LA VALUTAZIONE DELL’IMPATTO SOCIALE DEGLI ENTI DEL TERZO SETTORE

di Alessandra Di Giovambattista

 26-11-2024

Il fenomeno delle associazioni senza scopo di lucro (anche conosciute come no profit) ha iniziato a svilupparsi in Italia nel dopoguerra, anche se occorre sottolineare la peculiarità delle attività di volontariato senza finalità di profitto svolte nel nostro Paese soprattutto dalle organizzazioni e confraternite religiose; ad esse deve riconoscersi, nel corso della storia, anche la più lontana, il merito di aver sollevato tanti indigenti dalle situazioni di estrema povertà e precarietà dando vita alle prime vere ed effettive associazioni con scopo benefico (basti ricordare i primi ospedali per i più poveri, le prime scuole per i bambini indigenti, i primi centri di accoglienza per persone con disabilità ed handicap). Invece le esperienze private più importanti, e che fungono da apripista, possiamo ritrovarle negli Stati Uniti dove anche prima della seconda guerra mondiale (all’incirca vero il 1914 con la Fondazione Cleveland), si iniziò a porre attenzione alle situazioni sociali più marginali che richiedevano, in risposta, delle attività di solidarietà. Si crearono pertanto associazioni filantropiche che, entrando in contatto - anche grazie alla diffusione dei mezzi di informazione - con realtà di disagio economico, sociale, sanitario, si ponevano l’obiettivo di provare a rispondere alle necessità spesso primarie di gruppi di soggetti. Infatti gli Stati, e soprattutto quelli basati su un approccio privatistico delle attività economiche, non volevano e non sapevano rispondere alle esigenze dei meno fortunati, così come non erano sensibili alle difficoltà che incontravano i Paesi più arretrati. Quindi queste associazioni, attraverso una politica di solidarietà ed anche di volontariato, cercavano di risollevare le sorti dei più deboli presenti sia all’interno della propria nazione, sia nei Paesi esteri.

Negli anni successivi il fenomeno dell’associazionismo senza scopo di lucro ha visto una rapida crescita e quindi anche gli Stati si sono visti costretti ad interessarsi a queste organizzazioni cercando di darne una chiave di lettura sia giuridica sia fiscale. In tale ultimo ambito, in ragione delle attività meritorie svolte e degli obiettivi etici perseguiti, questi enti, anche definiti enti del terzo settore (ETS), spesso godono di agevolazioni ed esenzioni fiscali o comunque di regimi tributari speciali più leggeri. Nascono così gli ETS - la cui definizione è fornita dalla riforma delle associazioni senza scopo di lucro contenuta nel decreto legislativo n. 117 del 2017 - che si pongono come un qualcosa di altro tra la sfera dello Stato e delle pubblica amministrazione (primo settore) e l’ambito del mercato e delle imprese (individuato come secondo settore). Quindi l’ordimento si arricchisce con un terzo settore formato da enti con finalità benefiche, civiche e di utilità sociale - i cui campi d’azione vanno dalla cura socio sanitaria, all’istruzione, alla formazione, all’aiuto di migranti, all’inserimento economico produttivo di persone con disabilità, vicinanza alle persone fragili e deboli - che, giocoforza, confliggono con l’impostazione classica delle entità a scopo di lucro. Anzi la loro attività è ricondotta al principio di sussidiarietà sancito dalla Costituzione e ne viene incoraggiata l’istituzione. Per le importanti funzioni sociali ed economiche svolte, anche gli ETS, come qualunque realtà associativa, hanno bisogno sia per motivi civilistici sia fiscali di avere un momento di rendicontazione (presentando il bilancio sociale) per fornire informazioni quali-quantitative utilizzabili sia all’interno dell’ente stesso, sia per tutti coloro che presentano degli interessi (c.d. stakeholders) con le finalità di non disperdere risorse e di valutare costantemente la gestione e le strategie migliorandone eventualmente piani e programmi.

È così che, molto rapidamente, si arriva al 12 settembre 2019 giorno in cui in Gazzetta Ufficiale è stato pubblicato il decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali del 23 luglio 2019, contenente le linee guida per la realizzazione di sistemi di valutazione dell’impatto sociale (VIS) delle attività svolte dagli ETS. In particolare vengono individuati una serie di indicatori (report) per valutare l’opera svolta dagli enti no profit, finalizzata al raggiungimento di obiettivi sociali preordinati e valutati nel breve, medio e lungo periodo: pertanto gli indici di natura quali-quantitativa, sono stati creati per cercare di rappresentare oggettivamente e misurare le attività svolte, la programmazione futura e gli obiettivi raggiunti. Tali indicatori andranno applicati sulle risultanze dei bilanci sociali e messi a disposizione di tutti i soggetti interessati alla gestione degli ETS, i c.d. stakeholders.Questi ultimi sono individuabili tra: finanziatori e donatori (cioè coloro che intendono condividere e raggiungere gli obiettivi attraverso le erogazioni finanziarie liberali); i diretti beneficiari degli interventi (che hanno interesse a comprendere la qualità dell’attività svolta ed il miglioramento sociale raggiunto); i lavoratori, i collaboratori ed i volontari (che prendono consapevolezza del loro operato); i cittadini (che hanno un interesse a comprendere le ricadute sociali delle risorse impiegate in enti benefici); i soggetti pubblici (che hanno l’obbligo di fornire tutte le informazioni circa l’utilizzo delle risorse pubbliche destinate agli ETS beneficiari di eventuali finanziamenti). In termini più tecnici il decreto si esprime nel senso di sottolineare che il sistema di valutazione dell’impatto sociale, implementato in via sperimentale, ha come scopo quello di far emergere e conoscere il valore aggiunto prodotto dagli ETS, la sostenibilità della loro azione individuandone eventuali punti di forza o di debolezza, nonché le modifiche apportate nel contesto collettivo di riferimento dalle politiche sociali.

