NAMIBIA – Le incisioni rupestri di Twyfelfontein
I San del Kalahari
Il quadro etnico anteriore all’arrivo degli Europei nell’Africa australe si presenta vivo e complesso e molto più articolato di quanto normalmente si ritenga. Gli studi storici, con una metodologia comparata che trae spunto dalle tradizioni orali e si avvale dell’analisi dei dati archeologici, etnologici, linguistici e botanici sono oggi progrediti nella ricostruzione del passato remoto dell’Africa. Le genti più antiche dell’Africa meridionale sono indubbiamente i Khoisan. Sono questi i nomi, Khoi e San, con cui gli studiosi preferiscono indicare rispettivamente gli Ottentotti e i Boscimani, termini di spregio coniati dai primi Europei. I Khoi furono detti Ottentotti con voce onomatopeica, perché nella loro fonetica vi sono frequenti suoni gutturali a schiocco (click), mentre i San furono detti uomini della boscaglia (Bosjeman in olandese, da cui l’inglese Bushman) perché dediti alla caccia. In realtà oggi si è inclini a considerarli due gruppi in uno, legati da una forma instabile di dipendenza tra padroni e servi corrispondenti a pastori e cacciatori, per cui era normale per un cacciatore San tentare di acquisire bestiame e trasformarsi in pastore, oppure per un pastore Khoi, se perdeva il suo armento, vivere esclusivamente di caccia. Agli antichi Khoisan appartengono le pitture rupestri disseminate nelle caverne e sotto i ripari dei kopjes di quasi tutte le regioni dell’Africa meridionale. Lo stile le raccorda con le pitture rupestri preistoriche dell’Africa e dell’Europa, dalla Tanzania al Sahara, dal Nord Africa alla Spagna e alla Francia. Ma l’evidente analogia delle forme e dello stile non viene considerata motivo sufficiente per supporre un’unità etnica o anche solo culturale dei loro autori. I Khoisan odierni non praticano più la pittura di questo genere. Vi sono però testimonianze che l’attestano viva ancora nel secolo scorso. Le incisioni sembrano più antiche.

In genere ritraggono animali: gazzelle, antilopi, elefanti, struzzi. Mentre nel Sahara la fauna serve a stabilire l’antichità delle pitture, nell’Africa meridionale, dove gli animali dipinti sono ancora quelli di oggi, non si presta sempre allo scopo. La stratigrafia dei colori mostra che le pitture monocrome sono anteriori alle pitture bicrome e queste alle policrome. Il verismo delle figure animali è talvolta sorprendente per la raffinatezza. Vi sono rappresentati cacciatori singoli o coordinati in battuta, raduni sociali o rituali con uomini seduti a cerchio. Le figure umane sono quasi filiformi, ma colgono bene l’agilità dei movimenti. Spesso è possibile riconoscere l’appartenenza etnica delle figure: i Khoisan sono ritratti con statura bassa, colore giallo, rosso e bruno; i Bantu sono alti e di colore nero; gli Europei portano vestiti e sono armati di fucile. Il periodo pre-Bantu si fa risalire a prima del 1600; quello delle figure europee al XVIII e XIX secolo. Nell’interpretazione delle figurazioni non è necessario ipotizzare fantastici richiami storico-culturali. Per esempio, gli abiti sumeriani di alcune pitture non hanno nulla di sumerico, ma riproducono il modo di coprirsi degli abitanti delle montagne del Lesotho. Così pure, la singolare figura della gola di Tsibab nella Namibia, detta la dama bianca di Brandberg, è certamente un uomo africano ricoperto di decorazioni bianche e di perline secondo l’abitudine di moltissimi popoli africani. Se la spiegazione delle pitture per motivi magici può sembrare plausibile, sarebbe far violenza alle cose non riconoscere nel gusto della pittura, oltre l’abilità tecnica, il senso estetico di genti abituate al contatto della natura e a un grado notevole di partecipazione sociale. L’insediamento dei Bantu nell’Africa meridionale è relativamente recente. Risale ai primi secoli dopo Cristo. Tuttavia i movimenti migratori, con la formazione di nuovi gruppi etnici, non erano cessati ancora nel XIX secolo. Dei più antichi spostamenti ci sono rimaste numerose vestigia archeologiche che vengono alla luce con il progredire degli studi e delle quali le più imponenti sono quelle di Zimbabwe, conosciute ai più. Ma i Bantu si spingono oltre, espandendosi fino all’estremità dell’Africa australe dove incontrano mescolandosi i Khoisan che, in netta minoranza, risalgono verso Nord. La Namibia, Stato indipendente di recente istituzione, non può essere trattata quindi distintamente dal Sud Africa dal punto di vista storico-geografico ed etnico.

