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Nucleo centrale delle tematiche di fondo di Wole Soyinka

 

27-04-2021

                                                                                              Nucleo centrale delle tematiche di fondo di Wole Soyinka basato sull'intervista rilasciata ad Emanuela Scarponi

     Come si è potuto rilevare dall'analisi di The Road, le tematiche di cui Soyinka s'è fatto portatore sono molteplici, ma possono essere ricondotte ad un fondamentale conflitto tra due protagonisti: l'uomo ed il destino.
I protagonisti delle sue opere teatrali possono presentarsi sotto vari aspetti nelle diverse occasioni; ma, sotto qualsiasi forma si presentino, l'uomo non potrà sfuggire alla morte, che il destino gli riserva. La sola certezza che l'uomo ha è quella di diventare un nulla; egli è come un condannato che aspetta la sentenza capitale e vive nell'attesa della morte. Questa consapevolezza prende forma, come già abbiamo visto, nella simbologia della strada, elemento centrale dell'opera di Soyinka. Qui si riportano le parole dello stesso Wole Soyinka in tema di cannibalismo, estrapolate dall'opera Madmen and specialist: L'uomo è un viaggiatore senza meta, lungo la strada che conduce ad un'unica destinazione: la morte. Infatti, torna spesso nelle sue opere il concetto della strada affamata di vite umane, della strada che esige il suo tributo di sangue umano e dalla quale bisogna difendersi, evitando di percorrerla in determinati momenti. Tuttavia, l'uomo è un pellegrino che deve viaggiare, quindi tali esortazioni sono futili: la strada è dunque il simbolo di un mostro che divora gli uomini senza possibilità di scampo.
Il progresso, quindi, non ha aiutato l'uomo a vincere il destino, ma lo ha esposto a forme ancora più terribili di morte. Il trionfo della morte è certo, ma tale consapevolezza è ancora più triste nei casi in cui si vede che l'uomo si allea con la morte stessa e va contro i suoi simili.
      Questo avviene in particolare nelle guerre, dove, oltretutto, i soldati muoiono spesso senza neppure sapere per quale motivo sacrificano la loro vita.
Nelle opere di Soyinka c'è la presenza continua della morte come elemento costante e comune denominatore dell'esperienza umana. Essa si presenta sotto vari aspetti, ma il più evidente e caratterizzante è quello che si ricollega alla figura di "Abiku", personaggio derivante dalla religione e dai miti della gente yoruba. Secondo Idowu, Abiku è un fenomeno generato dagli spiriti maligni chiamati Elere o Onere." Gli Yoruba credono che essi siano spiriti di bambini errabondi, che si divertono ad inserirsi nelle donne incinte e a nascere solo per morire, per il sottile piacere del male. Abiku è quindi l'incarnazione della mortalità del genere umano che può vincere qualsiasi altra lotta, ma non la morte.
       E' vero che tutti gli esseri viventi sono condannati a morire; ma nessuna creatura come l'uomo, sperimenta una cosi drammatica angoscia nei confronti della morte, perché egli è il solo essere consapevole della sua perduta "battaglia contro il destino,del suo inesorabile viaggio. L'unica consolazione per il genere umano è che la morte è imparziale. Tuttavia essa, secondo Soyinka, oltre ad essere inevitabile, può assumere un valore particolarmente importante per coloro che rimangono. Ci sono infatti degli uomini eletti che sono spinti da un impulso interiore a trasmettere la propria energia agli altri, o mediante gesti particolari o con la loro stessa morte, sacrificando, comunque, la propria vita (tema del sacrificio -The Strong Breed). In tal caso la morte assume un significato e serve come momento di riflessione per una crescita interiore. Nelle opere di Soyinka, questi eroici personaggi cercano di andare contro il destino. Essi appartengono naturalmente alla famiglia della razza forte, il cui "Blood is strong like no other" debbono sopportare la croce della comunità ed espiarne i peccati. Essi fanno parte di un'aristocrazia spirituale e diventano i capri espiatori dei gruppi a cui appartengono: "The Whole forest stinks of human obscenities ", dice il protagonista Eschoro in A Dance of the forests.
        Lo spirito eletto a causa della sua più acuta sensibilità, sente più drammaticamente la situazione di tutti gli uomini, l'angoscia di essere moralmente deboli. Egli agonizza a causa della sua consapevolezza dolorosa che gli fa prendere coscienza di essere un'immagine distorta dell'uomo perfetto. Egli sa che, malgrado la sua buona volontà, ed il suo onesto sforzo, il tentativo di ridurre la discrepanza tra ciò che egli è e ciò che dovrebbe essere è futile.
E' solo un raggio di luce che rischiara le tenebre in cui l'uomo si dibatte; ma esso è sufficiente per dargli la consapevolezza della sua nullità di fronte al destino. Intorno a tali uomini "forti", ne esistono tanti altri che, invece, si disperdono attirati da falsi valori, quali: sesso, alcool, corruzione, superficialità, vigliaccheria. L'eroe deve lottare contro tali pericoli con i mezzi che la sua natura individuale gli mette a disposizione.
Nasce così il concetto dell'artista che, per mezzo delle sue realizzazioni, invia messaggi ed indica al genere umano le strade da percorrere, al fine di combattere contro tutto ciò che frustra i tentativi dell'uomo tesi alla conquista della felicità. L'artista nella concezione yoruba, proprio per l'importante ruolo che svolge, è stato sempre protetto dal dio Ogun.
