DAL BILANCIO SOCIALE AL BILANCIO INTEGRATO

di Alessandra Di Giovambattista

 

01-12-2024

Quando si vuol analizzare sinteticamente l’attività economico finanziaria di un’azienda, qualunque essa sia, si ricorre all’analisi del conto di sintesi per eccellenza: il Bilancio di esercizio. Negli ultimi 50 anni questo documento, che all’origine riportava essenzialmente le risultanze economico-finanziarie, con il tempo si è arricchito di dati ed informazioni in ragione del sempre più complesso grado di approfondimento richiesto sia dalle aziende stesse sia dal mercato e da tutti gli interessati alla gestione dell’impresa (i c.d. stakeholders).

E’ così che la prassi contabile ha individuato diverse forme di bilancio che la dottrina ha esaminato nel tempo: il primo, il più tradizionale, definito come Bilancio di esercizio (strutturato secondo il principio della competenza economica in cui tutti i costi ed i ricavi sono imputati all’esercizio in ragione dei postulati della realizzazione dei ricavi - quando un ricavo si riferisce ad un ciclo della produzione concluso - e dell’inerenza ad essi dei costi) che consente di dare una valutazione sintetica delle più importanti risultanze economico-finanziarie e patrimoniali.

Successivamente è stata posta molta attenzione al Bilancio sociale (si sottolinea che, mentre per le aziende di produzione questo era facoltativo, per le aziende del terzo settore, ora definite Enti del terzo settore, è oggi uno strumento obbligatorio, almeno per quelle che hanno entrate per almeno 1 milione di euro) con il quale, cercando di indagare il comportamento socialmente responsabile delle aziende, si rappresentano strategie e politiche adottate al fine di far conoscere a tutti gli attori interessati alla gestione dell’azienda - quali gli investitori, i dipendenti, i clienti, i fornitori, ma anche lo Stato, gli Enti Locali, le associazioni di diverso tipo, ecc. - gli obiettivi ed i risultati conseguiti nel tempo in termini non solo quantitativi, ma soprattutto qualitativi (quali ad esempio il miglioramento nelle relazioni interne tra personale e direttivo, azienda e sindacati, valore aggiunto prodotto dai dipendenti, strategie per rendere fedeli clienti e fornitori, ore di straordinari e loro costi e benefici, inserimento e formazione di persone diversamente abili, numero di soggetti ritornati alla scolarizzazione, e via dicendo anche considerando i diversi settori di azione delle aziende). E’ pertanto un conto di sintesi che intende evidenziare il valore creato dall’impresa a favore della collettività, con la finalità di tutelare i diritti delle persone ed il valori riconosciuti come meritevoli di tutela.

L’aggregato successivo, indagato dalla prassi contabile, è stato il Bilancio di sostenibilità che offre alle aziende dati ed informazioni che consentono di costruire gruppi di indicatori utili per far conoscere e misurare le proprie capacità in ambito economico, finanziario, sociale e ambientale. E’ quindi un bilancio che cerca di coniugare i diversi aspetti considerati dalle precedenti tipologie di conti di sintesi. Rispetto al bilancio sociale quello di sostenibilità indaga, oltre al comportamento ed alle ricadute sociali dell’azione aziendale, l’ambito della sostenibilità, fornendo una analisi di medio lungo periodo circa la sopravvivenza dell’azienda non solo in termini economico-finanziari, ma soprattutto in termini di miglioramento della società presente sul territorio (mediante la misurazione del valore aggiunto, cioè il valore prodotto da un’azienda, attraverso la vendita di beni e servizi, al netto dei consumi dei fattori acquisiti all’esterno; quindi, secondo un’altra angolazione, lo si può definire anche come un fondo dal quale attingere per remunerare tutti i fattori della produzione, quali il lavoro ed il capitale e comprendendo anche lo Stato, gli Enti di qualunque genere e le banche) e di scelta di azioni che siano compatibili con il rispetto dell’ambiente e dell’utilizzo attento ed efficace delle risorse cercando di escludere produzioni e strategie inefficienti, dispendiose e non ecologiche. E’ ormai noto che gli obiettivi posti dai piani di sviluppo sostenibile cercano di coniugare le diverse dimensioni finora viste, cioè quella economica, finanziaria, sociale ed ambientale, che sono legate ed interdipendenti l’una con l’altra in quanto una scelta effettuata in un determinato ambito avrà necessariamente ripercussioni anche sugli altri in una sorta di azione che si propaga in modo ineluttabile poiché l’azienda si presenta come un organismo che influisce sull’ambiente ma che a sua volta ne è anche condizionata. Come si può pensare che una scelta basata esclusivamente su considerazioni e presupposti economici non abbia ripercussioni anche in termini sociali ed ambientali? Ad esempio, la scelta di una produzione che utilizzi fonti di energia non rinnovabili (perché si presenta più economica rispetto ad un’altra alternativa) potrà avere impatti negativi sulla collettività, in termini di utilizzo di risorse limitate, e sul livello di inquinamento ambientale. In questo senso si può affermare che il bilancio di sostenibilità offre informazioni alle aziende ed aglistakeholders circa l’impatto che una strategia gestionale genera nelle diverse aree di analisi in virtù di un processo di interazione.