Siamo nel cuore del Damaraland e di colpo la natura attorno a noi torna ad accendersi dei suoi colori più vivi. Il cielo è di nuovo blu, senza nuvole, le rocce e la terra sono di un bel rosso dorato, la vegetazione si riappropria del territorio, tornano le acacie e i primi gracili arbusti di mopane. Anche il clima è diventato immediatamente caldo e asciutto. Il Damaraland è una regione arida, ma il paesaggio offre colori e contrasti spettacolari, la pianura è spesso interrotta da catene montuose e stravaganti formazioni rocciose.
Twyfelfontein è uno spettacolare massiccio montano, famoso per l’abbondanza di pitture ed incisioni rupestri che si stima risalgano a più di 6.000 anni fa e che si sono conservate fino ad oggi grazie a favorevoli condizioni naturali. Sono stati rinvenuti oltre 2.500 graffiti, catalogati secondo il periodo in cui si stima siano stati eseguiti.
Una vera e propria galleria di arte a cielo aperto dichiarata nel 2007 Patrimonio della Umanità e inclusa della lista dell’Unesco tra i monumenti da tutelare. I disegni rappresentano animali, le loro orme, pozze d’acqua, più raramente troviamo rappresentata la figura umana.
Si ipotizza che gli autori di queste testimonianze siano gli antenati degli attuali Boscimani, una antica tribù di cacciatori e raccoglitori dell’Africa australe.
Raggiungiamo Twyfelfontein non senza poche difficoltà. In alcuni punti la pista era talmente sconnessa che temevo non solo di bucare ma di rompere il semiasse o qualche altro pezzo meccanico della nostra “micro-machine”! Un altro viaggetto non esattamente rilassante e della durata non trascurabile. Partiti da Swakopmund, in mattinata abbiamo raggiunto il Twyfelfontein che era già buio e praticamente senza soste lungo tutto il tragitto!
Pernottiamo al Twyfelfontein Country Lodge, un vero e proprio miracolo architettonico. Nonostante lungo la strada sia ben segnalato e la strada privata che conduce al Logde sia annunciata da una piramide di pietre di dimensioni ragguardevoli, l’intera struttura è stata costruita con materiali e colori talmente in sintonia con l’ambiente circostante che fino all’ultimo non si vede. È composto di 64 camere, arredate secondo il tipico stile africano, caldo e ospitale, un ristorante e una piscina. Un vero gioiellino!
Partiamo dal Twyfelfontein Rock Paintings , qui non trovate pitture bensì graffiti, eseguiti scolpendo la dura patina superficiale che ricopre l’arenaria, patina che con il passare del tempo si è riformata proteggendo le incisioni dall’erosione fino al loro ritrovamento.
L’intera area è protetta e il parco gestito da una cooperativa locale che fornisce guide, personale di sorveglianza, e di segreteria. In reception trovate numerosi pannelli esplicativi con foto, la storia del luogo e ovviamente spiegazioni dettagliate sulle opere rupestri che di li a poco andrete ad osservare.
La visita può avvenire solo ed esclusivamente con una guida, facilmente reperibile al vostro arrivo e ad una cifra irrisoria. La guida vi accompagnerà attraverso 2 diversi percorsi che sono stati allestiti lungo le pendici del monte per farvi apprezzare al meglio le incisioni: il Kudu Dancing Trek e il Lion Trek. Entrambi i percorsi sono attrezzati con corrimano e scale per farvi osservare le opere dalla migliore prospettiva possibile. E ovviamente per agevolare il passaggio dei numerosi turisti.Qui potrete osservare anche la fonte di Twyfelfontein, che ha dato il nome a questa zona. Twyfelfontein significa infatti “fontana dubbiosa” perché in origine i primi coloni bianchi che si spinsero in questa zona, dubitavano della presenza di acqua in un territorio cosi aspro e arido e di conseguenza ritenevano impossibile viverci. Oggi sappiamo che si sbagliavano.Vi stupirete di fronte alla vista delle così dette “lavagne preistoriche”, enormi blocchi di arenaria su cui sono stati incisi tutti gli animali della savana: elefanti, giraffe, leoni, rinoceronti, struzzi, ci sono addirittura le otarie! A testimonianza che milioni di anni non lontano da qui c’era il mare. Sono positivamente colpita dall’ abilità di questi popoli primitivi nel rappresentare le scene di vita del tempo e penso che se dovessi cercare di riprodurre gli stessi animali, molto probabilmente eseguirei esattamente gli stessi graffiti, nonostante siano trascorsi milioni di anni! Questo pensiero mi affascina.L’incisone più fotografata è sicuramente il leone con la coda eretta, usato anche come logo dell’associazione. Si ritiene fosse in realtà la rappresentazione di uno sciamano, un uomo-dio venerato e osannato dalle tribù.
Incontro con i San nel deserto del Kalahari
Prima colazione e partenza verso la più grande massa di sabbia della Terra, il Kalahari Desert. I Boscimani lo chiamano Anima del Mondo, un modo caloroso ed emotivo per descrivere queste terre sconfinate abitate da una varietà incredibile di antilopi, piccoli mammiferi, insetti e rettili che rendono il deserto del Kalahari un ecosistema speciale e unico. Pranzo in corso di viaggio, cena e pernottamento al Aoub Lodge; serata tranquilla: assistiamo ad una matrimonio tra due coloured...si chiamano così gli appartenenti ad una etnia mista, tra i misti! Un'altra etnia, una via di mezzo tra bianchi e neri....e sì che sono strani....
Al mattino, arrivo e trasferimento allo Zebra lodge. I compagni di viaggio partono ed io, che non ho resistito al fascino dell'Africa, resto nel deserto del Kalahari per incontrare i San.... !!!
I componenti del gruppo scendono dal camion per un ultimo saluto prima di ripartire. Io ed il cameraman, veniamo prelevati da una jeep per scomparire dopo breve dietro un cancello del nulla, situato nel mezzo della sabbia rossa del deserto del Kalahari e scomparire.....dietro la collina.
Il richiamo per me è troppo forte....voglio incontrare quelli che sembra siano i più antichi Uomini del mondo...e presto accadrà. Una volta depositate le valigie in questo splendido lodge, mi precipito per incontrare i pochi uomini San rimasti vivi al mondo...
Improvvisamente dal nulla appaiono sei giovani San, ricoperti solo da una gonnellino poggiata sui fianchi fatta di pelle di antilope.... resto esterrefatta....
Sono veloci, istintivi, attenti, intelligenti, muniti di un bastone con cui solo soliti cacciare..... raggiungono il lodge..... Assieme a loro il traduttore di lingua click-inglese!!! Salutano, parlano, si presentano.....non so più cosa fanno: ....cantano, parlano, suonano, guardano.....perdo il senso della razionalità.... mi emoziono...li guardo esterrefatta!
Non so più se guardarli o ascoltarli...resto immobile a guardare i loro volti...simili ed al contempo diversi dal mio di donna moderna......ma c'è di più... Sono creature meravigliose...non sono molto alti; anzi.. Sono uomini in miniatura e vivono di caccia, come l'Uomo viveva in natura; sono dotati di una saggezza antica, tesa alla sopravvivenza nel deserto, e così di padre in figlio oralmente hanno tramandato la loro cultura, e miracolosamente sono arrivati fino a noi, mantenendo un aspetto arcaico, un po' differente dal nostro.
Infatti, al nostro incontro ridono....perché la differenza non è poca. Inoltre sanno di sembrare molto più giovani di quello che in realtà sono... sembrano avere il dono della giovinezza. Sembrano tutti adolescenti. Mentre non è così ed il loro capo di 34 anni ha il volto triste. Poi gli chiedo il perché di un tatuaggio che prontamente fotografo sul suo braccio: ha lasciato sua moglie e suo figlio al villaggio e ne sente la mancanza. Così ha si è fatto il tatuaggio ed ha portato sua moglie con sé.
Io ho imparato a parlare con lui con il mimo. Ho messo la mano sul cuore mostrando il battito....per esprimere il sentimento di amore e ho indicato la statura di un bambino.... ha capito perfettamente il mio mimo.... e mi ha sorriso....ebbene si!
Sono riuscita ad entrare in contatto con loro e ad avere il loro rispetto....ora possiamo interagire alla pari.... Talmente emozionata, ho immortalato con più scatti che potevo le loro voci, i loro visi, i loro gesti mentre ho lasciato la telecamera fare il suo lavoro coadiuvata dal treppiedi un po' sbilenco. Non ho mai visto niente di simile. Pongo ulteriori domande attraverso il traduttore - per la prima volta nella mia vita - e mi sembra di parlare ai miei antichi progenitori....ascolto e guardo il traduttore in attesa che i loro suoni siano tradotti in inglese. E' molto difficile ripetere i sette suoni che sono alla base della loro lingua: in un intervallare di sensazioni ed emozioni.
Se io sono qui è grazie a loro, penso dentro di me!!! Chiedo se vogliono vivere all'Occidentale. Mi dicono che non hanno più scelta. Non possono più cacciare. Allora ne deduco che i territori sono tutti privatizzati e divenuti proprietà delle farm. Ma ho intervistato nel merito il Presidente della Repubblica Sam Nujoma il giorno successivo all'incontro ed il Ministro dell'economia del Governo della Namibia, due giorni dopo.
Pongo la medesima domanda ad entrambi: lo dovevo ai San ed agli Himba e mi sono fatta portavoce dei loro bisogni presso i loro capi politici. Entrambi sottolineano l'esigenza di mandare a scuola i bambini Himba e San come gli altri e diventare parte attiva della Namibia, in quanto loro nazione. Non devono vivere emarginati, come ora - costoro pensano - dal resto del mondo.
Esiste a sentir loro un problema di tasse! Sembra che debbano pagare le tasse per cacciare. Il Governo namibiano sta fronteggiando tale problema perché i cittadini locali ne pagano troppe!
Questo problema l'ho già sentito...e stanno prefigurando un sistema di tipo proporzionale: le tasse verranno pagate in base al reddito!
Una fortuna per i San e per gli Himba che come reddito hanno solo le mucche e gli orici...
Onestamente, i punti di vista sono diversi e la situazione è molto complessa. Per me devono essere loro a decidere. Ma questa è la mia umile posizione.
Dono loro con semplicità il mio libro..... non sanno leggere, figuriamoci la lingua italiana, ma sanno guardare le figure....si riconoscono nelle pitture rupestri fotografate....eh sì.
I San non lo sanno ma sono famosi nel mondo per le splendide pitture rupestri presenti in tutta l'Africa australe da oltre 6.000 anni fa disegnate dai loro antenati. Hanno scritto intere enciclopedie sul mondo animale ivi presente e sugli uomini e le loro tradizioni, abitudini e piante tanto da far diventare inquietante l'interpretazione degli antropologi della famosa Dama bianca della Namibia che ha messo in ginocchio generazioni di scienziati..... Grazie ad essi, sappiamo del processo di desertificazione che ha avuto luogo in Africa. ...non solo.... le pitture rupestri sono vere e proprie opere d'arte....
E così i San ci insegnano a cacciare, a bere, a mangiare, ad avvelenare gli animali ed a nutrirsi... Mimano, suonano, schioccano la lingua, parlano...sono un incanto! Ho registrato tutto. Seguirà un documentario solo ed esclusivamente su di loro. Non sappiamo quanto ancora queste popolazioni sopravviveranno alla civiltà occidentale.
Mi sento davvero fortunata ad aver avuto la possibilità di incontrarli. Mi hanno detto che è molto importante che si parli delle loro tradizioni e delle loro abitudini.
E così imparano a volermi bene, anche se non sono come loro. Ho espresso il mio desiderio di imparare la loro lingua! Mi hanno risposto che ci vuole tempo e che in tal caso io dovrei vivere un po' di tempo con loro e condividere la vita in un loro villaggio!!!
Forse un giorno.....In verità, io il salto nel vuoto non sono mai riuscita a farlo...e così inspiro tutto l'ossigeno che posso quando vivo queste realtà e lo trattengo. Sognando l'Africa, per tutto il tempo che mi separa dalla stessa, ricordo spesso tutte le sensazioni provate nel mio percorso di viaggio.
Un ultimo brindisi al tramonto africano, in cima ad una duna rossa, dopo aver avvistato una coppia di leoni del deserto del Kalahari, mentre riposavano tra la sterpaglia: sono più spettinati degli altri.....e più selvaggi forse a causa dell'ambiente ostile.
(Le pitture rupestri sparse in tutte le grotte e tra le rocce nella maggior parte dell'Africa australe sono prodotte dagli antichi San. Lo stile è simile a quello delle pitture rupestri preistoriche del resto dell'Africa e dell'Europa, dalla Tanzania al Sahara, dal Nord Africa alla Spagna e Francia. La ovvia analogia nella forma e nello stile non è considerata abbastanza evidente per dimostrare una connessione etnica o persino culturale tra loro. Oggi i Khoisan non producono più pitture di questo tipo.
Vi sono comunque resoconti che testimoniano la produzione di questi dipinti durante l'ultimo secolo. Le incisioni sembrano più antiche. In generale essi riproducono animali: gazzelle, antilopi, elefanti, struzzi. Nel Sahara gli animali selvaggi dipinti permisero di datare le pitture. Ma questo non è sempre possibile nell'Africa australe, dove gli animali sono sempre i medesimi. La stratigrafia del colore mostra che i dipinti monocromi precedono quelli bicromi, e policromi. L'esatta riproduzione degli animali può essere a volte sorprendente così pure le figure umane. I cacciatori sono dipinti o soli o in gruppo, ma catturano l'agilità dei movimenti. Spesso si riconosce l'origine etnica delle figure: i Khoisan sono piccoli, riprodotti con il giallo, rosso e marrone, i Bantu sono alti e neri; gli Europei indossano vestiti e sono armati.
Il periodo pre-Bantu risale ad un periodo anteriore al 1600; le figure europee risalgono ai secoli XVIII e XIX. Non abbiamo bisogno di ipotizzare alcunché circa i riferimenti culturali, storici, quando si interpretano queste rappresentazioni. Per esempio, gli abiti sumeri di alcuni dipinti non sono affatto sumeri ma mostrano il modo in cui gli abitanti delle montagne del Lesotho si vestono. Allo stesso modo, la figura inusuale nella Gole di Tsinab in Namibia, chiamata "La dama bianca di Brandberg", è senza alcun dubbio un uomo africano ricoperto di decorazioni bianche secondo la tradizione di molti popoli africani. La spiegazione per cui i dipinti avessero una motivazione magica sembra plausibile, ma dobbiamo riconoscere lo stile, al di là della abilità tecnica, ed il senso estetico utilizzato dai Khoisan che evidenzia il contatto con la natura e con un alto grado di partecipazione sociale. 
La stabilizzazione dei Bantu in Africa australe è abbastanza recente. Risale ai primi secoli prima di Cristo. Comunque i movimenti migratori, con la formazione di nuovi gruppi etnici, non era ancora finita nel 19esimo secolo. 
Durante i continui studi, molti resti archeologici sono venuti alla luce in relazione ai più antichi movimenti, i più impressionanti e più conosciuti dei quali sono quelli nello Zimbabwe. I Bantu, comunque, si spinsero in avanti, espandendo i lori territori alle estremità Sud dell'Africa mescolandosi con i Khoisan che, trovandosi in minoranza, andarono verso Nord).


