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Dialoghi mediterranei in transizione



14-07-2021


                                                           Dialoghi mediterranei in transizione

        La mia generazione è figlia dell'Europa. Quindi, con grande rammarico e tristezza bisogna pur ammettere che l'Europa con l'introduzione dell'euro ha determinato grossi problemi economici nei Paesi del Sud Europa, economicamente meno ricchi di quelli del Nord. La moneta è divenuta la priorità assoluta dell'Europa, rispetto al valore di “casa comune europea” a cui i nostri Padri costituenti si sono ispirati.
Si sente dire spesso che l'Europa è comandata dalle banche, che hanno preso la supremazia su tutto il resto. Questo è il problema. Questo cosa ci porta a fare?
Sempre più partiti politici mettono in dubbio l'opportunità di restare in Europa. A mio parere, è importante restare nell'Unione europea, come dimostra l'ultimo anno che abbiamo trascorso, con la lotta al covid. Sarebbe stata una tragedia colossale per l'Italia lottare da soli contro questo nemico invisibile che ha colpito l'umanità intera su scala globale. Non è più tempo di ragionare al singolare. La globalizzazione ha portato ad inquadrare i problemi nuovi in modo nuovo.
        E come sempre accade, di fronte ai problemi colossali, il bisogno di unità risorge. Persino la Gran Bretagna continua a collaborare con l'Europa, malgrado l'esito del referendum in materia.
Preso atto che l'Europa comunque vive una forte crisi, sarebbe auspicabile aprire una finestra al Sud in modo da creare nuovi rapporti con i Paesi africani, sviluppando quella politica di cooperazione allo sviluppo iniziata anni addietro.
L’Africa è un continente giovane e pieno di opportunità, da cui l’Italia potrebbe anche guadagnare. Anche se presenta tante fragilità e contraddizioni, infatti, non possiamo continuare a vedere l'Africa con la lente offuscata dagli stereotipi del passato. Occorre un’azione più incisiva rispetto al passato per cogliere i frutti di questa nuova fase di crescita. I Paesi africani devono essere al centro dell’attenzione della diplomazia italiana e delle aziende italiane anche per il sostegno al rilancio dell’economia nazionale e all’internazionalizzazione delle imprese. L’Italia, solo così, potrà così svolgere un ruolo da protagonista tra Europa ed Africa.
       Se è radicalmente cambiata l’Africa, deve perciò radicalmente cambiare anche l’approccio dell’Italia all’Africa.
Mentre nel 1986 si parlava di Africanistica come di una materia astratta, scientifica, d'interesse di nicchia, tematica solo ed esclusiva dei più grandi studiosi accademici italiani, oggi è una necessità. Che cosa è successo? La crisi economica occidentale in atto e del capitalismo in genere, ormai da lungo tempo, si riflette sui Paesi del Nord Africa che vivono in modo interdipendente dall'Europa, che lo si voglia o no. Questo ha portato ripercussioni economiche anche sui Paesi del Nord Africa ed a tutti problemi che si sono susseguiti negli ultimi anni: “Le primavere del mondo arabo, la nascita dell'Isis, lo scoppio delle guerre, l'inizio della immigrazione clandestina di essere umani provenienti dai Paesi in guerra”.
L'Italia, Paese al centro del Mediterraneo, era assolutamente impreparata e così digiuna di politica estera per affrontare questo tipo di  problematiche. Per quanto riguarda i dialoghi mediterranei, infine, ritengo opportuno volgere la nostra attenzione alla nuova prospettiva che si apre con la Via della seta, che può fungere da volano all'economia italiana, per attivare scambi e commercio, come fu nel passato.

Emanuela Scarponi

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14 Luglio 2021

La primavera di Belgrado

 07-10-2019

               La primavera di Belgrado

        La penisola balcanica è un punto nevralgico e strategico d’Europa. Incontro di
civiltà europea ed ottomana, è sempre stata luogo di guerre e scontri per la conquista
una volta degli uni ed una volta degli altri nei secoli.
      La ex Iugoslavia ne ricomponeva il quadro geografico e politico, fino alla sua
disgregazione avvenuta a seguito della morte di Tito, da tutti ricordato con grande
stima ed affetto. La disgregazione della ex Jugoslavia ha condotto alla formazione di
6 Paesi oggi indipendenti: la Slovenia, la Croazia, la Bosnia Erzegovina, la Serbia, la
Macedonia, il Montenegro, mentre il Kossovo è ancora oggi territorio conteso.
La Serbia si sta riaprendo al turismo internazionale da pochissimo tempo.
     E così non ho voluto mancare a questa bellissima e sorprendente occasione -
prospettatami nella prima settimana di settembre, alle porte del nostro autunno - di
conoscere, o meglio, riconoscere un territorio non frequentato dal turismo italiano.
Nella nuova mappa geopolitica la Serbia, un tempo regione geografica e parte
della Jugoslavia, è infatti oggi un Paese europeo situato nel Sud-Est della penisola
balcanica, caratterizzato a Nord da altipiani e a Sud da montagne e località sciistiche.
Nella capitale Belgrado si trovano numerosi edifici di epoca comunista e il parco
Kalemegdan. Qui sorge la fortezza di Belgrado, usata prima dall'Impero romano, poi
da quello bizantino e infine da quello ottomano. La città vecchia, chiamata Stari
Grad, ospita non solo diversi palazzi del XIX secolo, ma anche il teatro nazionale
Narodno Pozorište, dove è possibile assistere a opere e balletti.
Stupisce parlare di Serbia in questo modo: nel nostro immaginario collettivo
non risalgono a tanto tempo le notizie di guerra che attanagliavano la vecchia
Jugoslavia ed i bombardamenti della NATO sulla città di Belgrado.
Ma c’è una nuova Belgrado.
     È tornata la primavera dopo circa 20 anni e le nuove generazioni oggi
passeggiano indisturbate per i suoi viali alberati, mentre sognano e progettano un
prospero futuro per il loro Paese. La città di Belgrado è stata quasi interamente
ricostruita anche se conserva qua e là ferite di guerra, testimonianza di
bombardamenti pesanti sulla città.
Ma le nuove generazioni sembrano non accorgersene più. C'è un grande entusiasmo:

promuovono ed investono in turismo, cultura, arte, religione.
     La primavera di Belgrado si sente nell'aria: felici di incontrare turisti italiani, gli amici serbi

