LA RESPONSABILITÀ D’IMPRESA, UN MODO PER CONTRASTARE LE DISUGUAGLIANZE

di Alessandra Di Giovambattista

 23-06-2024

La responsabilità sociale dell’impresa è oggi un approccio sempre più presente all’interno delle modalità di scelta e di gestione delle strategie aziendali. Viene definita nel mondo anglosassone come Corporate Social Responsability (CSR) e si basa sull’impegno da parte delle imprese di scegliere comportamenti etici che siano in grado di contribuire a garantire la sostenibilità dell’azienda nel lungo termine e contestualmente a sviluppare il livello di benessere della società. Infatti da un lato si assiste ad un miglioramento della reputazione dell’impresa, dall’altro alla costruzione di un clima e di un ambiente lavorativo più sostenibile e meno ostile a vantaggio di tutti i portatori di interessi aziendali (i c.d. stakeholders): dai lavoratori, ai fornitori, ai clienti, agli investitori, alla collettività nel suo complesso. La responsabilità sociale d’impresa è la filosofia che muove il nuovo sistema di sviluppo sociale ed ambientale del tessuto imprenditoriale (definito dai parametri relativi all’ambiente, all’impatto sociale e ai principi di governo aziendale, meglio conosciuti come sistema ESG: Environmental, Social e Governance), che permette alle aziende di coniugare obiettivi di massimizzazione del profitto con quelli di rispetto delle esigenze sociali ed ambientali della comunità su cui agisce l’azienda. L’obiettivo principale è la sostenibilità economica che implica non solo il rispetto di condizioni economico-finanziarie, ma soprattutto di standards qualitativi di vita che permettano di garantire performances ambientali, sociali e di governo aziendale alla luce anche degli obiettivi indicati nell’agenda 2030 delle Nazioni Unite. Quest’ultima è un programma che comprende diversi obiettivi di sviluppo comuni, che quindi riguardano tutti i Paesi, e tra i più impegnativi ricordiamo: la lotta alla povertà, l’eliminazione della fame e il contrasto al cambiamento climatico.

Già da queste brevi note si evidenzia l’attenzione di tale approccio alle concrete ricadute delle azioni aziendali sul territorio e sulle persone. In particolare l’analisi va esplicitata: con riferimento all’ambiente, considerato come il territorio in cui l’impresa opera e che deve essere preservato e difeso da azioni di depauperamento incontrollato ed inefficiente delle risorse, dall’inquinamento del terreno e delle falde acquifere – con una particolare attenzione alla gestione del ciclo dei rifiuti e del loro processo di riciclo - dalla deforestazione e dall’inquinamento dell’aria. Con riferimento alle ricadute sociali, intese sia come relazioni tra lavoratori all’interno dell’azienda (nel rispetto dei diritti e dei doveri, della politica retributiva e di garanzia delle singole peculiarità senza disparità di genere e cercando di attuare modalità di inclusione, della sicurezza e della salute degli ambienti lavorativi) e tra tutti gli stakeholders sia come relazioni tra l’azienda e il contesto sociale in cui si trova (rispetto della legislazione vigente in un determinato territorio, delle tradizioni, della cultura, dell’equità e della giustizia sociale, dei diritti umani). Con riferimento alla gestione del governo aziendale, della sua organizzazione dirigenziale e delle strategie che devono essere rispettose della legalità normativa, deontologica ed etica (contrasto della corruzione, delle connivenze di tipo malavitoso, delle pratiche di concorrenza sleale, adeguatezza delle retribuzioni, ecc.), basata comunque sull’analisi continua dei risultati economico-finanziari per garantire il più alto grado di efficacia ed efficienza possibili (alla ricerca delle migliori pratiche e performances in un determinato ambito che vengono comunemente definite come best practises).

Nonostante la bontà dei presupposti, il capitolo sulla responsabilità d’impresa è rimasto finora inattuato dalla gran parte delle aziende; il grande problema in tale ambito lo si può riscontrare nel fatto che l’insieme dei programmi e degli obiettivi, nonché le modalità sul come raggiungerli, sono in realtà criteri e pratiche di tipo volontaristico, per le quali non sono state previste sanzioni qualora non si seguano le indicazioni fornite. Tuttavia la responsabilità d’impresa nasce come un impegno necessario e pressante a cui tutte le aziende non dovrebbero sottrarsi almeno in ragione di un obbligo derivante da un contratto sociale, da una sorta di dovere sia etico sia funzionale che restituisce il giusto peso e la giusta collocazione alle aziende incardinate in un contesto di economia a servizio dell’uomo, che deve veder garantito il diritto al futuro per sé e per le prossime generazioni.

Negli anni passati l’Unione Europea si era limitata a varare dei piani mentre, di recente, il 24 maggio del corrente anno, ha formalmente adottato una direttiva – in attesa di firma e pubblicazione - ultima tappa di un lungo processo decisionale, concernente il dovere di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità. In particolare l’atto si rivolge alle aziende di grandi dimensioni a tutela dei diritti umani e di protezione dell’ambiente al fine di arginare gli impatti negativi delle politiche di produzione e prevedere delle forme di responsabilità. L’impegno ed i doveri si estendono non solo all’azienda specifica ma anche alle sue affiliate e comunque ai soggetti inseriti nella rete di attività complessiva. Dovranno pertanto essere implementati sistemi di indicatori (che verifichino i parametri visti sopra e indicati come ESG che sono già contemplati dalla direttiva sulla definizione del sistema di indicatori per verificare la sostenibilità aziendale, cioè la CSRD – Corporate Sustainability Reporting Directive) che monitoreranno, anche attraverso la rendicontazione, l’impatto delle aziende sull’ambiente, sui diritti umani e sugli standard sociali. Questi sistemi di indicatori basati sul controllo delle azioni aziendali, affinché non si peggiori la situazione ambientale esistente, permetteranno di monitorare, prevenire ed eventualmente sanare le violazioni dei diritti umani o i danni ecologici prodotti. Nel caso di trasgressioni le imprese dovranno adottare misure atte a mitigare, arrestare o prevenire impatti negativi e potranno essere ritenute responsabili dei danni causati e conseguentemente chiamate al risarcimento.

In tale ampio contesto, si vuole qui approfondire un aspetto che si reputa basilare per la buona riuscita degli intenti che si desiderano raggiungere con tali direttive; in particolare ci si vuole interrogare su come l’attività d’impresa - agendo sul livello di diseguaglianza tra soggetti, ma anche con riferimento all’ambiente in termini di utilizzo di risorse e ricadute negative – possa, se ben manovrata, contrastare le disparità. In particolare risulta interessante indagare su come il governo di impresa rappresenti un tema di approfondimento in termini di giustizia sociale. Questo aspetto rischia però di essere incompreso qualora si consideri il governo aziendale esclusivamente basato sul concetto di efficienza (e non anche sul concetto di efficacia che per sua natura abbraccia temi che vanno ben oltre il semplice utilitarismo economico-finanziario) dove non possono trovare posto i presupposti su cui si basa la giustizia sociale.