Si giunge così, in ultima istanza, almeno per ora, alla determinazione di un Bilancio integrato, meglio definito e conosciuto come Report integrato che ha come obiettivo quello di rendicontare in modo coniugato informazioni sia di natura finanziaria, sia di differente tipologia (come quelle ambientali, sociali e di governo aziendale, c.d. governance). Con questo tipo di rendiconto si vede l’ampliamento, rispetto alle precedenti tipologie di bilancio, delle informazioni che si vogliono evidenziare; infatti il focus è incentrato sul valore che l’azienda genera nel breve, medio e lungo periodo, per garantire la sua capacità di perdurare nel tempo. Tale caratteristica è connessa alle strategie di natura economico finanziaria che devono però essere coniugate alla capacità di generare valore apprezzabile da tutti gli stakeholders in modo da renderli fedeli ai prodotti ed alle scelte di gestione aziendale. Ecco che nella complessità delle informazioni necessarie per rispondere alle diverse richieste dei destinatari dei dati occorre fornire il maggior numero di informazioni (stando però ben attenti a non cadere nella trappola di dare un ingente numero di notizie, alcune volte inutili e non funzionali, che indurrebbe a non centrare l’obiettivo della proficua informazione che si basa sui dati necessari ed attinenti, cioè capaci di dare risposte esaustive alle problematiche che si intende indagare, senza appesantire la rappresentazione conoscitiva), che siano però adeguate alle richieste provenienti dal mercato (rappresentato da fornitori, clienti, enti pubblici, associazioni, dipendenti, azionisti, investitori, ecc) che chiede risposte trasparenti e complete sul valore effettivo dell’azienda e sulle sue capacità di creare valore aggiunto.

Questo report permette di utilizzare le diverse informazioni, prima disseminate in diversi documenti tra loro non integrati, e le rende capaci di risposte sinergiche alle problematiche di conoscenza che il mercato si pone. In particolare si presenta come uno strumento di comunicazione che indaga ambiti che permettono di dare una visione complessiva delle scelte strategiche, dei risultati raggiunti (c.d. performance), degli obiettivi futuri e degli eventuali rischi di gestione ad esse connessi. In termini più concreti il report integrato permette una visione generale dell’attività aziendale fornendo notizie su: come si presenta l’azienda al suo interno e rispetto all’ambiente esterno sottolineando eventuali effetti di intersezione e sinergia; i diversi principi e modi di gestione e le procedure adottate per il governo delle società, che generano delle ricadute sociali (la c.d. governance); le diverse strategie ed i modelli di affari (meglio conosciuti come modelli di business) descrivendo in tal modo le logiche organizzative e strategiche attraverso le quali l’impresa crea, distribuisce e utilizza il valore prodotto cercando di ottenere un vantaggio competitivo non solo in termini finanziari ma anche sociali, ambientali e strutturali; le risorse utilizzate (in particolare per risorse si intendono non solo quelle finanziarie e materiali ma anche, e soprattutto quelle relative al capitale umano, intellettuale, sociale e ambientale-ecologico) e le relazioni che tra esse si intrattengono; gli obiettivi raggiunti (c.d. performance) analizzati come risultati non solo economico-finanziari ma anche di impatto ambientale e sociale.