       Infatti, con le sue opere, rinnova continuamente il primo atto di volontà del dio stesso; questi, secondo il mito, attraversò l'abisso tra gli dei e gli uomini,con la precisa volontà di riunire il cosmo in un unico insieme. In ogni tempo, l'artista prende quindi a modello Ogun per le scelte che compie e per gli impegni sentiti come urgenti, soprattutto nei periodi di crisi.
        L'uomo,tuttavia, non può sperare nell'aiuto degli esseri superiori; gli dei sono indifferenti di fronte al suo destino, anzi, sono addirittura ostili. E' inutile pregarli, offrire loro sacrifici; essi non cambiano il corso degli eventi:
"The floods can come again. Will continue to laugh at our endeavours know that we can feed the serpent of the swamp and corrupt the tassels of the corn". (Le inondazioni possono venire di nuovo. Continueremo a ridere dei nostri sforzi, sappiamo che possiamo nutrire il serpente della palude e corrompere le nappe del grano). L'ostilità degli dei verso gli uomini arriva a manifestarsi anche direttamente con atti violenti. Infatti il dio Ogun, signore della guerra, protettore dei deboli e distruttore dei forti, con il ferro che ha strappato ai fianchi della montagna per aprirsi un varco negli abissi ed unirsi agli Uomini nell'anelito della perfezione, ebbro per il vino di palma, si rivolge in modo spietato ai suoi uomini e li annienta. In tal modo Soyinka esprime il dramma rituale,contemporaneamente umano e divino, che in Ogun trova la sua sintesi.
       Nel poema Idanre, Ogun viene addirittura chiamato con il termine di "cannibal" ; il dio viene quindi antropomorfizzato a tal punto, da essere associato alle colpe degli uomini, esempio preso anche da A Dance of the Forest.
Il cannibalismo di Ogun è da intendersi nel suo significato più ampio, di sopraffazione morale e materiale, ma nello stesso tempo rappresenta il desiderio Freudiano di compartecipare della natura della persona uccisa. Il concetto del cannibalismo è strettamente legato alla natura distruttrice dell'uomo, come l'autore stesso afferma in un'intervista: "I find that the main thing is my own personal conviction or observation that world so that their main preoccupation seems to be eating up one another".(Trovo che la cosa principale sia la mia convinzione personale o osservazione di quel mondo in modo che la loro preoccupazione principale sembri mangiarsi l'un l'altro).
       A tale convincimento è strettamente associato all'idea del sacrificio della vittima, di cui abbiamo parlato precedentemente.
La dicotomia cannibale/vittima si trova in continuazione nell'opera di Soyinka, ed è scaturita da una situazione culturale, di cui il mito di Ogun, con la sua ambivalenza creazione/distruzione, è diretto ispiratore.
Come nel mito di Ogun spesso coesistono le due componenti così i due aspetti della natura umana sono strettamente collegati ed interagenti. Accanto alle vittime destinate al sacrificio, volontario o meno, troviamo i responsabili di tali sofferenze: costoro a volte vengono classificati come cannibali, a volte sono da considerarsi dei falsi profeti. In tali falsi profeti si configurano, non meno che nel cannibale, la corruzione e l'istinto di sfruttamento insito nell'uomo soyinkiano. Il cannibalismo diviene emblematico anche dì un processo dì disfacimento della sensibilità umana, a cui l'uomo va incontro in particolari situazioni; infatti la sopraffazione e la violenza possono creare delle aberrazioni negli animi umani:"The Man dies in "all who keep silent in the face of tyranny". In an anima cage, in the spiritual isolation of the first few days, the prospect became real and horrifying, It began as an exercise to arm myself against the worst, it plunged into horrors of the immagination". "The monstrous, aggressive, yet mournful stridencies of gates falling to, and bolts themselves imprisoned in air-tight holes"."Bach prison has its quota of lunatius; before long the cry of one from a distant block began to pour out the dark secrets of his soul" A Clank's of his restraining chains accompanied it ". (The Man Died). (L'Uomo muore in "tutti coloro che tacciono di fronte alla tirannia". In una gabbia dell‘anima, nell'isolamento spirituale dei primi giorni, la prospettiva si fece reale e terrificante, iniziò come un esercizio per armarmi contro il peggio, sprofondò negli orrori dell'immaginazione". "Il mostruoso, aggressivo, eppure stridio lugubre di cancelli che cadono, e chiavistelli imprigionati in buchi a tenuta d'aria”. “La prigione ha la sua quota di pazzi; in poco tempo il grido di uno da un isolato distante cominciò a versare i segreti oscuri della sua anima" Un clank delle sue catene lo accompagnò).
     Leggendo queste frasi si intuisce l'allusione ad un conflitto di proporzioni grandiose, e tale da alterare la natura stessa dell'uomo, non solo fisica, ma anche morale. E' un conflitto che supera il mondo africano, per assumere i caratteri di dramma universale; Soyinka, quindi, tramite il processo d'individuazione di recupero e di estrinsecazione del ricco patrimonio connesso alla civiltà yoruba, si colloca a pieno titolo nell'ambito del teatro universale.
"L'Uomo muore in tutti coloro che rimangono silenziosi dì fronte alla tirannia". In una gabbia nell'isolamento spirituale dei primi giorni, la prospettiva e la speranza divennero reali ed orribili. Divenne come un esercizio per armarmi contro il peggio, s'immerse negli orrori dell'immaginazione...". “Il mostruoso, aggressivo, eppure triste stridio dei cancelli che cadono e spranga coloro che sono imprigionati in buchi impenetrabili dall'aria”. “Ogni prigione ha la sua quota di pazzi; dopo breve tempo, il pianto di uno di un blocco lontano, iniziò a versare gli oscuri segreti della sua anima. Un rumore delle sue catene lo accompagnava”.
Emanuela Scarponi