Cerchiamo di fare chiarezza: un sistema aziendale, in quanto presente su un determinato territorio, si incardina in uno specifico contesto ambientale, giuridico, sociale; quindi una delle prime analisi che l’azienda effettua nella fase iniziale previsionale, in fase cioè di business plan, è sicuramente l’esame del territorio e delle normative alla ricerca del miglior rapporto tra opportunità, diseconomie e rendimento del capitale. Quindi un esame preventivo circa la libertà di accesso alle risorse espresse in termini di disponibilità di capitale finanziario, umano, sociale, di diritti di proprietà e di uso. Tali elementi di analisi prodromica sono alla base delle concrete possibilità di svolgimento dell’attività da parte dell’azienda in quanto la distribuzione del reddito tra i diversi fattori della produzione, dipende anche e soprattutto dalle condizioni socio-politiche, organizzative e di mercato presenti su un determinato territorio ed in un determinato momento. Pertanto le condizioni presenti definiscono ed influiscono sulle scelte strategiche aziendali; il tutto, se ci si sofferma un attimo, ci aiuta a comprendere il fenomeno delle delocalizzazioni aziendali verso Paesi in via di sviluppo dove, essendo spesso del tutto inesistente ogni forma di garanzia dei diritti, le aziende possono muoversi liberamente ed in modo spregiudicato.

Connesso a tali aspetti c’è poi quello relativo all’imposizione fiscale, anche essa rappresenta una delle variabili che determinano le scelte strategiche dell’impresa. Quest’ultima in particolare è molto sensibile alle politiche di redistribuzione reddituale in quanto è attraverso la politica fiscale che si attuano le modalità di tassazione dei contribuenti e si garantiscono le misure di benessere sociale attraverso sussidi e trasferimenti. In ultima istanza una delle variabili più attenzionate sarà il reddito effettivo netto, cioè disponibile dopo l’imposizione, che residua per ogni singolo contribuente che sia consumatore e quindi elemento della componente aggregata della domanda di beni e servizi, sia produttore e pertanto componente dell’offerta di beni e servizi.

L’approccio della responsabilità aziendale si presenta quindi necessario, in questa fitta rete di connessioni, per indagare sulla filiera produttiva e sulle sue ricadute in termini ambientali, sulle politiche sociali e retributive poste in atto dall’impresa per escludere comportamenti che violino il giusto compenso retributivo, attraverso pratiche di sfruttamento dei singoli addetti, e le norme di diritto sindacale e del lavoro necessarie per garantire la sicurezza e l’igiene dell’ambiente lavorativo, per verificare la tutela del diritto dei minori a non essere utilizzati come forza lavoro, e per contrastare ogni forma di emarginazione di genere, di etnia, di religione, di inclinazione sessuale. Sarà inoltre importante vigilare sul rispetto delle norme sulla concorrenza del mercato per evitare comportamenti che utilizzino politiche dei prezzi aggressive, sfruttamento sotto costo di materie prime e pratiche di corruzione per ottenere vantaggi e benefici amministrativi e/o politici.

In sintesi si auspica che il controllo della responsabilità sociale dell’impresa possa essere un primo passo per provare a coniugare l’attività aziendale con la giustizia sociale, provando cioè ad uscire da un mero concetto utilitaristico di efficienza (con tutte le ricadute negative in termini di incontrollato sfruttamento dei fattori della produzione) e cercando di ampliare lo sguardo e l’analisi verso forme di ampia efficacia che permettano cioè il raggiungimento di fini sociali, ambientali, giuridici, politici, basati sull’equità sociale. Posto in questo ambito risulta abbastanza evidente come il governo di impresa, attraverso questa nuova prospettiva, possa divenire oggetto di indagine e di concreta garanzia di politiche per la giustizia sociale e l’equità che tendano a contrastare le disuguaglianze pur nel rispetto delle strategie di efficacia aziendale.

A ben vedere questa impostazione non fa altro che potenziare i principi già esistenti nel concetto di economicità aziendale per i quali l’azienda, come organismo vivente complesso, costituito essenzialmente da esseri umani, ha come finalità l’equilibrio di tutte le risorse impiegate e la loro equa retribuzione e distribuzione, per poter garantire la sua sopravvivenza nel tempo. Ma ci si domanda: di fronte allo sfruttamento incontrollato di persone, materie prime ed ambiente potrà l’azienda sopravvivere nel futuro, nel tempo? E gli esseri umani in questo contesto, dove di collocano? La partita si gioca su una riflessione molto più ampia dove fare impresa non è un processo fine a sé stesso, ma è piuttosto una modalità attraverso la quale si esprime la creatività, la tenacia, la capacità umana che deve avere come primo presupposto il benessere condiviso e la speranza di futuro, per tutti.

Ieri domenica 2 giugno dell’anno corrente, negli ambienti adiacenti la Chiesa di Sant’Angela Merici nella omonima via si è tenuta la mostra fotografica di Alessio Paciorri.

“Vieni a scoprire le meraviglie del MASAI MARA”.



Di meraviglie si tratta, un reportage fotografico che immortala nello scatto bellissimi esemplari di animali, che vivono in un range nazionale in Kenya, riserva faunistica di Masai Mara, nella parte sud-occidentale. Prende il nome del popolo Masai.

Alessio Paciorri, al ritorno da un viaggio recente, in Kenya ha voluto regalarci la sua esperienza, con video e bellissime fotografie per renderci partecipi del suo interesse che segue da anni.

L’allestimento fotografico al centro della sala riunisce in un rettangolo ben visibili nello spazio interno ed esterno, foto di dimensioni 70x50.

Si rimane colpiti dall’espressioni per nulla aggressive dei grandi felini addirittura un cucciolo sembra come sorridente. Non sono solo ritratti leoni, leonesse ghepardi leopardi, splendide giraffe, bufalo nero e paesaggi naturali.

Questi animali protetti dagli assalti dei bracconieri vivono adattandosi all’habitat, quello della prateria africana, in cui si trovano in modo naturale pur conservando le caratteristiche di appartenenza non attaccano l’uomo.

Il reportage fotografico nella splendida cornice della sala grande, con ad un lato musica e canzoni di repertorio, allieta il continuo affluire dei visitatori.

