LA CULTURA COME VALORE PER L’UMANITA’: UNA RIFLESSIONE
di Alessandra Di Giovambattista
 
Italia: la nazione che più fa pensare al trionfo della cultura. Il suo passato basato sulle tradizioni, sul pensiero e sulle conoscenze degli etruschi, dei greci, dei latini, è testimoniato in ogni angolo del territorio italico, nei suoi splendidi musei ricchi di inestimabili bellezze e nelle chiese che oltre al patrimonio interno sono veri e propri gioielli di architetture di diverse epoche storiche.
Ma nel nostro sentire quotidiano, cosa vuol dire cultura? È una parola complessa e piena di sinergie: deriva dal latino, “colere” participio passato di cultus, cioè coltivare. Ed effettivamente una persona colta è una persona ricca di esperienze di studio e di vita, capace di elaborare le nozioni, comprenderne fino in fondo il significato, essere critico ed applicare le esperienze acquisite in tutte le situazioni: praticamente coltivare il proprio terreno esistenziale, nutrirlo con la spiritualità, le arti, il gusto per il bello, il luminoso, il trasparente, per far fiorire una vita ricca di saggezza, educazione, morale, etica, pazienza, attenzione ed accoglienza verso l’altro. Si può quindi dire che la cultura riesce a plasmare l’uomo con tutto il suo bagaglio di esperienze rendendolo anima sensibile e superiore rispetto a tutto le forme di vita del Creato.
Quindi sarebbe importante esplorare il concetto di cultura come approfondimento della vita degli esseri umani nello scambio antropologico di esperienze, nei modi di pensare, comportarsi ed esprimersi nella società e nei singoli rapporti interpersonali. Il processo culturale nasce con gli esseri umani ed è un concetto costantemente mutevole. I latini, come già visto, fanno derivare il termine dalla parola “coltivare” in una sorta di rapporto imprescindibile e sinergico tra uomo e natura, dove l’uomo è visto come terreno fertile su cui far crescere qualunque tipo di esperienza e conoscenza che possa far sviluppare anima, mente e corpo, mediante una serie di processi di apprendimento tra loro interconnessi. L’anima va nutrita e coltivata come il terreno affinché l’essere umano impari a convivere in società organizzate; quindi il concetto richiama anche l’attenzione affinché tutto si presenti curato, ordinato, ben lavorato e gestito, escludendo quindi situazioni di caos, disordine e mancanza di cura. Proprio per gli svariati ambiti in cui può esprimersi il valore della cultura riconosciamo nella terminologia comune la cultura letteraria, quella scientifica, religiosa, artistica, musicale, gastronomica, e via dicendo.
Nei tempi più recenti il termine cultura è stato associato al processo di formazione della personalità umana e della sua capacità di sviluppo, quindi ben al di là dal semplice procedimento di acquisizione e accumulo di dati, informazioni e notizie. Quest’ultimo forse lo si può riferire più appropriatamente ad una macchina capace di incamerare infiniti files in memorie sterili e meccaniche senza possibilità di elaborazione, critica, etica, morale, compassione e umanità (la c.c. intelligenza artificiale). Ecco perché è estremamente fuorviante pensare che più si è eruditi e più si è colti; la cultura non è solo conoscenza di nozioni e teorie, ma è in più, e maggiormente, conoscenza di vita, capacità di osservazione critica ed esperienziale. Dire che oggi il livello di scolarizzazione rende più colti i giovani contemporanei rispetto a quelli del passato è un’affermazione sviante se non errata. Piuttosto l’umanità si è retta ed evoluta attraverso processi sperimentali dettati da curiosità antropologica e scientifica indotti dalla necessità di miglioramento delle proprie condizioni di vita in un processo in cui le scelte sono state fatte in modo ponderato, cercando di non sbagliare, ma dove anche l’errore e le capacità di saperlo accettare e correggere rappresentano un valore aggiunto ed un ottimo indicatore del livello culturale acquisito.  
Un altro significato di cultura è quello che si riferisce non solo alla cultura umana in generale, ma alle differenti culture presenti nelle diverse zone geografiche – che per l’appunto si sono sviluppate anche in ragione del territorio sul quale le popolazioni si trovavano a dover convivere (appunto il terreno) - che possono ricondursi alle regole che sorreggono una società e ne presiedono il comportamento concreto, nonché alla previsione di sanzioni in caso di comportamento divergente. In tal modo la cultura diviene un elemento che plasma la personalità degli individui, entra nel loro modo di vivere e di rapportarsi così che, a seconda delle culture in cui l’uomo è cresciuto, si sviluppa una differente personalità specifica dell’ambiente, definita “personalità fondamentale” rispetto alla quale i singoli rappresentano delle variazioni, dei sottoinsiemi. In tale accezione va ricercata la difficoltà con cui persone di etnia differente non riescono a ben comprendersi sulle modalità di vita e di reazione a determinate situazioni.
Sembrerà paradossale ma il problema dei conflitti culturali a mio avviso è da ricondurre a problematiche di scarsa cultura; infatti l’aspetto più importante che aiuta a comprendere lo spessore culturale di una persona e di una collettività è quello dell’accoglienza dell’altro perché tale caratteristica implica la capacità di comprensione e di dialogo che parte prima di tutto dal rispetto, ma al tempo stesso richiede reciprocità in un atteggiamento di libera espressione di pensiero. In una situazione di globalizzazione gli scontri tra culture sono inevitabili, ma il problema fondamentale è spesso rappresentato dalla non valorizzazione di un proficuo e pacifico scambio di relazioni di crescita e di miglioramento sinergico finalizzato al rispetto dell’altro. È indubbio poi che la popolazione che accoglie persone di culture diverse deve fare di tutto per integrarle offrendo lavoro e dignità, aspetti che aiutano a comprendere e a sviluppare un processo di considerazione del substrato culturale presente nel paese ospitante. La persona ospite abbandonata a sé stessa, non aiutata a comprende i valori fondanti di una società ospitante che vive in modo differente a ragione della diversa evoluzione territoriale, rimarrà isolata e maturerà un senso di ostilità verso una collettività non compresa e non inclusiva.
In tal senso sarebbe auspicabile che la persona che emigra in un territorio culturalmente distante dalle proprie abitudini di vita e di pensiero trovi strutture che l’aiutino a conoscere e a capire: andrebbero organizzati corsi di formazione di lingua, religione, educazione civica e didattica che supportino l’individuo a comprendere le differenze, senza pretendere la passiva ed immediata accettazione per obbligo o necessità. Se l’uomo si rende cosciente delle proprie scelte è ben disposto a cambiamenti ed integrazione; se non integrato consapevolmente diventa violento, con un atteggiamento di ostilità verso una collettività distante e sconosciuta. Per contro il dannoso rovescio della medaglia si trova nella società ospitante che si trova disorientata di fronte a persone che, non integrate, cercano di sovvertire il consolidato schema culturale che si è formato nel tempo, in una sorta di rivoluzione di pensiero che, come tutte le rivoluzioni, lascia sempre sul campo delle vittime: l’ospite viene percepito come un alieno che attenta ad un equilibrio culturale consolidatosi nel processo evolutivo! E in tale situazione le vittime sono i più giovani che non hanno avuto il tempo di irrobustire il proprio sentire e non hanno avuto modo di poter scegliere in maniera consapevole e si sa, dove c’è violenza la prima reazione è usare il metodo “occhio per occhio, dente per dente” innescando una spirale senza fine di rabbia e di odio interculturale.
La realtà è che oggi si assiste ad un delirio di onnipotenza, dove le uniche variabili in gioco sono il denaro ed il potere, dove la cultura - che aiuta a comprendere e ad affrontare meglio le differenze, il dolore, la sofferenza, le sconfitte - non ha più valore, o ne ha sempre molto meno, in un lento e continuo processo di marginalizzazione che conduce a società povere e fragili sotto diversi profili, non solo economici. Laddove invece si ritrovano Paesi dove la cultura e le proprie radici rappresentano un elemento fondante di costruzione della società civile si assiste a comunità ricche di valori e con livelli di qualità della vita, quindi non solo economici, elevati.
Pertanto bisogna porre l’attenzione ad un’accezione di cultura che non guardi solo alla formazione della personalità umana, ma generi ricchezza e prosperità in tutta la comunità. Ad esempio la nostra nazione che ha una posizione primaria nel mondo in termini di patrimonio culturale, può usufruire di notevoli risorse, forse inesauribili, che noi, generazioni attuali, abbiamo acquisito a costo zero. Per questo andrebbe valorizzata la cultura, soprattutto attraverso adeguate politiche di formazione e di riscoperta del suo valore intrinseco che genera benessere nella società; sarebbero opportune delle misure atte a far maturare e rinascere, soprattutto nei giovani, la voglia di essere individuai curiosi, proiettati verso il futuro, etici, rispettosi, amanti della bellezza e soprattutto consapevoli delle proprie radici. Questo potrebbe forse essere il modo per cercare di recuperare una società fin troppo svilita, superficiale e buia dove non viene attribuito alcun peso alla cultura anzi, in alcuni contesti, essa sembra rappresentare sempre più un disvalore e questo in Italia come nella maggioranza dei paesi.
I nostri media, soprattutto televisivi, non programmano nei palinsesti rappresentazioni teatrali, concerti, letture di opere letterarie, pubblicità di eventi artistici, scientifici e formativi, bensì programmi in cui si vuol far vivere la vita di altri (peraltro con rappresentazioni false e costruite) fomentando giudizi e distaccando i singoli dalle responsabilità della propria esistenza, rendendoli partecipi e cooprotagonisti di vite parallele e virtuali.
Per quanto attiene all’ambito politico l’obiettivo dovrebbe essere rappresentato da politiche di potenziamento della cultura vista come un possibile fattore di investimento, prima di tutto nei giovani, ricchi di tanta forza di innovazione, fantasia e cambiamento. Occorre sostenere finanziariamente il settore culturale affinché diventi un elemento fondante della società e del processo di produzione del valore economico: la cultura stessa deve essere ripensata come vero e proprio valore, come elemento a cui tutta la popolazione, ed ognuno singolarmente, deve aspirare, perché dove c’è cultura si vive meglio nel rispetto reciproco e nella certezza del diritto. Riconosciuta come valore allora sarà più facile identificarla come guida e fattore orientante delle scelte dei singoli e della collettività e garantirà la vera libertà dell’uomo nel rispetto delle differenze.
 
