irraggiamento solare, riducendo conseguentemente l’uso e la perdita di acqua.
Tuttavia dal punto di vista di noi consumatori c’è da chiedersi: ma i costi per i prodotti agricoli diminuiranno? Lo scenario che ci appare quantomai positivo, come sempre induce ad approfondimenti critici. Già da alcune parti si inizia a leggere che i prodotti agricoli potranno essere venduti a prezzi maggiori in quanto coltivati sotto l’ombra dei pannelli; tale affermazione desta qualche sospetto se si pensa che tra gli obiettivi positivi dell’agri-voltaico, che ricordiamo sarà incentivato anche attraverso parziali finanziamenti a fondo perduto, c’è sia quello relativo alla diminuzione dei costi per energia per le aziende agricole, sia quello relativo agli incassi, per le stesse, erogati dal GSE per l’immissione di energia nella rete. Se però a consuntivo dovessimo assistere ad un incremento dei prezzi sorge un dubbio: ma l’analisi costi - benefici sia per gli agricoltori sia per noi consumatori è stata condotta correttamente, oppure dovremo aspettarci situazioni di aumento dei prezzi dei prodotti agricoli e corrispondentemente un incremento di oneri, finanziari ed ambientali, per lo smaltimento dei pannelli fotovoltaici che nel futuro avranno esaurito la loro funzione?

 
 
 
 
VERSO IL RICONOSCIMENTO DELL’AUTONOMIA DIFFERENZIATA
di Alessandra Di Giovambattista

Il terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione italiana prevede che particolari materie di legislazione concorrente (come ad esempio l’istruzione, la tutela dell’ambiente e dei beni culturali) possano essere attribuite alle Regioni a statuto ordinario, dietro loro richiesta e sulla base di un’intesa tra Stato e Regione stessa. La legge che attribuisce la c.d. autonomia differenziata, deve essere approvata a maggioranza assoluta dei componenti del Parlamento.
Il 28 febbraio 2018 il Governo Gentiloni ha sottoscritto tre accordi preliminari con altrettante regioni: Emilia Romagna, Lombardia e Veneto che hanno fatto formale richiesta di riconoscimento delle forme di autonomia differenziata. Gli accordi sottoscritti dispongono che i patti debbano avere una durata decennale, modificabile in qualsiasi momento, di comune accordo, qualora si verifichino condizioni che ne giustifichino la revisione. Le materie di trattativa sono la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, la tutela della salute, l’istruzione, la tutela del lavoro, i rapporti internazionali e con l’Unione europea, con la possibilità di estensione ad altre materie. In particolare l’accordo con la regione Lombardia prevedeva, a differenza delle altre due regioni, la possibilità di poter decidere anche in tema di coordinamento con la finanza pubblica e con il sistema tributario, nonché di occuparsi del governo del territorio.
Successivamente nell’estate del 2018, durante il primo Governo Conte, tutte le tre Regioni hanno manifestato l’intenzione di ampliare il novero delle materie da trasferire. Ad esse si sono poi aggiunte altre Regioni che pur non avendo sottoscritto alcuna forma di intesa preliminare hanno espresso la volontà di ottenere ulteriori forme di autonomia; in particolare sono pervenute al Governo le richieste da parte di Piemonte, Liguria, Toscana, Umbria, Marche e Campania.
A febbraio del 2019 il Ministro per gli affari regionali ha illustrato i contenuti delle intese tra Governo e Regioni Veneto, Emilia Romagna e Lombardia, aprendo così un ampio dibattito tra le parti in causa. Le problematiche oggetto di analisi ed approfondimento hanno riguardato, tra le altre, le modalità di coinvolgimento degli enti locali, il ruolo del Parlamento e la possibilità di poter presentare emendamenti al disegno di legge che contiene gli accordi e la determinazione dell’ampiezza delle materie da attribuire. Al fine di poter effettuare una stima del valore delle competenze trasferite, sono stati definiti dei costi standard (cioè l’individuazione di costi unitari per effettuare una prestazione) e dei livelli essenziali di prestazione (LEP, cioè livelli minimi di prestazione che si vuole vengano garantiti su tutto il territorio nazionale al fine di escludere difformità di prestazioni a livello locale) con la finalità di definire la problematica di natura finanziaria. La definizione dei LEP ha trovato un posto anche tra le riforme previste nel Piano nazionale di ripresa e resilenza (PNRR) con scadenza nel marzo 2026.