Le foto evidenziamo la sobrietà dei movimenti il leone con gli occhi dorati e la criniera al vento, la tenerezza del ghepardo con il suo cucciolo, la grazia delle giraffe, il bufalo nero che si nutre di erba, con la loro forza e bellezza comunicano emozioni anche a sguardi fugaci.

La musica si interrompe e gli astanti possono osservare il video e scene di comportamento quotidiano di altre specie.

Se pensiamo alla cattura ed alla mercificazione degli animali ed alla loro strenua difesa nella sopravvivenza non dobbiamo che rallegrarci che esistano persone che hanno saputo anche coniugare un aspetto di vita che migliori le condizioni di esistenza del nostro pianeta.

Ammirare queste foto è il segno di non arrendevolezza, di originarietà e di originalità di altri esseri viventi.





A cura di Claudia Polveroni Apn Publisher

 

 

 

 5 giugno ore 16 CINA con

Bruno Grassetti, Emanuela Irace, Alessandra Di  Giovambattista e

Giovanna Canzano.

musica di Piero Marsili

 

 

 

per i soci apn

si organizzano corsi  di italiano, inglese, francese, spagnolo, corso di storia dell'arte,  alimentazione

 per info coordinatore: Claudia 3334139232  

 

 

ROMA.-Un gruppo di organizzazioni e dirigenti culturali, composto da domenicani residenti in Italia, ha chiesto al presidente Luis Abinader che la Casa della Cultura Dominicana, promessa durante la sua visita in quella nazione, venga realizzata a Roma, capitale di quella nazione, a causa che il luogo non è mai stato specificato. 

I responsabili culturali Rita Valenzuela, Osvaldo Jiménez, Manuel Ortiz Santana, comprendono che Roma è la città ideale per la sede di questa importante opera, dopo aver affermato che potrebbe avere diverse giustificazioni strategiche e culturali che potrebbero avvantaggiare sia la Repubblica Dominicana che l'Italia.

“Roma è l’unica capitale al mondo dove risiedono più di 70 Istituti di Cultura Straniera. In seguito al Grand Tour sorsero le sedi degli Istituti e delle Accademie di molti paesi del mondo con residenze prestigiose e imponenti. 

“È proprio dove la cultura dei popoli vicini e lontani dall’Italia è costantemente rappresentata attraverso biblioteche, congressi, convegni e incontri di accademici stranieri e locali, rappresentazioni teatrali, concerti”. ha dichiarato Rita Valenzuela, che ha presentato la richiesta al Presidente Abinader durante la sua visita in quella nazione.

I promotori culturali sostengono che avere una Casa della Cultura Dominicana a Roma consentirebbe alla Repubblica Dominicana di proiettare e promuovere la sua cultura, storia e tradizioni su un palcoscenico internazionale. 

Un altro vantaggio e vantaggio che i promotori sottolineano è che una Casa della Cultura a Roma potrebbe fungere da finestra per il turismo dominicano, promuovendo il paese come destinazione attraente per gli italiani e gli altri europei che visitano Roma e ciò aiuterebbe anche a rafforzare i legami tra i Repubblica Dominicana e Italia, facilitando lo scambio culturale, educativo e artistico tra i due paesi.

La richiesta arriva dalle organizzazioni Tempo delle Donne, Domext, Yo Soy Domi, Dominicanos de Pura Sepa, Los Reales de Roma, Los Cerveces, Corro Dom, Comunità Cattolica Domenicana di Roma, Las Guerreras de Fè, Las Siguas Palmeras, Oltre il Pregiudizio , Raice RD, i cui gestori organizzano gli eventi più importanti in Italia.

IL POTERE DELLA COMUNICAZIONE: H. MARSHALL McLUHAN

di Alessandra Di Giovambattista

 22-05-2024

Con il passare del tempo dalla società dell’informazione - che si è sviluppata essenzialmente attraverso messaggi monodirezionali, utilizzando i media tradizionali quali giornali, riviste, libri - si è passati alla società della comunicazione; ma che significa comunicare? Facendoci aiutare dal dizionario della lingua italiana, possiamo dire, in modo molto sintetico, che il senso più comune del termine lo ritroviamo nell’attività di relazione con la quale si intende far partecipe uno o più soggetti di un proprio pensiero, di uno stato d’animo, di un’emozione, di una notizia, di un fatto, dove si dà rilievo ad una relazione complessa e pluridirezionale, tra più persone, che può generare rapporti, partecipazioni e reazioni unilaterali o reciproche. Grazie allo sviluppo degli studi in ambito socio-psicologico possiamo identificare la comunicazione come un processo creato dallo scambio di messaggi attraverso un canale, secondo un preciso codice, tra sistemi della stessa natura o di natura differente (tra esseri umani, animali, macchine). Nella scienze umane e sociali oltre alla comunicazione verbale si riconosce anche una comunicazione non verbale fatta da un insieme di segnali che vanno oltre l’uso del solo apparato fonatorio (segnali mimici, tattili, espressioni dello sguardo, che coinvolgono l’abbigliamento e la postura, ecc). A ciò si aggiunga l’importanza del mezzo attraverso cui si diffonde la comunicazione; oggi essenzialmente ritroviamo i mezzi di comunicazione di massa (i c.d. mass media) che identifichiamo nella televisione, nella stampa, nel cinema, nella radio, ed oggi, più che mai, nelle reti di comunicazione digitale, i c.d. social network, dove il soggetto è spesso, allo stesso tempo, fonte e destinatario di informazioni.

La rivoluzione informatica ha modificato notevolmente il modo di comunicare, creando nuovi spazi di relazione che coinvolgono spesso soggetti di diversa età, cultura, estrazione sociale, etnia, credo, e rendendo liquida la società che spesso non distingue più il mondo reale da quello virtuale. I social rappresentano delle vere e proprie strutture sociali dove si affrontano e si confrontano tecnologia, umanità, partecipazione, interazione, conflitto. Alcuni sociologi definiscono la rete sociale, i c.d. social network, un unico grande mezzo dove i produttori di notizie, opinioni, pensieri, emozioni, espressioni sono al contempo anche i fruitori, a differenza dei mezzi di informazione tradizionali in cui la relazione avviene essenzialmente tra parti in posizioni contrapposte. Inoltre, in tale rete, la comunicazione risulta così poco trasparente che è molto facile cadere preda di soggetti con intenzioni non sempre positive e meritevoli che si fingono quello che non sono, cercando di offrire un’immagine di sé che sia la migliore possibile o comunque quella che gli altri si aspettano di vedere. Sicuramente l’uso delle strumentazioni informatiche (come la ragnatela mondiale informatica il c.d. World Wide Web - cioè il prefisso www con cui facciamo precedere le nostre ricerche sul web - ed i social network) - con i relativi programmi, applicazioni e software - ha reso anche più difficile la tutela della propria sfera personale, la c.d. privacy, e la difesa del diritto all’oblio. Quest’ultimo è la richiesta della rimozione delle informazioni personali dalla pubblica circolazione. Si capisce bene come poter esercitare tale diritto sia davvero difficile in un mondo digitale dove le notizie permangono in modo stabile; non è sufficiente la cancellazione ma è necessaria l’eliminazione della possibilità che esse vengano ripubblicate da terzi, circostanza quest’ultima sempre possibile. Infatti mentre la notizia apparsa sui media tradizionali è strettamente legata ai limiti dello strumento sulla quale è stata divulgata (esempio la stampa), nel mondo digitale le informazioni possono essere memorizzate e condivise con molta facilità di modo che le notizie di fatto rimangono nello spazio di archiviazione (c.d. Cloud) per tempi illimitati e senza poter sapere se e come siano state memorizzate, duplicate e pubblicate.