 

PLASTIC TAX AD UN BIVIO: INTRODURLA O ELIMINARLA.

di Alessandra Di Giovambattista

 

Il legislatore che nel 2019 ha previsto l’introduzione della plastic tax lo ha fatto con la finalità di disincentivare l’uso di imballaggi in plastica monouso (MACSI) a favore di processi virtuosi di riciclo delle materie plastiche e di utilizzo di materiali compostabili. Quindi l’imposta avrebbe dovuto pesare sulle aziende che da decenni riscuotono enormi profitti promuovendo la produzione e l’utilizzo di grandi quantità di imballaggi non sempre utili e giustificabili, penalizzando l’ambiente, e senza porsi il problema della gestione e del recupero attraverso il processo di riciclo. Ma la domanda importante da porsi è: il provvedimento sarà davvero efficace dal punto di vista ambientale? La plastic tax sarà solo una imposta da pagare in più, oppure si dimostrerà davvero come un utile strumento per disincentivare i consumi dei prodotti monouso e per incentivare comportamenti virtuosi nei produttori e nei consumatori, verso l’uso di materiali compostabili e meno inquinanti?

Da più parti, ed in particolare in più sedi territoriali di associazioni rappresentanti il mondo produttivo, in contrapposizione al nuovo tributo si è paventata l’ipotesi che la plastic tax fosse un’imposta introdotta esclusivamente per trovare risorse finanziarie a copertura di maggiori spese pubbliche, essendo del tutto inutile, se non dannosa, per l’economia e l’ambiente. La maggiore accusa è stata quella di conformarsi come uno strumento punitivo in conflitto con provvedimenti costruttivi che andrebbero opportunamente introdotti. In particolare rappresenterebbe un ostacolo ai progetti ed agli studi mirati a ridurre l’uso della plastica, che avrebbero invece bisogno di regole certe e stabili e non di sottrazione di risorse. È stata pertanto auspicata una politica concreta finalizzata a costruire una cultura dell’ecologia. Si è voluto quindi sottolineare l’importanza degli incentivi da erogare a quelle aziende virtuose che forniscono prodotti e implementano strategie di vendita attente all’ambiente (come ad esempio i corner green dove i consumatori possono acquistare detersivi ed alimenti in contenitori personali, oppure ricevere piccoli sconti e buoni in caso di conferimento di contenitori in plastica) ed escludere del tutto politiche che penalizzino le aziende meno virtuose. Altra accusa riguarda il fatto che la plastic tax rappresenterebbe una sorta di doppia imposizione, in quanto le aziende già oggi pagano il contributo CONAI per la raccolta ed il riciclo di imballaggi in plastica, ed andrebbe ad impattare direttamente sui prezzi di beni a larghissimo consumo.