Nel 2020, durante il secondo Governo Conte, è stato previsto di far precedere la stipula delle intese dall’approvazione di una legge-quadro che definisse le modalità di attuazione della autonomia differenziata, posizione che è stata confermata anche dal Governo Draghi che durante il 2021 ha lavorato per istituire una apposita Commissione con compiti di studio, supporto e consulenza. Tale Commissione ha fornito spunti di riflessione per una prima definizione del testo di disegno di legge-quadro; tuttavia nel 2022, alla fine della XVIII legislatura, il disegno di legge non è stato presentato.
Con la XIX legislatura, nella riunione del 15 marzo del 2023 il Consiglio dei Ministri ha approvato un disegno di legge che determina i principi generali per l’attribuzione di particolari forme di autonomia a favore delle Regioni a statuto ordinario. Tale disegno di legge, che contiene disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata, è stato presentato al Senato dove ha iniziato l’iter di esame presso la Commissione affari costituzionali nel maggio del 2023. Nello specifico si dispone che il procedimento di approvazione delle intese deve partire dalla Regione interessata, sentiti gli Enti Locali, e l’iniziativa può riguardare una o più materie; il negoziato tra Governo e Regione servirà per definire uno schema di intesa preliminare. Lo schema dovrà poi essere corredato di relazione tecnica (che espliciti e quantifichi oneri e/o minore o maggior gettito) e dovrà acquisire entro 30 giorni il parere della Conferenza unificata Stato Regioni. Nell’ambito delle intese tra Stato e Regioni dovrà essere indicata anche la durata dell’accordo che non potrà, in ogni caso, eccedere i 10 anni; esso potrà essere revisionato su iniziativa di una delle due parti. Alla scadenza del termine di durata dell’intesa essa si intende rinnovata per un altro decennio, salva diversa volontà dello Stato o della Regione, e ciò deve essere espressamente dichiarato almeno un anno prima della scadenza. Nell’eventualità che si vogliano attribuire nuove funzioni in ambito di diritti civili e sociali, garantiti su tutto il territorio nazionale, sarà necessario determinare prioritariamente i livelli essenziali delle prestazioni (LEP), al fine di assicurare efficacia ed omogeneità su tutto il territorio nazionale dei servizi prestati, nonché i costi e i fabbisogni standard, con lo scopo di monitorare l’efficienza dell’attività gestionale per evitare sprechi e disservizi. Il finanziamento dei livelli di prestazione sulla base dei relativi costi e fabbisogni standard viene attuato nel rispetto degli equilibri e della parità di bilancio così come previsto dalla legge di contabilità e finanza pubblica; infatti qualora dai nuovi livelli di prestazione dovessero derivare maggiori oneri per l’erario, si procederà al trasferimento delle funzioni a livello regionale solo dopo che saranno state individuate nuove o maggiori risorse che consentiranno di garantire il pareggio di bilancio. Sia lo Stato sia la Regione potranno poi disporre verifiche atte a valutare il raggiungimento dei livelli essenziali delle prestazioni.
Il 3 maggio del 2023 la Commissione affari costituzionali del Senato ha iniziato l’esame del disegno di legge per l’attuazione dell’autonomia differenziata; il successivo 6 giugno è stato definito il testo sulla cui base sono stati presentati alcuni emendamenti. Il termine ultimo è stato il 3 agosto, data in cui gli emendamenti dei relatori sono stati presentati per recepire le condizioni presentate dalla Commissione bilancio e sono così iniziate le votazioni sugli ordini del giorno. Quando sarà dato il benestare dalle Commissioni parlamentari la legge approderà in Parlamento; tuttavia prima di tale passaggio è necessario che una Cabina di regia stabilisca i livelli di LEP che serviranno a suddividere le diverse prestazioni, riconducibili alle differenti materie di interesse regionale, individuandone costi e fabbisogni standard.