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27 Aprile 2021

Recenti scoperte nell’antica città romana di Falerii Novi presso Viterbo

 

23-04-2021


                                                                                                                           Recenti scoperte nell’antica città romana di Falerii Novi presso Viterbo

       Il Lazio torna ad essere protagonista indiscusso dell’archeologia moderna che continua a fare scoperte di indiscussa grandiosità della storia antica di Roma, del suo enorme impero e territorio che ricade in gran parte nella nostra regione, ma che poi si sviluppa nel massimo del suo splendore spingendosi fino al deserto del Sahara in Africa a Sud e fino al muro di Adriano in Scozia a Nord.
L’Etruria, già sede della grande civiltà etrusca, viene sottomessa da Roma nella battaglia del lago Vadimone combattuta nel 309 a.C. tra Romani ed Etruschi. Questa fu la più grande battaglia che questi due popoli combatterono l'uno contro l'altro. I Romani vinsero, e fu la definitiva consacrazione della loro egemonia sull'Etruria.
       Da quel momento diviene centro indiscusso dell’Impero e sede di urbs.
Una recente scoperta, effettuata nel Lazio, ha permesso il ritrovo dettagliato della città romana di Falerii Novi, grazie ad alcuni sistemi innovativi. L’esistenza di questo sito non è certo nuova, essa infatti era un insediamento dell’Etruria meridionale presso Viterbo.
Insieme all’altra località “Falerii Veteres” identificata a Civita Castellana, esse sono tuttora oggetto di studi specifici e approfonditi.
Falerii Novi fu distrutta, secondo alcune fonti, in età repubblicana e fu ricostruita più a valle con il nuovo nome di “Falerii nuova”, eretta tra Civita Castellana e Fabrica di Roma. Di origine etrusca, non fu molto frequentata e citata in età imperiale. Oggi si ricorda la Chiesa medievale cistercense dell’XII secolo. In questi ultimi anni tutta l’area è stata riveduta e dalle indagini eseguite si è potuto ricostruire la topografia della città. Si è potuto riconoscere la piazza e quindi il foro, il teatro. Fuori del cinto murario sono stati riconosciuti l’anfiteatro, le necropoli ed i mausolei. Le informazioni, anche se frammentarie, ed il materiale epigrafico ci hanno dimostrato la presenza di edifici religiosi, pubblici, così pure i lavori di manutenzione sulle strade ci hanno permesso di conoscere meglio la storia di questa città vicinissima a Roma dove regnava il potere. Recentemente una collaborazione tra le università di Cambridge e Gand hanno dato risultati eccellenti, grazie a particolari ricerche ed ad un sondaggio magnetometrico sul luogo.
       La ricostruzione della città in 3D è l’esito finale di un’analisi basata sull’utilizzo del GPR, un tipo di radar che penetra in profondità, facendoci conoscere perfettamente ciò che si trova nel sottosuolo. All'interno delle mura sono riconoscibili terme con sale e vasche, portici, colonne, fontane pubbliche, cisterne, piscine termali, colture. Il caso di Falerii Novi offre una grande mole di lavoro e tempi lunghi per la sua completa conoscenza. Il progresso delle tecnica e queste nuove apparecchiature velocizzeranno, così, la storia dell'archeologia e quindi il suo futuro.
Emanuela Scarponi

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23 Aprile 2021

Il frottage in Cambogia

 

15-04-2021                                                                                                           Il frottage e la civiltà Kmer in Cambogia

 

 

                                                                                                         

 

 

 

        Grandi produttori di riso ed abili scultori della pietra, gli artigiani cambogiani sono bravissimi nel produrre carta con il riso, tradizionalmente preparata mescolando amido, acqua e tapioca o farina di riso. Su di essa sono soliti imprimere con un gessetto nero i bassorilievi che raffigurano eventi bellici, vita di palazzo, miti e, in alcuni casi, anche la vita di tutti i giorni.
Negli anni Venti questa tecnica fu denominata frottage da Max Ernst che la riscoprì in maniera singolare ed ottenne il primo esempio di frottage appoggiando un foglio sul pavimento in legno del suo studio e ricalcandone le venature a matita. Ma prima di lui Leonardo da Vinci la riprese, osservando casualmente come un’impronta su una parete si poteva trasformare in immagine. Evidentemente pero già nell’antica Cina e nella Grecia classica si sperimentava questa tecnica, utilizzando carta di riso o pergamena per ricalcare i bassorilievi.
       I bassorilievi dei templi di Angkor, come quelli di Bayon, descrivono la vita quotidiana dell'antico regno Kmer, comprese scene di vita del palazzo, battaglie navali sul fiume o sui laghi e
scene comuni del mercato e costituiscono quindi un’enciclopedia e fonte indelebile della storia e della civiltà Kmer. I palazzi all’interno sono rimasti invariati nei secoli, protetti ed avvolti dalla natura verde imponente che si riprende il suo spazio radicando i suoi alberi secolari alla pietra, diventando una unica opera d’arte dell’uomo e della natura, ormai indissolubile.
In questo quadro le piccole donne cambogiane restano nascoste sotto i loro cappelli di paglia in silente posizione di preghiera per ore ed ore all'interno dei palazzi della città-stato di Angkor, offrendo in voto agli dei una candela accesa che crea giochi d’ombra e luci nell’oscurità delle stanze del tempio.
Emanuela Scarponi

 

 

 