Le antichissime immagini scolpite sulla roccia nel cuore del Damaraland, Namibia. L’incontro con le stupende incisioni rupestri di Twyfelfontein
C’è qualcosa di profondamente commovente nel trovarsi davanti al segno lasciato dall’uomo di un passato remoto e nel cercare di capirlo, di immaginare la mano che lo ha tracciato. Qui, sulle rocce di Twyfelfontein, c’è anche l’impronta di una di quelle mani di seimila anni fa che hanno disegnato con mano sensibile leoni, giraffe, rinoceronti e altri animali sulla roccia rossa di quello che oggi è il Damaraland. E’ un’impronta piccola, ma è quella di un uomo, non ci si può sbagliare. In questa regione la roccia parla e le occasioni di ascoltare le storie che racconta sono innumerevoli. Le incisioni rupestri di Twyfelfontein sono tantissime: questa vallata riarsa e stupenda è infatti ricoperta da 2500 opere, forse di più. E non sono le uniche, nel Damaraland. A poco più di cento chilometri da qui c’è il massiccio del Brandberg, famoso per la White Lady.
Le figure create sulla roccia sono talmente sinuose e vicine l’una all’altra che sembrano muoversi. Quando le guardo con la coda dell’occhio si mettono a danzare come in un cartone animato: orici, struzzi, giraffe, springbock, kudu , elefantiche si confondono l’uno con l’altro. Ma no, non si muovono, se non nella mia mente. “Immagini propiziatorie per la caccia” avevo letto. “E’ come una mappa” ci spiega, invece la nostra guida, una simpatica ragazza Damara che si diverte a farci sentire gli schiocchi tipici della sua lingua. E’ un copione che ripete sicuramente ogni giorno, ma che non sembra annoiarla neanche oggi che il suo pubblico è ridotto a una coppia di italiani e una di tedeschi. Ci mostra sulla pietra, accanto agli animali, cerchi, segni che potrebbero essere laghi e fiumi: indicazioni geografiche per trovare gli animali e il cibo.
Erano immagini con un significato magico, spiegavano invece i pannelli all’ingresso del parco: ecco gli animali con le zampe allungate che mostrano la tensione verso un altro mondo, ecco le spirali che aiutano a entrare in trance, ecco il leone con la coda che si trasforma in una mano. Rappresenta lo sciamano. Forse queste figure erano davvero tutto questo.
Davanti a queste immagini mi sembra quasi di parlare con questi uomini, avverto una connessione che attraversa lo spazio e il tempo. E’ quasi come comunicare col passato, una breve conversazione, con la differenza, rispetto a una normale chiacchierata, che non ci sono risposte. Non c’è modo di capirsi, solo di riconoscersi, come se ci gridassimo dalle due sponde di un fiume, senza sentire quello che diciamo.
Ma siamo uomini, camminiamo e abbiamo camminato su questa terra e c’è qualcosa che ci lega.
I primi a tracciare questi graffiti appartenevano, secondo gli archeologi, alla cosiddetta cultura di Wilton. Poi,  qualche migliaio di anni dopo, sono arrivati i khoi, affini ai san, altro popolo antichissimo (ci sono elementi che fanno risalire la loro cultura a oltre 40mila anni fa, conferma Wikipedia) che ancora oggi vive in Namibia, anche se da tutt’altra parte, a est. Sono detti anche bushmen (boscimani), gli uomini delle terre selvagge.
Il tedesco che è con noi fa alla guida una domanda interessante, ma in fondo ingenua: “I san vengono mai a vedere queste incisioni dei loro antenati?”. La risposta è netta: “No, in dieci anni non ne ho mai visto uno… hanno le loro vite. E altri problemi a cui pensare”.