vedono il nostro Paese come una meta di buona vita, conoscono le
nostre canzoni e ne condividono le parole, lungo il
percorso di viaggio, imitando i cantanti che hanno debuttato a San Remo,
trasmissione che possono seguire direttamente in tv grazie ad un accordo stipulato con l'Italia,
Mitteleuropea, paragonabile alla attuale vita berlinese, viennese, di Budapest, con
lunghi viali alberati dove i giovani prendono il caffè seduti ai tavolini posizionati
nella grande zona pedonale e sui larghissimi marciapiedi sparsi fino alla piazza
principale di Belgrado, dove si attardano fino a notte ad ammirare gli spettacoli di
giochi di luci e colori che illuminano i palazzi tutt'attorno. Chiacchierano tra loro
mentre rivolgono uno sguardo divertito a quanti di noi proiettano le
sagome sulle luci dei palazzi…
      I Serbi mantengono vive le loro tradizioni musicali, pittoriche e culinarie
mentre seguono una vita moderna. Si visita il museo di Nikola Tesla, famoso per
aver inventato la corrente elettrica alternata, il teatro Opera Madlenianum ed il museo dell'arte contemporanea.
E così a circa 20 anni di distanza dai tumulti, la Serbia riparte.
Godersi la Serbia è il massimo che si possa prospettare ad un turista: suite accoglienti,

eleganti, dotate di tutti i confort possibili ed "inimmaginabili" rendono la permanenza in questo Paese

estremamente confortevole, senza alcun ombra di dubbio dove si coniugano tradizioni culinarie serbe

con quelle dei Paesi vicini.
    Nel percorso di viaggio lungo il Danubio, si possono ammirare i meravigliosi e
numerosi cigni bianchi che vi abitano da tempi immemorabili.
Visitiamo la casa che ha ospitato il più grande scienziato dei nostri tempi Albert
Einstein, all'epoca sposato con Milena Maric, fisica serba, nella cittadina Novi Sad
lungo il Danubio. Vengono i brividi dall'emozione...forse là tra le pareti di quella
casa, mentre aspettavano la nascita dei loro figli, Albert Einstein e sua moglie
studiavano la teoria della relatività... ponendo le basi di quella che oggi è la ultima
frontiera scientifica... la scoperta dei buchi neri, dove la luce viene inghiottita dal
buio più profondo, dove le linee dello spazio e del tempo (passato e futuro) si
confondono...assottigliandosi sempre più...
Durante la cena, ascoltiamo ottima musica, di giorno incontriamo cormorani lungo il fiume Drina

mentre ci si addentra nel Parco naturale

Tara, sulle cui montagne si possono ammirare gli orsi bruni. Il fiume Drina segna il confine naturale

tra Serbia e Bosnia.
La crociera è splendida: si effettua nel silenzio armonioso del fiume tra le
montagne ricoperte di alberi sempreverdi: sembra di volare sospesi a mezz'aria
insieme agli uccelli acquatici che si divertono a saltellare sulla superficie delle acque
chete del fiume, sfiorandole: esse ospitano pesci di piccole dimensioni che i
cormorani si accingono ad acchiappare mettendo d'improvviso il becco in acqua...per
poi scappare vibrando nell'aria, creando le onde che raggiungono la riva del fiume...
Lungo il fiume Drina si giunge al confine con la Bosnia Erzegovina dove
vivono in maggior parte popolazioni di religione musulmana, ma vi sono ancora oggi
monasteri cristiani ortodossi.
Entrare in Bosnia è sicuramente emozionante: a testimonianza di quanto ci
viene spiegato, ci attende la visita di un monastero Cristiano ortodosso posizionato
proprio sul confine lungo il fiume Drina, vicino ad un monumento ai caduti in guerra
dell’una e dell’altra parte. I monaci parlano in bosniaco. Infatti si
considerano bosniaci cristiani ortodossi.
Oltrepassato nuovamente il confine, raggiungiamo la stazione di Mokra Gora.
Non capita tutti i giorni, viaggiando a bordo di un treno, di provare le stesse
emozioni che regala il treno di Šargan. Un breve tratto della antica ferrovia che un
tempo collegava Belgrado a Sarajevo, quindi la Serbia alla Bosnia-Erzegovina, è oggi
riservato ai turisti, per un autentico ritorno al passato. Inaugurato nel 1925, fu
dismesso nel 1974 perché considerato obsoleto e poco economico. Soltanto nel 2000,
l’intero impianto è stato rinnovato e rimesso in funzione per dar luogo all’attrazione
turistica così come la vediamo oggi.
Dalla stazione di Mokra Gora a Šargan-Vitasi il percorso è della durata di
circa due ore, e vi si accede acquistando presso la
caratteristica stazione ferroviaria di Mokra Gora il biglietto che permette di salire a
bordo del treno Nostalgija o più comunemente Ćira (nome con il quale i Serbi
indicano il treno di Šargan.
Lungo il percorso si ammirano bellissimi villaggi in legno, in perfetto stato di
conservazione ed in perfetta sintonia temporale con l'antico treno che - a dir la verità -
fa fare un balzo indietro nel tempo e tale da immaginare le dame dell'800 vestite in
abiti dell'epoca mentre guardano dal finestrino il panorama circostante e si dirigono
verso la loro destinazione lontana.
Negli hotel come del resto in tutta la Serbia la serata in musica è cosa
scontata: nelle splendide sale abbellite, per servire la cena agli ospiti, le donne si
dilettano ballando. A ben vedere la cultura turca si fa sentire nelle danze... Infatti
l’influenza dell'Impero ottomano è rimasta, testimoniata non solo dalla presenza
delle moschee visibili...al di là del fiume ... che sicuramente fanno un certo effetto in
mezzo all’Europa...si sente anche nel cibo e nei dolci tipici della Turchia e del Nord
Africa, nel caffè turco, versato nei tipici bicchierini dorati turchi. I riti e le movenze
tipici della danza del ventre si risentono nei balli attuali, con cui tutte le donne serbe -
alte e chiare di carnagione - si muovono...E così noi italiane cerchiamo di imitarle
ripetendo i loro movimenti sensuali e cercando di farli nostri...
La loro passione e la grande accoglienza ci commuovono nel profondo. Tanto
calore e tanto affetto riempiono la nostra esperienza di viaggio in esperienza di vita,
di amicizia, di scambio. Ancora una volta il viaggio si fa sacro, creativo; la conoscenza uno

strumento di approfondimento e di legame profondo tra persone di diverse nazionalità.