Un ulteriore aspetto che beneficerà dalla trasparenza derivante del processo di valutazione dell’attività svolta, attraverso gli indicatori di impatto sociale, è rappresentato dalla possibilità che tali enti possano accedere a bandi e finanziamenti pubblici. Pertanto l’obiettivo concreto è quello di poter fornire dati ed informazioni che siano i più oggettivi possibili visto che le attività svolte dagli ETS esulano da approcci di natura strettamente efficientista (valutabili in estrema sintesi con il profitto che nasce dal confronto tra costi e ricavi di periodo) e sono invece indirizzate verso obiettivi di natura qualitativa e pertanto di efficacia (dove conta il raggiungimento di obiettivi di natura sociale, sanitaria, scolastica, ecc) che difficilmente sono rappresentabili in termini di costi e ricavi, e movimenti di attività e passività, di natura esclusivamente economico-finanziaria. Per ora tale valutazione non è però considerata obbligatoria in quanto, come detto, il sistema è implementato in via sperimentale; tuttavia l’utilizzo della VIS, rendendo trasparente l’operato degli ETS, permetterà agli eventuali finanziatori ed agli stakeholders in generale di partecipare con più cognizione e condivisione al raggiungimento degli obiettivi che si pone l’ente, nonché, come già detto, di poter partecipare a bandi di affidamento di servizi di interesse generale emanati da enti locali ed amministrazioni pubbliche in generale. Pur nella sua caratteristica di utilizzo facoltativo, la VIS viene inquadrata all’interno di linee guida, espresse dal decreto stesso, che ne indicano principi e contenuti minimi lasciando quindi un elevato grado di autonomia agli enti che vogliano utilizzarla; in particolare i principi a cui la VIS deve ispirarsi sono: la rilevanza, secondo la quale le informazioni fornite devono essere capaci di dare evidenza degli effettivi obiettivi posti; l’intenzionalità, secondo la quale i dati forniti devono avere un contenuto concreto e funzionale alla programmazione decisa; affidabilità, in ragione della quale le informazioni devono essere precise, veritiere, non di parte e con indicazione delle specifiche fonti di provenienza; misurabilità, secondo cui i parametri quantitativi applicabili ad alcuni aspetti devono essere verificabili e permettere di comporre indici ed indicatori valutabili nel tempo (breve, medio e lungo periodo) e nello spazio (comparabilità con realtà analoghe).

L’obiettivo che il legislatore si è posto è quello di poter valutare all’interno ed all’esterno l’operato degli ETS con la speranza di rendere sempre più efficace e sostenibile l’azione da essi svolta garantendo risultati che evitino di disperdere risorse e cercando di integrare ed inserire nelle comunità gli emarginati, gli esclusi e tutti coloro che per i più disparati motivi si trovano nelle zone più periferiche e deboli delle nostre società e delle nostre esistenze.



ASCESA E DECLINO DELLA CASSA PER IL MEZZOGIORNO: LE CAUSE.

di Alessandra Di Giovambattista

 12-11-2024

L’Italia del dopo guerra ha visto una crescita economica a ritmi elevati arrivando a collocarsi tra i Paesi più avanzati, grazie al c.d. miracolo economico che ha industrializzato ed innovato, anche nella cultura e nella mentalità, il nostro tessuto sociale e produttivo ed in cui la Cassa per il Mezzogiorno può essere considerata, almeno per l’attività svolta nei primi 15 anni, l’attore fondamentale della crescita industriale nel territorio Meridionale e non solo. In quel periodo si era ben compreso che lo sviluppo doveva essere omogeneo e riguardare tutti i territori italiani in quanto una nazione è solida solo quando c’è equa distribuzione delle risorse e pari opportunità che consentono di tenere un passo sincrono in tutte le zone del Paese.

La rinascita del Mezzogiorno passava necessariamente attraverso un processo di industrializzazione ed ammodernamento con l’obiettivo di creare nuovi posti di lavoro e cercare di trattenere il fenomeno della emigrazione. I primi lavori della Cassa, all’inizio degli anni 50, riguardarono le infrastrutture fondamentali cioè “sistemi coerenti di opere straordinarie”, che dovevano garantire salubrità e sicurezza del territorio; si iniziò quindi dalle grandi bonifiche territoriali, dalla sistemazione dei territori montani, degli acquedotti e delle fognature. Si costruirono strade e ferrovie che erano alla base di quelle opere civili che avrebbero dovuto sostenere il successivo processo di crescita industriale in tutti i settori. Successivamente infatti la Cassa si concentrò sul potenziamento dell’industria, armonizzandola con la crescita economica complessiva del Paese, attraverso la concessione di prestiti a tasso agevolato e di sovvenzioni a favore delle aziende che avessero installato a Sud i propri impianti; fu curata anche l’istruzione, soprattutto quella professionale.

Così sul finire degli anni 50 con il boom economico inizia il processo di industrializzazione con un’attenzione particolare ai territori dove già esistevano degli agglomerati produttivi, una posizione economica favorevole agli scambi ed un gruppo ampio di Comuni limitrofi ad un centro principale, in grado di garantire mano d’opera. Pertanto la strategia si concentrò sui “poli di sviluppo”, cioè aree in grado di utilizzare le sinergie garantite da reti industriali formate da nuove fabbriche complementari al polo centrale, da infrastrutture di collegamento e di servizi, da lavoratori con mansioni e capacità diversificate. Così sul territorio Meridionale furono create le “aree di sviluppo industriale” ed i “nuclei dell’industrializzazione”; per implementarne la crescita furono devoluti incentivi finanziari per l’installazione di impianti e strutture. Dapprima le risorse finanziarie furono garantite a piccole imprese essenzialmente territoriali, ma dopo furono devoluti anche ad imprese di più grandi dimensioni provenienti dal Nord Italia. Inoltre per incrementare il decollo economico le normative esistenti obbligavano le imprese di proprietà statale ad ubicare i nuovi investimenti e le relative attività per il 60% nel Meridione.