Ciò detto, in generale, si può comunque evidenziare il rapporto che si instaura tra comunicazione e potere e di fatto, in tale relazione, si riscontra una duplice accezione: da un lato si ha una relazione diretta tra comunicazione e poteri politici, economici, religiosi, i quali utilizzano i media per raggiungere i propri obiettivi e sovente per imbrigliare la libera informazione. Dall’altro lato il potere insito nella comunicazione stessa che si divide in: conoscenza di informazioni che possono essere usate o meno (perché anche il silenzio su una determinata notizia rappresenta un’espressione di gestione del potere; si pensi al c.d. segreto di Stato) e modalità e capacità di divulgazione, che riconducono all’ampiezza dei mezzi utilizzati i quali se più diffusivi, sono più potenti. Quindi possiamo riconoscere una espressione di potere nell’avere notizie e nel gestirle attraverso i vari strumenti di comunicazione; questo aspetto, che ha condotto alla definizione dell’informazione come quarto potere (che si aggiunge a quelli costituzionalmente individuati: legislativo, esecutivo, giudiziario), chiarisce la concreta possibilità di come la comunicazione possa contribuire alla formazione dell’opinione pubblica. Tuttavia occorre sottolineare come tra le istituzioni, l’ambiente vi sia di fatto un processo di osmosi bidirezionale; la società influenzata dalle istituzioni e le istituzioni influenzate dalla società e in questo processo si colloca il flusso di informazioni gestito dalla comunicazione che in sé è solo uno strumento. Semmai il problema risiede nell’utilizzo e nella reale capacità dell’uomo di volersi mantenere intellettualmente libero; infatti negli Stati totalitari si assiste ad un uso della comunicazione come strumento di propaganda, per formare le coscienze ed alienare le menti con la finalità di ottenere il consenso da parte della collettività. Di fatto la comunicazione è in grado di organizzare il pensiero dei soggetti e in tal modo viene vista dai poteri statali ed amministrativi che tentano di soggiogarla al servizio di interessi peculiari, distaccandola dal suo originario ruolo di strumento al servizio della collettività. Quindi il potere della comunicazione si ritrova nella possibilità del soggetto che detiene l’informazione di comunicarla, magari attraverso manipolate frapposizioni e velature, o non comunicarla affatto.

Con riferimento al secondo aspetto relativo alle modalità e capacità di divulgazione delle informazioni ci si ricollega agli strumenti che si possono utilizzare, dalla stampa, alla televisione, fino ad arrivare ai fenomeni odierni dei social network che raggiungono enormi masse di soggetti. Un’analisi interessante del problema è fornita da Marshall McLuhan - filosofo, sociologo, critico letterario, professore di origine canadese (1911 – 1980) - che ha voluto ripercorrere la storia dell’umanità analizzando lo sviluppo dei mezzi di comunicazione. Utilizzando tale prospettiva egli ha notato che le strutture delle società ed i loro usi e costumi, sono stati determinati dall’evoluzione degli strumenti di comunicazione. La sua interpretazione storica degli effetti prodotti dalla comunicazione sui singoli e sulla collettività nel suo insieme, ruota intorno all’idea che è lo strumento utilizzato per diffondere la notizia che produce effetti sui soggetti destinatari, non già il contenuto dell’informazione fornita. È sua la frase in cui si riconosce nel “mezzo il messaggio”, così come, per analogia, si può dire che è la scienza economica che definisce le relazioni sociali.

Quindi il potere della comunicazione non risiede solo nel soggetto che detiene le informazioni, ma anche nel tipo di strumento che viene utilizzato e dalla sua capacità evolutiva e di sviluppo nel tempo. Si è passati quindi dalla comunicazione verbale (le prime società in cui gli oratori avevano un importante compito divulgativo) a quella scritta (attraverso i libri e la stampa), fino ad arrivare agli strumenti radio-televisivi ed informatici. Questi strumenti rappresentano il prodotto culturale e scientifico di società che sono passate dalle prime forme di villaggio (preistorico), alle città, fino ad arrivare al famoso “villaggio globale”. Quest’ultima locuzione è un ossimoro, una contraddizione in termini, costruito da McLuhan proprio per rappresentare lo stridore del contesto attuale dove il villaggio fa riferimento ad un nucleo ristretto di soggetti, mentre l’aggettivo globale coinvolge la totalità del territorio, pertanto ha un significato planetario. Con ciò il sociologo canadese intende sottolineare come la comunicazione con strumenti informatici di fatto abbia abbattuto le frontiere dello spazio, in quanto l’informazione percorre tutto il globo, e del tempo, poiché l’informazione viaggia in tempo reale (velocità quasi istantanea). Ma già prima di McLuhan si parlava di “villaggio” con riferimento al potere dei media; il sociologo Robert. E, Park nel 1923 definisce “villaggio” anche i grandi agglomerati urbani nei quali iniziano a circolare le notizie attraverso i giornali, che rappresentano, per l’epoca, una nuova forma di comunicazione. Così come nei piccoli centri tutti si conoscono, con l’avvento dei quotidiani anche nelle grandi città è possibile sapere cosa accade e quindi ci si sente come in un villaggio dove il pettegolezzo e l’opinione pubblica rappresentano le forze di controllo sociale. L’analisi di McLuhan si basa sulla divisione della storia in tre periodi, con riferimento alle diverse tipologie di comunicazione: tradizione orale che riporta alle società chiuse ed acritiche, dove si apprende attraverso il linguaggio e l’ascolto; scrittura e stampa che modificano le modalità di conoscenza spostando l’attenzione dall’ascolto alla vista, alla lettura – sostituendo così l’orecchio con l’occhio – ed incentivando la comunicazione tra individui, la speculazione e la razionalità; era elettronica dove i media riescono a coinvolgere l’intero globo nei problemi di soggetti posti in differenti luoghi e in tal modo, come paradosso, si ottiene un ritorno ai contatti iniziali del villaggio dove tutti sapevano tutto ciò che avveniva intorno a loro.