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15 Aprile 2021

La Namibia e la sua flora


20-03-2021


                                                                                                                                   La Namibia e la sua flora
         La Namibia è unica e diversa da qualsiasi altra regione africana. I suoi ambienti e paesaggi sono estremi. Lungo la Skeleton Coast (Costa degli scheletri), famosa per gli mai rugginosi relitti di navi, unico approdo naturale è la Baia di Walvis, che ospita la più numerosa colonia di fenicotteri dell'Africa australe. Proprio a causa delle freddi correnti dell'Atlantico prosperano in grandissime quantità colonie di pinguini e di foche. I fenomeni climatici, assolutamente unici della Namibia, sono causati dalla corrente fredda del Benguela, proveniente dall'Antartide. Le dune mobili del deserto del Namib trasportate dal vento giungono fino al mare e creano paesaggi unici al mondo.
        La Namibia è il Paese più secco, situato a Sud del Sahara. La flora è caratterizzata da specie tipiche delle regioni aride africane. Tra le particolarità floristiche vi è il kokerboom, albero delle faretre, una specie di aloe che cresce soltanto nella Namibia meridionale. Il suo tronco può arrivare a 7 metri e presenta una superficie coperta da scaglie estremamente taglienti. I rami sono lisci e resi biancastri da una polvere prodotta dalla pianta, che ha lo scopo di proteggerli dal calore solare. I rami si biforcano ripetutamente, da cui il nome Aloidendron dichotomum, "diviso in due", e danno luogo ad una corona complessivamente tondeggiante. Le foglie, di colore verde e blu marino, si trovano alle estremità dei rami, e sono strette e appuntite. All'inizio dell'inverno, tra giugno e luglio, produce fiori di un colore giallo acceso.
          Nelle pianure ghiaiose, a Est della Skeleton Coast, cresce la bizzarra welwitschia mirabilis, una gimnosperma, a seme nudo, che si sviluppa lentamente a terra e vive più di 1000 anni. Friedric Martin Joseph Welwisch, medico e naturalista austriaco, scoprì la Welwitschia mirabilis vicino a Cabo negro in Angola il 3 settembre del 1859 e Charles Darwin la definì poi l’ornitorinco del regno vegetale.
            Gli Herero, come altri numerosi gruppi etnici africani, utilizzano numerose piante per il trattamento di un ampio spettro di malattie. Nei secoli infatti hanno imparato a conoscere le proprietà medicinali di erbe, piante e altri elementi.
Nonostante la scienza abbia fatto passi da giganti e le medicine occidentali siano facilmente reperibili sul territorio Herero, i guaritori tradizionali, gli stregoni e gli indovini continuano ad utilizzare la medicina tradizionale che ricopre un ruolo importante nella loro società. Una delle piante utilizzate dagli Herero è l’aloe, il cui nome scientifico è aloe littoralis.
            Di questa pianta si utilizzano le foglie, omazo in lingua herero, per curare alcuni problemi tra cui l’herpes labiale, il mal di stomaco e le infezioni del tratto urinario. Ci sono due modi per utilizzare le foglie: il primo prevede che le foglie vengono fatte essiccare al sole per alcuni giorni e poi ridotte in polvere. Queste vengono successivamente setacciate e riposte in un contenitore, pronte per essere utilizzate. Un modo alternativo di utilizzare l’aloe è quello di tagliare le foglie in pezzi, farle bollire fino a quando l’acqua non diventa acida. A quel punto, si rimuovono le foglie e si lascia raffreddare il liquido; una volta freddo tutto è pronto per l’utilizzo.
            Nel deserto del Kalahari è tipica la presenza dell'acacia: l'acacia mellifera si trova sia nelle secche ed aride aree dell’Africa ma anche nella penisola arabica.
           Essa cresce in forma di cespugli a forma di corona o in tronchi d’albero che arrivano fino a 7 metri di altezza o da uno solo, che può raggiungere l’altezza di 9 metri. In alcune aree dell’Africa è considerata una specie invasiva e non è molto amata. E' utilizzata come materiale per costruire i recinti, a difesa dei villaggi, e come materiale per realizzare le capanne. Il suo legno è molto utile per accnedere il fuoco. Le sue foglie contengono una alta percentuale di proteine e sono prezioso nutrimento per gli animali domestici allevati sia per gli animali selvatici della zona, specialmente nelle aree secche dell'Africa. I suoi fiori sono ricolmi di nettare per le api che producono il miele e contengono un’alta percentuale di proteine. Sono spesso mangiati dai kudu ma anche dagli elefanti, dai rinoceronti e dalle giraffe. Anche se le loro spine sono un po' pericolose e bisogna stare attenti a toccarle, con i rami delle acacie si costruiscono trappole per cacciare i “Grandi uccelli”, la specie dei più grandi uccelli al mondo in grado di volare che vivono indisturbati in Namibia.
Vi è poi l'”acacia erioloba”, una specie della famiglia delle mimosaceae diffuse in Sudafrica, Botzwana e Namibia, in passato famosa come acacia giraffae in uso già dal XVIIIesimo secolo, molto importante per la sopravvivenza degli uccelli ma anche dei nostri Boscimani.
        Ed ecco perché: i picchi producono dei buchi in questi alberi per fare i loro nidi Durante il periodo delle piogge, gli uccelli devono lasciare il nido che si riempie di acqua. Quindi i Boscimani si dissetano, infilando delle cannucce fatte, per esempio, di piuma di struzzo in queste riserve di acqua. Utilizzano anche le uova di struzzo come contenitori e ci mettono dentro l'acqua avanzata dai nidi che sotterrano sotto la sabbia per oltre tre mesi, senza ovviamente segnalarne la presenza.
In questi ultimi tempi si stanno ipotizzando progetti di coltivazione di aloe, che può essere utilizzata in diverse applicazioni e settori.
Emanuela Scarponi