Secondo le relazioni fornite dalla Cassa per il Mezzogiorno, alla fine degli anni 70 la maggior parte degli investimenti nei poli di sviluppo erano stati finanziati con prestiti agevolati e sovvenzioni e direzionati verso attività ad alta intensità di capitale (capital intensive) nel settore chimico, metallurgico, ed ingegneristico. Solo una quota pari al 10% era stato devoluto ad altre attività a maggior intensità lavorativa (labour intensive) come i settori tessile, dell’abbigliamento, calzaturiero, del legno e dei mobili, della carta, del cuoio, praticamente tutte le attività più artigianali e che avrebbero potuto garantire una maggior sinergia ed armonia tra capitali, territorio e lavoratori. Così in quel periodo circa il 70% della forza lavoro del meridione fu impiegata nelle due grandi aziende private, la FIAT e la MONTEDISON.

Tuttavia quello che poteva sembrare un punto di forza e sicurezza si dimostrò, dopo breve tempo, un grande limite durante la crisi di stagflazione degli anni 70 (fenomeno di natura economica mai osservato prima delloshock petrolifero del 1973/1974. Con tale termine si definisce la contemporanea presenza di mancanza di crescita produttiva e aumento dei prezzi costante, due fenomeni che non si potevano giustificare se non in presenza di cartelli oligopolistici tra produttori di materie prime e di energia) e con i rapidi processi di innovazione tecnologica. Di fatto la presenza di grandi aziende, peraltro molto moderne per l’epoca, aveva sicuramente attivato il processo di sviluppo ma non può negarsi che le modalità con cui esse operavano sul territorio erano decisamente avulse dal tessuto produttivo della zona. Infatti non riuscirono, o forse non vollero, costruire le reti dell’indotto e sviluppare le sinergie territoriali e quindi quelle gigantesche realtà industriali furono ben presto definite “cattedrali nel deserto” perché da poli di attrazione di capitale e lavoro divennero, da lì a pochi anni, concentrazioni industriali abbandonate, a causa della recessione, con conseguente aumento della disoccupazione e distruzione del territorio. Così iniziò il declino dell’attività della Cassa - e con essa di tutto il sistema produttivo del Mezzogiorno - che non riuscì a contrastare la depressione economica con valide politiche pubbliche. Ciò fu il prodotto dell’inclusione degli interessi dei politici, sia statali sia regionali, nella gestione degli interventi e dei finanziamenti e del cambiamento dei vertici e di tutto il personale della Cassa per accontentare clientele personali e partitiche. Passarono in secondo piano gli interventi civili e strutturali legati direttamente al territorio, come i trasporti, la costruzione di ospedali civili, gli interventi in agricoltura. Anche in questo caso aveva vinto l’ingordigia di pochi potenti soggetti politici, amministrativi e rappresentanti di organizzazioni malavitose che si spartirono grandi fette di denaro pubblico in cambio di progetti mai realizzati o di costruzioni inutilizzabili.

Volendo quindi trarre delle conclusioni si evidenzia che nei primi due decenni di vita l’attività della Cassa, anche grazie alla supervisione di soggetti esteri ed alla effettiva autonomia dagli interessi politici (che permise anche di scegliere come responsabili della struttura un gruppo di professionisti valutati per merito), contribuì a rendere industrializzato e produttivo il meridione riducendo notevolmente il divario Nord-Sud. Ma all’inizio degli anni 70, complice anche la depressione economica, si assistette a sprechi di risorse in termini di errate strategie di investimento e di veri e propri fenomeni di appropriazione indebita di fondi pubblici. Una importante iniziativa, nata dall’intuizione di notevoli politici di allora, tra cui Pasquale Saraceno e Alcide De Gasperi (volendo citarne solo alcuni), fu travolta e sconvolta da interessi personalistici di politici che foraggiarono clientele e corruzione e dispersero in tal modo risorse destinate ad un territorio che ancora oggi è caratterizzato dalla arretratezza pur avendo risorse, soprattutto umane, di notevole spessore.

L’analisi delle cause dell’infausta fine dell’esperienza dell’attività della Cassa per il mezzogiorno possono aiutare a mettere a fuoco alcuni aspetti che potrebbero far riflettere in termini di politiche per il Mezzogiorno che ora si intende affrontare con la ZES unica Sud. L’esperienza passata dovrebbe indurre prima di tutto a tenere fuori dalla gestione delle risorse pubbliche politici statali e locali; questi dovrebbero limitarsi a dettare le linee guida degli interventi di potenziamento del tessuto produttivo del Meridione. In seconda battuta sarebbe opportuno creare un organo superiore di controllo serio, trasparente e professionalmente adeguato capace di valutare le attività in corso d’opera e di modificare le strategie in caso di scostamenti dagli obiettivi preordinati. Sarebbe poi auspicabile - invece che aumentare i soggetti che possono inserirsi nel processo di pianificazione e gestione fino a considerare anche le singole associazioni portatrici di interessi locali e particolari (si pensi in tal senso alla cabina di regia della ZES) – creare strutture di gestione snelle e composte da validi tecnici italiani, scelti con modalità meritocratiche e non attraverso procedure clientelari (così forse si potrebbe anche arrestare un po’ la fuga all’estero dei nostri giovani professionisti altamente qualificati), che dovrebbero agire con rapidità e capacità di risoluzione dei problemi: solo così si potranno creare le basi per una sfida competitiva internazionale che restituisca il giusto peso al Sud Italia.