Oggi il concetto di villaggio globale porta indubbiamente al fenomeno della globalizzazione, dove ciò che accade in qualsiasi angolo della terra diviene, in pochi istanti, di dominio pubblico e ciò in qualsiasi ambito: politico, sociale, culturale, economico. In tale conteso e tenendo sempre a mente la visione di McLuhan, le sole notizie che devono essere divulgate sono quelle “cattive”, quelle che descrivono calamità, disastri, disuguaglianze ed iniquità, perché si deve alzare il livello di responsabilità dei soggetti. Ma a lungo andare ciò determina frustrazione ed impotenza ed il sentirsi tutti nello stesso ambiente genera una sorta di sensazione di massificazione dei problemi ed anche delle soluzioni, offrendo una visione di “omologazione” e di favore verso gli approcci monocratici: unici problemi, uniche soluzioni, assenza di differenze e di prospettive diversificate; è forse proprio con riferimento all’analisi delle problematiche che occorre assumere un atteggiamento critico rispetto alla “globalizzazione”. McLuhan evidenziava che i media elettronici hanno abolito sia il tempo sia lo spazio, discostandoci da ogni ripartizione dei ruoli e dai singoli punti di vista; ne emerge così un’omologazione delle opinioni. Questa tematica è davvero molto delicata se si pensa che oggi attraverso i social abbiamo masse di persone che si schierano a favore o contro una determinata situazione creando spesso un atteggiamento di “gogna mediatica”, a volte anche creata ad arte, che può indurre alla disperazione il soggetto che vede sé stesso, le sue opinioni e le sue vicende diventare da private a pubbliche con grandi difficoltà di chiarimento e di difesa: una sorta di impossibilità di tutela della propria privacy, del proprio individuale pensiero, lasciando così ampio spazio al pensiero unico. Occorre porre molta attenzione a tale processo che se portato avanti senza il costante nutrimento della nostra anima e del senso critico e la civile e rispettosa difesa del proprio individuale pensiero potrebbe divenire pericoloso ed irreversibile!



TRAGHETTATI NELL’IMPENSABILE: LA FINESTRA DI OVERTON

di Alessandra di Giovambattista

 30-05-2024

Nell’universo del potere politico e della comunicazione sociale, uno degli argomenti che più incuriosisce, intriga e purtroppo preoccupa è la finestra di Overton; in estrema sintesi essa palesa una strategia psico-sociologica che tende alla percezione prima, ed alla persuasione poi, di idee ancora non presenti in una collettività ma di cui se ne vuole l’adesione nell’immediato futuro. Il padre di tale teoria di ingegneria sociale fu il sociologo statunitense Joseph P. Overton (ingegnere e studioso di diritto; 1960 – 2003) che lavorò dapprima nel Centro studi statunitense Mackinac Center for Public Policy (associazione senza scopo di lucro che analizza le politiche pubbliche a tutto tondo) e successivamente ne divenne il vice presidente. Morì in circostanza tragiche, in un incidente aereo alla guida di un ultraleggero; tuttavia prima di morire era riuscito a rendere pubblica la sua teoria circa gli effetti sulla popolazione dei “centri di influenza del pensiero” ideando uno schema di ingegneria psico-sociale che porta il suo nome: la finestra di Overton (The Overton window).

Per comprendere la sua teoria occorre immaginare le idee, presenti in una determinata società e in un preciso momento, come flussi che attraversano liberamente una ipotetica finestra. Il fatto che tali idee passino attraverso questa finestra è legato all’accettazione di esse da parte della maggioranza delle persone; se un’idea non passa, cioè non fluisce attraverso la finestra e - con un’immagine molto fisica - si scontra sul suo telaio, è perché non è popolare e quindi è considerata inaccettabile. Tuttavia la posizione della finestra non è fissa, ma scorre nel tempo, così come non è fisso il suo telaio che può ampliarsi o restringersi in modo da aumentare o ridurre il flusso di idee considerate ammissibili. Quindi la finestra di Overton è un modello che rappresenta le idee e le teorie presenti ed accettate da una collettività in uno specifico momento: al centro della finestra si trovano le idee più condivise ed accettate, mentre andando verso i lati si incontrano le ipotesi meno popolari, fino ad arrivare a quelle definite come “impensabili ed inaccettabili”.

Overton ha evidenziato che negli Stati Uniti, ma anche altrove, sono state costruite campagne a favore di idee non accettate e considerate inammissibili attraverso un percorso graduale in cui è stato possibile individuare delle precise fasi che conducono, alla fine, alla persuasione delle masse da parte dei poteri politico economici. Esso rappresenta quindi uno dei modi tramite il quale si rendono progressivamente possibili i cambiamenti nell’opinione pubblica al fine di far accettare pienamente delle nuove idee - al momento attuale non volute, impensabili e respinte - e trasformarle in leggi. Tuttavia la problematica più rilevante, e forse più allarmante, riguarda il fatto che spesso le nuove impostazioni nascono da un gruppo molto ristretto di soggetti i quali saranno anche i beneficiari esclusivi dei vantaggi rivenienti dalle novità, a discapito del resto della collettività.