La scelta del report integrato permetterà alle aziende che lo implementano di raggiungere dei vantaggi; infatti fornire notizie in modo trasparente, evidenziando utilizzi efficienti dei capitali e delle risorse a disposizione, consente di aumentare la fiducia degli stakeholders e di sottolineare la capacità dell’azienda di vivere nel tempo. In tale ultimo ambito un’analisi integrata permetterà di offrire strategie per gestire le sfide sui cambiamenti climatici e sulle disuguaglianze sociali, di indirizzare verso le attività più meritorie le risorse finanziarie messe a disposizione dagli investitori, di evidenziare e meglio dividere il valore aggiunto prodotto dall’azienda, di intraprendere strategie di medio lungo termine che consentano all’azienda di durare e svilupparsi nel tempo attraverso una visione complessiva efficiente ed efficace della gestione dei rischi, delle opportunità e dell’organizzazione di governo interno.

Sul fronte dei vantaggi per gli stakeholders si evidenzia che: gli investitori avranno una visione più chiara e consapevole dell’efficienza degli investimenti effettuati; i dipendenti avranno una visione trasparente della stabilità aziendale e ciò contribuirà allo sviluppo della fedeltà e del senso di appartenenza all’azienda; le società avranno una migliore capacità di comprendere l’uso delle risorse nel rispetto della sostenibilità e dell’ambiente sociale in cui operano.

Questo è un processo non di mero assemblaggio di notizie precedentemente racchiuse nei diversi documenti di sintesi, ma è piuttosto il risultato di un’analisi di dati e di informazioni che permette di trovare rapporti biunivoci e di interazione tra informazioni di diversa natura, finanziaria e non, così da offrire un quadro completo e trasparente sull’impegno futuro, sulle reali attività e sui risultati di impatto dell’azienda al suo interno e nell’ambiente circostante, alla ricerca del rispetto delle necessità sociali, di sostenibilità e di creazione di valore.

 

IL BILANCIO SOCIALE: UNA SINTESI PER GLI ENTI DEL TERZO SETTORE, MA NON SOLO PER ESSI. 

di Alessandra Di Giovambattista

 29-11-2024

La realtà economico sociale conosciuta come Terzo settore è difficilmente definibile all’interno di uno schema rigido e determinato, presentandosi come un insieme di enti ed associazioni in continua evoluzione sia nella struttura sia nelle finalità. La prima definizione in ambito europeo la si ritrova nella metà degli anni ‘70 e venne utilizzata nel rapporto comunitario del 1978 dal titolo “un progetto per l’Europa”; in esso il terzo settore veniva collocato in modo separato dallo Stato e dal mercato privato produttivo con la finalità di renderlo autonomo ma integrabile tra i diversi ambiti. Ci si trova di fronte a settori diversi posti però non in relazione gerarchica tra di loro, bensì in posizione paritetica e regolati da un rapporto di sussidiarietà. Di fatto le aziende che non hanno finalità di lucro (anche dette no profit) nella loro diversa espressione giuridico economica, come le associazioni, le fondazioni, le ONLUS, le ONG, le associazioni di promozione sociale, oggi vengono tutte ricondotte al terzo settore, con la definizione di “Enti del Terzo Settore” (c.d. ETS), che inizia a prendere piede con la crisi dello stato sociale, meglio conosciuto con il termine anglosassone di welfare. 