Emanuela Scarponi

 

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07 Ottobre 2019

Riforma dell’Onu e futuro del multilateralismo in periodo post-covid

30-07-2021
                                                                                                                           Riforma dell’Onu e futuro del multilateralismo
                                                                                                    in periodo post-covid

         L'Organizzazione delle Nazioni Unite, in sigla ONU, abbreviata in Nazioni Unite, è un'organizzazione intergovernativa a carattere mondiale. Tra i suoi obiettivi principali vi sono il mantenimento della pace e della sicurezza mondiale, lo sviluppo di relazioni amichevoli tra le nazioni, il perseguimento di una cooperazione internazionale e il favorire l'armonizzazione delle varie azioni compiute a questi scopi dai suoi membri. L'ONU è l'organizzazione intergovernativa più grande, più conosciuta, più rappresentata a livello internazionale e più potente al mondo. Ha sede sul territorio internazionale a New York, mentre altri uffici principali si trovano a Ginevra, Nairobi e Vienna.
         Istituita dopo la Seconda Guerra Mondiale con l'obiettivo di prevenire futuri conflitti, ha sostituito l'inefficace Società delle Nazioni.
Il sistema delle Nazioni Unite comprende inoltre una moltitudine di agenzie specializzate, come il Gruppo della Banca mondiale, l'Organizzazione mondiale della sanità, il Programma alimentare mondiale, l'UNESCO e l'UNICEF. Il direttore amministrativo delle Nazioni Unite è il segretario generale, attualmente è il politico e diplomatico portoghese António Guterres, che ha iniziato il suo mandato quinquennale il 1º gennaio 2017. L'organizzazione è finanziata da contributi volontari e valutati dei suoi Stati membri.
In occasione dell’apertura della 75esima Assemblea Generale del 29 Ottobre 2020, il Segretario Generale dell’Onu Antonio Guterres ha dichiarato: “[…] Ci troviamo oggi di fronte a un passaggio fondamentale. Coloro che settantacinque anni fa fondarono le Nazioni Unite erano sopravvissuti a una pandemia, a una depressione globale, a un genocidio e a una guerra mondiale. Conoscevano bene il costo della discordia e il valore dell'unità. Perciò misero a punto una risposta visionaria, incarnata nella nostra Carta costitutiva, che mette al centro le persone. Stiamo vivendo oggi il nostro 1945. […] Il populismo e il nazionalismo hanno fallito. […] In un mondo interconnesso, è tempo di riconoscere un fatto: la solidarietà va nell'interesse di ciascuno di noi. Se non riusciremo a cogliere questa semplice verità, perderemo tutti […]”. E non è un caso se uno dei temi posti all’attenzione dell’Assemblea Generale quest’anno è “La Carta delle Nazioni Unite compie 75 anni: il multilateralismo in un mondo frammentato”.
          Dal 1945 ad oggi la Carta costitutiva delle Nazioni Unite ha subìto poche riforme significative mentre nel mondo si sono verificati alcuni fatti assai importanti: negli anni Sessanta la decolonizzazione, quando di fatto il pianeta disegnato da Yalta finì di esistere, nel 1989 la caduta del muro di Berlino, nel 2004 un Trattato costitutivo dell’Unione europea che le attribuiva personalità giuridica, rendendo l’Europa un soggetto politico e non più l'obsoleto feticcio sopravvissuto a Yalta.
Non c’è soltanto il problema di una diversa ingegneria istituzionale all’interno delle Nazioni Unite, ma anche la necessità di restituire all’ONU credibilità.
Ritengo importante che si possa assicurare, proprio in questi anni post covid, un multilateralismo ragionevole. Solo il multilateralismo infatti potrà essere accettabile per tutte le regioni e per tutti i popoli. Vi sono molte motivazioni alla base di tale orientamento. Le Nazioni Unite rappresentano un forum decisivo del multilateralismo, ma ritengo che proprio le Nazioni Unite abbiano bisogno di essere ammodernate affinché, in relazione ai loro compiti e alla loro composizione, possano avere un maggiore grado di accettabilità.
Se vogliamo fare in modo che le Nazioni Unite tornino ad essere il punto di riferimento di un nuovo multilateralismo, questo non passa soltanto attraverso la nostra capacità di incidere sul loro assetto istituzionale. Di fatto il multilateralismo, che vorremmo vedere affidato alle Nazioni Unite, in questi anni è stato sconfitto nella prassi. Infatti molto dipende dai rapporti di forza economica dei Paesi membri.
Il problema è capire se noi come consesso politico internazionale, e anche l’Unione europea, vogliamo conferire questa funzione, questo recupero di multilateralismo, questa governance mondiale sulla pace e sui diritti dell’Uomo alle Nazioni Unite. In questo è importante il ruolo dell’Unione europea.
            Ciò riguarda anche il processo decisionale dell'ONU che deve essere in grado di agire. Non serve, infatti, avere un'organizzazione internazionale senza un'adeguata capacità di agire.
Ebbene, dobbiamo fare in modo che in futuro sia possibile fare affidamento sulle decisioni dell'ONU proprio perché sappiamo che le sue posizioni possono essere realizzate. Ritengo che questo aspetto così come quello della riforma della composizione e delle procedure decisionali siano molto rilevanti.
Sullo sfondo c'è anche la dimensione politica unitaria dell’Unione Europea, che ha ripreso ad essere un punto di riferimento per gli Stati europei, proprio a causa della pandemia di covid 19 che ha richiesto una lotta unanime su scala umanitaria che potesse sconfiggere questo nemico invisibile in grado di annientare gran parte del genere umano.
              Questa è la prima pandemia che ha colpito il pianeta Terra a livello globale. E la risposta deve essere globale. Non vi è scelta. Nessuno può restare indietro. Ebbene, l’Onu può di nuovo svolgere un ruolo super partes atto ad intervenire.
La pandemia covid 19 ha fatto tornare indietro la civiltà umana economicamente, socialmente e culturalmente, con ripercussioni forti sui continenti più poveri. L’Onu può tornare ad essere il soggetto che abbia un proprio ruolo sullo scenario internazionale.
Le Nazioni Unite hanno grande importanza per le loro Agenzie (l’UNICEF e le altre istituzioni hanno esercitato un ruolo importante. Si può condividere in tutto o in parte l’azione delle Nazioni Unite, ma hanno la loro importanza.
Tuttavia l'ONU non deve essere eurocentrico bensì modellarsi un po’ su quella che si va prospettando come la governance globale del mondo, cioè sulle organizzazioni regionali.
Allora la prima cosa da chiedere è: lo Statuto dell’ONU è adeguato quando stabilisce che membri dell’ONU sono solo gli Stati nazionali? È ancora adeguata questa idea di governance, oppure nello Statuto dell’ONU deve entrare non più l’idea geografica dei continenti, bensì l’idea insieme giuridica e geografica delle regioni multi statali del mondo?
Ovvio perciò che, parlando di governance globale, si finisca a parlare dell’ONU e delle sue agenzie specializzate.
Tornando per esempio al caso del Covid-19, le recenti critiche mosse da più parti all’Organizzazione mondiale della sanità (che, nel caso di Trump, hanno assunto le dimensioni di vere e proprie accuse di collusione con la Cina, e che hanno portato lo scorso luglio all’annuncio del ritiro degli Stati Uniti dall’Organizzazione) sono state molteplici, soprattutto riguardo alla tempistica e ad una certa contraddittorietà dell'informazione.
Il successo sarebbe maggiore se pensassimo di assegnare potere alle regioni multi statali che, seppure non sviluppate nei loro rapporti come l’Unione Europea, tuttavia rappresentano istituzionalmente, giuridicamente e politicamente un superamento dello Stato nazionale. È necessario cominciare da questo elemento di base.
Il sistema di voto, il cosiddetto one-country-one-vote, certo non è in grado di annullare, o almeno di controbilanciare adeguatamente, il peso politico ed economico dei grandi blocchi geopolitici (Usa, Cina, Ue, Russia e gli altri cosiddetti BRICS), che possono esercitare pressioni sui budget per indirizzarne i programmi e gli obiettivi.
Si rileva quindi l’opportunità di allargare la rappresentanza ad aree regionali, quindi non soltanto all’Unione europea, non soltanto alle grandi aree geografiche, ma anche ad aree territorialmente omogenee che hanno la necessità di essere attori.
            Accanto all’attenzione ai passaggi di ingegneria istituzionale nella riforma democratica e verso una maggiore rappresentatività delle Nazioni Unite, credo che il problema resti politico, resti un problema di volontà.
Dobbiamo dunque lavorare per un multilateralismo efficace perché nessun Paese, neppure la più grande superpotenza mondiale, può garantire l’ordine mondiale da solo ed essere “efficace” perché deve essere in grado di produrre decisioni che vengano rispettate, altrimenti è un multilateralismo impotente che diventa alibi dell’unilateralismo.
Infine c’è la grande questione del coordinamento delle politiche economiche e sociali: si parla di un Consiglio di sicurezza economico e sociale che sovrintenda e dia un indirizzo politico anche ad Agenzie multilaterali importanti, le quali non sempre, tuttavia, hanno avuto un ruolo di progresso, come la Banca mondiale o il Fondo monetario internazionale.
Bisogna essere capaci di agire a livello multilaterale, concordando le posizioni a livello delle Nazioni Unite e adottando soluzioni concrete e non soltanto ideali che all’atto pratico non consentono di agire. Dal punto di vista pratico, partecipazione o membership di organizzazioni regionali, e’ questione complicata sia dal punto di vista del diritto internazionale che da quello della prospettiva dell’importanza politica.
           Le Nazioni Unite, però, hanno sempre trovato una soluzione per tener conto di una determinata situazione contingente.
Si ribadisce quindi la necessità di riformare l’Onu, anche rispetto al problema degli immigrati, come lo stesso Kofi Annan evidenziò rispetto alla questione delle guerre e pose a noi Europei problemi estremamente forti ed importanti sulle contraddizioni della nostra democrazia, legate, ad esempio, alla questione degli immigrati e così via.
Ritengo, quindi, sia estremamente importante continuare tale confronto per riuscire a costruire delle relazioni tra il Parlamento europeo e quelli nazionali, affinché si possa veramente fare delle Nazioni Unite e dei nostri Parlamenti istituzioni vive e democratiche e che possano davvero fornire risposte globali a problemi globali.