Il nome Twyfelfontein, che significa ‘fonte incerta’ in afrikaans, risale a David Levin che alla fine degli anni quaranta si trasferì nella valle con la famiglia. L’unica sorgente in zona era molto debole e fonte di costante preoccupazione. Fu sempre Levin a ‘scoprire’ le incisioni, la cui presenza era però già nota alle popolazioni locali. Twyfelfontein dal 2007 è patrimonio dell’umanità Unesco.

 


La Dama bianca della Namibia


La Namibia, che ha recentemente raggiunto l'indipendenza, non può essere trattata distintamente dal Sud Africa, da un punto di vista storico, geografico ed etnico. Particolarmente attraente e misteriosa appare la cosiddetta White Lady, una delle più affascinanti pitture rupestri dei San, conosciuti da noi come Boscimani, la più antica popolazione dell'Africa australe. In passato, la Dama Bianca ha suscitato molte controversie e sono state formulate numerose teorie contrastanti per spiegare la sua presenza nel Brandberg. Tra le figure umane emerge chiaramente differente una figura umana di pelle bianca, che 1.800 anni fa, data cui sembra risalire la pittura rupestre, non era possibile riscontrare nell'area. Nel Brandberg si contano circa un migliaio di pareti rocciose dipinte, per un totale di oltre 45.000 figure, soprattutto di uomini e animali. Il complesso pittorico della Dama Bianca si trova in una grotta chiamata "Maack Shelter" ("rifugio di Maack") dal nome del cartografo che per primo trovò il dipinto in epoca coloniale tedesca. Il complesso pittorico della Dama Bianca comprende numerosi soggetti, sia umani che animali (probabilmente orici) e misura approssimativamente 5,5 x 1,5 m. La Dama Bianca (in inglese The White Lady, in tedesco Weisse Dame) è un celebre dipinto rupestre situato in Namibia, sui monti Brandberg, nella zona del Damaraland. L'archeologia moderna attribuisce in genere il dipinto ai Boscimani (San), ma altri dettagli della sua origine non sono noti.
Il dipinto si trova nel cuore del Brandberg, grosso modo sulla strada fra Khorixas e Henties Bay, nei pressi della cittadina di Uis. Il sito è raggiungibile solo a piedi, al termine di un percorso di circa 40 minuti che segue una stretta valle nota come Gola di Tsisab (Tsisab Gorge. Il dipinto venne scoperto nel 1918 dall'esploratore e topografo tedesco Reinhard Maack, che stava cartografando il Brandberg per conto delle autorità coloniali tedesche. Maack fu impressionato dal disegno, e ne fece diverse copie, che in seguito inviò in Europa. Egli descrisse la figura con l'arco come un "guerriero", e annotò nei suoi appunti che "lo stile mediterraneo ed egizio di queste figure è sorprendente". Nel 1929, gli appunti di Maack giunsero nelle mani dell'abate francese Henri Breuil, antropologo e archeologo (ricordato tra l'altro per i suoi ritrovamenti nelle grotte di Lascaux), che era in visita a Città del Capo.
Sulla base dei disegni di Maack, Breuil osservò che il dipinto aveva forti analogie con alcune figure di atleti ritrovate a Cnosso, e suggerì che potesse essere opera di un gruppo di coloni provenienti dal Mediterraneo orientale. Fu ancora Breuil a interpretare il soggetto del dipinto come "dama", lettura da cui deriva il nome attuale con cui l'opera è nota. Breuil riuscì a visitare il sito nel 1945, e negli anni successivi pubblicò le sue osservazioni e congetture prima in Sudafrica e poi in Europa.
Il lavoro di Breuil diede origine a una serie di teorie che attribuivano il dipinto a una misteriosa presenza di popoli di origine europea o mediorientale in Namibia in tempi antichi. Alcuni autori sostennero in particolare che esso poteva risalire a un'antica colonia fenicia, teoria che è stata ripresa anche da autori recenti come lo storico zulu Credo Mutwa. Nella seconda metà del XX secolo la maggior parte delle teorie sulle influenze mediterranee nello sviluppo dell'Africa subsahariana vennero gradualmente abbandonate. La paternità del dipinto della Dama Bianca venne quindi attribuita più semplicemente ai boscimani (che popolavano l'area fin dalla preistoria, e a cui erano già stati attribuiti in modo meno controverso gli altri dipinti del Brandberg e l'arte rupestre presente in altri siti del Damaraland, come Twyfelfontein).
Alle diverse teorie sulla paternità dell'opera sono state associate nel tempo ipotesi molto diverse sulla sua datazione. L'analisi cromatografica ha determinato che il dipinto non può avere meno di 1800 anni, in quanto risulta totalmente privo delle proteine originariamente presenti nei pigmenti utilizzati per dipingerlo. Si ritiene che il gruppo della Dama Bianca rappresenti complessivamente una danza rituale, e che la figura predominante - la "Dama" - sia in realtà uno sciamano.
Lo sciamano indossa coperture decorative alle braccia, ai gomiti, alle ginocchia, al bacino e al petto, e forse anche un indumento decorativo al pene. In una mano regge un arco, e nell'altra quello che potrebbe essere un sonaglio o una specie di calice. Tutte le altre figure umane indossano qualche tipo di calzatura, e uno degli orici è stato rappresentato con gambe evidentemente umane. Un'altra interpretazione è che la Dama sia un giovane col corpo cosparso d'argilla bianca secondo una procedura rituale, forse connessa alla circoncisione.
I materiali usati per realizzare il dipinto sono probabilmente quelli tipici della pittura boscimane, ovvero principalmente polveri di pietra ferrosa ed ematite, ocra, carbone, manganese, e carbonato di calcio, miscelati con bianco d'uovo e altri liquidi di origine organica come aggreganti. Tutto il complesso pittorico ha subìto un notevole deterioramento dai tempi del suo ritrovamento. In passato, i turisti talvolta bagnavano la roccia per far risaltare meglio i colori nelle fotografie, e l'immagine si è rapidamente sbiadita. Oggi l'intero sito è un'area protetta, con lo status di "patrimonio nazionale" della Namibia, e può essere visitato solo insieme a guide autorizzate.

 

 

L’antica Via della Seta

 Il nome la Via della Seta si deve al Geografo tedesco Ferdinand Von Richthofen, (1883–1905), che nell’introduzione alla sua opera, “Tagebucher aus China”, (1877), utilizza il termine Seidenstraße, la «Via della Seta», per definire dal punto di vista storico, geografico, sociale ed economico quell’insieme di percorsi carovanieri e rotte commerciali, marittime e fluviali che congiungevano l’Asia Orientale, in particolare la Cina, al Vicino Oriente ed al bacino del Mediterraneo.


Si trattava di almeno 5 vie commerciali principali, alle quali nel corso del tempo si associarono deviazioni secondarie. Il ramo primario aveva la sua partenza dalle antiche capitali Cinesi Xi’an e Luoyang, nel bacino del Fiume Giallo, attraversava lo storico ed impervio corridoio del Gansu, raggiungendo la Cina occidentale nella regione dello Xinjiang per poi proseguire verso l’Asia Centrale e quindi l’Europa.