In Italia il fenomeno inizia la sua crescita verso la fine degli anni ’80 e contestualmente si riesce a definirne meglio il suo ambito di azione; infatti a fianco del significato economico finanziario, che sottolinea la natura meritoria ma privata dell’attività svolta nella produzione di beni e servizi a favore della collettività, si affianca l’accezione sociologica, che intende sottolineare l’approccio solidale ed altruistico basato sul volontariato da parte degli operatori che si impegnano per raggiungere obiettivi di natura etica e/o culturale senza finalità di lucro. Gli ambiti di azione possono essere diversi e riconducibili, ad esempio, a quelli: ambientale, sanitario, di cooperazione e solidarietà, di inserimento di persone diversamente abili, sportivo, turistico, culturale, di finanza etica, del commercio equo e solidale, ecc. 

La dottrina economico giuridica he delineato alcune peculiarità del terzo settore che riguardano: la mancanza della finalità di conseguire un surplus di reddito positivo (c.d. profitto) e di distribuire eventuali avanzi di gestione (che si determinano dal confronto tra entrate ed uscite); la natura giuridica essenzialmente privatistica delle aziende facenti parte del terzo settore (anche se in alcuni casi è molto presente il controllo da parte di soggetti di natura pubblica); la presenza di organi interni di governo e di controllo; la costituzione mediante atto giuridico formale che contenga l’oggetto dell’attività svolta, le  modalità democratiche di gestione e l’indicazione della quota di lavoro basata su contratti di volontariato. 

Dal punto di vista economico è però interessante notare come queste realtà abbiano puntato la loro attenzione anche sui conti di sintesi, e in tale contesto prende forma il “Bilancio Sociale” in cui l’aggregato fondamentale non è il profitto (anche se occorre sin da ora sottolineare che la gestione di tali realtà si basa comunque sull’utilizzo efficace ed efficiente delle risorse, perseguendo il pareggio di bilancio e contestualmente evitando sprechi di risorse), bensì il “valore aggiunto”, inteso, ad esempio, come la capacità di migliorare le situazioni più emarginate presenti in determinate aree attraverso attività di cura, integrazione e sviluppo di fasce deboli della società. 

A fianco di questo valore sintetico si pone anche la necessità di indagare e rendere trasparente il problema della ricerca dei finanziamenti - mediante contributi pubblici (statali e di enti pubblici in generale) e contributi provenienti direttamente dalle erogazioni liberali dei privati - che vanno a copertura del fabbisogno di finanziamento. In questo ultimo senso si rammenta la possibilità di destinare una parte delle imposte pagate, il c.d. 5 per mille dell’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF), ad attività svolte da ETS. Tale destinazione non implica il pagamento di ulteriori somme ma è semplicemente l’indicazione delle finalità (che sinteticamente sono riconducibili ai settori del volontariato, della ricerca scientifica o universitaria, della ricerca sanitaria, delle attività comunali, delle associazioni sportive dilettantistiche, delle attività di tutela, promozione e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici) che i singoli desiderano conferire alle risorse che lo Stato già percepisce attraverso il sistema tributario. A ciò si aggiunga la possibilità che i singoli contribuenti hanno di poter effettuare erogazioni liberali detraibili e/o deducibili a fini IRPEF direttamente dal reddito prodotto.  

Quindi è in tale contesto che si sono iniziate a intravedere le teorie e le metodologie di costruzione dei Bilanci Sociali; questi si sono originati da due situazioni: una relativa all’evoluzione delle discipline contabili sempre più impegnate a fornire un quadro reale e completo dei fattori produttivi presenti in azienda e dei risultati da questi raggiunti, l’altra legata alla responsabilità sociale ed ambientale nei confronti di tutti i soggetti interessati al proficuo utilizzo delle risorse, i c.d. stakeholders (cioè: dipendenti, investitori, clienti fornitori, Stato, Enti pubblici, azionisti, comunità, ecc). Così inquadrato si comprende perfettamente come il Bilancio Sociale possa essere presentato, e di fatto lo è, non solo dagli enti no profit, ma anche dalle aziende che operano con finalità di lucro. Queste ultime affiancano il bilancio d’esercizio (cioè quello tradizionale composto da Conto Economico e Stato Patrimoniale da cui emerge il flusso di reddito positivo e il patrimonio presente in azienda e con le cui risultanze si possono sviluppare delle analisi economico finanziarie basate sulla costruzione di indicatori di economicità) con il Bilancio sociale che espone risultati di natura qualitativa e di misurazione di efficacia (cioè raggiungimento degli obiettivi posti). 