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30 Luglio 2021

La strada, metafora dell'esistenza in Wole Soyinka

 

                                                                                         

24-07-2021

                                                                          La strada, metafora dell'esistenza di Wole Soyinka

        Per comprendere il filo conduttore dell'opera drammatica di Wole Soyinka, è opportuno partire dall'analisi particolareggiata di “The Road”. E' questa una delle prime opere da lui scritte che preannuncia i molteplici temi sviluppati più specificatamente nelle opere successive.
       In “The Road”questi temi sono tutti implicitamente e potenzialmente contenuti, all'interno di una più vasta cornice tematica che costituisce il motivo centrale di tutta l'opera soyinkiana: il conflitto tra l'uomo e il destino.
Si tratta di una tematica talmente ampia che è possibile circoscrivere in essa tutte le altre, ricomponendo così l'interezza della personalità umana ed artistica dell'autore.
“The Road” è senz'altro l'opera più completa di Wole Soyinka, nella quale egli raggiunge la sua migliore espressione teatrale. In essa egli sviluppa appieno la sua abituale capacità di creare personaggi vivi, che qui appaiono nella loro più completa interezza. L'opera ci mostra uno spaccato di vari problemi della Nigeria contemporanea, ma evidenzia in particolare un tema che non ha confini: il fatto che l'uomo è l'unico essere vivente che sa di dover morire.
L'autore dice che 1'uomo può accettare la morte, ma non accetta di dover morire senza alcuno scopo. Cosi, noi inventiamo significati e vi crediamo; ma poi questi significati finiscono per infrangersi, ogni volta che indaghiamo a fondo su di essi.
“The Road” fu scritta nel 1965 e rappresentata per la prima volta a Stratford on Avon. L'azione si svolge nei pressi di un'autostrada in un posto qualunque della Nigeria, e descrive un giorno della vita di coloro che lavorano sulla strada.
Gli elementi che compongono la scena, la quale è unica per tutto lo svolgimento dei due atti, sono pochi, ma fortemente significativi per la comprensione dell'opera; una baracca, un autobus adibito a magazzino, il recinto del cimitero, la chiesa e la strada.
        Il professore, che è il personaggio principale, ha attrezzato il vecchio autobus come rivendita di pezzi di ricambio, pubblicizzandone la funzione con la scritta: "Aksident store". Questo magazzino, facendo mostra dei vari pezzi ricavati dagli incidenti, è perfetto per illustrare i temi e i problemi della strada e dei camionisti; inoltre, ricorda costantemente a coloro che vi giungono la presenza della morte.
Il tema della morte sulla strada è successivamente simboleggiato dalla ragnatela situata all'interno della baracca, con l'insetto sempre in agguato, e dal cimitero che si scorge dalla baracca stessa. Intorno al Professore ed al suo negozio ruotano diversi personaggi, che dipendono dalla strada per la loro sopravvivenza.
Vari sono quindi i tipi rappresentati: i camionisti, i loro aiutanti, i passeggeri e i nullafacenti che cercano di vivere alle spalle degli altri. L'azione comincia all'alba con il girovagare inquieto di Samson che cerca di svegliare gli altri protagonisti addormentati su giacigli di fortuna. Egli è un personaggio molto versatile e mimico, che manifesta ampiamente le sue capacità di attore comico fungendo da veicolo di humour satirico, malgrado l'opera verta sul tema della morte. Samson, autista privato in cerca di lavoro, esprime la sua amara ironia sognando tutto ciò che essi potrebbero fare se fossero milionari, o se almeno avessero un lavoro. Samson è un personaggio fondamentalmente buono ed onesto; egli è stato l'aiutante del camionista Kotonu» ne ha condiviso i momenti più difficili e gli è talmente legato, che in tutte le sue azioni tiene presenti le esigenze dell'amico. Kotonu è quindi un ex-autista, che ha deciso di abbandonare tale lavoro perché è rimasto colpito psicologicamente da alcuni incidenti.
Questi hanno cadenzato la sua vita e gli hanno lasciato una tale impronta di paura, da togliergli il desiderio di continuare a lavorare sulla strada. In tal modo, egli rifiuta anche la vita, rimanendo in uno stato di passività e di assenza di volontà, ed essendo preda di ansie e di suggestioni. Tramite alcuni flashback, i protagonisti spiegano gli incidenti di cui sono stati oggetto; ne risulta che Kotonu si sente come predestinato a finire sulla strada, sia perché in tal modo e morto suo padre, sia perché è scampato miracolosamente ad un incidente mortale, sia perché pensa di avere offeso violentemente il dio Ogun, signore della strada e protettore dei camionisti.
        La strada, che ha dato a quest'opera il suo titolo e che è al centro "della" sua azione, può essere considerata il principale simbolo del dio stesso e dell'abisso cosmico che Ogun attraversò. L'idea che la strada sia una entità vivente, un'unica cosa con Ogun, è espressa in maniera molto chiara nei già citati flashback e più precisamente nei versi pronunciati da Samson:
La strada, come Ogun, è strettamente legata sia alla vita che alla morte, perché provvede ai mezzi di sussistenza per i camionisti, ma d'altra parte minaccia costantemente di ucciderli. La strada, però, è anche il simbolo dell'abisso cosmico che Ogun fu il primo ad attraversare quando si spinse con un salto potente dal mondo degli dei al mondo degli uomini. Egli si trovò così, per un momento, in una specie di spirituale "no man's land" (terra di nessuno), senza i confini tra la vita e la morte, il tempo e l'eternità.
Ogun, a rischio della sua propria vita, ha scoperto l'universale unicità (oneness). Egli sa che la vita e la morte non sono altro che due aspetti di un'unica, medesima cosa; che il tempo è solo una porzione dell'eternità; che i morti, i vivi e coloro che non sono nati esistono simultaneamente, ma su livelli differenti di esistenza!
Tutto questo si è chiarito subito ad Ogun, durante il suo breve percorso nell'abisso della transizione, nel golfo cosmico. Anche la strada è una specie di no-man's-land: sebbene connetta tutti i luoghi, non è un luogo in se stesso, ma solo un legame che unisce e che si utilizza a rischio della propria vita.