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20 Marzo 2021

-Terre d'oriente-


11-11-2019

                                                                           Terre d’Oriente: Kathmandu 25 aprile 20215
               Terre d’Oriente, Kathmandu, frutto d’immagini scelte, vogliono essere un tributo a Subash, la nostra guida nepalese, rimasta miracolosamente incolume con la sua famiglia e suo figlio, al terremoto di Kathmandu del 25 aprile 2015, in cui hanno perso la vita più di 8.000 persone; alla città di Kathmandu, che resta un mito per tutti noi viaggiatori; ai musicisti ed ai danzatori nepalesi che ci hanno accompagnato durante il viaggio con manifestazioni artistiche sacrali, in un vertiginoso carosello di feste tradizionali medievali, che celebrano rituali e danze in maschera per esorcizzare i demoni del male; infine ai miei coraggiosi compagni di viaggio, con i quali ho condiviso questi unici ed indimenticabili momenti; al nostro capogruppo.
        L'obiettivo di questo articolo è di rivisitare la mia esperienza in queste Terre d'Oriente, cercando di meditare sugli insegnamenti di Subash ed Agit, le nostre guide locali, cogliendo il significato più profondo delle filosofie induiste e buddhiste, evidenziando le sensazioni provate “strada facendo” e meditandoci su, nella consapevolezza che "pochi sono gli attimi decisivi ed importanti nell'arco di una vita".
          Il mio viaggio a Kathmandu tra questi, indelebile nella mia memoria, dimostra che il destino guida la nostra esistenza, indipendentemente dalla nostra volontà: "La vita scorre come l'acqua del torrente verso il suo destino e noi uomini non possiamo fare altro che assecondarlo, pur consapevoli dei pericoli che s’intravedono all'orizzonte, delle difficoltà delle strade insinuose, strette e buie, intraprese a volte in modo inspiegabile.
          Tramite queste parole proverò a far rivivere la mia medesima esperienza di viaggio e di vita ripercorrendo secondo flash e déjàvu il percorso, traslato dalle immagini che di quel mondo surreale e di quella mia vita errante, ho scelto di conservare e che porterò per sempre vivo nel mio cuore ora che non c'è più.
         Il tragitto del viaggio prevede la risalita del fiume Gange e dei suoi affluenti fino a raggiungere le sue sorgenti in Nepal, situate sulle cime della catena montuosa più imponente della Terra, l'Himalaya, che conta la più alta vetta del mondo, l'Everest di 8.000 metri.
        Pochi realizzano infatti che le sorgenti del Gange nascono dallo scioglimento dei ghiacciai eterni dell'Himalaya: uno scintillante blocco bianco azzurro, a 3900 metri sull'Himalaya scende tumultuoso tra burroni e picchi e le acque fredde e gelide si gettano impetuose nella antica Valle di Katmandu, ai piedi delle sottostanti montagne, e formano il fiume sacro Bagmati che bagna la mitica città-Stato, campo base di tutte le spedizioni alpinistiche. Ci troviamo nella terra delle leggende e della scienza (lo Yeti), della religione e meditazione (Induismo e Buddhismo), della natura e dell'uomo che si mescolano in un unico afflato, secondo una visione globale dell'esistenza umana; laddove gli uomini lasciano traccia, issando una bandierina sulle vette più alte mai raggiunte, intraprendono un viaggio per affrontare le più difficili sfide che la natura pone loro davanti come ultimo traguardo oltre l'impossibile…
         Le antiche filosofie buddhiste ed induiste sono sopravvissute al disastroso terremoto dell'aprile 2015, che ha raso al suolo l'antica città-Stato di Kathmandu. Con esse, sono sopravvissuti i monaci che continuano a pregare nei monasteri isolati sulle montagne, di cui si narrano misteriose e mitiche leggende in ogni angolo del nostro Pianeta Terra.
Ancora oggi la meditazione viene praticata come modo di vita: s'incontrano lungo il cammino uomini piccoli e magri con le mani giunte, le gambe incrociate e gli occhi chiusi in posizione yoga, a meditare immobili sotto l'albero sacro della Bhodi, antico fico sacro. Con la sola forza del pensiero - spiega il Buddhismo - i monaci in meditazione si distaccherebbero dal corpo, fuoriuscendone e viaggiando per il cosmo in un'altra dimensione, priva di barriere temporali o spaziali, confondendosi in un unicum pluridimensionale e perdendo cognizione della realtà circostante. 
       Emanuela Scarponi

 

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11 Novembre 2019

Santa Maria extra moenia ed il suo Battistero ad Antrodoco.

 


 06-02-2021

                                                                                                                       Santa Maria extra moenia ed il suo Battistero ad Antrodoco

        Provenendo dalla Salaria, se si percorre la via parallela, che passa per il piccolo borgo sul Velino, dal nome appunto di Borgovelino, ci appare il maestoso complesso della chiesa di Santa Maria extra moenia ed il suo Battistero.
È situata al centro del grandioso prato con alle spalle la parte cimiteriale e le montagne dell’Appennino abruzzese con l’austero Monte Giano e Monte Nuria.
Sono evidenti i rifacimenti fatti nel passato.
       Edificata sembra nel V secolo, costituiva un punto di riferimento per i Cristiani della valle, guidati da Severo che presumibilmente fu il suo primo parroco, come ricorda Gregorio Magno nei suoi scritti.
Nella primitiva chiesa sono stati utilizzati materiali presi dagli edifici di epoca imperiale: colonne, capitelli, cornici di marmo, lastre sepolcrali; una seconda fase di lavori tra l’ottavo, il nono ed il decimo secolo, è riconoscibile grazie a frammenti scultorei, murati sia all’esterno che all’interno della chiesa. Risale invece al 1051 l’atto ufficiale della rinascita della medesima e si fa menzione della stessa in due bolle papali: l’una con Anastasio IV e la seconda col Papa Lucio Terzo. Nel frattempo, essendo costruita una nuova chiesa all’interno delle mura nell’abitato di Antrodoco, Santa Maria assume la denominazione di “extramoenia“ cioè fuori le mura per distinguerla dall’altra. La facciata è a capanna semplice, asimmetrica per la presenza del campanile; al centro di essa c’è un elegante portale proveniente forse da una chiesa aquilana, ornato di colonnine lisce e tortilì, in cima due sculture di animali ed un tralcio di uva con due uccelli che beccano gli acini.
        Al centro campeggia l’“agnus dei“ con una croce, vessillo di vittoria. Alzando gli occhi, vediamo il bel campanile con monofore centinate, bifore, trifore, con l’inserzione di mattoni rossi ed anche un eccellente affresco che ricorda la figura del Cristo “pantocrator“ sulla parete che dà sulla Via Salaria. L’abside, piccolo esempio di costruzione romanica, è ispirata ai modelli benedettini, ed è di forma semicircolare con tre monofore, ed una finestrella a forma di croce per l'illuminazione.
Le tre finestre vogliono richiamare i misteri fondamentali della fede cristiana: la Trinità e il mistero pasquale di Cristo  Nell’interno l’edificio è a tre navate; nella parte destra ci sono due porticine che facevano parte di un pulpito più ligneo che marmoreo mentre nella parte sinistra ci sono colonne sormontate da semplici blocchi di pietra.
        Gli affreschi sono molti ma ridotti in pessime condizioni: si notano figure di profeti, il Cristo giudice e salvatore, tondi con figure di pontefici e “velarium” decorato con animali e piante. Ci sono poi l’affresco con la Santa Vergine, quello di Santa Caterina d’Alessandria, quello di San Giovanni Battista, quello con il matrimonio mistico di Santa Caterina d’Alessandria, quello con il Cristo in gloria e molti altri, di cui alcuni databili. Accanto alla Chiesa si trova il Battistero, un edificio a pianta esagonale, collocato nella parte destra della medesima; molti studiosi hanno rilevato una particolare originalità, sia per la collocazione sia per la struttura, sia per i suoi affreschi.
Sono rari i battisteri a pianta esagonale. Ce ne sono alcuni nella zona Nord-centro-adriatica; forse anche questo proviene da modelli adriatici arrivati dalla Salaria fino ad Antrodoco.
Il Battistero antrodocano rappresenta una rarità e potrebbe risalire all’epoca paleocristiana: forse fondato dal presbitero Severo che divenne anche Papa, anche la sua porticina laterale, ben visibile all’interno, non ha neppure traccia all’esterno, quindi è difficile datare il tutto.  Il numero dei lati va rintracciato nei testi biblici: Dio creò il mondo e l’uomo in sei giorni, anche Sant’Agostino interpreta così i brani biblici e così via.
Questo edificio divenne in seguito un oratorio frequentato dalla Confraternita di San Giovanni Battista ed, entrando, si scopre che tutte le pareti erano ricoperte di affreschi.
        I più recenti restauri hanno ripristinato gran parte delle immagini, alcune databili alla prima metà del 400, altri nel 500 come La Fuga in Egitto, La Strage degli Innocenti, Il giudizio di Erode, Le storie del Battista, Il battesimo di Cristo, Il giudizio finale, Cristo giudice, San Michele, le rappresentazioni dell’Inferno e del Paradiso, San Giovanni Battista e la pietà, l’affresco dei Santi, Santa Caterina d’Alessandria, San Martino, Santa Lucia, Santa Apollonia e Santa Margherita, San Cristoforo, San Leonardo e San Giuliano, la crocifissione e la salita al Calvario; gli altri due attribuiti a Bartolomeo Torresani, importante pittore dell'epoca.
        Al “Maestro di Antrodoco“ l’anonimo artista del Trittico si deve l’opera più importante della decorazione ad affresco del Battistero, forse commissionata dalla Confraternita di San Giovanni Battista, pertanto egli merita di essere ricordato anche se a volte emerge la sua limitata capacità nella prospettiva e nelle proporzioni. Guardando entrambi gli edifici, si nota alla sinistra del portale della Chiesa una colonna sormontata da una sfera metallica con una lapide: esse ci ricordano che ci troviamo presso l”Umbilicus Italiae”, “Centro d’Italia”, titolo attribuito dai cartografi al paese nel passato.