Compreso così l’iter e la sostanza politica dell’autonomia differenziata non rimane che interrogarsi su quanto sia positiva ed inderogabile questa scelta; da più parti infatti ci si è domandato se rappresenti davvero una gestione controllata e più efficiente della spesa pubblica o se invece non significhi rimarcare ancora di più le differenze e le disuguaglianze tra Regioni più ricche e quelle meno prospere. Riassumendo l’autonomia differenziata consente alle Regioni a statuto ordinario di poter disporre autonomamente su materie di competenza concorrente con lo Stato ed in tre materie di competenza esclusiva; per finanziare tali attività le Regioni tratterrebbero una parte del gettito fiscale incassato sul proprio territorio, ma destinato all’Erario. Quindi questa parte di gettito non verrebbe più suddiviso a livello nazionale in ragione dei parametri di popolazione e di necessità locali. Questo tipo di autonomia, prevista dall’articolo 116 della Costituzione non è  mai stata attuata proprio per la delicatezza della questione che pone in campo le grandi differenze che esistono sul territorio italiano, in particolare con riferimento alla spaccatura tra nord e sud del Paese. Autonomie di questo genere sono considerate pericolose in quanto potrebbero acuire ancora di più le già presenti situazioni di disuguaglianza all’interno del territorio nazionale.
Naturalmente si annoverano soggetti a favore e soggetti contro; chi è a favore dell’autonomia differenziata basa le proprie considerazioni essenzialmente sul principio che sottolinea la necessità che la spesa pubblica sia strettamente collegata con la collettività che sopporta l’imposizione, secondo il concetto per cui: più è stretto il rapporto tra chi paga i tributi e chi spende le risorse e maggiore sarà il controllo con la conseguenza che sarà migliorato il livello di economicità e saranno minimizzati gli sprechi. Questa teoria si basa sullo stretto legame tra i politici locali, che conoscono il territorio sul quale governano, ed i cittadini che in esso vivono e che possono verificare e controllare direttamente il loro operato, decidendo al momento dell’espressione del voto. Inoltre i servizi necessari su un territorio saranno calibrati secondo gli effettivi bisogni, escludendo quindi costi basati sul criterio storico della spesa che non verifica le effettive necessità ma stima gli oneri pubblici in ragione di quanto fatto nel passato. Però prima di escludere il criteri della spesa storia sarà necessario implementare e quantificare i LEP che vanno garantiti su tutto il territorio nazionale.
Coloro che sono contrari a questa forma di autonomia sottolineano la sottrazione di risorse che andrebbero invece ripartite sul territorio nazionale per evitare una differenziazione dei servizi e delle infrastrutture ed una disgregazione del tessuto socio-economico nazionale. Essi si appellano anche ai principi costituzionali e di scienza delle finanze che richiamano la solidarietà politico, economica e sociale tra i contribuenti, ciascuno in base alla propria capacità contributiva, che deriva dal reddito complessivo prodotto (principio che ha determinato, per esempio, la progressività dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, IRPEF). Un’attenzione particolare poi deve essere posta sui servizi pubblici strategici del paese: i trasporti, l’energia, la sanità, l’istruzione; è necessario che essi vengano forniti con uguale intensità e qualità su tutto il territorio nazionale al fine di evitare che territori più svantaggiati soffrano ancora di più, amplificando le differenze negative rispetto al resto del territorio. Infatti in un sistema di autonomia le risorse delle zone più ricche rimarrebbero circoscritte nel territorio aumentando le differenze non solo a livello nazionale ma anche all’interno delle Regioni stesse.