Già l’economista italiano Paolo Emilio Cassandro nel 1989 (in Rivista italiana di ragioneria ed economia aziendale) aveva evidenziato che il bilancio sociale dà conto del valore aggiunto creato dall’azienda non solo a livello nazionale ma soprattutto a livello locale andando ad esaminarne tutti i rapporti con dipendenti, fornitori, clienti, investitori, ecc, con lo scopo di individuare le migliori modalità di gestione delle risorse nel rispetto e tutela delle comunità sociali, dell’ambiente e delle generazioni future. Così il bilancio sociale contiene valutazioni riferite alle prestazioni aziendali (performance) non solo nelle aree più tecniche dell’efficienza, ma anche, e soprattutto negli ambiti socio-relazionali dell’efficacia. A titolo di esempio possiamo evidenziare alcune tipiche aree indagate dalle aziende profit mediante il bilancio sociale: valutazione della qualità delle relazioni con i clienti (esaminando ad esempio il grado di fedeltà, di fiducia verso l’azienda, l’attrattiva dei suoi prodotti sul mercato) o sulla qualità delle prestazioni verso il personale (ad esempio le ore di formazione, la conflittualità dipendente-datore di lavoro, servizi alle famiglie). Nelle aziende no profit le aree tematiche sono rivolte alla misurazione di aspetti relativi, ad esempio, al grado di integrazione lavorativa di soggetti emarginati sia per motivi medico sanitari sia sociali, di incremento della scolarizzazione di emigrati, di miglioramento economico sociale delle aree in cui sono presenti gli ETS, di recupero ed integrazione di soggetti provenienti da situazioni di restrizione della libertà per detenzione, di recupero e riciclo di materie prime e loro trasformazione, di tutela dell’ambiente e del patrimonio pubblico, ecc. 

In sintesi il bilancio sociale offre un quadro generale del raggiungimento della missione che ogni azienda si pone; nello specifico per gli ETS tale missione si basa essenzialmente sull’integrazione, se non la totale sostituzione, dell’attività di welfare, che dovrebbe essere svolta dallo Stato, con la finalità di soddisfare i bisogni dell’uomo nel rispetto delle peculiarità di ognuno e dell’ambiente nel quale opera: rappresenta un momento di sintesi in cui si vanno ad indagare le necessità di ogni singolo e si coniugano con l’obiettivo della tutela dei diritti della persona. 

Quindi l’attuale legislazione, attraverso le linee guida contenute nel decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali del 4 luglio 2019, e la prassi contabile, individuano nel bilancio sociale uno strumento attraverso il quale si garantisce la trasparenza, l’informazione e la rendicontazione nei confronti di tutti gli interessati alla gestione dell’azienda no profit. Pertanto scopo del bilancio sociale è fornire informazioni, non solo di natura quantitativa, ma soprattutto di natura qualitativa, complementari alle classiche informazioni di natura economico-finanziaria, con l’obiettivo di fornire un quadro complessivo delle attività svolte dall’ente, della loro natura e dei risultati raggiunti. Ulteriori scopi si ritrovano nel processo di comunicazione multidirezionale favorendo così procedure di partecipazione interna ed esterna all’organizzazione; nel dare conto della identità e della natura dell’operato dell’ente esaltandone la missione ed i valori di riferimento sui quali si fonda; nel fornire riscontri (c.d. feedback ) circa gli obiettivi preordinati e gli effettivi risultati raggiunti cercando così di fidelizzare gli investitori già presenti e di trovarne sempre di nuovi; nell’evidenziare strategie attraverso le quali consolidare i risultati raggiunti o indicandone di nuovi e migliorativi; nel palesare le interazioni tra azienda e territorio dando una lettura anche in merito agli impegni assunti ed alle aspettative degli stakeholders; nell’evidenziare il valore aggiunto prodotto in azienda e la sua suddivisione tra i diversi fattori della produzione. 