Emanuela Scarponi

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06 Febbraio 2021

Gonarezliou National park in Zimbabwe

 


24-01-2021                                                                                                                          Gonarezliou National Park, the elephant refuge in Zimbabwe 

 

           In Eland kingdom, about 150 kilometres from Mutare, near Chimanimani village, along the slopes of the Nyamzure hill (commonly called Pork Pie Hill, Hill of the Pie Pie), there is the Chimanimani Eland Sanctuary & Nyamzure, where many specimens of alkine antelope are used to live. Extraordinary powerful and majestic animal, the eland is the largest antelope in Africa: it has a light brown coat, can weigh up to 600 kilograms and 2 meters tall. The park, 8 square kilometres large, is also inhabited by jumping antelopes, duikers, swamp cobe, zebras and baboons and is also a paradise for botanists, with giant ferns, orchids and six varieties of proteins.
Gonarezliou National Park is the elephant refuge.
           The name means "elephant refuge", because more than 7,000 pachyderms lived in the 5,000 square kilometres Gonarezliou National Park, covered by trees and savannah. The connection with the etymology may not be so evident. Starting from the 70s, in fact, the delicate and precious ecosystem of the park was tested and largely compromised by the reckless action of unscrupulous people: by the Mozambican guerrillas, for example, who used it as a source of fresh meat supply, or by the groups of poachers, looking for ivory, the white gold paid at a very high price.
           Between 1990 and 1994, a terrible drought swept the country: a lot of Loxodonta Africana - whose this area was so populated that Harare government did not subscribe the international ivory bloc- died of thirst and destroyed the few areas with water and food. It was only with Ele-evacuation - operation availed of a loan of $ 20,000, the surviving specimens could be saved: the 750 surviving elephants were asleep and transferred to protected areas (essentially converted farms to wild conditions).The park was then reopened in the late 1990s and the elephants today are among the largest number in Africa.

Emanuela Scarponi

 

 

 


Traduzione

Nel regno degli Eland

A circa 150 chilometri da Mutare, nelle immediate vicinanze del paesino di Chimanimani, lungo i versanti dell'altura Nyamzure (chiamata comunemente Pork Pie Hill, Collina del Pasticcio di Maiale), si apre il Chimanimani Eland Sanc tuary & Nyamzure, dove vivono numerosi esemplari di antilope alcina. Straordinario animale, possente e maestoso, l'eland è l'antilope più grande di tutta l'Africa: ha il mantello marrone chiaro, può raggiungere i 600 chilogrammi di peso e i 2 metri di altezza. Il parco, che si estende per 18 chilometri quadrati, è abitato inoltre da antilopi saltatrici, duiker, cobi di palude, zebre e babbuini e costituisce un paradiso anche per i botanici, con felci giganti, orchidee e sei varietà di protee.
Il Gonarezliou National Park è il rifugio degli elefanti. Il suo nome significa “rifugio degli elefanti”, perché nei 5.000 chilometri quadrati di alberi e savana del Gonarezliou National Park vivevano fino alla metà del secolo scorso più di 7000 pachidermi. A dire il vero, però, a leggere la sua storia negli ultimi decenni, il collegamento con l'etimologia può non risultare così evidente. A cominciare dagli anni 70, infatti, il delicato e prezioso ecosistema del parco venne messo alla prova ed in gran parte compromesso dall'agire sconsiderato di gente senza scrupoli: dai guerriglieri mozambicani, ad esempio, che lo utilizzarono come fonte di approvvigionamento di carne fresca, o dai gruppi di bracconieri affamati di avorio, l'oro bianco tanto ricercato e pagato ad un prezzo salatissimo. A questo si aggiunse, tra il 1990 e il 1994, una terribile siccità in tutto il paese: i Loxodonta Africana, questo è il nome della razza che contava nel paese numerosissimi esemplari talmente numerosi che il governo di Harare non reputò necessario aderire al blocco internazionale dell'avorio - in gran parte morirono di sete e distrussero le poche aree che offrivano acqua e cibo. Fu solo con quella che venne definita l'operazione Eieevacuazione, avvalsasi di un finanziamento di 20.000 dollari, che gli esemplari superstiti poterono essere salvati: i 750 elefanti sopravvissuti vennero addormentati e trasferiti in aree protette (essenzialmente fattorie riconvertite a condizioni di natura selvaggia). Il parco venne poi riaperto alla fine degli anni Novanta e gli elefanti che oggi lo abitano sono fra i più grandi dell'Africa.