L’analisi macroeconomica evidenzierebbe che anche le Regioni ad autonomia differenziata sarebbero penalizzate perché l’economia nazionale, che si basa per una buona parte anche sulle produzioni del Mezzogiorno, di fronte a diversità socio-economiche si presenterebbe come un sistema complessivo zoppo, destinato al collasso. Non mancano poi economisti che sottolineano l’attuale inesistenza di un modello che possa verificare le capacità di gestione di una Regione rispetto allo Stato: siamo sicuri che le Regioni sappiano fare meglio e di più rispetto al Governo nazionale o che la frammentazione territoriale dei servizi ne migliori l’efficienza e l’efficacia? Senza un sistema collaudato di misurazione degli obiettivi e dei risultati, nonché senza politiche di controllo di gestione, ogni ipotesi rimane vacua e priva di fondamento. Da anni si chiede un esame a consuntivo della gestione della cosa pubblica; un simile controllo aiuterebbe a governare gli scostamenti e a ragionare in merito a possibili azioni correttive che, a prescindere dalla tipologia di politiche territoriali o nazionali, contribuirebbe a verificare e a garantire l’utilizzo economico delle risorse che ognuno di noi, a legislazione vigente, versa sia all’Erario sia agli Enti Locali.
 
 
 
 
 

 

LE REGIONI A STATUTO SPECIALE: QUESTIONI STORICHE
di Alessandra Di Giovambattista
 
Le Regioni a statuto speciale presenti in Italia rappresentano una innovazione della Costituzione Repubblicana del 1948 rispetto allo Statuto Albertino che non le contemplava. Dette Regioni sono le realtà locali più importanti nella struttura territoriale dello Stato che si presenta come un unicum suddiviso in Regioni a statuto ordinario.
Le Regioni a statuto speciale godono tutte del medesimo livello di autonomia rispetto allo Stato centrale e l’articolo 116 della Costituzione ne prevede cinque: il Friuli-Venezia Giulia, la Sardegna, la Sicilia, il Trentino-Alto Adige/Sud Tirolo (per quanto riguarda il Trentino-Alto Adige occorre sottolineare che negli anni settanta si è deciso di frazionare il territorio regionale in due Province autonome, quella di Trento e quella di Bolzano), e la Valle d’Aosta. Esse dispongono di forme e condizioni particolari di autonomia, ognuna secondo le norme contenute nei rispettivi Statuti speciali che vengono adottati con legge costituzionale. In particolare le competenze legislative ed amministrative, nonché l’ordinamento e l’organizzazione finanziaria sono disciplinati dallo statuto speciale e dalle sue norme di attuazione.
Per approfondire si specifica che la legge costituzionale è un particolare atto normativo che ha un rango analogo a quello della Carta Costituzionale il cui procedimento di approvazione è definito dall’articolo 138 della Costituzione stessa con una procedura che viene definita aggravata in quanto prevede passaggi più complessi rispetto a quelli previsti per l’emanazione delle leggi ordinarie. Nello specifico la Costituzione dispone che le leggi costituzionali debbono essere adottate da ciascuna Camera (Senato e Camera dei Deputati) con due deliberazioni successive che intercorrono a distanza di almeno tre mesi e sono previste maggioranze assolute dei componenti.
Mentre le Regioni a statuto ordinario con semplice legge regionale provvedono a disciplinare determinati argomenti nel contesto dell’ordinamento generale delle Regioni (articolo 123 della Costituzione), gli statuti delle Regioni ad autonomia differenziata provvedono a definire in regime autonomo ed anche in deroga alle norme costituzionali – però solo in determinati casi specifici in quanto vanno comunque salvaguardati i principi fondamentali della Costituzione Italiana - sulle quali prevalgono per effetto del principio di specialità. In sostanza l’autonomia differenziata di queste porzioni di territorio italiano è rappresentata dal fatto che vengono riconosciuti dei margini di autonomia maggiori nei confronti dello Stato, rispetto alle altre Regioni ordinarie (a queste ultime, ad esempio viene preclusa la capacità normativa in materia di autonomia finanziaria dallo Stato che invece viene autorizzata per le Regioni a statuto speciale).