 Oltre alla redazione del bilancio sociale occorre anche il deposito di esso presso il registro unico del Terzo settore o presso il registro delle imprese, affinché se ne possa dare ampia pubblicità. Si permette così di verificare il rispetto di norme, regolamenti e linee guida etiche affinché i finanziatori e gli stakeholders in generale possano avere relazioni trasparenti e consapevoli con gli enti del terzo settore.

IL POLO INDUSTRIALE (CLUSTER) DEL LEGNO MADE IN ITALY

di Alessandra Di Giovambattista

 27-11-2024

Il 20 luglio del 2023 la rassegna stampa del Ministero dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste ha dato notizia della sottoscrizione del protocollo di intesa che ha avviato il primo cluster italiano del legno. Ma cosa si intende per cluster? Con tale termine si identificano dei poli industriali dove si trovano aziende che svolgono attività in un determinato settore tra loro complementari od omogenee; in tali aree si trovano istituzioni pubbliche, imprese, università che lavorano con l’intento di raggiungere in sinergia obiettivi di massimizzazione economica. Possiamo trovare diversi gruppi di cluster sul nostro territorio in ambiti diversi, dagli elettrodomestici all’abbigliamento, ma tutti con l’obiettivo di creare valore in termini di conoscenza ed innovazione anche mediante l’utilizzo di nuove risorse umane specializzate o la formazione di lavoratori già presenti in azienda. Le istituzioni pubbliche inserite all’interno di questi gruppi di settore fungono da collegamento con le parti politiche, in particolare il Governo, alle quali poter rappresentare in tempi brevi necessità ed istanze che potrebbero rendere più efficaci le attività produttive. 

Così il cluster del legno, seguendo le linee generali, è il primo passo verso il raggiungimento degli obiettivi contenuti nel piano strategico nazionale forestale. Il ministro Francesco Lollobrigida ha sottolineato che il polo italiano del legno riuscirà a sfruttare al meglio le sinergie nell’ambito della ricerca, della produzione dei manufatti in legno (filiera del mobilio e di tutte le imprese ad essa collegate) e della sostenibilità ambientale con la crescita di un “sistema foresta sano” che permetta di utilizzare il legno in modo economico. In tal modo l’Italia si pone come apripista per tutta l’Europa per lo sviluppo e l’utilizzo ecocompatibile del legname; la nostra Nazione avrà così una autonomia nella produzione di legno di qualità, senza dipendere più dalle importazioni estere con il vantaggio di utilizzare legname a chilometro zero e con benefici indubbi sull’ambiente. Si raggiungerà così l’obiettivo della sovranità forestale. In tal modo oltre ad utilizzare materia prima nazionale, si riuscirà anche, e soprattutto, ad assorbire maggior monossido di carbonio dall’atmosfera, attraverso la funzione clorofilliana. Obiettivo connesso sarà manutenere il territorio, evitando frane ed esondazioni dei fiumi consentendone invece un deflusso dell’acqua in modo ordinato e controllato. 