 

 

 

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24 Gennaio 2021

Diritti umani in Africa

 

20-01-2021


                                                                                                                                                       Diritti umani in Africa

        L'Africa è diventata di attualità in Italia a causa dell'immigrazione clandestina improvvisa che ha suscitato molteplici problematiche in tutto il Paese e in tutta Europa. È un fenomeno assolutamente nuovo rispetto agli anni in cui tutti noi ci interessavamo di questo Continente per motivi di studi.
        Tra i vari diritti non meno importante degli altri è il diritto all'informazione, senza il quale non si riesce ad avere contezza di quello che questo Continente porta con sé. Questo diritto all’informazione deve essere quindi considerato pienamente un importante filone che la stampa deve promuovere e sviluppare per dare voce all'Africa.
         L'Africa è gigantesca. E la carta geografica che ci accompagna sempre ne dà conto con tutti i suoi confini politici e fisici. In questa maniera riusciamo ad avere un'idea anche dell’immensità di questa terra e della piccola Italia situata nel Mediterraneo, in contatto con tutto il Nord Africa, e quindi punto di approdo per molteplici persone che scappano e fuggono da molti Paesi in guerra. Ecco l'importanza di riportare le problematiche di questi Paesi ma al contempo di evidenziare i valori positivi che questi Paesi portano con se'.
         Purtroppo non arrivano notizie positive da questo Continente che, in realtà, agli occhi di coloro che lo conoscono offre grandissime bellezze, oltre che naturali anche storiche, che appartengono alla storia dell'Uomo. Sappiamo tutti che l'Uomo nasce in Africa dai ritrovamenti paletnologici effettuati. Sappiamo che nell'antichità esisteva la cultura afro-romana e la conoscenza e la cultura mescolatesi hanno dato vita ad una nuova cultura mista. Questo è alla base di tutti gli incontri/scontri nella storia del mondo. Da qui la decisione di cominciare a scrivere su queste tematiche.
        Quanto al tema di oggi, che tratta dei diritti umani in Africa, ecco appunto il collegamento con la stampa: da molti Paesi non riceviamo informazioni. Da qui l'esigenza di individuare persone provenienti da vari Paesi dell'Africa, che possano fornirci informazioni dirette di quanto succede realmente. A tale iniziativa debbono essere affiancate conferenze che possano dare l'opportunità di comprendere a fondo il perché di tanti accadimenti, per esempio del perché esiste il fenomeno dell'immigrazione clandestina, del perché le persone rischiano la vita, attraversando prima il deserto del Sahara, poi cavalcandole onde del Mar Mediterraneo su mezzi di fortuna, che spesso causano terribili naufragi e la morte di questi disperati, pur di arrivare in quella che considerano la terra promessa, cioè l'Europa, dove c'è la ricchezza e dove si può vivere bene.
        Arriviamo quindi a trattare il tema dei diritti umani in Africa: il problema della fame, delle guerre, della distruzione di massa e così via.
      Nella scuola italiana si studia la storia della schiavitù. Ho fatto un punto fermo sulle date in cui questi fenomeni nel mondo hanno fine: la schiavitù finisce in America nel lontano 1865, ed è veramente folle pensare che fino a 150 anni fa ci fossero persone che venivano incatenate e trasportate per farne degli schiavi.
      Ovviamente questi uomini, nati schiavi, si sono poi riscattati e successivamente sono diventati uomini liberi, fino ad arrivare al grande momento in cui il Presidente degli Stati Uniti d'America è un nero, un uomo di origine africana. Penso che questo sia stato un grandioso momento nella storia dell'umanità. Gli Stati Uniti sono arrivati a questo importantissimo evento, che resterà sui libri come il più grande momento della storia americana e mondiale.
     Questa è la motivazione per cui nasce la rivista scientifica Africanpeople, che conta sull'ausilio di appassionati ed esperti d'Africa, per cercare proprio di garantire informazione, che non deve essere di parte. Anche grazie ai mezzi informatici, oggi è, infatti, possibile garantire notizie.
      Quindi credo che questo sia il momento di invertire il punto di vista e di voltare il nostro sguardo verso il Mar Mediterraneo per comunicare con persone in grado di gestirsi. Ci sono stati dei momenti in cui i diritti umani sono stati violati perché appunto era difficile raggiungere questi Paesi, per motivi naturali (cioè per gli ostacoli naturali come il deserto, la foresta pluviale, eccetera), ma soprattutto per assenza di collegamenti per cui l'Africa è stata considerata da sempre "terra di nessuno".
     Oggi vi è la globalizzazione che vede tutti collegati tramite Internet: questo è un mezzo di comunicazione che, se usato bene, ha dell'incredibile e ti conduce dall'altra parte del mondo nel giro di un secondo. Questo permette la comunicazione anche in Africa.
Per cui credo che sia opportuno che l'Italia si metta a guardare l'Africa positivamente per creare un ponte, o rapporti culturali e di cooperazione allo sviluppo in questi Paesi, che chiedono solo di essere ascoltati. In Italia non tutti parliamo la lingua inglese, ma in questi Stati tutti comunicano in doppia lingua, sia quella degli ex colonizzatori che la loro. Quindi è arrivato il tempo di superare il pregiudizio e cambiare l'idea che abbiamo di questo Continente.
Emanuela Scarponi