Ci si domanda tuttavia quando e perché fu opportuno istituire tali realtà geo-politiche che da alcuni sono considerate oggi anacronistiche e generatrici di disuguaglianze territoriali che si traducono di fatto in maggior ricchezza in questi territori autonomi rispetto alle regioni a statuto ordinario. La necessità è di natura storica ed è riconducibile al periodo della ricostruzione dopo la conclusione della seconda guerra mondiale; inizialmente i territori a cui si decise di riconoscere delle forme di autonomia governativa furono solo quattro; non era incluso il Friuli-Venezia Giulia che fu invece aggiunto con legge costituzionale nel 1963. Ognuno di questi territori aveva delle storie peculiari in cui si ritrovano le ragioni della scelta di forme di autogoverno.
In generale, il riconoscimento dell’autonomia speciale fu dovuto alla presenza di numerosi movimenti separatisti nei territori come la Valle d’Aosta , il Trentino-Alto Adige e il Friuli-Venezia Giulia dove la presenza di minoranze linguistiche, che parlano idiomi diversi da quello italiano, avrebbero potuto compromettere la coesione nazionale. Nello specifico in Valle d’Aosta si parla il francese, in Trentino-Alto Adige il tedesco ed il ladino, mentre in Friuli-Venezia Giulia lo sloveno. Il compromesso trovato dall’assemblea Costituente fu quindi l’istituzione dell’autonomia speciale che ha permesso allo Stato italiano di mantenere inalterati i confini geo-politici, ma concedendo più indipendenza a territori caratterizzati da elementi di peculiarità rispetto al altri.
L’autonomia concessa al Trentino-Alto Adige/sud Tirolo fu riconosciuta in quanto tale territorio già godeva di una lunga tradizione di autogoverno, in più occorreva dominare ed imbrigliare le forti spinte separatiste che volevano un ricongiungimento con la vicina Austria. Si decise quindi di tutelare la minoranza Altoatesina di lingua tedesca per garantirne l’evoluzione e la convivenza socio culturale ed economica con il gruppo linguistico italiano presente nel territorio del Trentino.
Invece in Sicilia il movimento separatista aveva dei precedenti storici ben radicati e dopo lo sbarco alleato del 1943 scoppiò la scintilla indipendentista già presente prima della prima guerra mondiale. In particolare lo slogan all’epoca era: “la Sicilia ai siciliani” e nel luglio del 1943 con un proclama ufficiale la Sicilia preannunciava la secessione dall’Italia e chiedeva controllo ed aiuto a livello internazionale. In quel periodo la volontà era di fare della Sicilia uno stato indipendente; da qui la necessità per il nuovo Stato italiano repubblicano di riconoscere l’autonomia alla più grande isola del Mediterraneo, ed infatti con il riconoscimento dello statuto speciale siciliano emanato il 15 maggio del 1946 decrebbe rapidamente l’interesse al secessionismo da parte della popolazione isolana.
Anche in Sardegna il movimento secessionista era forte; in particolare l’isola riuniva popolazioni diverse per lingua e cultura che l’Italia dei primi del novecento non era riuscita a far convivere. In particolare le masse popolari si opposero ai governi di Giolitti e furono recuperate le spinte indipendentiste che restituivano valore alla storia ed alla cultura isolana (con particolare riferimento alla civiltà nuragica e a quella giudicale). Lo stesso Antonio Gramsci che era vissuto diversi anni a Cagliari era convinto che bisognasse lottare per l’indipendenza nazionale della Sardegna. Questo movimento fu sostenuto fino al 1913, ma con lo scoppio delle due grandi guerre il problema della secessione passò in secondo piano; tuttavia con la conclusione della seconda guerra mondiale venne approvato lo Statuto speciale di autonomia della Sardegna, il 31 gennaio 1948 e promulgato il 26 febbraio del 1948, che ne assicurò un certo grado di indipendenza e di autogoverno.