Ma vediamo come funziona effettivamente questa strategia di comunicazione politico sociale che si muove percorrendo specifici stadi, seguendo un percorso che avvicina la collettività all’obiettivo passo dopo passo, somministrando, quasi giornalmente, piccole dosi di indottrinamento. All’inizio del percorso l’idea che si vuole introdurre risulta assurda, immorale o vietata (fase dell’inconcepibile/impensabile). Il gradino successivo è rappresentato da un iniziale dibattito riservato a ristretti circoli di c.d. “esperti” (scienziati, giuristi, medici, storici, economisti, ingegneri, ecc) che iniziano a divulgare l’idea attraverso convegni e dibattiti; si costituiscono anche organizzazioni o associazioni a favore del pensiero innovativo (fase del radicale dove cioè il nuovo pensiero rimane vietato ma iniziano a crearsi delle eccezioni). Il terzo stadio coinvolge i mezzi di comunicazione di massa che iniziano un pubblico dibattito ma ne parlano inserendo dei distinguo nell’ambito della discussione, cercando di coniare anche terminologie nuove e meno dirette ed impattanti rispetto al problema iniziale - che si percepiva come inconcepibile – e mettendo in evidenza anche i precedenti storici (fase dell’accettabile). Il passo successivo vede coinvolti alcuni studiosi ed esperti che hanno il compito di iniziare a presentare l’idea come accettabile solo in casi di estrema necessità o di eccezionalità; è in questo momento che viene infranto il velo dell’impensabile o impossibile (fase in cui l’idea diventa ragionevole). Da qui in poi l’argomento fa il suo ingresso in dibattiti sempre più ampi dove partecipano anche persone non esperte, opinionisti e persone comuni; si girano film o spot pubblicitari e incominciano a separarsi i gruppi in favorevoli, contrari o disinteressati. Personaggi famosi dello spettacolo, dello sport, della moda e gli influencer iniziano a schierarsi, peraltro sottolineando il concetto di relatività dello pseudo diritto, della libertà a tutti i costi di seguire qualsiasi idea anche qualora fosse estremamente aberrante, con la finalità di indurre la maggioranza a ritenere accettabile e condivisibile il nuovo pensiero. A questo punto il dibattito acquisterà una valenza politica: si chiederà al mondo politico di normare la nuova fattispecie (fase popolare). L’ultima fase vede la formazione di gruppi di potere che liberalizzano e legittimano del tutto l’iniziale idea considerata inconcepibile, ed anzi stigmatizzano i contrari accusandoli di intolleranza e di arretratezza culturale, dando luogo a dibattiti polemici; si promulgano leggi che consentono di insegnare nelle scuole le nuove impostazioni per far entrare definitivamente la nuova idea nel pensiero comune e di massa, in un percorso che porta verso forme di pensiero unico (fase politica della legalizzazione in cui la nuova idea diviene dogma).

La sequenza delle varie fasi evidenzia un percorso che va oltre il lavaggio del cervello; utilizzando sottili tecniche psico-sociologiche si induce il soggetto a ritenere che sia egli stesso ad avere quella determinata idea, e che il potere politico l’ha solo esplicitata e resa fruibile: è di fatto una manipolazione della coscienza di massa. Anzi alcune volte, attraverso la connivenza di personaggi che hanno molta popolarità ma davvero poco spessore umano e culturale, si fingono dei dibattiti, anche degli scontri estremi, con parti ben organizzate per trainare l’opinione pubblica verso ciò che il potere effettivamente vuole. In questo teatrino di assurdità, sarebbe interessante indagare, in modo approfondito, sui processi e gli stimoli psicologici che inducono la collettività a farsi trascinare da personaggi anche abbastanza discutibili, in una sorta di cieco e superficiale atteggiamento di affidamento.

Quindi la teoria di Overton sottolinea che in un determinato periodo si apre una finestra che, attraverso le fasi viste, può far fluire ed accettare idee o fatti sociali che altrimenti non sarebbero mai stati legittimati. Inoltre questa strategia offre una falsa visione del soggetto di potere che sembrerebbe trainato dagli eventi ma che in realtà ne è il subdolo sostenitore e se non avesse proceduto in questo modo non avrebbe potuto raggiungere l’obiettivo prefissato in quanto avrebbe potuto perdere il consenso sociale perché accusato di estremismo.

Ciò detto gli spunti di riflessione sono tanti; nell’esaminare quanto accaduto negli ultimi decenni potremmo identificare diverse situazioni che hanno visto il passaggio attraverso le varie fasi ipotizzate da Overton, dove si è premuto l’acceleratore soprattutto sul senso di urgenza e sullo screditamento delle notizie e delle informazioni non allineate ai centri di potere (spesso troppo rapidamente e volutamente identificate come fake news): crisi economiche, problemi climatici, questioni biologico-sanitarie, conflitti sociali, frequenti riforme della scuola. Dobbiamo riconoscere che l’esplicitazione di questa architettura sociale apre la mente allo smascheramento del processo di formazione e manipolazione dell’opinione pubblica; con la dovuta attenzione e con spirito critico è possibile comprendere la strategia che il potere politico ed economico usa e che si cela dietro il flusso di opinioni guidate da mass media, influencer e soggetti noti alla maggioranza del pubblico che, il più delle volte e a caro prezzo, si rendono disponibili ai potenti di turno. Di fatto negli anni più recenti abbiamo assistito, in modo più o meno esplicito, alla legittimazione di pensieri ed idee che hanno contribuito a distaccare e a porre in conflitto le generazioni (giovani contro adulti ed anziani e viceversa), a creare caos sociale, ad omologare costumi, radici, culture, gusti dei diversi popoli, appiattendo ed anestetizzando il pensiero dei singoli individui (il grande responsabile si può individuare nel processo di globalizzazione, anch’esso il prodotto dello svolgersi delle fasi individuate da Overton). Se volessimo vedere le persone dall’alto, senza troppo coinvolgimento emotivo, forse vedremmo una massa indistinta ed acritica di soggetti indotti tutti a pensare alla stesso modo, dove scatta la gogna mediatica e si viene emarginati se non ci si adegua a quello che il potere vorrebbe divenisse il pensiero unico: si assiste ad una sorta di demonizzazione delle idee opposte, che sono invece, se civilmente esposte e discusse, alla base del progresso umano (la teoria filosofica della tesi, antitesi, sintesi, produce un processo di crescita del pensiero, della mente e del cuore).

È netta la percezione che oggi si può avere circa la volontà dei centri di influenza del pensiero (centri di potere) di allontanare i giovani, che rappresentano la vera risorsa del futuro, dalle loro famiglie (e viceversa) e renderli il più possibile ignoranti, ma allo stesso tempo infarciti di nozionismo; solo così il popolo diventa manovrabile, perde le sue radici ed il senso di verità e di realtà. Far credere che la scienza e la tecnologia debbano avere il predominio rispetto alla spiritualità, al calore umano ed alla condivisione, è un’impostura. L’uomo è corpo, psiche e anima è una realtà complessa che non può sopravvivere in un mondo di solitudine e di materialismo. Oggi si condividono le informazioni e le notizie a distanza di migliaia di chilometri ma non ci si accorge della sofferenza e del disagio all’interno della propria famiglia. Emerge così un forte senso di individualismo ed egoismo - ci si distacca da una visione di collettività e di socialità - atteggiamenti che traghettano l’uomo verso forme di potere monocratico e verso linguaggi ed atteggiamenti di odio e di violenza.