Un’attenzione particolare va poi posta alle attività che si presentano culturalmente e tradizionalmente legate al territorio tutelando pertanto: il settore primario (agricoltura, pastorizia, silvicoltura, viticoltura), i cui prodotti si collocano sul mercato interno e mondiale con caratteristiche di unicità e di elevato livello qualitativo; le attività artigianali ed artistiche tipiche di alcune zone del Meridione (si pensi, potendo fare pochi esempi, al patrimonio artistico e culturale presente nel Leccese dove si lavora la cartapesta, o la lavorazione del corallo nelle zone della Campania, la lavorazione del cuoio e del pellame dei ricami e dei tessuti della Sardegna); le attività industriali di produzione di beni finiti e semilavorati gestite da aziende locali nei diversi settori: alimentare, tessile, del legno e del mobilio, vinicolo, ecc. La tutela e la cura di queste produzioni locali aiuterà il territorio a diversificare le attività, a creare rete ed indotto con le attività produttive principali, a garantire una crescita armoniosa e partecipata, e soprattutto consentirà di creare attività che permettono lo sviluppo creativo ed innovativo dei singoli soggetti presenti sul territorio coinvolgendoli così direttamente nello sviluppo produttivo locale. E’ infatti importante, per chi vive in zone di sottoccupazione, sentirsi protagonista del proprio riscatto socio-economico ponendo fine a stereotipi e classificazioni spesso false e produttrici solo di rabbia e divisione nel popolo italiano.

Andrebbe infine fatta una profonda analisi sulla strategia finanziaria e di politica economica: spesso offrire incentivi fiscali o prestiti agevolati può rappresentare una valida strategia nella fase iniziale di decollo economico, ma successivamente le attività industriali devono saper camminare con le proprie gambe: garantire un livello adeguato di remunerazione del capitale ma anche una capacità di autofinanziamento che possa far investire in innovazione tecnologica e ricerca, affrontare il mercato finanziario con attenzione e capacità cercando di attirare nuovi investitori - nazionali e esteri – creare un processo di fidelizzazione nei lavoratori e in generale in tutti i portatori di interesse (i c.d. stakeholders). Infatti l’esperienza passata della Cassa ha evidenziato che ricevere sussidi non stimola le imprese a migliorarsi costantemente, ma anzi le fa sentire in una confort zone, e che occorrerebbe anche evitare deflussi di risorse che, a dir la verità - così come peraltro dimostra la storia e a differenza di quanto affermi la comune narrazione – sembrerebbero aver preso la via verso le attività produttive del Nord, invece che restare al Sud. Così infatti si è poi conclusa l’esperienza della Cassa per il Mezzogiorno: le risorse finanziarie pubbliche hanno foraggiato essenzialmente le imprese del settentrione che ad un iniziale processo di attività produttiva hanno fatto seguire un disinteresse verso il perdurare nel tempo delle imprese create al Sud (concetto che si pone alla base della sopravvivenza di qualsiasi azienda) che sono di fatto collassate di fronte alle difficoltà della crisi degli anni 70 ed hanno prodotto licenziamenti dei lavoratori, smantellamento delle fabbriche (ritornando però a produrre esclusivamente nel Nord, forti anche degli incentivi ottenuti per il Sud in esso utilizzati solo in parte) e creazione di falsi miti di arretratezza ed incapacità culturale e produttiva dei connazionali meridionali!

 

 

BREVE STORIA DELLA CASSA PER IL MEZZOGIORNO

di Alessandra Di Giovambattista

09-11-2024 

Ragionare sulla questione meridionale è sempre molto interessante se si pensa alle cause che, dopo la nascita del nuovo regno d’Italia nel 1870, hanno condizionato il perdurare di una nazione sostanzialmente depressa ed arretrata. In sintesi si può dire che i diversi tentativi di modernizzazione del Paese hanno di fatto generato una crescente spaccatura tra le diverse regioni. Se è vero che l’inizio dell’industrializzazione parte generalmente da zone ben delineate di una Nazione, è anche vero che il processo poi si dovrebbe allargare a macchia d’olio per effetto del movimento dei lavoratori, del progresso tecnologico e degli investimenti di capitale. Tuttavia ciò non avvenne perché dopo l’Unificazione d’Italia furono prese delle decisioni che si può senza alcun dubbio definire come penalizzanti per il Meridione.

Infatti il Regno di Napoli aveva introdotto delle tariffe protezionistiche proprio per tutelare il proprio tessuto imprenditoriale; ovviamente con l’unificazione le tariffe vennero abolite, ma ciò avvenne in modo drastico, senza un periodo di transizione e ciò provocò numerosi fallimenti delle aziende presenti sul territorio. In particolare collassarono le aziende tessili collocate in diverse zone del Sud; in particolare fallirono le aziende tessili della seta del rinomato complesso di San Leucio (in provincia di Caserta), con l’aggravio che i suoi macchinari furono portati a Valdagno dove si creò la prima fabbrica tessile del Veneto! Una domanda è d’obbligo: perché non furono investiti i capitali nella stessa zona di San Leucio e le attrezzature lasciate dove erano? Quello che fu fatto a Valdagno perché non si poteva fare a San Leucio? La risposta è ben evidente: motivi territoriali e di mentalità ancora chiusa e medievale ancorata al potere dei territori italiani del nord che volevano una supremazia rispetto ai territori meridionali. Stessa sorte toccò alle cartiere di Sulmona e alle ferriere di Mongiana i cui macchinari furono smantellati e reinstallati in Lombardia. E anche qui le considerazioni sono le medesime: perché non sono state potenziate e innovate le strutture già esistenti al Sud? Perché si è preferito spostare a Nord le produzioni lasciando che il territorio meridionale si impoverisse sempre di più? Ulteriore conseguenza fu la forte emigrazione verso paesi esteri perché al Sud non era più possibile trovare lavoro. A ciò si aggiunse il fatto che gli appalti per la costruzione delle infrastrutture nel mezzogiorno furono tutti affidati ad imprese settentrionali, in particolare piemontesi e lombarde che furono pagate attraverso l’utilizzo di risorse essenzialmente prese dal Sud a cui furono imposte tasse molto pesanti. Il tutto provocò grande scontento tra le popolazioni meridionali che videro traditi i principi ispiratori dell’unificazione italiana; ormai i piemontesi erano visti come sfruttatori e depredatori di risorse.