Dalla Cina e dall’Oriente arrivarono in Europa pietre preziose, spezie, profumi, medicinali, bestiame, porcellana, giada, oggetti in bronzo e lacca, specchi. Miglio, riso, tè, grandi invenzioni che segnarono profondamente la storia occidentale come la carta e la polvere da sparo.
Naturalmente in grandi quantità, tanto da attribuire il nome all’intero sistema delle vie di comunicazione, prodotti in Seta, la merce per eccellenza, oggetto per secoli di un vero e proprio segreto della civiltà cinese, la merce più preziosa, leggera, facile da trasportare.
UNA MERCE PAGATA A PESO D’ORO, SOPRATTUTTO IN EPOCA ROMANA, TANTO DA OBBLIGARE IL SENATO ROMANO ALL’EMANAZIONI DI EDITTI PER IMPEDIRNE L’USO AL FINE DI EVITARE PROBLEMI FINANZIARI.
In senso contrario Dall’Europa/Asia arrivarono in Cina metalli preziosi, lana, pelli di animali, tessuti di cotone, ricami in filo d’oro, bestiame cavalli, cammelli e pecore, prodotti agricoli quali il frumento, fagiolini, erba medica, sesamo, cipolle, cetrioli, carote, melograni, uva, pesche, fichi, angurie ma anche religioni e scuole di pensiero quali il Buddismo, l’Islam ed il Cristianesimo.
viaggiatori sulla via della setaLa nascita della Via della Seta può essere fatta risalirà a più di 2000 anni fa quando per volere dell’Imperatore Wudi, (156/87 a.C.), della dinastia Han, (206 a.C./220 d.C.), fu attuata una “rivoluzionaria” apertura da parte dell’allora protetta ed ancora sconosciuta economia e società Cinese, verso mercati limitrofi, aprendo rotte commerciali con l’Asia Centrale e gradualmente verso l’Europa.
La nomina del generale Zhang Qian come ambasciatore dell’Impero in Asia Centrale aprì di fatto questo momento storico che si protrasse fino al 1368 d.C. quando, con la caduta della dinastia mongola Yuan, (1279/1368), le vie di comunicazioni non risultarono vie ormai più sicure e vennero sostituite gradualmente da commerci marittimi più veloci.
ALCUNE TAPPE STORICHE DELLA VIA DELLA SETA:

1000 a.C. – Dinastia Shang, i mercanti del popolo Yuezhi del Xinjiang creano i primi percorsi commerciali lungo il cosiddetto “corridoio del Gansu”. La Seta viene portata verso la Siberia ma si ipotizza, da ritrovamenti di fibre seriche in una tomba di un faraone egizio databile intorno al 1070 a.C., che ci fossero già scambi commerciali lungo la Via della Seta meridionale;
600 a.C. – Dinastia Zhou, (1045/221 a.C.), iniziano i primi scambi commerciali con l’Europa di oro, giada e seta. Ritrovamenti di tracce di seta in una tomba in Germania risalgono già al VI secolo a.C.;
138 a.C. – Zhang Qian esplorò e rese sicure le rotte commerciali che da Xi’An si spingevano a Ovest, debellando il problema dei predoni che assalivano regolarmente le carovane;
220/581 d.C. – (Epoca dei Tre Regni) – cade la dinastia Han. Disordini sociali e scarso controllo militare determinano una brusca interruzione del commercio lungo la Via della Seta;
618/671 – Dinastia Tang. Le tribù turche che avevano preso il controllo dei mercati e di quello della seta in particolare, vengono conquistate e viene riaperto il canale commerciale diretto con l’Europa;
629 – Il monaco Xuanzang, percorre la Via della Seta fino all’India creando le condizioni per una notevole crescita delle relazioni con questa area geografica. Nasce la leggenda del “Viaggio in Occidente” uno dei classici della letteratura cinese;
1271/1368 – Il leggendario condottiero mongolo Gengis Khan conquista i vari piccoli stati dell’Asia centrale ed orientale, unificando l’intero territorio. Con il nipote Kublai Khan fonda la dinastia Yuan. La Via della Seta viene riaperta e i commerci rifioriscono.
marco polo vie commerciali
1269 –Marco Polo (1254/1324), “Quivi si fa molta seta” con queste parole Marco Polo descrive nel Milione l’economia della provincia cinese del Catai. Leggendari i suoi lasciapassare emessi dal governo Tuan che gli permettono di spostarsi liberamente in queste regioni in un momento storico nei quali i commerci ebbero il loro massimo splendore: pietre preziose, spezie, profumi, medicinali, bestiame, schiavi ed in grandi quantità prodotti in Seta;
1368/1644 – Cade l’impero Tuan e nasce quello Ming. La tecnica della produzione di seta si era ormai diffusa nell’Europa, prima in Italia e intorno al 1400 anche in Francia nel distretto di Lione. L’impero Ming sceglie una politica di estrema chiusura e gli scambi sulla Via della Seta definitivamente interrotti

Già in epoca romana questo lunghissimo itinerario attraversava tutta l’Asia, dalla sua estremità più orientale, fino ai confini con il continente europeo.


I mercanti cinesi

Per centinaia e centinaia di anni, i mercanti cinesi che commerciavano con l’Occidente, cioè con l’Europa, dovevano percorrere l’antica Via della Seta.

Erano 8 000 chilometri di pianure senza fine, alte montagne, passi pericolosi da attraversare, su cammelli e con carri trainati da cavalli, dall’Oceano Pacifico al Mar Mediterraneo. Le difficoltà erano molte: mesi o anche anni lontano da casa, fatica, cattivo tempo e banditi sempre in agguato. Ma i mercanti che si affrontavano questi rischi riuscivano poi a ottenere grandi guadagni.

 

Tappe importanti erano Samarcanda (oggi in Uzbekistan) e Bisanzio (poi Costantinopoli, l’attuale Istanbul, in Turchia).

Giunti al Mediterraneo i mercanti percorrevano, a volte via mare a volte via terra, gli ultimi chilometri per arrivare a Roma e in altre città importanti dell’impero romano. Potevano così finalmente vendere i propri preziosi prodotti, primo fra tutti la seta. Infatti, mentre la produzione di seta dai bozzoli dei bachi era già conosciuta in Cina dal 3000 a.C., in Europa l’origine di questo bellissimo tessuto era ancora sconosciuta. Ma i patrizi romani erano innamorati di questa stoffa tanto morbida e luminosa…


I mercanti europei

Durante il Medioevo alcuni mercanti europei percorsero la Via della Seta al contrario, ma solo una spedizione veneziana, che comprendeva il giovanissimo Marco Polo (quando partì aveva 17 anni, ma quando tornò ne aveva più di 40), riuscì ad arrivare fino in Cina. Il racconto della sua lunga visita in questo Paese, descritta nel libro Il Milione, restò a lungo per gli europei la base della conoscenza della civiltà cinese.

 

Commercio e scambio di idee


L’importanza della Via della Seta non era infatti solo commerciale, perché permise soprattutto l’incontro di uomini e di culture. Popoli diversissimi tra loro entrarono in contatto e cominciarono a conoscersi. Si scambiarono così anche usi, costumi, scoperte e invenzioni. Si comunicarono idee legate alla matematica, all’astronomia, alla tecnica, alla religione.

 


Le nuove Vie della Seta

 

Oggi il governo cinese sta dando una nuova vita a questa antica via di comunicazione.

 

Vie della Seta

La Cina è diventata la seconda potenza economica del pianeta, dopo gli Stati Uniti, e commercia ormai con tutti i Paesi del mondo. Così, ha lanciato la “Nuova Via della Seta” che ha l’obiettivo di creare collegamenti tra Cina ed Europa, ma anche con l’Africa e il resto dell’Asia. Questo grande progetto di investimenti e cooperazione economica coinvolge decine di Paesi, due oceani e diversi mari, oltre 3 miliardi di persone e un terzo della ricchezza mondiale.

Per far viaggiare le merci e la tecnologia attraverso questa moderna Via della Seta si costruiscono nuovi porti, nuove strade, nuove ferrovie, utilizzando le più avanzate conoscenze della tecnica.

 

Via terra e via mare

Dovremmo in realtà parlare di Vie della Seta al plurale, perché c’è un itinerario terrestre e uno marittimo. Quest’ultimo parte dall’Oceano Pacifico per raggiungere la città di Venezia, attraversando l’Oceano Indiano, il Mar Rosso e il Mar Mediterraneo. Da Venezia, una via terrestre porta poi fino ai porti del Mare del Nord.