Dalla parte opposta, quindi a favore dell’imposta, leggiamo un’analisi condotta da Greenpeace Italia, dove si sottolinea che la mancata entrata in vigore della plastic tax, oltre a non aver garantito un afflusso di risorse finanziarie per l’erario, (la relazione tecnica finale parlava di più di un miliardo di euro annui) ha obbligato l’Italia a pagare circa 800 milioni di euro all’Europa a titolo di imposizione sull’uso di prodotti in plastica non riciclabili (la citata decisione europea 2020/2053). Inoltre tali posticipi hanno favorito un settore industriale che continua a realizzare grandi profitti. L’indagine ha evidenziato che il settore della plastica gode di ottima salute mentre i costi derivanti dal mancato riciclo degli imballaggi sono sostenuti dalla collettività intera; e in realtà si tratta non solo di esborsi finanziari ma soprattutto di costi in termini di salute e minor benessere! L’indagine evidenzia infine una situazione paradossale in cui il Governo, soggetto che dovrebbe tutelare i cittadini, ed il mondo industriale sembrano ambedue voler puntare sul riciclo dei MACSI ma in realtà si oppongono all’entrata in vigore della tassa che dovrebbe, in modo indiretto, incentivare il mercato dei prodotti riciclabili e lo sviluppo di tecnologie di riciclo e recupero della plastica. L’indagine si conclude con una netta accusa dell’inerzia dell’Italia circa l’introduzione della plastic tax che, secondo Greenpeace, potrebbe essere invece un utile mezzo per contribuire a ridurre l’inquinamento da plastica usa e getta.

Esposti i pareri contro e a favore dell’imposta sui MACSI proviamo a farci un’opinione personale. In prima battuta osserviamo che le aziende non sopravvivono in ambienti dove non c’è chiarezza normativa, soprattutto in ambito fiscale. Le strategie aziendali si basano anche, e soprattutto in un Paese come l’Italia con una forte pressione fiscale, sulle politiche di programmazione tributaria. L’incertezza normativa non permette di costruire piani di sviluppo concreti; chi di noi potrebbe decidere una strategia senza sapere su quali elementi basarsi? Un Paese che costantemente rinvia l’entrata in vigore di una imposta che si basa su validi presupposti socio/economici dà una pessima immagine di sé ed allontana i possibili investitori, sia nazionali sia esteri: per piacere o manteniamo la norma e l’applichiamo oppure togliamola definitivamente, una volta per sempre!

Un altro aspetto da considerare è l’onestà delle scelte aziendali; purtroppo in un tessuto economico dove è molto potente la componente delle aziende multinazionali, peraltro estere, le decisioni vengono prese esclusivamente con riferimento al profitto. Il problema dell’inquinamento ambientale non rientra tra gli interessi di aziende che di fatto delocalizzano le proprie attività con l’obiettivo di trovare delle escamotages per non rispettare le norme vigenti nei propri Paesi! Ci troviamo di fronte a soggetti che non agiscono secondo deontologia e correttezza ma esclusivamente per il loro profitto. Per tali soggetti ritengo che norme rigide ed anche costose possano fare la differenza soprattutto a favore del principio per cui andrebbero premiate le aziende più virtuose che ormai non sono più quelle che rispondono solo ai classici principi di economicità, ma sono quelle che rispondono anche a principi di sopravvivenza ambientale (che di fatto dovrebbe ormai rientrare nell’accezione più ampia ed attuale di economicità). In questo senso bisognerebbe quindi prevedere un sistema circolare in cui chi più inquina più paga e le risorse ricavate vanno ad incentivare le aziende più virtuose ed innovative dello stesso settore; in questo modo forse si potrebbe innescare un processo positivo autogenerante. Il punto fondamentale da considerare è che non bisogna solo considerare l’effetto deterrente dell’imposta, ma parallelamente occorre prevedere sgravi ed incentivi per il ricorso ad alternative davvero ecologiche che si basino soprattutto sulla formazione di una nuova mentalità non consumistica che non approvi il prodotto monouso (usa e getta), di qualunque tipo esso sia. La scelta di premiare i virtuosi senza sanzionare i più inquinanti potrebbe risultare una politica non a saldo zero: di fatto potrebbe privilegiare i meno rispettosi innescando una spirale negativa e pericolosa. Da ricordare, in questo senso, tutte le aziende che hanno truffato i consumatori e danneggiato l’ambiente attraverso pratiche di greenwashing!

Andrebbe poi sottolineando che un atteggiamento altalenante circa l’introduzione di una norma espone il Paese a ricatti da parte delle imprese monopoliste; sulla questione plastic tax, la Coca-Cola Italia ha giocato un ruolo fortemente decisionista; infatti di fronte alla possibilità che anche l’Italia introducesse la plastic tax (oltre alla sugar tax) il colosso americano ha paventato licenziamenti e chiusura di stabilimenti (a Marcianise e ad Oricola), blocco di investimenti, acquisti di materie prime da altri Paesi (il caso delle arance per produrre la Fanta: l’Italia ha subito la minaccia che le arance venissero acquistate da fornitori esteri). È evidente che il sistema economico italiano è molto fragile. Dovremmo esigere più serietà e competenza dai nostri politici e manager per provare a recuperare un po’ di credibilità e dignità.

Infine sarebbe opportuna un’analisi del mercato del riciclo della plastica; il consorzio che si occupa del ritiro degli imballaggi in plastica in oltre il 90% dei Comuni in Italia è il Consorzio nazionale per la Raccolta il Riciclo e il Recupero degli Imballaggi in Plastica (Corepla) e garantisce l’avvio al riciclo del materiale raccolto. Ma effettivamente, quanta plastica si ricicla in Italia? Una percentuale pari a circa il solo 55,6% (in particolare vengono rinviati al riciclo 1,3 milioni circa rispetto ad un totale di imballaggi pari a circa 2,3 milioni di tonnellate), percentuale di poco superiore all’obiettivo che l’Unione europea dovrà raggiungere nel 2030 pari al 55%; tuttavia l’avvio al riciclo non significa attività di riciclo. Questo perché nella filiera produttiva quello che entra è sempre una quantità superiore a quella che ne esce. Infatti le nuove modalità di conteggio dei rifiuti riciclati, che utilizzerà l’Unione Europea per le dovute verifiche, non partiranno più dall’ammontare conferito, ma considereranno solo i materiali effettivamente riciclati in muovi prodotti o sostanze. L’applicazione di questo metodo di calcolo comporterà in media un taglio dell’8% circa (secondo i calcoli effettuati dall’Istituto Superiore per la Protezione - ISPRA) della quantità di prodotti riciclati comunicati, portando quindi l’Italia ad una percentuale del solo 47% (cioè 55,6% - 8%), pertanto fuori dall’obiettivo da raggiungere entro il 2030. Infine da sottolineare che i nostri rifiuti plastici non sono riciclati interamente in Italia; infatti solo 54 impianti dei 90 totali che trattano i nostri rifiuti sono sul nostro territorio, il resto è distribuito in 14 paesi dell’Unione Europea, più la Turchia. I settori che riciclano più plastica sono il settore degli imballaggi (c.d. packaging), seguito da quello dell’edilizia, e a ruota il settore igiene e arredo urbano, seguono il settore dei casalinghi, del mobile e arredamento, ed infine il settore agricoltura e tessile.

C’è la necessità di compiere scelte importanti e forti, non possiamo permetterci mezze misure; l’ambiente richiede rispetto e non c’è tempo da perdere, così come spesso evoca Papa Francesco: c’è in gioco la sopravvivenza del Creato! Noi, consumatori consapevoli, da che parte stiamo?