Ma c’è di più; il governo della giovane nazione italiana pensò bene di ripristinare la tassa sul macinato, fu aumentato il prezzo del sale e dei tabacchi, le riserve d’oro del Banco di Napoli e di diversi altri istituti bancari del Sud furono versate nelle casse del Banco di Sardegna, i beni della Chiesa vennero venduti all’incanto e diversi rappresentanti del clero furono deportati o arrestati, negli uffici pubblici furono occupate solo persone piemontesi. In poche parole dopo l’unificazione il modello economico, politico, amministrativo e sociale che soppiantò tutte le differenti organizzazioni presenti sugli altri territori fu il modello piemontese, ispirato da Cavour, secondo una non verificata credenza che il modello francese fosse di fatto il più efficiente e senza provare ad immaginare un modello italiano originale. Tra le altre innovazioni egli proposte una politica liberista di commercio con la Francia che ebbe il solo fine di garantire il riconoscimento dell’Italia nel contesto internazionale; infatti dal punto di vista economico ciò costò molto sia al Nord, che non era ancora in grado di competere con le imprese presenti nelle nazioni più sviluppate (Francia ed Inghilterra), sia al Sud che vide ancora più acuirsi la sua condizione di arretratezza ed il divario con il Settentrione. Ulteriore risultato fu l’ingresso di imprese straniere sul territorio italiano. Bisogna poi sottolineare che sul finire del XIX secolo i territori più sviluppati, anche per le attività agricole, erano soprattutto i territori della pianura lombardo-piemontese che furono di fatto i grandi beneficiari delle azioni di politica economica del Regno d’Italia: in definitiva le risorse finanziarie erariali erano destinate tutte al nord Italia, lasciando di fatto sguarnito il Meridione.

Il divario Sud-Nord continuò così ad aumentare e iniziò anche lo sfruttamento delle masse contadine alimentato dalle baronie latifondiste rafforzate dalla riforma fondiaria sabauda. Fu così che per disperazione e rabbia crebbero le rivolte e si alimentò il fenomeno del brigantaggio; così il Sud non ebbe la forza di innovarsi, o meglio non gli furono offerte opportunità e risorse per cercare di sconfiggere il fenomeno del latifondismo e dello sfruttamento della piccola proprietà agricola. La situazione era così drammatica che non restava che emigrare verso paesi stranieri. Tuttavia l’arretratezza non riguardava solo l’ambito economico, ma soprattutto quello sociale, dovuto ad una popolazione per lo più analfabeta, dove l’istruzione pubblica era poco diffusa e non omogeneamente distribuita sul territorio. Quindi nel momento dell’unificazione l’Italia si presentava come una nazione nel suo complesso arretrata, con poche zone più moderne.

Facendo un balzo in avanti, e sorvolando sul periodo delle due grandi guerre, si arriva al periodo postbellico in cui si assiste ad un vero e proprio miracolo economico, con una crescita ad un tasso elevatissimo, persino più alto di quello registrato negli Stati Uniti d’America e nel Regno Unito. Effettivamente, negli anni 50 i nostri politici si accorsero che il Sud si presentava in una condizione di forte arretratezza e posero la sua rinascita tra i primi obiettivi della Repubblica. I danni provocati dal conflitto mondiale riguardavano soprattutto le vie di comunicazione; erano andati distrutti strade, ponti, ferrovie, linee elettriche, porti. Anche i settori agricolo ed industriale erano stati pesantemente danneggiati. Quasi tutti i rappresentanti dei partiti di allora si sentirono coinvolti a favore della crescita del Sud: i democristiani, i liberali, i repubblicani, i socialisti, ed i rappresentanti del partito d’azione.

Così, nel 1950 fu costituita un’Agenzia chiamata “Cassa per il Mezzogiorno” che aveva l’obiettivo di effettuare investimenti nel Meridione per farne decollare l’economia; alla redazione del progetto partecipò direttamente l’allora Governatore della Banca d’Italia (Donato Menichella). Fu così che le imprese statali iniziarono ad investire ma anche le imprese private, incentivate da ingenti sussidi, iniziarono a creare aziende impiegando notevoli capitali. La Cassa nacque con la legge n. 646 del 10 agosto del 1950, nella veste di ente autonomo, con personalità giuridica e un territorio da amministrare composto dalle regioni del Sud: Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna; ad esse si aggiunsero porzioni di territorio nel sud del Lazio, alcuni comuni di Roma e di Rieti, alcune aree delle Marche e della Toscana.

Durante i primi anni di vita la Cassa usufruì di autonomia sia nella pianificazione degli interventi che nella gestione delle risorse finanziarie, anche se per onestà di cronaca occorre sottolineare l’influenza degli Stati Uniti nella determinazione dei progetti strutturali. La Cassa fu dotata di un capitale iniziale che proveniva dal finanziamento della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (IBRD) creata dall’Organizzazione delle Nazioni unite (ONU). Le risorse furono concesse sotto la condizione che la loro gestione non fosse affidata a burocrati assoggettabili a pressioni politiche, bensì ad organismi che avrebbero operato sotto la supervisione della IBRD. E di fatto nei primi anni di vita della Cassa si vide l’importanza dell’autonomia della struttura e della competenza tecnica. La legge istitutiva stessa aveva come obiettivo l’eliminazione di ritardi burocratici o ingerenze di diverso genere, soprattutto di natura politica, che avrebbero potuto neutralizzare gli effetti positivi di natura straordinaria, in quanto si dovevano creare rapidamente nuove strutture per ampliare e consolidare il tessuto industriale del Sud. Agli occhi degli osservatori esteri l’esperienza della Cassa nei primi anni di attività apparve positiva, anche se non possono nascondersi difficoltà causate dalla mancanza di collaborazione da parte delle amministrazioni statali e locali le quali peraltro non disponevano di personale qualificato.