In val d’Aosta, con lo scoppio dell’ultimo conflitto mondiale, si crearono forti movimenti anti nazifascisti e nella regione si organizzarono gruppi di partigiani che diedero vita alla resistenza valdostana. Ciò che caratterizzò la lotta di liberazione era il fatto che tali gruppi si basassero essenzialmente sulle forze autoctone cercando di evitare di chiedere aiuti a forze partigiane italiane e ciò perché l’obiettivo politico non si limitava all’eliminazione del nazifascismo, ma si estendeva al recupero delle forme di autonomia che avevano caratterizzato la storia della regione. In tale contesto si sviluppò la prospettiva del secessionismo e dell’annessione alla vicina Francia, cosa che l’Italia scongiurò prevedendo l’autonomia speciale della regione Valle d’Aosta.
Anche la storia separatista del Friuli-Venezia Giulia ha origini antiche; dopo la disfatta di Caporetto del 1917 i rappresentanti friulani presso il Parlamento di Vienna iniziarono una campagna politica per l’autonomia del Friuli orientale (con capoluogo Gorizia) appoggiata anche dal Partito cattolico popolare del Friuli. Nel 1918 tali territori ottennero la piena libertà di autodeterminazione grazie ad un proclama di Carlo I (ultimo imperatore d’Austria). Successivamente, durante il periodo fascista, il Friuli subì un processo di assimilazione culturale a scapito delle popolazioni di lingua slovena e tedesca; si innescarono anche movimenti che premevano sulla comunità friulana affinché si contrapponesse alla comunità slava. Dopo la seconda guerra mondiale, e precisamente nel 1945, nacque ad Udine l’Associazione per l’autonomia friulana che aveva come obiettivo quello di sostenere che il Friuli possedeva cultura e tradizioni nettamente distinte dalle limitrofe regioni del Veneto e della Giuliana e pertanto era naturale che avesse la più ampia autonomia politico-amministrativa ed economica nell’ambito dello Stato italiano. Nel 1947 si sviluppò anche il radicale Movimento popolare Friulano con l’intento di ottenere la più ampia autonomia dal potere politico-amministrativo italiano. Ma solo negli anni 60 si iniziò a discutere sulla creazione della Regione autonoma del Friuli-Venezia Giulia, una realtà territoriale di confine con un territorio comunista (ex Jugoslavia) che limitava lo sviluppo economico della Regione a causa della guerra fredda, e con un elevato tasso di emigrazione. In questa situazione nacquero e si consolidarono delle tendenze separatiste e anti-italiane che spinsero il governo al riconoscimento dell’autonomia speciale di questa regione.

 

 

LE REGIONI A STATUTO SPECIALE: QUESTIONI STORICHE
di Alessandra Di Giovambattista

Le Regioni a statuto speciale presenti in Italia rappresentano una innovazione della Costituzione Repubblicana del 1948 rispetto allo Statuto Albertino che non le contemplava. Dette Regioni sono le realtà locali più importanti nella struttura territoriale dello Stato che si presenta come un unicum suddiviso in Regioni a statuto ordinario.
Le Regioni a statuto speciale godono tutte del medesimo livello di autonomia rispetto allo Stato centrale e l’articolo 116 della Costituzione ne prevede cinque: il Friuli-Venezia Giulia, la Sardegna, la Sicilia, il Trentino-Alto Adige/Sud Tirolo (per quanto riguarda il Trentino-Alto Adige occorre sottolineare che negli anni settanta si è deciso di frazionare il territorio regionale in due Province autonome, quella di Trento e quella di Bolzano), e la Valle d’Aosta. Esse dispongono di forme e condizioni particolari di autonomia, ognuna secondo le norme contenute nei rispettivi Statuti speciali che vengono adottati con legge costituzionale. In particolare le competenze legislative ed amministrative, nonché l’ordinamento e l’organizzazione finanziaria sono disciplinati dallo statuto speciale e dalle sue norme di attuazione.