PLASTIC TAX: UNA IMPOSTA MAI ENTRATA IN VIGORE.
di Alessandra Di Giovambattista
 
Nella sua formulazione originaria l’imposta sul consumo dei manufatti in plastica con impiego singolo, cioè monouso (MACSI), c.d. plastic tax, è stata introdotta dalla legge di stabilità (legge di bilancio) per il 2020 nei commi da 634 a 658. La relazione illustrativa al provvedimento individuava come assoggettati alla nuova imposizione i manufatti in plastica con funzione di contenimento, protezione, manipolazione o consegna di beni, di qualsiasi natura, anche alimentari, includendo anche fogli e pellicole, realizzati con materie plastiche di origine sintetica e non utilizzabili più volte (per l’appunto monouso). Uniche esclusioni riguardavano i manufatti compostabili e le siringhe, che per loro natura sono necessariamente monouso.
A latere di questa nuova imposizione era poi previsto un credito d’imposta a favore delle imprese presenti nel settore delle materie plastiche per l’adeguamento tecnologico delle linee di produzione di manufatti biodegradabili e compostabili, nonché per attività di formazione del personale dipendente per acquisire o consolidare le conoscenze connesse allo sviluppo del settore. Queste ultime misure avevano l’obiettivo di sostenere piani di investimento per la conversione alla produzione di prodotti di natura compostabile secondo lo standard EN13432:2002. Con questa disposizione si provvedeva ad attuare la direttiva n. 2019/904/UE che ha come obiettivo la riduzione dell’impatto sull’ambiente dei prodotti in plastica, in particolare di quelli non riutilizzabili, caratterizzati da un ciclo di vita di breve durata, e da un inefficiente processo di riciclo. Gli Stati membri erano stati pertanto chiamati ad adeguarsi con idonee misure legislative per ridurre e per monitorare il consumo dei prodotti MACSI e per adottare e riferire i progressi compiuti in tale ambito.
Prima di continuare va fatto un approfondimento sul significato di biodegradabilità: è la caratteristica tipica delle sostanze organiche, ma anche di alcuni elementi sintetici, di essere decomposti da microorganismi presenti in natura; ciò permette di mantenere l’equilibrio biologico del pianeta. Però come già accennato tale caratteristica può essere attribuibile anche ad alcuni composti artificiali e sintetici che una volta dispersi nell’ambiente riescono facilmente a decomporsi per la presenza di microorganismi, es. batteri, in grado di trasformare le sostanze sintetiche in composti meno inquinanti e assorbibili dal terreno (in genere in tempi e modi diversi a seconda del materiale).
Tornando all’imposta sui manufatti in plastica monouso la relazione illustrativa al provvedimento istitutivo sottolineava l’uso dello strumento della leva fiscale (per  l’appunto la nuova imposta) per imprimere un’inversione di tendenza nell’uso comune dei prodotti di materiale plastico. L’obiettivo del tributo era anche quello di promuovere la progressiva riduzione della produzione e quindi del consumo di prodotti monouso in plastica attuando sia una politica di maggiore pressione fiscale nei confronti delle aziende meno virtuose e al contempo prevedere degli aiuti di natura finanziaria per far fronte ai costi delle strategie innovative e di transizione ecologica.
Questa impostazione è riconducibile anche alla politica europea finalizzata alla riduzione dell’incidenza dei prodotti in plastica - in particolare di quelli non riutilizzabili né assoggettabili a processi di riciclo i quali non contribuiscono alla riduzione della quantità di rifiuti - che derivano da linee di produzione inefficienti ed in contrasto con gli obiettivi di tutela dell’ambiente. Allo stesso tempo e con la medesima finalità, della riduzione dell’inquinamento da rifiuti di imballaggi in plastica non riciclabile, il 14 dicembre 2020 l’Unione Europea con la decisione 2020/2053 ha predisposto, per il bilancio 2021-2027, una nuova categoria di risorse proprie basata su tributi da calcolarsi in ciascuno Stato membro, con aliquota pari a 0,8 centesimi di euro per chilogrammo di plastica contenuto in imballaggi non riciclabili. Gli Stati sono stati lasciati liberi di adottare le misure più consone per il raggiungimento degli obiettivi prefissati, tenendo in debito conto il c.d. principio di sussidiarietà. Quest’ultimo mira a garantire che le decisioni siano adottate, nell’ambito di una cornice di principi definita dall’unione europea, dai diversi Stati membri secondo le caratteristiche e le peculiarità tipiche di ogni nazione e territorio (regionale o locale).
Una prima analisi circa l’impatto che la plastic tax avrebbe avuto in Italia fu fornita da diverse associazioni, tra cui l’Associazione Italiana Industria Bevande Analcoliche (Assobibe), e non fu di certo positivo; si sottolineò subito che la misura avrebbe provocato solo un aumento dei prezzi (in quanto i produttori avrebbero cercato di traslare verso i consumatori il maggior carico impositivo), una riduzione dei posti di lavoro e ripercussioni di carattere negativo nel settore della plastica. In Italia il settore conta oltre 11.000 imprese con un fatturato di oltre 30 miliardi di euro; tuttavia a livello regionale la quota del 50% in termini di personale occupato è detenuta da solo tre regioni: Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna.
E’ per questi motivi che l’attuazione della plastic tax è stata finora oggetto di continui rinvii; infatti all’origine sarebbe dovuta entrare in vigore il primo luglio 2020; poi il decreto legge n. 34 del 2020, c.d. decreto rilancio, ne ha posticipato l’entrata in vigore al primo gennaio 2021 e successivamente al primo luglio 2021. La legge di bilancio per il 2022 ne ha ulteriormente prorogato l’applicazione al primo gennaio 2024. Infine con il comunicato stampa n. 54 del 16 ottobre 2023 il Consiglio dei Ministri ne ha deciso l’ulteriore rinvio al primo luglio 2024, così come indicato nel disegno di legge di bilancio per il 2024.
A dovere di cronaca occorre ricordare che le imposte sulla plastica in Italia avevano già fatto la loro comparse con l’imposta di fabbricazione e la sovraimposta di confine sui sacchetti di plastica (istituite nel 1988 ed abrogate nel 1993).
La proposta italiana di introdurre un’imposta sui MACSI seguiva una linea di tendenza già utilizzata da altri paesi europei; in questo senso l’OCSE in un report presentato nel 2019 sottolinea la presenza di una tassa in Belgio sugli imballaggi di posate usa e getta e sui sacchetti di plastica monouso immessi sul mercato; in Francia, Irlanda, Portogallo, Spagna e nel Regno Unito si applica, con modalità e parametri diversi, una tassa sulle quantità di sacchetti di plastica monouso prodotti; in Danimarca, paese da sempre molto attento alle questioni ambientali, si prevede il pagamento di una tassa per specifici prodotti in PVC morbido, e per tutta una serie di beni che contengono ftalati (es. tubi, rivestimenti per pavimenti e pareti, guanti, grembiuli, tute protettive, indumenti impermeabili, tovaglie, cavi, fili, grondaie, cartelline in plastica, raccoglitori, ecc).
Nel dettaglio il Regno Unito ha basato la sua imposta non sui manufatti in plastica monouso, ma sugli imballaggi di plastica prodotti o importati nello Stato per un quantitativo superiore a 10 tonnellate di prodotto plastico che avesse sostenuto l’ultimo stadio di trasformazione. In Spagna, invece, dal 1 gennaio 2023 vige un’imposta sugli imballaggi monouso, prodotti, importati o introdotti da altri Stati dell’Unione europea, contenenti plastica, sui prodotti semilavorati in plastica e sui prodotti contenenti materie plastiche destinati alla confezione finale di vendita. Da più parti si è però rilevata la difficoltà di quantificazione e di determinazione della base imponibile dell’imposta nonché la complicazione dell’uscita del Regno Unito dall’Unione europea per cui tali prodotti sono soggetti al regime di importazione, con aggravio di costi, mentre i passaggi degli stessi prodotti in Spagna rappresentano movimenti intra comunitari e non soffrono di aggravi di dazi per importazione. Inoltre la definizione della base imponibile è complicata perché si basa su presupposti differenti; ad esempio nel Regno Unito non rientrano tra i prodotti assoggettati alla plastic tax gli imballaggi che contengono più del 30% di plastica riciclata, pur concorrendo alla determinazione della soglia delle 10 tonnellate, mentre vi vengono assoggettati i prodotti la cui componente plastica è prevalente in peso rispetto agli altri elementi che compongono il prodotto. In Spagna, invece, la base imponibile è costituita da tutta la parte di prodotto che non è plastica riciclata, così come peraltro si conforma la nostra plastic tax. Pertanto un altro aspetto da sottolineare e da tenere in mente è rappresentato dalla difficoltà che le diverse tipologie di imposte stanno creando nella circolazione dei beni. Se la nostra imposta dovesse entrare in vigore, occorrerà tener conto di questi aspetti al fine di normare una imposta che sia di facile applicazione sia per la determinazione della base imponibile, sia per gli adempimenti amministrativi derivanti.
Questi i casi in cui in alcuni paesi europei hanno adottato la leva fiscale per cercare di contenere la produzione di materiali inquinanti e non riciclabili; a riscontro dell’efficacia di questa politica la relazione illustrativa al provvedimento di introduzione della plastic tax, ricordava che nel 2019 un altro report della Market Research Group ha quantificato, per il biennio 2017 e 2018, un decremento della produzione europea del mercato della plastica proprio per effetto di queste politiche, nonostante la produzione mondiale fosse invece costantemente aumentata. In particolare i maggiori produttori mondiali di plastica (dati del 2018), in percentuale, sono rappresentati da: paesi dell’accordo nordamericano di libero scambio tra USA, Canada e Messico, c.d. NAFTA (North Atlantic free trade Agreement) per una quota del 18%, Europa per il 17%, Cina per il 30%, Giappone per la quota del 4% ed il resto dell’Asia per il 17%.
Da queste brevi informazioni di natura statistica si comprende bene come il problema sia globale e riguardi tutti i paesi del mondo e sia però soggetto alla sensibilità di ognuno.