Era tuttavia il suo carattere speciale che aveva permesso di creare un’organizzazione con uffici decentrati, precisamente a Roma (per evitare ingerenze locali), di elevato livello tecnico: infatti furono assunti tecnici (con percentuali di laureati pari a circa il 95%) altamente qualificati in diversi settori: agronomi, geologi, ingegneri, geometri, architetti. Il loro compito era quello di programmare e pianificare gli investimenti in infrastrutture mediante l’utilizzo delle risorse a disposizione della Cassa. Gli osservatori esteri inviati dalla IBRD testimoniarono che i tecnici posti alla direzione della struttura era di elevato spessore professionale e questo non poteva che garantire la bontà dell’azione e l’efficienza nel raggiungimento degli obiettivi.

Purtroppo però l’indipendenza e le capacità tecniche della Cassa non furono mantenute a lungo; dopo 15 anni la politica voleva riprendersi il suo dominio sull’attività di ricostruzione del Sud e assegnò la supervisione dei programmi al Ministero per l’intervento straordinario per il Mezzogiorno che poteva arrivare a dichiarare lo scioglimento dell’Agenzia in caso di inosservanza delle linee guida impartite dal dicastero. Fu così che tutti i ministri per il Mezzogiorno dai primi anni settanta, usarono i loro poteri amministrativi in modo invasivo: la Cassa aveva smesso di essere un ente autonomo! Inoltre negli anni 70 con la creazione delle Regioni e l’attribuzione ad esse di poteri sostanziali si frammentò l’azione della Cassa e ne iniziò così il collasso. Infatti le Regioni aumentarono l’ingerenza politica sull’operato dell’Agenzia, che peraltro si suddivise in diverse realtà locali; tutti i tecnici furono sostituiti da personale di fiducia partitica.

Praticamente all’inizio degli anni 80 le risorse devolute come trasferimento di reddito per sostenere le condizioni di vita nel breve periodo (praticamente clientele dirette) superarono quelle destinate agli investimenti. Si persero così l’autonomia e l’indipendenza delle scelte strategiche che avevano guidato la Cassa nei primi 15 anni e ne avevano garantito l’efficienza dell’operato. Così lo Stato dimostrò la totale inadeguatezza nella gestione delle risorse per il Sud che furono dirottate, attraverso una amministrazione poco trasparente delle risorse, verso clientele partitiche nazionali e locali. A ciò si affiancò non solo una diminuzione dei sussidi ordinari all’industria in questa zona del Paese rispetto alle altre aree, ma anche l’invio di aiuti industriali al Sud a favore di imprenditori locali che ottennero risorse pubbliche ma non produssero alcun tipo di risultato sul piano economico industriale.

La missione della Cassa per il Mezzogiorno, dopo un biennio di commissariamento (dal 1984 al 1986) fu affidata all’Agensud, che rimase operativa fino al 1993, anno in cui se ne dichiarò il fallimento. Le cause del totale collasso furono l’incapacità di gestire con trasparenza, tempestività ed economicità le risorse destinate al sud: almeno 21 miliardi di vecchie lire, destinate al Sud, non arrivarono mai!

 

 

 

 

Silkstreetpress

 

Presenta

 

Il cinema coreano”

 

 

Mercoledì 27 novembre Sala Roma

 

ore 15.00

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

MOSTRA

 

 

 

Mostra temporanea di dipinti e di foto vincitrici del concorso “Sguardo di donna”, appena conclusosi, a cura dell’associazione “Il tempo delle donne” di Rita Valenzuela che, presente, esporrà per l’occasione la sua opera Bambina Africa” alla presenza delle altre artiste e del maestro Piero Marsili, che ci accompagnerà con il suo concerto per piano.

 

 

 

 

 

PROGRAMMA

Saluti della direttrice responsabile della rivista Silkstreetpress, giornalista Emanuela Scarponi.

 

Relatori

 

15,30

Introduce l’ing. Bruno Grassetti, responsabile del settore Oriente, che ci racconta del suo viaggio in Cina.

 

16,00

Dott.ssa Daniela Ghilardi, esperta di Corea, introduce il cinema coreano cui seguiranno alcune proiezioni.

 


16,30

 

Presentazione dei seguenti corsi: lingua italiana per stranieri, Storia dell’arte, lettura e composizione dell’immagine

 

 

 

Intervengono

dott.ssa Emanuela Scarponi

dott.ssa Claudia Polveroni

Conclusioni della Presidentessa dell’associazione “Il tempo delle donne”, RitaValenzuela, sulla sua iniziativa artistica.

 

LA ZONA ECONOMICA SPECIALE UNICA SUD: UN’OPPORTUNITA’?

di Alessandra Di Giovambattista

06-11-2024

 

Con le modifiche apportate al decreto legge n. 91 del 2017, istitutivo delle 8 aree meridionali indicate come zone economiche speciali (ZES), è stata cambiata la strategia della programmazione dello sviluppo delle zone del Sud; ciò è avvenuto attraverso l’emanazione del decreto legge n. 124 del 2023 che ha proceduto all’individuazione di un’unica zona economica speciale che coinvolge tutto il Meridione italiano. A tale nuova disciplina sono poi state apportate modifiche sia con il collegato alla legge di bilancio per il 2025, in materia fiscale, cioè il decreto legge 155 del 2023, sia con la legge di bilancio stessa. L’obiettivo della ZES unica Sud è di far sviluppare in modo sinergico ed efficiente tutte le attività presenti sul territorio nonché di incentivare anche nuove strutture per valorizzare zone che presentano potenziale economico ma che finora hanno stentato a decollare.