L’essere umano preso nella sua solitudine è molto più vulnerabile e soggiogabile; se invece si organizza in gruppo può trasformarsi o in una belva violenta, se si nutre di rabbia e risentimento e fa il gioco del potere che intende dominare le masse (il famoso “branco”), oppure in un fascio di luce, in una guida per coloro che si sentono disorientati, se si nutre di sentimenti di condivisione e di fratellanza (le “comunità”). È allora abbastanza evidente che l’essere umano è il prodotto di ciò di cui si alimenta: il pensiero, l’anima, la coscienza se ascoltano e vivono “il bene”, i messaggi spirituali e filosofici (purché siano a favore dell’uomo e ne esaltino i sentimenti di solidarietà e amicizia fraterna), saranno in grado di creare un percorso di condivisione e di serenità. È evidente che occorre anche creare l’ambiente adatto - ognuno di noi è parte della collettività - ma purtroppo se non ci si rende conto di essere diventati tutti dei burattini sarà difficile smascherare i centri di potere; più passa il tempo e più sembra che questa deriva verso il pensiero unico sia inarrestabile. Occorre reagire: creare una coscienza critica e tentare di vedere in realtà chi e cosa ci sia dietro alle informazioni, rifiutare di essere traghettati verso forme di pensiero violente, cattive e buie che l’uomo saggio non può condividere, è necessario cercare di speculare e di approfondire le problematiche; è faticoso ma illumina la mente! Lavorare interiormente - aumentando le conoscenze e incentivando la riflessione, la lettura e l’ascolto - potrà forse aiutare ad arginare il “culto della superficialità e del relativismo” così vivo, purtroppo, nella società odierna.

A questo punto si pone una domanda d’obbligo: quello che oggi e quotidianamente pensiamo è frutto di un individuale, ed originale processo del nostro pensiero o siamo piuttosto imbrigliati in una strategia di manipolazione di massa?

 

IL SOCIAL BUSINESS: UN NUOVO PARADIGMA DI IMPRESA

di Alessandra Di Giovambattista

 20-05-2024

Quando il Prof. Muhammad Yunus iniziò ad insegnare economia nell’Università di Chittagong (nel Bangladesh, suo Paese natale) era convinto di spiegare ai suoi giovani studenti delle teorie economiche che sarebbero state in grado di dare risposte e soluzioni ai problemi quotidiani che si fossero presentati ad aziende e singoli: agricoltori, professionisti, artisti, commercianti. Tuttavia, quando si prese del tempo per vedere sul campo e testare le condizioni di vita dei suoi connazionali, si accorse che ovunque guardasse c’era solo miseria. Secondo la sua testimonianza rilasciata nel suo libro “Il banchiere dei poveri” (edito da Feltrinelli, 2004), avvertiva come se stesse girando un film; la sua aula universitaria era un palcoscenico che tentava di dare risposte, ma che il più delle volte restituiva solo illusioni e teorie vacue ed inattuabili.

La realtà quotidiana si distaccava dalle fredde equazioni ed equivalenze che la scienza economica offriva, e le teorie apparivano solo dottrine infarcite di grandi e vuoti pensieri e conclusioni spesso non verificabili! Ma come è possibile che un’equazione possa andare bene per ogni società e risolvere problemi che prima di tutto sono vissuti sulla pelle di ogni singolo, unico ed irripetibile? Non si trattava di studiare l’atomo o l’andamento di un fenomeno, ma si trattava di capire le reazioni umane a certe sollecitazioni quali la povertà, l’emarginazione, la miseria, la disuguaglianza di genere, e proporre soluzioni.

Il prof. Yunus trovò la risposta, valida per l’ambiente in cui viveva, nel ripensare i presupposti per la concessione dei prestiti di modico importo a favore delle classi più povere. Quella di Yunus è stata una guerra combattuta per ricercare risposte ben oltre le mere soluzioni economiche: prima di tutto è stata una vittoria sull’emarginazione e la sudditanza delle donne rispetto al mondo maschile, una rivoluzione quindi non solo economica ma prima di tutto sociale e religiosa. Il ripristino dell’equità e della giustizia calma gli impulsi violenti che si innescano quando si è di fronte a scelte che implicano la sopravvivenza. Ecco perché le sue teorie economiche hanno meritato il premio Nobel per la pace: la pace si costruisce prima di tutto in capo ad ogni singola persona che sa di poter ricevere e dare rispetto e poter contare sulle proprie capacità, vedendosi riconosciuto il valore e la dignità del proprio lavoro che gli garantisca una vita serena ed accettabile per sé e la propria famiglia. In tal modo si esclude ogni forma di neo schiavismo che sembra potersi leggere nelle situazioni attuali se solo si guarda alle condizioni estreme in cui vivono uomini e donne dei paesi c.d. del terzo mondo. Un terzo mondo fatto di territori ricchi di materie prime che però, per assurdo, vengono sfruttate dalle nazioni potenti della terra che inquinano e inventano guerre e inducono gli abitanti autoctoni a migrare dalle proprie terre alla ricerca di maggior fortuna.

Così, in risposta alla richiesta di aiuto da un’infinità di poveri della sua Nazione, nacque la Grameen Bank - che concedeva piccoli prestiti per iniziare attività economiche, viste in un contesto economico di rispetto e di sostenibilità (il c.d. “social business”) - che riuscì a dare una spallata alla logica adottata dagli istituti di credito tradizionali che basano la concessione dei finanziamenti sul possesso di garanzie reali e personali. Sempre nel libro citato Yunus evidenzia che l’idea della sua banca è partita dall’operare al contrario rispetto a quanto facevano le banche tradizionali: i dipendenti passavano la maggior parte del loro tempo nei villaggi, conoscevano e parlavano con le persone povere e a queste proponevano determinate modalità di credito in ragione delle singole necessità e situazioni.

Questo approccio, che potrebbe tranquillamente convivere con quello delle banche tradizionali, ricorda molto l’insegnamento dell’economista E. F. Schumacher, pensatore della teoria del “Piccolo è Bello” dove occorre restituire l’economia nelle mani dell’uomo; essa deve essere al servizio delle sue necessità e non deve valere il viceversa: l’economia per l’uomo e non l’uomo per l’economia. Deve così instaurarsi una spirale virtuosa dove non esiste prevaricazione e dove tutti hanno un proprio, meritato posto. Ma una banca basata su questa nuova mentalità ha incontrato molte difficoltà; leggiamo dalle dirette parole di Yunus, tratte dal citato libro, le problematiche riscontrate: “Fin quasi dal suo nascere Grameen ha suscitato aspre controversie. Da sinistra la si accusava di far parte di un complotto americano per introdurre il capitalismo tra i poveri; si diceva che il suo vero scopo era quello di distruggere qualsiasi prospettiva di rivoluzione futura togliendo ai poveri la disperazione e la rabbia. Un professore comunista mi ha detto: “In realtà non fate altro che dare ai poveri qualche briciola di oppio, così non si lasceranno coinvolgere in questioni politiche più grandi. Con i vostri micro-niente li mettete a dormire, che stiano tranquilli e non facciano rumore. Voi uccidete il fervore rivoluzionario dei poveri, siete nemici della rivoluzione”. Da destra, i capi conservatori musulmani ci accusavano di voler distruggere la nostra cultura e la nostra religione…....Non sono un capitalista secondo la concezione semplicistica di chi ragiona in termini di sinistra e di destra, ma credo nel potere del capitale nel quadro di un’economia di mercato. Sono profondamente convinto che fare l’elemosina ai poveri non sia un gesto risolutivo; significa soltanto ignorare i loro problemi e farli volutamente incancrenire. Un povero in buona salute non vuole né ha bisogno di elemosina. Dargli un sussidio significa aumentare la sua miseria, uccidendone lo spirito d’iniziativa e togliendogli il rispetto di sé stesso. Non sono i poveri a creare la povertà, bensì le strutture sociali e le politiche da esse adottate. Se si modificano le strutture, come stiamo facendo in Bangladesh, la vita dei poveri ne sarà di conseguenza modificata. L’esperienza ci ha dimostrato che, con l’aiuto di un capitale finanziario anche limitato, i poveri sono capaci di produrre profondi cambiamenti nella loro vita.”