Per approfondire si specifica che la legge costituzionale è un particolare atto normativo che ha un rango analogo a quello della Carta Costituzionale il cui procedimento di approvazione è definito dall’articolo 138 della Costituzione stessa con una procedura che viene definita aggravata in quanto prevede passaggi più complessi rispetto a quelli previsti per l’emanazione delle leggi ordinarie. Nello specifico la Costituzione dispone che le leggi costituzionali debbono essere adottate da ciascuna Camera (Senato e Camera dei Deputati) con due deliberazioni successive che intercorrono a distanza di almeno tre mesi e sono previste maggioranze assolute dei componenti.
Mentre le Regioni a statuto ordinario con semplice legge regionale provvedono a disciplinare determinati argomenti nel contesto dell’ordinamento generale delle Regioni (articolo 123 della Costituzione), gli statuti delle Regioni ad autonomia differenziata provvedono a definire in regime autonomo ed anche in deroga alle norme costituzionali – però solo in determinati casi specifici in quanto vanno comunque salvaguardati i principi fondamentali della Costituzione Italiana - sulle quali prevalgono per effetto del principio di specialità. In sostanza l’autonomia differenziata di queste porzioni di territorio italiano è rappresentata dal fatto che vengono riconosciuti dei margini di autonomia maggiori nei confronti dello Stato, rispetto alle altre Regioni ordinarie (a queste ultime, ad esempio viene preclusa la capacità normativa in materia di autonomia finanziaria dallo Stato che invece viene autorizzata per le Regioni a statuto speciale).
Ci si domanda tuttavia quando e perché fu opportuno istituire tali realtà geo-politiche che da alcuni sono considerate oggi anacronistiche e generatrici di disuguaglianze territoriali che si traducono di fatto in maggior ricchezza in questi territori autonomi rispetto alle regioni a statuto ordinario. La necessità è di natura storica ed è riconducibile al periodo della ricostruzione dopo la conclusione della seconda guerra mondiale; inizialmente i territori a cui si decise di riconoscere delle forme di autonomia governativa furono solo quattro; non era incluso il Friuli-Venezia Giulia che fu invece aggiunto con legge costituzionale nel 1963. Ognuno di questi territori aveva delle storie peculiari in cui si ritrovano le ragioni della scelta di forme di autogoverno.
In generale, il riconoscimento dell’autonomia speciale fu dovuto alla presenza di numerosi movimenti separatisti nei territori come la Valle d’Aosta , il Trentino-Alto Adige e il Friuli-Venezia Giulia dove la presenza di minoranze linguistiche, che parlano idiomi diversi da quello italiano, avrebbero potuto compromettere la coesione nazionale. Nello specifico in Valle d’Aosta si parla il francese, in Trentino-Alto Adige il tedesco ed il ladino, mentre in Friuli-Venezia Giulia lo sloveno. Il compromesso trovato dall’assemblea Costituente fu quindi l’istituzione dell’autonomia speciale che ha permesso allo Stato italiano di mantenere inalterati i confini geo-politici, ma concedendo più indipendenza a territori caratterizzati da elementi di peculiarità rispetto al altri.
L’autonomia concessa al Trentino-Alto Adige/sud Tirolo fu riconosciuta in quanto tale territorio già godeva di una lunga tradizione di autogoverno, in più occorreva dominare ed imbrigliare le forti spinte separatiste che volevano un ricongiungimento con la vicina Austria. Si decise quindi di tutelare la minoranza Altoatesina di lingua tedesca per garantirne l’evoluzione e la convivenza socio culturale ed economica con il gruppo linguistico italiano presente nel territorio del Trentino.
Invece in Sicilia il movimento separatista aveva dei precedenti storici ben radicati e dopo lo sbarco alleato del 1943 scoppiò la scintilla indipendentista già presente prima della prima guerra mondiale. In particolare lo slogan all’epoca era: “la Sicilia ai siciliani” e nel luglio del 1943 con un proclama ufficiale la Sicilia preannunciava la secessione dall’Italia e chiedeva controllo ed aiuto a livello internazionale. In quel periodo la volontà era di fare della Sicilia uno stato indipendente; da qui la necessità per il nuovo Stato italiano repubblicano di riconoscere l’autonomia alla più grande isola del Mediterraneo, ed infatti con il riconoscimento dello statuto speciale siciliano emanato il 15 maggio del 1946 decrebbe rapidamente l’interesse al secessionismo da parte della popolazione isolana.