Emanuela Scarponi 

 

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24 Luglio 2021

La Negritudine per Wole Soyinka

Critica nei confronti della "Negritudine"

Soyinka, proseguendo in quel periodo la sua critica sul ruolo dell'artista nell'Africa moderna, si pone in contrasto anche con tutto quel movimento culturale che aveva avuto origine nel quartiere latino di Parigi all'epoca delle lotte indipendentiste in Africa e il cui fondatore, Senghor, diventerà presidente della repubblica del Senegal, Soyinka condanna infatti tale corrente ideologica-letteraria, detta della "Negritudine", che proprio nella acritica glorificazione di un passato, identificato con l'immagine "coloniale" del "bon sauvage", ritrovava l'essenza negra.

Questa dottrina, elaborata come pensiero filosofico da Senghor e dal martinicano Aime Cesaire negli anni '40 alla Sorbona, mal si adatta al pensiero più moderno e populista di Soyinka mentre tale dottrina si confronta infatti con le tecniche e, più in generale, con la mentalità globale del mondo occidentale, la dottrina soyinkiana rifiuta il paragone, attestandosi su posizioni completamente nuove ed ancorate profondamente nella filosofia africana» Mentre la "Negrìtudine" si preoccupa di rispondere alle accuse della cultura europea, trovandosi a"combattere" in campo avversario, Soyinka non accetta alcuna discussione di stampo tipicamente occidentale, riportando la disputa in terra africana. A proposito di tale posizione, è fondamentale la frase chiarificatrice dello stesso Soyinka:

"A tiger does not shout its tigritude, it acts it", da "The Writer in an African State", in Transition 

Mentre quindi la Negritudine cercava una definizione collettiva dell'identità dell'uomo nero, Soyinka ribadisce l'importanza delle culture locali (in primis la cultura yoruba), considerate non dal punto di vista esclusivamente emozionale ed anti-intellettuale, ma ben coscienti della propria dignità e della propria tradizione, cioè intellettualmente capaci. Soyinka rifiuta quindi l'immagine di Senghor che,desideroso"di affermare la sua africanità in terra europea, finisce invece per "sbiancarsi" gradualmente. Il concetto base di tale rifiuto, tipicamente radicale e rivoluzionario, permette a Soyinka di concepire l'Africa come un continente completamente autonomo, dove la colonizzazione appare solo come un momento storicamente determinato che è necessario superare. Anche per questo, quindi, egli si scontra con la "Negritudine" che, implicitamente, vede invece l'indipendenza nazionale come il giusto riconoscimento per l'apprendimento di schemi e di modi di vita tipicamente occidentali.  

In altre parole ed in un contesto socio-politico più ampio si produce, tra Soyinka e Senghor, uno scontro che deriva dal diverso modo di affrontare il problema coloniale delle due "superpotenze" dominanti nel mondo africano, la Francia e l'Inghilterra. Mentre l'una,infatti,col suo enorme bagaglio storico, filosofico e religioso, cerca di conquistare profondamente il mondo africano, inculcando le proprie idee fino a radicarle completamente nelle nazioni domi_ nate, l'altra non si propone,consapevole della propria superiorità, lo stesso risultato finale, permettendo così il mantenimento di quella carica nazionale e di quella capacità intellettuale insite in ogni popolo africano. Proseguendo ancora sul tema della "Negritudine", è opportuno ricordare un'affermazione particolarmente significativa di Soyinka:

"la Negritudine, successivamente, è diventata un tema fine a se stesso, ed i seguaci vi si sono adagia-ti senza dare spazio alla vera creatività artistica. Bisogna quindi lasciare tale retroterra, per dare una ritrovata immagine letteraria africana  (1), Tuttavia, quando si parla di immagine letteraria afri-cana, bisogna sottolineare che il problema è molto complesso e riguarda lo stesso termine di "letteratura", proveniente dà "lettera",; intesa come segno scrittoC2). Infatti, l'unica tradizione culturale scritta africana è quella dei Suahili e degli Hausa, che si era sviluppata sotto la spinta islamica. Da sempre, l'arte letteraria africana e  caratterizzata da una tradizione orale, e si manifesta quindi in forme diverse nel rispetto

(1), da "From a Common Back Cloth, di Wole Soyinka, in The American Scholar, voi. 32, giugno 1963,pag. 387-396, New York.

(2), da "Le solide radici yoruba di una cultura cosmo-polita" in II Mattino, 17.11.1986, di Toscano, M.

dei suoi modi di produzione e di fruizione, che sono molto più collettivi e diretti se paragonati alle tecniche della letteratura scritta, nota come letteratura d'elite, espressione del potere politico e religioso. E' pertanto l'avventura coloniale che diffonde la scrittura a caratteri latini e che fa sorgere letterature in lingua francese, inglese o locale. In conclusione, data la complessità della situazione culturale africana, e la varietà dei modelli e delle forme adottate, spontanee o imposte che siano, Soyinka ribadisce che gli scrittori africani devono operare contro la Negritudine. In tale ottica Soyinka volge la sua ironia verso i più comuni canoni estetici della critica occidentale, che si accosta alla produzione africana con un atteggiamento che egli definisce "tarzanismo" (1).