 

 

Il fenomeno del greenwashing ha fatto emergere una realtà in cui esistono aspetti ingannevoli nelle dichiarazioni e nelle politiche pseudo ambientaliste contenute nei messaggi e nelle strategie di marketing pubblicizzati dalle aziende. Ci si può trovare quindi di fronte a situazioni in cui le filiere produttive oltre a non essere rispettose dell’ambiente possono addirittura essere più nocive delle precedenti produzioni di beni/servizi. L’ecologismo di facciata ha quindi aperto scenari rischiosi di vera e propria illegalità nell’agire da parte delle aziende.
Una delle prime ricadute negative nelle pratiche di greenwashing la si riscontra nella perdita di fiducia da parte dei consumatori; quando essi scoprono di essere stati ingannati scatta un meccanismo di punizione in cui l’immagine aziendale viene annientata e la sua reputazione distrutta. Si può così verificare una perdita di valore, un danno che può anche essere superiore rispetto al beneficio che l’azienda sperava di trarre dal greenwashing. Un altro rischio, molto più sostanziale ed importante riscontrabile nella pratica dell’inganno ecologico, risiede nella perdita di interesse da parte dell’azienda di intraprendere un effettivo percorso di miglioramento ambientalistico; infatti se un’impresa vede premiata la sua politica ingannevole potrebbe essere soddisfatta dei risultati ottenuti senza di fatto ricercare un miglioramento concreto delle proprie linee produttive attraverso strategie di ricerca e sviluppo. Un’altra considerazione importante riguarda le modalità con cui i singoli produttori rendono conto della propria politica di sostenibilità attraverso indicatori di bilancio (c.d. ESG cioè: indicatori di ambiente, fattori sociali e governo dell’azienda e misurano la sua propensione al rispetto dele politiche green) che consentono soprattutto agli investitori di diminuire il rischio di finanziare progetti ed imprese che potrebbero risultare non virtuose nel perseguire gli obiettivi ambientali.
Un aiuto per evitare di cadere nella trappola dell’inganno ecologico ci verrà fornito in Europa attraverso l’emanazione di una normativa stringente su ciò che può essere identificato come azione a favore dell’ambiente; un maggior numero di aziende sarà obbligata a fornire un resoconto circa le modalità seguite per lo svolgimento delle attività sostenibili ed i risultati conseguiti attraverso attività di reporting di natura non finanziaria. Queste misure però potrebbero non risultare sufficienti se le normative non saranno chiare e rese obbligatorie per tutti; noi consumatori avremo l’obbligo di informarci accuratamente prima di acquisire un prodotto/servizio al fine di valutarne il reale impatto ambientale. Ultimamente l’Unione europea ha cercato di rafforzare il percorso avviato verso il modello di sviluppo economico-sociale sostenibile. Dal punto di vista legislativo ha individuato la direttiva sugli indicatori di sostenibilità che dovranno adottare le aziende (c.d. CSRD Corporate Sustainability Reporting Directive) che sostituirà l’attuale direttiva sulla rendicontazione non finanziaria (c.d. NFRD Non Financial reporting Directive).
L’Europa su questo fronte ha posto come obiettivo la neutralità climatica (c.d. net-zero) nel 2050; pertanto le aziende dovranno modificare le proprie strategie ed investire in ricerca e sviluppo al fine di raggiungere l’obiettivo prefissato. La transizione verso produzioni ecosostenibili è un processo necessario ed urgente non solo per motivi ambientali e sociali, ma anche economici; infatti il deterioramento dell’ambiente rappresenta una minaccia concreta per le aziende e per la stabilità del sistema economico. E’ evidente che la transizione implicherà costi notevoli riconducibili a maggiore tassazione se l’azienda è più inquinante, maggiori oneri in termini di strategie di ricerca e sviluppo, maggiori costi per consumi energetici; il tutto influirà negativamente sul ricarico che l’azienda è in grado di percepire come rapporto tra prezzo di un bene/servizio ed il suo costo (c.d. markup aziendale). I notevoli costi che le aziende dovranno sostenere renderanno necessari aiuti di stato in termini di risorse a fondo perduto (in tal senso si vedano alcuni degli aiuti contenuti nel Piano nazionale di resistenza e resilienza c.d. PNRR). Purtroppo ancora una volta saranno le imprese che si trovano nel territorio del mezzogiorno a farne le spese perché esposte a maggior rischio di transizione; le loro produzioni sono essenzialmente concentrate nel settore automobilistico e della lavorazione dell’acciaio (in particolare si pensi alle zone di Potenza, Taranto, Terni, Campobasso).
Si comprende così, in termini economici, il perché le aziende cerchino di presentare come ecologici processi e prodotti che spesso non lo sono o lo sono solo in parte; scorriamo ora i casi più eclatanti di aziende che hanno fatto greenwashing al fine di essere consapevoli ed attenti ed imparare dagli errori compiuti nel passato.
Cominciamo dalla Coca-Cola: già nei primi anni del 2000 l’azienda è stata al centro di problemi legati al tema della sostenibilità. Nel giugno del 2021 è stata citata in giudizio da un’organizzazione ambientalista senza scopo di lucro (Earth Island Institute) con l’accusa di fare marketing ingannevole sul tema ecologico; in particolare è risultata essere una delle aziende più inquinanti tra quelle che producono bevande anche perché i propri contenitori (bottiglie e tappi) non sono risultati riciclabili al 100%. Secondo la denuncia la Coca-Cola è il principale produttore di rifiuti plastici del mondo, ed utilizza circa 200.000 bottiglie al minuto, pari ad un quinto della produzione mondiale di bottiglie in polietilene tereftalato (PET). Inoltre, poiché la linea produttiva di tale plastica si basa sull’uso di combustibili fossili, si aggiungono anche danni causati da emissioni di CO2. L’eccessiva produzione di rifiuti in plastica è dovuta alla carenza di sistemi di riciclaggio; si è calcolato che solo il 30% delle bottiglie riesce ad essere effettivamente riutilizzato e ciò è dovuto non solo ad una mancanza di strategia produttiva ma anche perché l’azienda si oppone all’applicazione di una piccola tassa sull’acquisto delle bottiglie di plastica che verrebbe restituita al consumatore nel momento in cui la bottiglia viene conferita in un impianto di riciclaggio. Sul punto si vuol solo ricordare il potere, economico e politico, della Coca-Cola che ha impedito che la tassa sui manufatti in plastica MACSI (c.d. plastic tax) e la tassa sulle bevande zuccherate (c.d. sugar tax) - aventi anche una valenza ambientalista e salutare - entrassero in vigore in Italia dal gennaio 2020, inducendo i nostri politici a prorogarne periodicamente la decorrenza; con la legge di bilancio per il 2024 tale entrata in vigore è stata portata al luglio 2024, ma penso, a mio modesto avviso che, ahimè, assisteremo ad un’ulteriore proroga!