Anche in Sardegna il movimento secessionista era forte; in particolare l’isola riuniva popolazioni diverse per lingua e cultura che l’Italia dei primi del novecento non era riuscita a far convivere. In particolare le masse popolari si opposero ai governi di Giolitti e furono recuperate le spinte indipendentiste che restituivano valore alla storia ed alla cultura isolana (con particolare riferimento alla civiltà nuragica e a quella giudicale). Lo stesso Antonio Gramsci che era vissuto diversi anni a Cagliari era convinto che bisognasse lottare per l’indipendenza nazionale della Sardegna. Questo movimento fu sostenuto fino al 1913, ma con lo scoppio delle due grandi guerre il problema della secessione passò in secondo piano; tuttavia con la conclusione della seconda guerra mondiale venne approvato lo Statuto speciale di autonomia della Sardegna, il 31 gennaio 1948 e promulgato il 26 febbraio del 1948, che ne assicurò un certo grado di indipendenza e di autogoverno.
In val d’Aosta, con lo scoppio dell’ultimo conflitto mondiale, si crearono forti movimenti anti nazifascisti e nella regione si organizzarono gruppi di partigiani che diedero vita alla resistenza valdostana. Ciò che caratterizzò la lotta di liberazione era il fatto che tali gruppi si basassero essenzialmente sulle forze autoctone cercando di evitare di chiedere aiuti a forze partigiane italiane e ciò perché l’obiettivo politico non si limitava all’eliminazione del nazifascismo, ma si estendeva al recupero delle forme di autonomia che avevano caratterizzato la storia della regione. In tale contesto si sviluppò la prospettiva del secessionismo e dell’annessione alla vicina Francia, cosa che l’Italia scongiurò prevedendo l’autonomia speciale della regione Valle d’Aosta.
Anche la storia separatista del Friuli-Venezia Giulia ha origini antiche; dopo la disfatta di Caporetto del 1917 i rappresentanti friulani presso il Parlamento di Vienna iniziarono una campagna politica per l’autonomia del Friuli orientale (con capoluogo Gorizia) appoggiata anche dal Partito cattolico popolare del Friuli. Nel 1918 tali territori ottennero la piena libertà di autodeterminazione grazie ad un proclama di Carlo I (ultimo imperatore d’Austria). Successivamente, durante il periodo fascista, il Friuli subì un processo di assimilazione culturale a scapito delle popolazioni di lingua slovena e tedesca; si innescarono anche movimenti che premevano sulla comunità friulana affinché si contrapponesse alla comunità slava. Dopo la seconda guerra mondiale, e precisamente nel 1945, nacque ad Udine l’Associazione per l’autonomia friulana che aveva come obiettivo quello di sostenere che il Friuli possedeva cultura e tradizioni nettamente distinte dalle limitrofe regioni del Veneto e della Giuliana e pertanto era naturale che avesse la più ampia autonomia politico-amministrativa ed economica nell’ambito dello Stato italiano. Nel 1947 si sviluppò anche il radicale Movimento popolare Friulano con l’intento di ottenere la più ampia autonomia dal potere politico-amministrativo italiano. Ma solo negli anni 60 si iniziò a discutere sulla creazione della Regione autonoma del Friuli-Venezia Giulia, una realtà territoriale di confine con un territorio comunista (ex Jugoslavia) che limitava lo sviluppo economico della Regione a causa della guerra fredda, e con un elevato tasso di emigrazione. In questa situazione nacquero e si consolidarono delle tendenze separatiste e anti-italiane che spinsero il governo al riconoscimento dell’autonomia speciale di questa regione.