Come in passato, questa nuove vie dei commerci hanno all’inizio una motivazione economica, ma permettono poi anche di unire maggiormente i popoli, mettendo in contatto diverse conoscenze, modi di vivere e di pensare. Se sono fatti nel rispetto reciproco, i traffici mercantili sono un importante elemento di pace per i territori che attraversano.

Anche il commercio internazionale è uno strumento importante per raggiungere i traguardi di collaborazione tra i diversi Paesi che si è posto l’Obiettivo 17 dell’Agenda 2030.

 

 


LA NUOVA VIA DELLA SETA

La nuova Via della Seta più che un progetto rappresenta un sistema complesso attraverso il quale il governo di Pechino intende consolidare e rilanciare l’interconnessione infrastrutturale e commerciale Cinese con il continente Euroasiatico.
nuova via della seta moderna

Il progetto BRI, “Belt and Road Initiative”, corrispondente all’acronimo inglese OBOR, (One Belt, One Road), annunciato nel 2013 dal presidente Cinese Xi Jinping e promosso dal ministro Li Keqiang, denominato come “La nuova Via della Seta”, richiamando l’epopea degli scambi dove la Seta rappresentava il fulcro di un sistema in grande espansione, si pone l’obbiettivo di realizzare di fatto ciò che durante il XIX congresso del Partito comunista cinese venne definito ”The Chinese dream is a dream about history, the present and the future”

ALCUNI DATI SUI 65 PAESI COINVOLTI

63% della popolazione mondiale 4,4 miliardi di persone;
29% del Pil mondiale per 21 miliardi di Dollari;
75% delle riserve energetiche.
3 principali direttrici

Dall’Europa attraversando Kazakhstan, Russia e Polonia verso il Mar Baltico;
Ripresa della via Transiberiana;
Più a Sud più la direttrice per il Golfo Persico, toccando Islamabad, Teheran e Istanbul.
2 rotte marittime

Dal porto cinese di Fuzhou attraverso l’Oceano Indiano e il mar Rosso fino all’Africa congiungendo i porti Europei meridionali (Italia e Grecia);
Dal porto cinese di Fuzhou verso le isole del Pacifico.
Una serie di gasdotti ed oleodotti.
900 miliardi di Dollari di investimento previsto su due macro-progetti e direttrici complementari

Silk Road Economic Belt del tratto terrestre;
Maritime Silk Road tratto marittimo.
Il più grande progetto di investimento mondiale pari almeno 12 volte l’European Recovery Program, meglio noto come Piano Marshall.
Costituzione della Banca Asiatica d’Investimento per le Infrastrutture (AIIIB )con un capitale di 100 miliardi di Dollari

 

 

 

 


Un progetto ambizioso e colossale che proprio per le sue dimensioni ed implicazioni non solo strutturali ma anche economiche e sociali è e sarà a maggior ragione oggetto di continue ridefinizioni nonché di pressioni e contrapposizioni politiche economiche e sociali da parte delle altre potenze economiche mondiali (Europa/USA/Russia/India).

 

Dubai, lungo la Via della Seta

Tra tutte le metropoli arabe del Golfo, quella più presente nell’immaginario collettivo è, senza dubbio, Dubai. Il suo ruolo di grande hub per i trasporti globali, le avveniristiche costruzioni, la mole di eventi che ospita (a cominciare dalla prossima edizione di Expo) sono alcuni degli aspetti che rendono la città emiratina l’esempio per eccellenza delle ambizioni dei ricchissimi sceicchi dell’area. Rispetto a Doha o Abu Dhabi, capitale nonché rivale interna negli Emirati arabi uniti, Dubai è la città che meglio è riuscita ad affrancare il proprio benessere dalla dipendenza dagli idrocarburi, diventando addirittura, nell’arco di un paio di decenni, una rinomata meta turistica.
Il successo di Dubai, città capitale dell’omonimo Emirato, è innanzitutto dovuto alla struttura federale degli Emirati Arabi Uniti, che ha consentito ai regnanti locali di perseguire una politica di sviluppo del tutto indipendente dal resto dello Stato e distinta rispetto all’altro grande emirato del Paese, quello di Abu Dhabi. Se per la capitale il motore dello sviluppo è rappresentato, in linea con il resto della regione, dall’esportazione di petrolio e gas naturale, Dubai si è invece concentrata sullo sviluppo del commercio globale. La competizione tra i due emirati non ha mai causato crisi all’interno dello Stato; al contrario, la loro differente natura e la mutua collaborazione hanno permesso agli Emirati Arabi Uniti di prosperare e diventare il più importante tra i Paesi arabi del Golfo dopo l’Arabia Saudita.
La ricchezza della città è seconda solo alla smisurata ambizione dei suoi governanti. Un quadro chiaro su quello che Dubai intende diventare nei prossimi decenni è stato recentemente tracciato dal suo leader, nonché primo ministro e vicepresidente degli Emirati Arabi Uniti, lo sceicco Mohammed bin Rashid Al-Maktoum, noto a Dubai semplicemente come Big Mo. Al-Maktoum è stato tra i principali artefici del miracolo di Dubai e, in occasione dei cinquant’anni dal suo primo incarico di governo, ha voluto tracciare un percorso in 9 tappe per la crescita futura dell’Emirato. Nel primo punto del documento viene sottolineato che già oggi Dubai ospita il più grande aeroporto internazionale del mondo e che nei prossimi dieci anni è previsto che saranno un miliardo le persone che vi transiteranno. Anche sul fronte marittimo la situazione si presentata come ottimale, con collegamenti portuali con centinaia di destinazioni. Il punto nodale del documento è molto ambizioso e allude nientemeno che a un ritorno ai fasti della Via della seta nello sviluppo del commercio globale. Storicamente, infatti, una delle principali direttrici della Via delle Seta lambiva proprio le sponde arabe del Golfo Persico.
Il progetto che oggi si richiama a quel mitico percorso del passato, la Belt and Road Initiative (BRI) promossa da Pechino, prevede invece due tracciati principali: il primo, terrestre, raggiungerebbe l’Europa attraverso l’Asia Centrale, l’Iran, la Turchia e la Russia; il secondo, marittimo, passa per il Sud-Est asiatico, raggiunge i porti africani sull’Oceano Indiano ‒ costruiti con fondi cinesi ‒ per giungere infine nel Mediterraneo attraverso il Canale di Suez. In entrambi i casi, la zona del Golfo Persico sembra non essere coinvolta dalla Belt and Road cinese. Oltre che per fattori logistici, Dubai pare essere sfavorita da fattori politici: gli Emirati Arabi Uniti sono tra i più fidati alleati degli Stati Uniti, in accesa rivalità con l’Iran, alleato storico della Cina. Nonostante queste premesse, gli Emirati Arabi Uniti, con in testa proprio Dubai, sono riusciti negli anni ad attirarsi simpatie e finanziamenti dalla Cina e a rientrare nei faraonici piani di collegamento commerciale progettati da Pechino.
La Cina costituisce il partner commerciale principale di Dubai, con un giro d’affari da 60 miliadi di dollari nel 2017. Se da un lato la Cina non può lasciarsi sfuggire la possibilità di collegare la propria Belt and Road al terzo polo d’esportazione mondiale dopo Hong Kong e Singapore, dall’altro Dubai, sempre più desiderosa di divenire snodo cruciale dei traffici globali, non può permettersi di rimanere fuori dalla rete di collegamenti cinese. Uno dei più grandi operatori portuali di Dubai, la DP World, ha non a caso annunciato una partnership con la Zhejiang Provincial Seaport Investment & Operation Group per la costruzione di una stazione logistica per la Belt and Road a Dubai, con l’obiettivo di offrire servizi adeguati al flusso di merci che transiterà nei porti della città emiratina.
Se c’è però un aspetto del potenziale di Dubai che interessa molto la Cina è quello che riguarda i progetti di investimento sulle energie rinnovabili. Nell’estate del 2018 il Fondo cinese per la Via della Seta ha annunciato di voler acquisire un quarto della proprietà della futura, enorme centrale solare che verrà costruita nei pressi di Dubai. L’accordo è stato siglato durante la visita di tre giorni del presidente cinese Xi Jinping negli Emirati Arabi Uniti, che ha anche portato all’annuncio di investimenti cinesi nell’area per circa 20 miliardi di dollari. Soltanto pochi mesi prima, la Shangai Electric aveva annunciato un finanziamento per la costruzione della centrale. Musica per le orecchie di Al-Maktoum, il cui piano di sviluppo energetico prevede un significativo aumento della quota proveniente da fonti rinnovabili nei prossimi anni: dal 25% nel 2030 fino al 75% nel 2050.
Al netto però dei proclami, e nonostante l’impressionante crescita conseguita in termini di potere, prestigio e ricchezza, la strada da fare per Dubai per passare dall’essere una ricca metropoli a un polo d’attrazione globale appare ancora lunga. Il report della Banca mondiale che misura, in base a diversi parametri, la forza “logistica” dei vari Paesi pone nel 2018 gli Emirati Arabi Uniti subito al di fuori della top 10 globale. Un risultato incoraggiante e in leggera crescita rispetto al 2016 ma non ottimale se si pensa che la rivale Singapore, da sola, si colloca al settimo posto.
Nel XXI secolo la logistica delle merci certamente non costituisce il solo fattore del successo per un polo economico e commerciale. Per questo uno degli articoli della carta d’intenti dello sceicco vede Dubai come futuro punto di riferimento per il commercio virtuale. L’obiettivo è creare una vera e propria città virtuale per il commercio che induca ben 100.000 imprese a operare al suo interno. Allo stato attuale tuttavia, se si prende il settore economico che più tra tutti si presta ad essere liquido e intangibile, quello finanziario, Dubai si posiziona in una situazione non troppo diversa rispetto al suo potenziale logistico. Il Global Financial Index la colloca infatti al 15esimo posto a livello globale; in crescita, ma ancora distante dai poli finanziari più importanti del pianeta.
Del resto, pur avendo saputo sfruttare a proprio vantaggio la crescita economica della regione legata al commercio degli idrocarburi, Dubai sperimenta anche i limiti di un paradigma di crescita estremamente legato alle performance dei suoi vicini. A differenza di Singapore, Dubai non può vantare una posizione realmente cruciale nei traffici commerciali del pianeta e se il Golfo non fosse tanto ricco grazie a petrolio e gas, con ogni probabilità gli investitori attratti da Dubai sarebbero molti di meno. Questo è un aspetto da affrontare nel quadro di futuri scenari “post-petroliferi”. La città sarà davvero in grado, con le sue sole forze, di conservare, se non persino ampliare, il proprio potenziale commerciale?
La diretta concorrenza di metropoli vicinissime, diverse per molti aspetti ma accomunate da una grande opulenza, è un altro aspetto potenzialmente limitante per Dubai. Tra Doha, Kuhait city, le grandi città saudite e, naturalmente, la rivale Abu Dhabi, sono molti i rischi che nel prossimo futuro Dubai, piuttosto che splendere di luce propria, possa adeguarsi a diventare solo una parte di un complesso più ampio. A questo contribuisce l’ultimo aspetto di criticità, probabilmente il più importante. Big Mo sa bene che non avendo alle spalle un grande Paese disposto a supportarne la crescita, il policy making cittadino è essenziale per vincere le sfide che ha posto alla sua creatura. Per questo ha promesso di redigere una carta programmatica della città ogni anno; una vera e propria versione in piccolo dei documenti strategici pubblicati dagli Stati.
Dubai però non è uno Stato indipendente. Nonostante la grande autonomia di cui gode, gli obiettivi della città non sono sempre coincidenti con quelli del resto del Paese, e soprattutto con quelli di Abu Dhabi, che invece è al meglio espressione delle ambizioni di tutti gli (altri) Emirati. La crisi finanziaria del 2008 pose Dubai, già al tempo proiettata nel mercato finanziario, sotto l’occhio vigile di Abu Dhabi e di tutto il Paese, nel timore che si dovesse attingere alla ricchezza ottenuta dagli idrocarburi per fare fronte alle perdite subite dalla città. Se finora Dubai ha potuto contare sul supporto di tutti gli Emirati, con il crescere delle ambizioni della città e del suo leader, potrebbe essere vista sempre più come una fonte di instabilità e di rischio.