Anche ENI, il colosso energetico italiano, è stato accusato di greenwashing; in particolare tra il 2016 ed il 2019 ha presentato il prodotto “ENIdiesel+” come avente le caratteristiche di prodotto biologico, green e rinnovabile, con la possibilità anche di abbattere le emissioni di CO2 fino al 40%. Di fatto è emerso successivamente che gli additivi vegetali presenti nella citata tipologia di diesel sono altamente inquinanti e non riducono né l’impatto ambientale né i consumi. Pertanto le è stato proibito di continuare ad utilizzare una pubblicità ingannevole riguardante un prodotto altamente inquinante, che per sua natura non può essere considerato green; il Tar del Lazio ha stabilito una multa di 5 milioni di euro.
Nel 2019 la società H&M attiva nel campo della moda è stata posta sotto accusa dall’autorità governativa (Norwegian Consumer Authority) che si occupa di pubblicità ingannevole; in particolare esaminando la collezione c.d. “Conscious”, pubblicizzata come rispettosa dell’ambiente, si è visto che le informazioni fornite in merito ai processi produttivi erano vaghe ed imprecise con riferimento, in particolare, alla maggiore sostenibilità di essi rispetto agli altri prodotti in vendita. L’azienda non ha ricevuto multe, ma è stata indotta a fornire una più approfondita comunicazione sulla sua filiera produttiva.
Altra grande azienda che ha sempre puntato su un’immagine di produzione eco sostenibile, ma che si è trovata invischiata in problematiche riguardanti il greenwashing è stata Ikea; nel 2020 è stata accusata dal un gruppo ambientalista britannico (Earthsight) di essersi rifornita di legname abbattuto in modo illegale in Russia ed in Ucraina. L’associazione ha documentato come grand parte delle imprese ucraine non avessero rispettato le norme sulla provenienza del legname, senza peraltro valutarne l’impatto ambientale, e disboscando oltre i confini dei territori autorizzati. Inoltre è stato stimato un consumo di un albero al secondo per soddisfare la domanda globale di prodotti Ikea. La sua politica di produzione si basa su un modello a bassi prezzi di vendita, che utilizza il legname per arredamento a basso costo (il c.d. fast-fashion dell’arredamento); tale strategia ha la caratteristica di cavalcare l’onda del consumismo sfrenato che porta il consumatore ad acquistare beni di cui non ha bisogno, e che hanno una durata molto limitata nel tempo, con ciò incentivando la deforestazione. Per rispondere a queste accuse l’azienda ha predisposto un programma di riacquisto e vendita di mobili usati.
A giugno del 2022 un’indagine condotta da Reuters ha evidenziato che l’azienda britannica multinazionale Unilever ha eluso i divieti circa l’utilizzo di bustine monouso per la vendita di prodotti in piccole quantità. In particolare tali bustine vengono utilizzate soprattutto nei paesi in via di sviluppo ed essendo contenitori usa e getta rappresentano una delle forme principali di inquinamento dell’ambiente e in particolare dei  mari.
Di recente, ad aprile 2023 è stata accusata di greenwashing la compagnia aerea KLM per pubblicità ingannevole; in particolare si utilizzava la pubblicità per suggerire che il viaggio in aereo non è una scelta sbagliata dal punto di vista ambientale (campagna c.d. Fly Responsibly). La compagnia aerea sottolineava l’uso di carburante eco sostenibile e l’adozione di aerei ad idrogeno quando la relativa tecnologia sarà sviluppata. Tra gli accusatori diversi gruppi non profit tra cui Fossil Free, ClientEarth e Greenpeace che hanno sottolineato l’ingannevole pubblicità rappresentata da giovani speranzosi e possibili tecnologie future non ancora presenti. La campagna pubblicitaria è stata interrotta.
Anche l’azienda italiana San Benedetto ha dovuto pagare una multa di 70.000 euro per aver fatto pubblicità ingannevole basata su bottiglie prodotte con meno plastica, risparmio di energia e di emissioni di CO2, e quindi ecosostenibili. In realtà l’Antitrust ha evidenziato che all’epoca non sarebbe stato possibile calcolare il reale risparmio di energia e la diminuzione delle emissioni di CO2 in quanto non erano disponibili strumenti idonei a quantificare tali benefici ambientali.
Nel 2021 l’azienda petrolifera statunitense Chevron è stata accusata di pubblicità ingannevole in quanto aveva sopravvalutato i suoi investimenti in energie rinnovabili e nelle strategie per la riduzione delle emissioni di gas serra. In particolare i gruppi non profit Global Witness, Greenpeace e Earthworks hanno individuato le pratiche ingannevoli contenute nella pubblicità di Chevron in quanto gli investimenti in fonti rinnovabili rappresentavano il solo 0,2% delle spese in conto capitale. Sono state quindi richiamate le linee guida del 2012 della Commissione Federal Trade che mirano ad impedire che le aziende rilascino false dichiarazioni ambientaliste. Sono state così riconosciute illegali 15 campagne pubblicitarie della Chevron tra cui le pubblicità “Human energy” e “We Agree”.
Non ci rimane che dire: vigiliamo attentamente perché il benessere del pianeta dipende prima di tutto da noi consumatori, da ogni nostro piccolo gesto!