(1), da "From a Common Back Cloth, di Wole Soyinka, in The  American Scholar, voi. 32, giugno 1963, pag. 387-396, New York.

Il nostro autore afferma infatti di non credere nella creazione artificiale di un'estetica, perché all'in-terno di ogni cultura è già inserita un'estetica le-gata all'organizzazione di quella stessa cultura e quindi inseparabile da essa.

I critici occidentali sono incapaci di esaminare le culture africane, perché sono portati ad analizzarle secondo schemi e somiglianze con le culture occidentali; in ogni modo, essi non debbono far perdere di vista la specificità africana, I nostri critici sono incapaci di giudicale un'originale opera africana, perché ragionano in base ad analogie. On romanzo, secondo loro, assomiglia a Kafka, a Joyce, o a Proust; in sostanza, essi vedono nella produzione letteraria africana un frutto derivato dal mondo europeo.

   Tale critica giunge a definire "europei" gli scrittori africani, che si esprimono con vocaboli tipicamente occidentali, come aeroplano, bicicletta o treno; e giunge altresì a "consigliare" gli stessi africani di usare un linguaggio più propriamente indigeno, con equivalenti termini "folcloristici" ed "hollywoodiani" come "uccello di ferro", "cavallo d'acciaio" o "serpente fumante" (1). Si dimostra così la tendenza a giudicare un'opera non in "base ai contenuti, ma in "base all'uso dei termini linguistici, che invece sono considerati da Soyinka come semplice "involucro" struttura esterna in cui il contenuto viene forzato" (2).A proposito del contenuto e del suo significato più profondamente filosofico, Soyinka si rifà quella che egli chiama la "memoria muta", che è "più antica della memoria parlata ed ancor più della memoria"scritta" (3). Quest'ultima frase rivela, nello stesso tempo, la grandezza spirituale di Soyinka e della sua cultura.(1), da " Wole Soyinka: romanziere, poeta e drammaturgo nigeriano" di Vivan Itala in II Messaggero, 17.10.1986.

(2) da "Il mago della pioggia", di Vivan Itala,in _I1 Messaggero, 18.10.1986. (3), da "Tante Memorie", di Costantini C, in II Messaggero, 18.10

    In contrapposisione alla superficialità della critica occidentale nei confronti dell'Africa, considerata ancora come "la foresta di Tarzan, di Jein e di Cita, all'ombra del Kilimangiaro!". Per concludere comunque la discussione su questo "basilare argomento, ritengo giusto e doveroso ascoltare le parole, dure ma chiarissime, dello stesso Soyinka: Negritude was a creation by and for a small a small élite.The search for a ratial identity was conducted by and for a minuscle minority of uprooted individuals, not merely in Paris "but in the metropolis of French colonies.At the same time through the real Afric among the real populace of the african world would have revealed that these millions had never at any time had cause to question the existence of their Negritude. La negritudine fu una creazione di una sparuta élite destinata alla stessa élite.La ricerca di un'identità razziale fu condotta da e per una minuscola minoranza di individui sradicati, non solo di Parigi, ma nelle metropoli delle colonie francesi.Allo stesso tempo,fra la vera popolazione del mondo africano si sarebbe rivelato che questi milioni di persone non avevano mai assolutamente avuto motivi di porre in discussione l'esistenza della propria negritudine.

Emanuela Scarponi 

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31 Luglio 2021

Il Festival della diplomazia

22-10-2019

                                                                                                Il Festival della diplomazia

     Oggi 22 Ottobre, nell’ambito della 10° edizione del “Festival della diplomazia”, organizzato dalla “Rubbettino Editore”, si è svolto l’incontro intitolato “Scriviamo di Cina: incontro con gli autori”.
       In particolare, nella cornice della Sala Italia presso la sede dell’ “UNAR” (Unione Associazioni Regionali di Roma e del Lazio) e promossa dall’“Associazione dei Piemontesi a Roma” in via Aldrovandi, sono intervenuti Antonio Malaschini e Marco Lupis, autori rispettivamente dei volumi “Come si governa la Cina – Le istituzioni della Repubblica Popolare Cinese” ed “I cannibali di Mao – La nuova Cina alla conquista del mondo”.
Moderati dal noto economista e sinologo Romeo Orlandi, vice presidente di “Osservatorio Asia”, gli autori hanno dato vita ad un incontro che ha permesso di approfondire da punti di vista assai diversi l’attualità cinese nelle sue dinamiche politiche, economiche e culturali.Se infatti da una parte Malaschini ha privilegiato attraverso il suo lavoro un approccio alla conoscenza della cultura cinese basato prioritariamente sugli aspetti “strutturali” del sistema organizzativo politico cinese, Lupis ha invece percorso la direzione della conoscenza “on the road” (“sulla strada” come dallo stesso sottolineato).
       D’altra parte Malaschini ha mantenuto un approccio degno di una conoscenza assai approfondita della materia “tecnica” organizzativa, economica e giuridica, maturata sin dalla formazione culturale e dalla pluridecennale attività, ai più alti livelli, presso le nostre istituzioni, mentre Marco Lupis ha tenuto l’approccio giornalistico che lo caratterizza da sempre nella sua attività di corrispondente ed inviato speciale per conto delle più importanti testate giornalistiche italiane.
       Di certo colpisce la conoscenza dettagliata dei sistemi istituzionale e partitico cinesi descritti nel testo da Malaschini, che analizza non solo l’evoluzione storica recente della Cina moderna (dalla generazione di Mao a quella di Xi, passando per Deng, Jiang Zemin ed Hu Jintau), ma anche e soprattutto l’attuale funzionamento del potere reale che controlla ogni aspetto della vita cinese. Un’analisi dei parallelismi e delle connessioni tra la struttura del partito comunista e quella dell’Istituzione, nell’ottica di una sovrapposizione che consente la gestione diretta dell’economia, della finanza, della cultura, dello sviluppo e comunque di ogni aspetto organizzativo del paese da parte del Comitato centrale.
      Una organizzazione fortemente verticistica oggi impersonata da Xi che, attraverso la selezione dei gruppi dirigenti (certamente caratterizzati dalla assoluta ortodossia al pensiero dominante, ma anche da specifiche competenze) e l’azione di gruppi ristretti di guida e dipartimenti organizzativi con speciali poteri, controlla i risultati soprattutto economici e ne guida lo sviluppo. Il tutto, come sottolineato dall’autore, nell’ottica di un pensiero che affonda le proprie radici nel confucianesimo e che si contrappone indiscutibilmente alle origini occidentali basate sulla “democrazia” greca classica. In altre parole, una logica che vede prevalere gli interessi del gruppo d’appartenenza rispetto a quelli individuali e che predilige i risultati (“output”) rispetto ai processi.
     L’autore non dà conclusioni in merito ad un eventuale modello da confrontare; si sofferma solo sul termine “autoritarismo”, che certamente continua a contraddistinguere la Cina oggi, pur nella consapevolezza di un’evoluzione che sta permettendo a milioni di persone di affrancarsi dalla loro condizione di povertà assoluta. Ed ancora non affronta il problema del futuro della Cina che, secondo le previsioni di molti, dovrà certamente fare i conti con i diritti politici, civili, economici e sociali. Forse nel solco dell’antica tradizione.
     Concludendo, un lavoro di notevole spessore che, impostato su solide basi “tecniche” che evidenziano l’estrema competenza specifica dell’autore, si pone sempre all’interno di una linea di pensiero culturale, storica e filosofica, che permette di descrivere lo sviluppo cinese secondo un’analisi complessivamente ampia ed un taglio certamente “colto”.
Del tutto capovolto l’approccio di Lupis che, attraverso l’esperienza diretta vissuta per anni in Cina (ma anche in molte altre parti del mondo), cita evidenze narrate da un tipico giornalismo di cronaca riferito ai cambiamenti ravvisati dal 1975 ad oggi ed ai confronti con la cultura cristiana.
Lupis si sofferma sul problema di un’espansione militare violenta, che non ritiene però tipica della cultura cinese, caratterizzata invece da metodi espansivi soprattutto economici ispirati da “calma e pazienza”. Con il metodo del “prenditi tempo e nascondi la tua forza” la Cina è infatti già penetrata commercialmente in Africa e si appresta a consolidare la propria economia in Europa attraverso la nuova “via della seta”.
    Nella parte finale dell’incontro, il moderatore ha introdotto la questione chiave oggi forse più dibattuta, ovvero se nel modello cinese, emerso tra la fine del modello socialista reale e la grave crisi che attanaglia il capitalismo liberista, è possibile individuare una “terza via” che garantisca uno sviluppo economico ed una ricchezza sociale diffusa, pur nella limitazione delle libertà e dei diritti individuali e ed in generale della partecipazione democratica.
Gli autori, pur nel ritenere impossibile nelle condizioni attuali, per l’occidente, condividere uno sviluppo sulla base del modello cinese (nessun occidentale rinuncerebbe ai diritti acquisiti grazie all’adozione dei principi tradizionalmente democratici), modello di cui peraltro si cominciano ad evidenziare incrinature sempre più evidenti, hanno comunque convenuto sull’innegabilità dei risultati economici raggiunti conseguenza dell’efficienza dei metodi organizzativi adottati in Cina.
Rimandando i lettori a prossimi convegni, ricordo che la “Silk Street press” (di APN publisher-UNAR) ha patrocinato l'evento.
Emanuela Scarponi