Quindi la banca ha rappresentato un cambio di mentalità e di pensiero che ha provocato un ripensamento anche nell’approccio al contrasto della povertà da parte delle associazioni umanitarie e delle organizzazioni internazionali, contrastando anche ogni forma di ideologia politica. Occorre partire dal concetto che ogni essere umano, anche se povero, sa svolgere un lavoro, una qualsiasi attività per la quale si sente più portato ed ha più capacità; non è necessario insegnare, a tutti i costi, un’attività nuova, voler esportare esperienze professionali e lavorative, il c.d. know how, che spesso confligge con la cultura e la tradizione della persona. Un’attività basata su tali presupposti ha un’alta probabilità di fallimento perché il lavoratore si vede proiettato in una realtà produttiva che non comprende e non sente sua, spesso si trova a produrre beni che non potrà o non vorrà mai acquistare. Il lavoratore deve poter amare il proprio lavoro, deve poter contare su un aiuto finanziario iniziale e sulle proprie forze in modo da saper contrastare i meccanismi delle insolvenze e del pagamento dei debiti.

Questo è in realtà il microcredito, così come pensato da Yunus: una piccola somma iniziale che dà la scintilla per l’avvio di un’attività economica che permette all’essere umano di poter credere ed investire su sé stesso. Lo sviluppo dal basso permette alle persone di affrancarsi da ogni forma di schiavitù e di assoggettamento e crea una spirale positiva di benessere che conduce alla pace interiore ed al rispetto. L’equità porta con sé lo sviluppo del processo di democratizzazione della società e la garanzia della tutela dei diritti umani. Il microcredito è stato così riconosciuto come una “forza liberatrice in società dove le donne, in particolare, devono lottare contro condizioni economiche e sociali repressive” (questa citazione è una parte della motivazione con cui è stato conferito il Nobel per la pace). Nello specifico gran parte della popolazione era esclusa dai circuiti economico-finanziari tradizionali; eppure in società povere bastavano davvero pochi dollari per iniziare delle attività produttive che creassero un iniziale piccolo surplus che di fatto ha permesso di sviluppare idee imprenditoriali che altrimenti non sarebbero mai state realizzate. Yunus è riuscito ad infrangere le basi economiche tradizionali del prestito fino allora conosciute per le quali non era possibile finanziare persone che non fossero state in grado di fornire adeguate garanzie di restituzione. Fatto sta che il modello finanziario di Yunus è stato esportato in altre Nazioni, a partire da quelle con un gran numero di poveri, quali il Pakistan, il Sudafrica, il Perù, ma dopo la crisi nel 2008 anche in Paesi sviluppati dove il tasso di povertà rialzava prepotentemente la testa, quali gli Stati Uniti e in Europa.

L’idea di un’impresa sostenibile, di un social business, è ora un caso didattico studiato in diverse facoltà di management, ma il valore più importante, ad essa riconducibile, è l’aver rappresentato una rivoluzione sociale che ha visto l’inizio dell’emancipazione di tante donne in società discriminanti, dove è migliorato anche il tasso di scolarizzazione dei figli, si è iniziato a garantire servizi sanitari e sociali e si è ridotto lo spazio lasciato all’integralismo religioso penalizzante specialmente per le donne. Anche nelle nostre realtà vediamo come sia difficile, per queste ultime e per i giovani, poter ottenere credito dalle banche; in tal modo si disperdono energie e si pregiudicano opportunità economiche, derivanti da idee imprenditoriali innovative, che non trovano spazio nel mercato dei capitali.

Anche in Italia è iniziato un processo di “social business” cioè di concessione di piccoli prestiti da parte di banche dedicate, come Banca Etica che collabora con Permicro, un operatore specializzato nel microcredito, che concede prestiti di modesto importo a soggetti deboli che, non avendo adeguate e sufficienti garanzie da presentare alle banche tradizionali, non potrebbero ottenere credito per iniziare una propria autonoma attività lavorativa. Nel nostro Paese sono presenti istituzioni che permettono, attraverso un percorso di finanza etica, l’inclusione sociale di soggetti (donne, giovani, spesso extra comunitari, o con ridotta capacità lavorativa o con anzianità lavorativa pregressa ma non ancora in età pensionabile, con situazioni sociali difficili) che, opportunamente seguiti e formati, vengono avviati ad intraprendere nuove piccole attività aziendali. Per soggetti si intendono sia persone fisiche sia imprese, queste ultime ovviamente di piccole dimensioni ed in una fase di inizio attività. I prestiti concedibili alle persone fisiche devono essere giustificati da motivazioni valide e meritevoli e sono per importi non superiori a 15.000 euro, rimborsabili in rate mensili per una durata che va da 1 a 6 anni; inoltre bisogna avere la cittadinanza italiana o comunque è obbligatoria la residenza, o il domicilio in Italia ed il permesso o la carta di soggiorno. Per le imprese il microcredito è dedicato a coloro che desiderano avviare o sviluppare una piccola attività imprenditoriale ma non sono soggetti c.d. affidabili dal circuito dei finanziamenti erogati dalle banche tradizionali. In tal caso l’importo massimo concedibile è di non più di 25.000 euro, rimborsabile in rate mensili di modico importo, durata dai 2 ai 6 anni, con garanzie aggiuntive da parte del Fondo di garanzia per le piccole medie imprese e del Fondo Europeo per gli investimenti. È inoltre previsto un percorso di accompagnamento per la redazione del progetto economico finanziario (c.d. business plan), per sostenere l’attività nella fase iniziale, cioè di start up, e per il monitoraggio durante tutta la durata del finanziamento.

di Alessandra Di Giovambattista