 

 

COME SI FA GREENWASHING E COME LO SI CONTRASTA: I C.D. SETTE PECCATI CAPITALI
di Alessandra Di Giovambattista
 
Il fenomeno del grennwashing, traducibile in italiano con il termine di “ecologismo di facciata”, fa riferimento ad una strategia di comunicazione che ha lo scopo di costruire un’immagine tanto positiva quanto falsa di un’azienda rispetto al suo reale impatto ambientale. Diviene pertanto importante, al fine di contrastare tale pratica ingannevole, cercare di capire come le aziende inducano in errore i consumatori; secondo una ricerca condotta da “Terrachoice Environmental Marketing inc.” (società canadese di marketing ambientale) vi sono sette elementi da considerare (definiti “sette peccati capitali”):
1) omessa informazione: la strategia si basa sull’omissione di informazioni che bisognerebbe conoscere al fine di poter ben valutare l’impatto ambientale dei prodotti/servizi commercializzati; in tal modo le aziende non dicono il falso, si limitano (semplicemente !!!) ad omettere l’informazione. Così non viene dichiarata la provenienza delle  materie prime, le modalità con cui sono lavorate, il rispetto delle normative degli Stati dalle quali provengono, la politica di trasporto e di distribuzione, le modalità di imballaggio, le strategie di riciclo delle materie prime, quanta CO2 viene immessa nell’ambiente attraverso la filiera produttiva. Queste informazioni sarebbero importanti per un consumatore consapevole e con la volontà di premiare le aziende più meritorie. L’omissione delle informazioni genera così l’inganno del consumatore al quale, forse, viene sottolineato solo qualche aspetto marginale del problema ambientale. Il fenomeno lo si può riscontrare anche quando alcune aziende delocalizzano la propria produzione trasferendosi in Stati in cui è meno stringente il controllo normativo, potendo così dichiarare che non sono state violate disposizioni ambientaliste, ma ciò in realtà è vero solo perché non hanno prodotto in Italia o nel proprio paese d’origine! Questa pratica ingannevole è stata riscontrata per il 73% dei casi negli USA e per il 98% dei casi nel Regno Unito.
2) Mancanza di prove: in definitiva le aziende dichiarano delle caratteristiche green del prodotto senza che queste vengano supportate da chiare e riconosciute certificazioni da parte di enti terzi a ciò preposti. Ovviamente fanno forza sul fatto che il consumatore, ingannato anche dal nome dell’azienda, spesso multinazionale, non riesce a verificare quanto viene dichiarato. Questo aspetto coinvolge circa il 59% delle aziende statunitensi.
3) Vaghezza: questo aspetto riconduce ad indefinite e imprecisate informazioni sui prodotti che non consentono assolutamente di fare chiarezza circa gli ingredienti utilizzati, la loro provenienza, il processo produttivo impiegato, ma piuttosto usano affermazioni come: “prodotto con ingredienti naturali”, “fatto come da tradizione”, ecc. Anche in tal caso circa il 56% delle aziende statunitensi utilizza questi metodi per abbagliare il consumatore e indurlo a credere che stia acquistando un prodotto rispettoso dell’ambiente.
4) False etichette: le aziende in tal caso utilizzano etichette per i loro prodotti che riportano certificazioni e autorizzazioni che in realtà non hanno acquisito o che sono totalmente false (in un ambito diverso si vuol ricordare il caso, di qualche tempo fa,  del marchio CE che si pensava fosse riferito alla provenienza Comunitaria dei beni, ma che in realtà significava “China Export”, cioè prodotto di esportazione cinese!). L’inganno per il consumatore consiste nel considerare le etichette apposte sul prodotto come veritiere e garantiste di un bene prodotto secondo pratiche ecologiche; in realtà si rischia di utilizzare un prodotto che potrebbe essere assolutamente non rispettoso dell’ambiente ed anzi in alcuni casi anche nocivo. Circa il 24% delle aziende statunitensi approfitta della disattenzione e dell’ignoranza dei consumatori in questo ambito.
5) Irrilevanza: questa tecnica si basa sul fornire informazioni che potrebbero sembrare a favore e a tutela dell’ambiente ma che in realtà esulano del tutto dall’argomento e non sono assolutamente rilevanti per capire se un prodotto è davvero ecologico o meno. In particolare le aziende cercano, ad esempio, di sottolineare la mancanza di alcuni componenti nel prodotto inducendo a pensare che sia una propria scelta strategica di natura ecologica, quando invece per disposizioni di legge non possono usare determinati elementi e sostanze chimiche. La realtà è che il consumatore percepisce come una buona pratica quello che l’azienda di fatto non potrebbe assolutamente fare, pena incorrere nell’illegalità.
6) Basarsi sul male minore: le aziende cercano di celare una produzione nociva indicandola come meno dannosa rispetto ad un’altra; pertanto la questione si gioca su un confronto di filiere di produzione che sono comunque inquinanti, solo che una lo è più di un’altra, e ciò si verifica quando ad esempio su di una di esse ci sono studi consolidati circa la sua nocività, rispetto all’altra. Una dimostrazione è data dalle sigarette elettroniche pubblicizzate come amiche dell’ambiente perché consentono di diminuire le coltivazioni di tabacco che inquinano i terreni e nuocciono alla salute. In realtà anche i liquidi usati per le sigarette elettroniche sono chimici ed altamente tossici e quando si fumano emettono sostanze nocive per l’ambiente e per le persone. Quindi non ci troviamo di fronte ad un prodotto ecologico, bensì di fronte ad un bene che forse è solo meno inquinante rispetto ad un altro, ma questo è tutto da dimostrare!
7) Mentire: questa tecnica è la meno seguita dalle aziende essendo comunque una pratica perseguibile giudiziariamente; in ogni caso alcune affermazioni potrebbero non essere vere e comunque difficili da verificare da parte del consumatore. In tal senso pensiamo a quando viene pubblicizzato un allevamento che non usa antibiotici o che utilizza mangimi ecosostenibili, oppure quando si indicano le emissioni di CO2 della filiera dei prodotti; per il consumatore è davvero difficile, se non impossibile, verificare il grado di verità dell’affermazione fatta dall’azienda. Questa ha tutto l’interesse a far sì che il consumatore venga indotto a credere che stia effettuando un acquisto rispettoso dell’ambiente, quando in realtà per valutare un bene/servizio o una categoria di prodotti, occorre una valutazione circa l’impatto ambientale della filiera nella sua totalità e complessità. Una modalità per valutare l’attendibilità delle dichiarazioni è cercare di approfondirne la veridicità magari informandosi anche su siti di tutela dei consumatori.