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22 Ottobre 2019

Islanda: orsi polari

26-01-2020

 

                                                                                         Islanda: orsi polari
    Dopo aver attraversato il villaggio di Kirkjubaejarlaustur, proseguiamo lungo la costa meridionale verso il Parco Nazionale di Skaftafell, un’oasi verde fra le lingue di ghiaccio che precipitano dai ghiacciai Oraefajokull e Vatnajokull fino all’oceano, per perdersi nella laguna glaciale di Jokulsarlon.
    Qui gli iceberg galleggianti creano un’atmosfera magica poiché capita che trasportino orsi polari provenienti dalla lontana Groenlandia, naufraghi sulle coste islandesi a bordo di "scialuppe" di ghiaccio. Ciò accade a causa del surriscaldamento del Pianeta Terra e dello scioglimento dei ghiacciai eterni.
Sono immagini per me nuove di un paesaggio incantato, lontano dalla nostra vecchia Europa: siamo vicini al Polo Nord ed assistiamo al miracoloso spettacolo del tramonto artico, visibile solo grazie ad un fortunoso cielo splendente, fenomeno assai raro a queste latitudini.
     Cielo e acqua si incontrano in un susseguirsi di gradazioni del colore blu, che sembrano richiamare le infinite sfaccettature dell'animo umano, dal celeste del cielo al blu profondo del Mare Artico, nel quale sono numerose le foche che nuotano e che smuovono acque altrimenti immobili, e sullo sfondo del quale un orso silenzioso e quieto le attende mimetizzato. Il paesaggio è surreale e ricorda l'ambientazione propria delle antiche Saghe Vichinghe.
      Comincio a scattare fotografie senza sosta, come un vero esploratore che d'improvviso si perde nell'immensità della bellezza del paesaggio celestiale che ha di fronte, abitato da fate, elfi, gnomi e folletti.
     Come in un incantesimo mi sento sospesa tra cielo e acqua, sorretta dai ghiacciai eterni sotto di me, su cui sosto immobile, e dai trasparenti iceberg delle forme più variegate, che galleggiano elegantemente sulle acque fredde, scolpiti dai venti forti del Nord e dal calore del sole che, penetrandoli, creano meravigliosi giochi di luci e di ombre: su di essi puntello le mie scarpe da trekking per andare un po' più in là....e camminare sulle fredde acque del Mare Artico, timorosa di scivolare e perdermi per sempre nel blu profondo sotto di me.
    A tratti, in questo paesaggio artico, si intravede il colore marrone intenso della nostra amata terra...
    Ma, ad una osservazione più attenta, propria di una antica cacciatrice vichinga, che le mie fattezze ricordano secondo Margaret, la mia guida islandese, emerge - immobile come roccia - un enorme animale dalla coltre pelliccia marrone a chiazze più chiare e più scure....è l'orso polare!
    Si volta, probabilmente tormentato dal flash della mia macchinetta fotografica, ed il suo muso scuro finisce per rispecchiarsi nelle acque limpide ed immobili del mare sottostante, a distanza ravvicinata dalle foche che nuotano indisturbate, ignare della presenza del loro predatore.
    Una lunga ed ampia distesa di ghiacciai eterni sullo sfondo, situata tra antichi vulcani e terre desolate e piatte, ricoperte di lava innevata, fa da cornice a questo paesaggio incantato...siamo al Polo Nord!
    Un ultimo scatto prima di lasciare questo paradiso incantato....presto
il sole tramonterà dietro l'orizzonte polare e la leggendaria stella Vega si ergerà luminosa per guidare i viaggiatori nella lunga notte artica, forse per ricordarci che non esistono confini nel ricercare la vita e l’amore e le bellezze nelle molteplici forme e sembianze in cui si manifestano, sul nostro pianeta come su altri.
     Mentre tutto sembra acquietarsi nella lunga notte artica, ecco d'improvviso l'aurora boreale colorare di verde smeraldo la volta del cielo, effetto dei venti solari che attratti dai poli magnetici terrestri, rendono il paesaggio artico incantato.