Per provare a fare un’analisi circa l’opportunità dell’organizzazione territoriale e della governance unica per il Sud, bisogna prima di tutto riflettere sulle cause per le quali questa parte d’Italia rappresenta il fanalino di coda del tessuto economico nazionale mentre per la Comunità europea è una zona in cui i risultati e le performancesono lontani dalla media europea. Il recupero produttivo del Meridione d’Italia è una questione che riguarda sia il nostro Paese sia l’Europa: se in Italia il prodotto interno lordo (PIL) pro-capite e l’occupazione nella loro totalità non riescono a crescere è perché la nostra Nazione marcia a due velocità, con un centro-nord che è sulla media europea ed un centro-sud che ne è al di sotto del 75%, ma in alcune zone anche del 100% (per un approfondimento si consulti l’ottavo Rapporto sulla Coesione e lo sviluppo dell’Unione europea presentato nel 2022).

Eppure il Sud produce attualmente il 50% dell’energia rinnovabile italiana e questo potrebbe rappresentare un esempio della concreta possibilità per il Meridione di candidarsi come punto di raccolta e stoccaggio delle energie rinnovabili; ma per far questo occorre efficientare amministrazioni ed infrastrutture, potenziare i porti e stimolare la crescita delle aziende nei territori circostanti che si presentano come aree essenziali nel Mediterraneo per gli approvvigionamenti delle materie prime destinate sia al nostro Paese sia all’Europa.

In prima analisi cerchiamo di valutare sinteticamente la situazione che si era delineata sul finire del 1800 e nei primi decenni del novecento, partendo dalle parole di Francesco Saverio Nitti, Presidente del Consiglio dei Ministri del Regno d’Italia tra il 1919 ed il 1920, che nel suo libro “Scienze delle finanze Nord e Sud” scrisse testualmente: “dal Regno delle due Sicilie furono ritirati ben 443 milioni di monete di vario conio, mentre il Regno di Sardegna ne aveva soltanto 27 milioni”, quindi solo il 6% rispetto al “Regno di Napoli che nel 1857 era lo Stato italiano con la maggiore solidità finanziaria, scarso debito, poche imposte ben armonizzate!”. Questa analisi dei fatti fu confermata, successivamente da Antonio Gramsci (nel suo libro “Temi sulla questione Meridionale” del 1926) il quale evidenziò “l’emigrazione di ogni denaro liquido dal Mezzogiorno al Settentrione per trovare maggiori e più immediati utili nell’industria”. Con questi dati si può quindi concludere che una questione meridionale non sembrava esistere prima dell’unità d’Italia e l’impoverimento del Sud da parte del Nord avvenne con il placet della classe politica, sostanzialmente a favore del Regno Sabaudo, che ne sottovalutò la portata in quanto non voleva assolutamente che si palesasse il problema. Poi con lo scoppio della guerra mondiale furono create aziende di forniture militari localizzate essenzialmente al Nord; ciò generò un ulteriore flusso a senso unico di risorse pubbliche prelevate su tutto il territorio italiano a favore delle attività produttive localizzate sul territorio settentrionale.

Nel ripercorrere rapidamente le misure più recenti e significative che cercarono di colmare il divario che nei primi del novecento si era formato tra Sud e Nord ci si imbatte, dopo la seconda guerra mondiale, e precisamente nel 1950, con la Cassa per il Mezzogiorno - che lavorò per 40 anni, fino al 1984 – creata come un ente con autonomia progettuale e decisionale che doveva andare ad affiancare (anche sostenendo investimenti privati) gli interventi predisposti dallo Stato finalizzati ad eliminare il divario Nord-Sud. In quel periodo furono costruite le prime grandi infrastrutture del Meridione e il progetto partì dal considerare il Sud come un’unica grande area dove le problematiche di base dovevano essere risolte con uno sguardo unitario, andando al di là della visione localistica. L’esperienza della Cassa, che nei primi due decenni dalla sua costituzione aveva effettivamente migliorato le condizioni di vita delle popolazioni meridionali, si concluse negli ultimi 15 anni di attività con inchieste che evidenziarono sprechi, inefficienze e rapporti clientelari tra classe politica, cittadinanza e organizzazioni malavitose presenti sul territorio. Negli anni 90, dopo che la Cassa per il Mezzogiorno fu commissariata per due anni, dal 1984 al 1986, furono poste in essere delle misure che avrebbero dovuto, da una parte, contrastare la disoccupazione con i contratti d’area, dall’altra ammodernare le infrastrutture ed i servizi del Paese attraverso i patti territoriali. Ma furono misure che non sortirono alcun effetto ed anche in questo caso si dispersero risorse attraverso una gestione politico amministrativa diseconomica.

Tralasciando poi misure disorganiche e a macchia di leopardo che si sono succedute negli anni successivi, si arriva agli obiettivi che si pone il PNRR di rilanciare il territorio meridionale alla ricerca del suo efficientamento produttivo e soprattutto burocratico.