La strategia forestale così implementata si basa anche sulla collaborazione con il mondo dell’industria della trasformazione del legno e della ricerca con l’obiettivo di raggiungere e garantire la sostenibilità delle foreste e incrementare la bioeconomia circolare. Si è iniziato a parlare di bioeconomia circolare a ridosso del patto verde europeo del 2020 (il c.d. Green Deal) che mira a promuovere il consumo sostenibile e la rigenerazione delle risorse utilizzate per un lasso di tempo che sia il più lungo possibile. In pratica il cambiamento economico che viene richiesto investe l’economia, i temi sociali ed ambientali, il tutto con lo scopo di generare una movimento circolare delle materie prime e dei processi produttivi che garantiscano competitività e nuovi posti di lavoro. Tale cambiamento prende il nome di bioeconomia che si caratterizza per le basse emissioni inquinanti, la salvaguardia dell’agricoltura e della pesca, la garanzia di livelli elevati di sicurezza alimentare, l’utilizzo, da parte delle produzioni industriali, di risorse biologiche rinnovabili che garantiscano la biodiversità e la tutela dell’ambiente. In definitiva l’economia circolare non può essere pienamente sviluppata senza la bioeconomia; infatti tutti i rifiuti organici e gli scarti provenienti dal settore primario possono essere riutilizzati solo in presenza dell’economia circolare alimentata dai processi di bioeconomia. Ma vale anche l’opposto cioè la bioeconomia potrà svilupparsi solo in presenza di circolarità nei prodotti e nelle materie prime. 

In tal modo l’industria del legno potrà rappresentare un punto di forza dell’economia italiana introducendo innovazione, bellezza e sostenibilità ambientale; tra i soggetti partecipanti al cluster italiano, che sono quattordici, troviamo: CNA, Confartigianato, CNR, Università di Padova, della Tuscia, della Basilicata, Confcooperative, volendo citarne solo alcuni. Si auspica un lavoro di collaborazione e sinergia tra i diversi cluster omogenei presenti sul territorio che permetta di sviluppare particolarità e specificità locali senza alimentare guerre e comportamenti di concorrenza scorretta. Tra i diversi compiti c’è quello di valorizzare i prodotti italiani derivanti dal legno cercando di certificare qualità, sostenibilità e tracciabilità. Le università hanno l’importante compito di sviluppare ricerca ed innovazione anche per provare a creare delle filiere economiche totalmente italiane al 100 % nella produzione del legno-arredo. 

Così il cluster permetterà ai diversi attori pubblici e privati di dialogare tra loro, chi con la ricerca, chi con la legislazione ed il controllo, chi con l’attività produttiva. Inoltre riuscirà ad attuare le linee guida segnate dal Testo unico in materia di foreste e filiere forestali finalizzato al miglior utilizzo delle risorse boschive nel rispetto delle politiche ambientali. I dati prodotti dal rapporto FAO del 2022 presentano un’Italia con il numero delle aree boschive in crescita: in 10 anni sono aumentate di circa 587 mila ettari. Tuttavia dette aree denotano anche un livello elevato di fragilità in quanto sono vulnerabili al dissesto idrogeologico ed agli incendi per la mancanza di opera di prevenzione e manutenzione. Ma c’è di più in quanto il cambiamento climatico ha portato nuovi parassiti e nuovi problemi fitosanitari, come il bostrico che attacca principalmente l’abete rosso o il cinipide galligeno che ha fatto strage di castagni. Pertanto è urgente una gestione attenta dei boschi che controlli costantemente la salute delle piante e del territorio. 

 Secondo i dati di consuntivo per l’anno 2022 della Federlegno Arredo l’Italia copre circa 11,1 milioni di ettari con bosco ad altro fusto che corrispondono a circa il 36% del territorio nazionale. Le attività legate alla silvicoltura e all’industria del legno e della carta producono circa l’1% del PIL, mentre la produzione della filiera legno-arredo rappresenta circa il 4,6% del fatturato manifatturiero nazionale. Importiamo circa l’80% del legno impiegato nelle nostre produzioni, con un utilizzo di legno nazionale per la sola restante parte del 20%. E’ pertanto su questi numeri che pesa la politica che finora è stata intrapresa sulla gestione delle aree boschive, caratterizzata da una sostanziale incuria: ripensare tutta la filiera rendendo più competitiva l’industria italiana del legno e dei suoi derivati, all’ombra di una bioeconomia sostenibile, potrebbe rappresentare un cambio di passo verso la rinascita economica del settore ed il concreto rispetto del Creato.