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20 Gennaio 2021

La Dama bianca della Namibia

 

13-12-2020


                                                                                                                                                 La Dama bianca della Namibia


       La Namibia, che ha recentemente raggiunto l'indipendenza, non può essere trattata distintamente dal Sud Africa, da un punto di vista storico, geografico ed etnico. Particolarmente attraente e misteriosa appare la cosiddetta White Lady, una delle più affascinanti pitture rupestri dei San, conosciuti da noi come Boscimani, la più antica popolazione dell'Africa australe. In passato, la Dama Bianca ha suscitato molte controversie e sono state formulate numerose teorie contrastanti per spiegare la sua presenza nel Brandberg. Tra le figure umane emerge chiaramente differente una figura umana di pelle bianca, che 1.800 anni fa, data cui sembra risalire la pittura rupestre, non era possibile riscontrare nell'area. Nel Brandberg si contano circa un migliaio di pareti rocciose dipinte, per un totale di oltre 45.000 figure, soprattutto di uomini e animali. Il complesso pittorico della Dama Bianca si trova in una grotta chiamata "Maack Shelter" ("rifugio di Maack") dal nome del cartografo che per primo trovò il dipinto in epoca coloniale tedesca. Il complesso pittorico della Dama Bianca comprende numerosi soggetti, sia umani che animali (probabilmente orici) e misura approssimativamente 5,5 x 1,5 m. La Dama Bianca (in inglese The White Lady, in tedesco Weisse Dame) è un celebre dipinto rupestre situato in Namibia, sui monti Brandberg, nella zona del Damaraland. L'archeologia moderna attribuisce in genere il dipinto ai Boscimani (San), ma altri dettagli della sua origine non sono noti.
        Il dipinto si trova nel cuore del Brandberg, grosso modo sulla strada fra Khorixas e Henties Bay, nei pressi della cittadina di Uis. Il sito è raggiungibile solo a piedi, al termine di un percorso di circa 40 minuti che segue una stretta valle nota come Gola di Tsisab (Tsisab Gorge. Il dipinto venne scoperto nel 1918 dall'esploratore e topografo tedesco Reinhard Maack, che stava cartografando il Brandberg per conto delle autorità coloniali tedesche. Maack fu impressionato dal disegno, e ne fece diverse copie, che in seguito inviò in Europa. Egli descrisse la figura con l'arco come un "guerriero", e annotò nei suoi appunti che "lo stile mediterraneo ed egizio di queste figure è sorprendente". Nel 1929, gli appunti di Maack giunsero nelle mani dell'abate francese Henri Breuil, antropologo e archeologo (ricordato tra l'altro per i suoi ritrovamenti nelle grotte di Lascaux), che era in visita a Città del Capo.
Sulla base dei disegni di Maack, Breuil osservò che il dipinto aveva forti analogie con alcune figure di atleti ritrovate a Cnosso, e suggerì che potesse essere opera di un gruppo di coloni provenienti dal Mediterraneo orientale. Fu ancora Breuil a interpretare il soggetto del dipinto come "dama", lettura da cui deriva il nome attuale con cui l'opera è nota. Breuil riuscì a visitare il sito nel 1945, e negli anni successivi pubblicò le sue osservazioni e congetture prima in Sudafrica e poi in Europa.
        Il lavoro di Breuil diede origine a una serie di teorie che attribuivano il dipinto a una misteriosa presenza di popoli di origine europea o mediorientale in Namibia in tempi antichi. Alcuni autori sostennero in particolare che esso poteva risalire a un'antica colonia fenicia, teoria che è stata ripresa anche da autori recenti come lo storico zulu Credo Mutwa. Nella seconda metà del XX secolo la maggior parte delle teorie sulle influenze mediterranee nello sviluppo dell'Africa subsahariana vennero gradualmente abbandonate. La paternità del dipinto della Dama Bianca venne quindi attribuita più semplicemente ai boscimani (che popolavano l'area fin dalla preistoria, e a cui erano già stati attribuiti in modo meno controverso gli altri dipinti del Brandberg e l'arte rupestre presente in altri siti del Damaraland, come Twyfelfontein).
Alle diverse teorie sulla paternità dell'opera sono state associate nel tempo ipotesi molto diverse sulla sua datazione. L'analisi cromatografica ha determinato che il dipinto non può avere meno di 1800 anni, in quanto risulta totalmente privo delle proteine originariamente presenti nei pigmenti utilizzati per dipingerlo. Si ritiene che il gruppo della Dama Bianca rappresenti complessivamente una danza rituale, e che la figura predominante - la "Dama" - sia in realtà uno sciamano.
Lo sciamano indossa coperture decorative alle braccia, ai gomiti, alle ginocchia, al bacino e al petto, e forse anche un indumento decorativo al pene. In una mano regge un arco, e nell'altra quello che potrebbe essere un sonaglio o una specie di calice. Tutte le altre figure umane indossano qualche tipo di calzatura, e uno degli orici è stato rappresentato con gambe evidentemente umane. Un'altra interpretazione è che la Dama sia un giovane col corpo cosparso d'argilla bianca secondo una procedura rituale, forse connessa alla circoncisione.
       I materiali usati per realizzare il dipinto sono probabilmente quelli tipici della pittura boscimane, ovvero principalmente polveri di pietra ferrosa ed ematite, ocra, carbone, manganese, e carbonato di calcio, miscelati con bianco d'uovo e altri liquidi di origine organica come aggreganti. Tutto il complesso pittorico ha subìto un notevole deterioramento dai tempi del suo ritrovamento. In passato, i turisti talvolta bagnavano la roccia per far risaltare meglio i colori nelle fotografie, e l'immagine si è rapidamente sbiadita. Oggi l'intero sito è un'area protetta, con lo status di "patrimonio nazionale" della Namibia, e può essere visitato solo insieme a guide autorizzate.
Emanuela Scarponi

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13 Dicembre 2020

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