Emanuela Scarponi
 

 

 

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26 Gennaio 2020

Emanuela Scarponi incontra Wole Soyinka

25-11-2020
                                                                                                                        Emanuela Scarponi incontra Wole Soyinka

        Dopo aver letto l'opera ricca e multiforme di Soyinka si è aperto alla mia mente un mondo nuovo, al tempo stesso reale e fantastico, che gradualmente mi ha fatto penetrare nel vivo di una avventurosa esperienza di vita, e di una concezione poetica estremamente interessante e suggestiva. Sin dai primi anni del '60, quando la sua attività artistica è iniziata, Wole Soyinka si è imposto all'attenzione sia della critica anglosassone, sia di quella africana; espressione di tale unanime riconoscimento è la recente assegnazione del premio Nobel per la letteratura.
       Questi suoi anni vissuti in Nigeria hanno coinciso con quelli delle fervide battaglie politiche e ideologiche per l'indipendenza, quando si sognava e si progettava la nuova Africa.; Soyinka fu appunto uno di quegli intellettuali, maturati attraverso l'impegno sociale e politico, che furono testimoni delle vicende complesse del passaggio dal colonialismo all'Africa delle nazioni. Questa sua complessità di pensiero e di formazione culturale è stata caratterizzata da un critico mediante un'espressione significativa, "meteoric" , che appropriatamente definisce la carriera del Nostro.

        Scrittore sempre in linea con i tempi, svolge una funzione di intellettuale nel suo Paese, ma non è disattento al mondo esterno che lo conosce, lo ammira e lo guarda sempre con grande attenzione e rispetto. 
Emanuela Scarponi

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25 Novembre 2020

La bicicletta in Africa

17-02-2021

 


                                                                                                                  La bicicletta in Africa


Il mio primo pensiero è andato al film di Bernardo Bertolucci "Il the nel deserto" del 1990, che credo abbia dato il via all'idea di girare il Nord Africa in bicicletta:" nessuno potrà mai dimenticare l'immagine dei due protagonisti, Port e Ki, che si recano in bicicletta su un'altura limitrofa, e lì ritrovano l'armonia dello stare insieme".
Pensare, però, alla bicicletta in Africa appare a prima vista arduo. Ma di certo i tempi cambiano ed oggi vediamo gli immigrati africani che giungono in Italia fare prevalentemente uso di biciclette. Nel 2018 è stata infatti istituita la Giornata mondiale della bicicletta, che ricorre ogni 3 giugno. È stata approvata, in un Risoluzione del 12 aprile 2018, come giornata ufficiale delle Nazioni unite per la consapevolezza dei benefici sociali derivante dal suo uso.
La bicicletta viene, infatti, usata dagli Africani per trasportare merce (mattoni, pacchi, animali), essendo spesso l'unico mezzo di trasporto economico, di cui possono avvalersi, sena sostenere altre spese.
Ma chi va in bicicletta in Africa? Le strade asfaltate sono pochissime e spesso si snodano nel mezzo della savana: è riuscito nell'impresa Obes Grandini, un italiano, che ha scritto un libro sul suo difficile viaggio dal titolo:“Due ruote attraverso l’Africa”. In questo libro, racconta il passaggio attraverso il continente africano iniziato il 24 maggio del 2010 da Città del Capo in Sud Africa, attraversando Sud Africa, Zambia, Malawi, Tanzania, Burundi, Ruanda, Uganda, Sudan del Sud, Sudan ed Egitto, completando il rientro passando per Giordania, Siria, Turchia, Grecia, Albania, Montenegro, Croazia e Slovenia. Il 27 maggio 2011 ha appoggiato la bicicletta al muro di casa dopo circa 20450 km percorsi.
Ci sono a ben vedere una infinità di vantaggi nel percorrere le strade su una bicicletta, si apprezza meglio il paesaggio che non passa come un film dal finestrino, si é vicini alla popolazione locale (che usa la bicicletta spesso come principale mezzo di locomozione) si ha un impatto negativo inferiore sull’ambiente. Si può ricevere un passaggio in camion, in barca, in aereo senza grossi problemi. Di contro si può spesso essere troppo “vulnerabili all’ambiente esterno”, alcune tappe risultano impossibili da realizzare in un continente come quello africano, si ha una autonomia ridotta, il clima lo si sperimenta sulla propria pelle (polvere, sabbia, sale, sole..). Il problema principale è che spesso le distanze sono notevoli e se non si ha un mezzo d’appoggio non è pensabile percorrere cosi grandi spazi a meno di ricevere un passaggio. Queste limitazioni hanno rilegato le pedalate spesso in limitate aree (Marocco, Tunisia, Togo, Benin) dove l’autonomia e le distanze sono più alla portata dei ciclisti.
Ebbene, per una viaggiatrice come me sarebbe plausibile utilizzare i propri piedi per girovagare, senza sosta, per il mondo. Ma non avrei mai immaginato che potesse esistere qualcuno in grado di attraversare l'Africa con le due ruote come mezzo di trasporto. Per me l'impresa sarebbe impossibile, ma di certo può rappresentare un modo nuovo ed economico per viaggiare, con grande tranquillità e serenità interiore, alternandolo magari all'utilizzo del treno o degli autobus in un continente enorme come l'Africa. Specialmente in terre sconfinate e senza traffico viaggiare su due ruote è effettivamente una esperienza unica. E forse oggi con l'energia solare si può pensare di utilizzare la bicicletta con meno fatica.
Ho viaggiato in bicicletta per brevi tratti in Paesi del Nord Africa ed in Medio Oriente e funziona. Anzi, il clima è perfetto per le due ruote. La sensazione più bella è quella di sentire il rumore del vento del deserto, nel totale silenzio delle terre antiche africane. In questi panorami mozzafiato, come l'altura rinvenibile nel film il “The nel deserto” del Nord Africa pensare di percorrere le strade per lo più sterrate su due ruote significa imparare ad ascoltare l'essenza della vita, della natura, significa diventare parte della stessa natura ancestrale e silente dell'Africa, il vento tra i capelli, la sabbia che assume forme diverse sotto le ruote, i versi di piccoli esseri viventi nascosti sotto un ciuffo d'erba, silenti agli occhi dei più ma pur vitali. Laddove ci si accosta in punta di piedi a questi fenomeni, essi rendono assolutamente nuovo il tutto: è come entrare in un mondo sconosciuto con la lente di ingrandimento.
In Africa il rapporto uomo-ambiente è molto più forte che da noi in Europa. È questo che gli Europei cercano quando esplorano l'Africa. Ebbene, la possibilità di avvicinarsi in punta di piedi ed entrare negli anfiteatri naturali africani, dove micromondi s'incontrano in una pace senza tempo ed in un silenzio totalizzanti, fanno il viaggio di per sé, che acquisisce così di significato filosofico.
Questo è il momento a cui l'Uomo deve tendere quando viaggia perché la mente si apra alla bellezza ed all'armonia della vita naturale. Prende vita la dimensione più profonda del nostro essere, nascosta, che nella routine quotidiana purtroppo non percepiamo più.
Emanuela Scarponi 

 

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17 Febbraio 2021

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