Una volta chiariti gli aspetti più caratterizzanti di tale pratica ci si chiede come sia possibile verificare di fatto quando ci si trovi di fronte ad una pratica di greenwashing al fine di contrastarla e di effettuare la scelta più consona ai propri obiettivi di consumi a tutela dell’ambiente; in ambito internazionale ci si può basare sulle raccomandazioni della commissione statunitense “Federal Trade Commission” che ha individuato alcuni metodi abbastanza efficaci per evitare di incorrere in errori di valutazione e quindi per tentare di sfuggire alla possibilità di essere ingannati.
Occorre verificare che le etichette che spiegano l’impatto positivo del prodotto sull’ambiente usino un linguaggio immediato e diretto, di facile comprensione senza grandi proclami e frasi ad effetto. Il messaggio pubblicitario contenuto nella dichiarazione di marketing deve essere semplice con indicazioni esatte circa le effettive strategie utilizzate dall’azienda per raggiungere obiettivi di produzione rispettosi dell’ambiente; in particolare è bene che le singole parti del processo produttivo siano ben chiare e specifiche nella parte innovativa, consentendo di comprendere se il prodotto abbia davvero un impatto di emissioni parzialmente o totalmente compensate (quindi nel migliore dei casi pari a zero). Il linguaggio usato nelle etichette non deve essere eccessivo quindi non deve essere esageratamente enfatico, ponendo un’attenzione ad un beneficio ambientale che difficilmente, salvo prova contraria, sarebbe raggiungibile. Occorre avere delle prove abbastanza inconfutabili circa il miglioramento della linea produttiva di un’azienda rispetto ad un altro marchio concorrenziale; in questo caso si rilevano importanti i processi di ricerca e sviluppo che le grandi aziende dovrebbero incentivare e finanziare e la pubblicizzazione dei risultati e dei loro effetti sui prodotti. Preferire l’acquisto di prodotti con certificazioni effettuate da enti terzi riconosciuti ed affidabili, come ad esempio il Carbon Trust Standard; questa è un’azienda che supporta le imprese nella misurazione delle emissioni di gas ad effetto serra provenienti dalle proprie linee produttive e fornisce un logo per l’identificazione dei prodotti che sono sottoposti alla sua valutazione. La misurazione delle emissioni di CO2 permette di identificare i miglioramenti durante il processo produttivo, di approvvigionamento e di distribuzione; la verifica circa la riduzione dell’impatto ambientale avviene ogni due anni e consente di esporre i miglioramenti compiuti dall’azienda in modo trasparente ed oggettivo.
Per quanto riguarda il nostro Paese il Forum per la Finanza sostenibile, svoltosi a novembre del 2022 a Milano e a Roma, ha esposto delle linee guida per contrastare il greenwashing anche in ambito di finanza sostenibile, allargando il campo di osservazione sia ai consumatori che ai potenziali investitori; nel documento si legge infatti che aziende, consumatori ed investitori possono evitare di incorrere in tale pratica ingannevole seguendo delle raccomandazioni generali relative a determinati comportamenti. In particolare le raccomandazioni per sviluppare politiche di sostenibilità efficaci e contestualmente per fornire una comunicazione esente da pratiche ingannevoli dovrebbe: identificare concreti obiettivi di sostenibilità e comunicarne in modo trasparente sia le motivazioni che hanno portato a scegliere un determinato obiettivo piuttosto che un altro, sia i principi generali a cui fanno riferimento al fine di poterne effettuare una verifica a posteriori. Cercare di dettagliare il percorso produttivo di rispetto climatico intrapreso dall’azienda esplicitando modalità, tempi e obiettivi intermedi che la stessa si pone al fine di consentire a chi legge di verificare se ciò che l’azienda ha fatto o che intende fare sia davvero sostenibile e ragionevolmente raggiungibile. Occorrerebbe cercare di dettagliare le metodologie di misurazione degli esiti ottenuti (c.d. percormance) e fornirne una chiave di lettura chiara ed univoca, al fine di rendere trasparenti i processi di sostenibilità ed i risultati conseguiti dall’azienda e permettere ai consumatori ed agli investitori di fare scelte consapevoli. Un ulteriore aspetto da curare e da approfondire si trova nel cercare di dettagliare le fonti, la tipologia dei dati e le metodologie di raccolta delle informazioni che l’azienda segue per permetterne la verifica circa il grado di affidabilità. È bene poi che la verifica degli obiettivi conseguiti sia assegnata a enti terzi certificatori che abbiano i requisititi e le autorizzazioni necessarie per svolgere tali attività in modo professionalmente trasparente e autonomo e possano così trasferire ai consumatori degli apprezzamenti indipendenti circa le politiche strategiche intraprese delle aziende produttrici. In tal modo le aziende potranno comunicare in maniera accurata le informazioni necessarie per rendere consapevoli i propri consumatori, aiutandoli nel compiere una scelta verso i prodotti più meritori e rispettosi dell’ambiente, e gli investitori, indirizzandone i finanziamenti verso le filiere più attente al rispetto climatico. La necessità di ottenere certificazioni da terze parti indipendenti rappresenta un aspetto che le aziende non dovrebbero sottovalutare e che consumatori e investitori dovrebbero potenziare; è infatti la pressione che i vari portatori di interessi hanno che consente alle imprese di comprendere l’importanza delle valutazioni esterne nella catena del valore. Esse permettono di spingere vero percorsi di sostenibilità per garantire una trasparente e veritiera aspettativa di vantaggi in ragione del potenziamento della reputazione, competitività ed efficientamento dei costi aziendali in favore di attività green ed acquisti ed investimenti consapevoli verso i beni/servizi più meritori.  
Cerchiamo, ognuno di noi, nel nostro piccolo di non cedere a false ed illusorie promesse propinateci da sbrigative ed effimere campagne pubblicitarie. Non ci fermiamo alla superficie dei problemi, cerchiamo di diventare attenti ed informati analisti delle situazioni che ci circondano!