La via della seta ed i suoi effetti in Italia


L’arte della seta, una storia millenaria. Ha radici antichissime dovute alle relazioni dell’Impero romano con la Cina.
L’arte serica ha due riferimenti: i filamenti del baco e l’estro dell’uomo.
Il termine “la via della seta” è di recente acquisizione e si attribuisce a F. Richthfen, geologo tedesco. Nel 1877, in un volume pubblicato sulla Cina, descrisse gli itinerari terrestri e marittimi che nel tempo hanno tracciato il collegamento tra Oriente ed Occidente.
La vita della seta è il significato di un mondo esteso, segnato dagli scambi culturali e commerciali. Fra montagne ed altipiani per il cammino di uomini, spezie e seta.
Alessandria, Chang’an, Samarcanda, Bukhara, Bagdad, Istanbul:
città principali del viaggio e le oasi lungo la via per riposare e riprendere il cammino dal passato al presente.
Marco Polo nato da famiglia di mercanti veneziani, molto giovane partì con il padre, percorse la via della seta e raggiunse la Cina nel 1271. Ad egli si attribuisce la data di inizio della via della seta dall’Oriente in Italia
Nel periodo del Medioevo le Repubbliche marinare ebbero prosperità economica, grazie alle loro attività marittime.
La seta approda nei porti italiani. Un intreccio di percorsi di uomini, viaggiatori, scrittori, mercanti che fecero conoscenza con stranieri di diversa appartenenza e fede religiosa.
I cui effetti ebbero forti influenze nel commercio e non solo nella letteratura, nell’arte, origine di inaspettate fortune. Risonanza internazionale nell’ispirazione dell’opera teatrale di William Shakespeare, ambientata a Venezia.
Un incontro di uomini e merci nel corso dei secoli di cui restano tracce di frammenti di tessuti pregiati custoditi nei musei.
A metà circa del 1300 si diffuse la peste dalla Cina che dalla Siria, la Turchia, la Grecia, l’Egitto dai Balcani raggiunse le città della Sicilia ed entrò nel porto di Genova recando scarsezza di alimenti.
Gli itinerari di provenienza non erano sempre gli stessi, ed era Roma la città, a cui era destinata la seta.
Drappi pregiati provenienti dai mercanti veneziani e genovesi, abbellirono
le vesti.
La relazione tra seta e potere non si limitava alla preziosità dei tessuti e si esprimeva in simboli e segni.
Il primo era il messaggio della luminosità della veste serica, simbolo di rinascita e rivelazione divina.
La seta portò con sé un incremento alla distinzione sociale.
A Palermo superbi drappi vennero lavorati nei laboratori reali, pregiati damaschi e broccati di Catanzaro e della Colonia di S. Leucio nel casertano divennero l’inizio della tradizione.
A seguito delle dominazioni bizantine e musulmane nell’isola siciliana ed in Calabria si diffusero i segreti dell’arte serica.
Dalla filiera della seta alla produzione del nobile tessuto.
La sericoltura e la produzione tessile ebbe un rigoglioso sviluppo nel sud.
Per l’effetto indiretto delle due diverse culture, favorita dall’insediamento dei normanni e dal decadimento dei principali centri manufatturieri in Persia ed in Siria a causa delle invasioni del popolo della Mongolia.
La forte tendenza alla qualità serica divenne in voga nei secoli XV e XVI, dove la vita di corte conobbe il suo massimo splendore.
La cultura serica in Lombardia risale al 1400, quando Ludovico Sforza, volle la coltivazione dei gelsi, nutrimento con le foglie per gli allevamenti dei bachi da seta.
Nel Rinascimento venne apprezzata nei castelli dell’Italia Centrale e Settentrionale, testimonianza per l’attrazione dei beni di lusso.
La seta divenne uno status symbol nelle città e nelle regge dei principi.
I ricchi mercanti durante questo periodo, accanto ai quadri, agli affreschi indossavano abiti in seta.
La tessitura della seta venne impreziosita dall’impiego di fili d’oro e di argento esempio della vita raffinata in nome dell’arte e delle lettere.
L’abito in seta divenne un simbolo anche per l’espletamento di alcune funzioni pubbliche.
Nel ‘400 genovese ci fu la produzione dei tessuti a tinta unita, richiesta in tutta l’Europa.
I commercianti lucchesi si imposero su varie piazze straniere con la produzione serica del lampasso.
Nelle città italiane la diffusione dei drappi serici a fasce sempre più estese del ceto borghese portò, a seguito dell’età moderna a cambiamenti nella produzione dei motivi artistici intessuti nelle forme delle vesti.
Nel 400 si cercò di introdurre l’arte della seta a Torino con capitale forestiero. La diffusione della gelsicoltura, fu voluta da Emanuele Filiberto.
Successivamente il Piemonte curò l’aspetto delle sete lavorate nella produzione serica del velluto ed organzino. Nascita di una futura industria trainante
A Napoli nel ’500 con i rasi, i dobretti e gli armesini nacque la produzione delle stoffe leggere in seta. Sollecitati dalla domanda di espansione del mercato cittadino per la produzione a basso costo dei filati serici, dalla tessitura dei fiori della ginestra e del gelsomino.