L’Unione Europea ha messo in campo molte risorse finanziarie, anche attraverso i fondi europei, ma sembra che finora quelle investite nel Sud Italia non riescano a far decollare la ripresa economica. Si parla così di “trappola dello sviluppo intermedio”, come evidenziato nel citato Rapporto sulla coesione e lo sviluppo dell’Unione europea, in cui nelle regioni meno sviluppate dell’Europa meridionale (tra cui la parte sud dell’Italia) e Sudoccidentale a seguito di investimenti pubblici si assiste dapprima ad una crescita del PIL, ma dopo un certo punto il processo di sviluppo si arresta o addirittura retrocede ai livelli iniziali e si cade nel declino e nella stagnazione. E questo è ancora più evidente se si considera che le aree meno sviluppate dell’Europa orientale, grazie ai fondi europei, stanno invece recuperando terreno rispetto alla media dell’unione europea e ciò è dovuto al fatto che in tali Paesi il costo del lavoro è inferiore rispetto al meridione italiano. Così come è inferiore la produttività del Sud rispetto ai paesi del Nord Europa, ragione per cui gli investitori privati non sono interessati ad investire. Nel rapporto sono esplicitate ulteriori cause del divario che riconducono alle modalità di gestione ed alle strategie implementate dai Governi nazionali. Ed infatti alcuni Stati membri, dopo avere ottenuto fondi europei, smettono di finanziare con risorse pubbliche interne gli investimenti nelle aree depresse. Si assiste quindi un effetto sostituzione (c.d. crowding out) in cui, una volta che ci sono fondi europei destinati alle zone più arretrate, le risorse finanziarie italiane invece che essere distribuite su tutto il territorio, vengono concentrare in poche zone già a vocazione industriale penalizzando ancora di più le aree deboli.

Così operando, il risultano finale è un depotenziamento delle misure in quanto si disperde l’effetto sinergico delle risorse utilizzate ma soprattutto le aziende non hanno lo stimolo a fidelizzare, con risultati performanti, gli investitori, (perché rappresentati da un soggetto istituzionale europeo, sovranazionale riguardo al quale non ci si sente direttamente coinvolti), generando invece un processo di deresponsabilizzazione dell’impresa verso la propria Nazione, la quale, paradossalmente, utilizzerà parte delle imposte prelevate sugli utili prodotti per finanziare aziende di altre zone, spesso non svantaggiate!

Ed è invece nelle zone più deboli che è necessario, dopo l’iniziale ripresa dovuta allo sviluppo delle infrastrutture, passare a curare l’espansione ed il consolidamento dei processi innovativi, della ricerca, della formazione qualificata - anche attraverso campagne di finanziamenti collettivi (c.d. crowfounding) - e il cambiamento di mentalità nella gestione dei servizi pubblici e nei Governi locali che devono essere effettivamente al servizio dei cittadini. Questo con uno sguardo di programmazione di lungo periodo (anche ultra decennale) che permetta di sostenere e consolidare l’andamento migliorativo che si innesca con le politiche di sostegno.

È su questi presupposti che si deve riflettere sulla sfida aperta con la ZES unica Sud affinché questa misura diventi un’effettiva opportunità e non un ulteriore buco nell’acqua con dispendio di risorse e consolidamento di un’immagine di inefficienza del Meridione, ma non solo, bensì di tutto il sistema Italia. Il Sud ogni anno perde circa 130.00 giovani, per la maggioranza laureati, che emigrano verso paesi esteri o verso le zone del nord Italia; eppure la Campania è la terza regione in cui sono presenti start up innovative!

Questi contrasti andrebbero letti con più attenzione. Una prima riflessione va fatta sulla effettiva opportunità degli incentivi fiscali che non andrebbero dati a pioggia, sulla base di programmi che spesso non sono del tutto veritieri circa la sostenibilità ed efficienza degli investimenti o che non sono del tutto ben compresi da una classe burocratica poco avvezza alle questioni pratiche economiche e più orientata verso forme di puro garantismo giuridico che può creare blocchi di procedure attraverso reiterati nulla osta ed autorizzazioni (si pensi alla Conferenza dei servizi dove saranno presenti numerosi ed eterogenei soggetti). Andrebbero invece premiate in corso d’opera le realtà aziendali più meritevoli (eliminando il clientelismo politico che abbiamo visto nell’esperienze precedenti), dove i giovani, affiancati da tutor, possano iniziare la propria idea imprenditoriale e proseguirla con fondi pubblici, adeguatamente remunerati (pena la restituzione), nell’intento di evitare finanziamenti a poche singole aziende e di sfidare e competere con le realtà straniere più efficienti. Il processo di verifica degli obiettivi e risultati andrebbe regolarmente monitorato, da persone capaci e trasparenti, al fine di riflettere sui risultati intermedi (c.d. feedback) ed effettuare modifiche in itinere che permettano di migliorare gli esiti finali e consentire alle neo realtà imprenditoriali del Sud di continuare da sole la corsa verso il successo.

Un altro spunto di riflessione riguarda le politiche fiscali agevolative che, seppur valide nei meccanismi e nei risultati (ad esempio la DIT - Dual Income Tax - che sostanzialmente premiava le forme di autofinanziamento aziendale, sostituita, nel tempo da varie misure temporanee di agevolazione degli investimenti, le c.d.“Tremonti”) ed in base alle quali le aziende programmano i propri piani finanziari, dopo pochi anni vengono totalmente stravolte o abolite. Questa poca coerenza nella gestione della politica fiscale mina la fiducia dei cittadini ed allontana gli investitori, nazionali ed esteri.

Pertanto se si vuole che il modello ZES unica Sud sia un’opportunità positiva e inneschi il processo di sviluppo delle zone del Sud occorre prima di tutto riflettere sugli errori passati e chiedere che la classe politica ed amministrativa faccia molti passi indietro: che siano guide e non ostacoli. La finalità è quella di innescare un processo virtuoso valido per la crescita del Meridione a favore di tutto il tessuto economico della Nazione; un Paese che marcia a velocità diverse è diviso in sé stesso e pertanto non riuscirà mai a raggiungere uno sviluppo armonioso e completo ed anzi genererà astio e incomprensione tra connazionali. In questo senso non sono da condividere posizioni di separatismo territoriale e un’attenzione particolare deve essere rivolta al federalismo differenziato che, come tutti gli strumenti, può nuocere o migliorare a seconda delle modalità utilizzate nella sua gestione.