Nel secolo XVI iniziarono a far parte del corredo delle giovani donne, appartenenti a ceti non privilegiati, anche scialli più raramente coperte, con fibra meno pregiata ed ottenuta dai cascami della seta.
La produzione tessile si ispirò nel ‘500 bolognese alla tessitura degli antichi filatoi della città di Lucca.
Nel XVIII secolo in particolare a Como “Città della seta” viene coltivata la produzione serica con l’uso di filande fino al 1843. Resta una traccia ben precisa dell’attività del nobile filato nel Museo della didattica della seta.
Per tutto il settecento l’abito in seta fu un lusso.
Con l’inizio del secolo XIX la seta, divenne parte in tutte le classi sociali.
La seta nell’ottocento vive momenti di fulgore nei Municipi e nella finanza dei banchieri torinesi fino a tutta la seconda metà dell’ottocento.
Occasione di studio dei primi casi di spionaggio industriale, suggestioni ed influenze nel costume e nel gusto.
Il novecento caratterizzò gli abiti da sera eleganti in certi casi come vere e proprie opere d’arte, dove gli stilisti espressero il meglio della loro creatività.
Restano testimonianze di abiti come il manto di corte di donna Franca Florio, già esposto nella Sala da ballo nel Museo della Moda e del Costume di Palazzo Pitti.
Molti riflessi e cambiamenti segnarono il corso della storia della via della seta in Italia.
In particolare in Calabria
La lavorazione serica la coltivazione dei gelsi, durante il Medio Evo contribuì in maniera importante all’economia calabrese, dando sollievo alla povertà dell’epoca.
In seguito nell’era moderna si ebbe un decadimento che per errori e manchevolezze portò all’abbandono di questa attività. Non si esclude per l’imposizione di tributi.
Restano documenti scritti nel museo dell’artigianato tessile della seta di Reggio Calabria, sulle tecniche storiche dell’allevamento dei bachi ancora usate, per produrre il pregiato filato. La seta, il suo radicamento nell’arco millenario in terra di Calabria.
Nel museo della seta e della ruralità è possibile visitare e vedere gli strumenti di lavorazione ed i macchinari per la lavorazione tessile e delle fibre naturali.
La sericoltura oggi si trova della città di Floro, poco distante dal Golfo di Squillace.
Il dato più sensibile alla flessione dell’arte della seta in Italia certamente è nella moda che cede il passo alla praticità di fibre meno costose che hanno negli abiti più vestibilità e movimento sia nel quotidiano che in viaggio.
Resta immutata la vestibilità degli abiti in seta, resistenti e belli solo per determinate occasioni.
Le opportunità occupazionali che offre la seta in Italia sono:
l’insegnamento e conoscenza dell’arte serica, le ricerche storiche negli Archivi di alcune città, la consultazione dei testi degli autori, la redazione delle collezioni di atelier privati e museali ed infine l’impiego della ricostruzione, ancora in via sperimentale, di tessuti biologici.
La via della seta è una importante relazione.
Claudia Polveroni

Il 23 aprile, secondo quanto riportato dal centro comunicati stampa del Festival Internazionale della Cultura del Centro Congressi ed Esposizioni di Roma, alla conferenza stampa dell'Agenzia Italiana Media Via della Seta, Liu Weijun, presidente dell'Italian Belt and Road International Economic, Trade and Consiglio di cooperazione culturale, ha tenuto un discorso programmatico come rappresentante del discorso ed ha risposto alla domanda del giornalista: l'Italia e la Cina sono entrambe antiche civiltà famose in tutto il mondo. La Cina e l'antica Roma avevano scambi economici e commerciali attraverso la Via della Seta 1000 anni fa. L'italiano Marco Polo arrivò in Cina come rappresentante degli uomini d'affari italiani e aprì il commercio est-ovest. In termini di scambi culturali internazionali, la nazione cinese e la nazione italiana sono entrambe nazioni amanti della pace, nonché nazioni che amano l'economia, il commercio e il commercio. Nel 2019, il presidente cinese Xi Jinping ha visitato l'Italia ed i due governi hanno firmato un memorandum di cooperazione sulla Belt and Road Initiative. È una testimonianza storica dell'ulteriore estensione della Via della Seta e dell'ulteriore sviluppo della cooperazione economica, commerciale e culturale tra i due Paesi nel nuovo contesto internazionale nella nuova era. Sarà sicuramente fornire un ampio spazio per la cooperazione tra i due Paesi sotto la nuova forma internazionale. Allo stesso tempo, Liu, in risposta alle domande del conduttore e alle preoccupazioni di altri giornalisti italiani sull'atteggiamento cinese nei confronti della guerra Russia-Ucraina e alcune ulteriori osservazioni sul commercio sino-italiano, ha espresso la sua opinione: come tutti sappiamo, i cinesi che vivono in Italia sono circa 350.000, e quindi, non approviamo il comportamento bellico e noi, come il popolo italiano, speriamo di porre fine alla guerra Russia-Ucraina il prima possibile.

Capisco l'atteggiamento e la posizione della Cina sulla guerra russo-ucraina e spero che le due parti negozino pacificamente, mostrando una posizione di una persona responsabile di un grande paese! Il popolo cinese è una nazione amante della pace e gli sforzi della Cina per la pace sono evidenti a tutti, compresi i recenti colloqui di pace tra Iran e Arabia Saudita tenutisi a Pechino, che hanno ottenuto un grande successo e aperto la via della speranza per la pace nei Paesi del Medio Orientei. È una buona prova. Allo stesso tempo, credo che tutti i giornalisti e gli amici qui oggi, guardino alla realtà, cioè che il costo della vita è aumentato drasticamente.

Ora il costo della vita è più alto rispetto a prima della guerra russo-ucraina. Ad esempio, prima era di 1.000 euro, ma ora dopo che il prezzo delle merci, compresi i costi di elettricità e gas, è aumentato, il prezzo del cibo solo arriva fino a 700 euro. Siamo diventati poveri?

Pertanto, a noi cinesi, come ai nostri amici italiani, la guerra non è vantaggiosa. Allo stesso tempo, i cinesi sono una nazione che ama promuovere la cooperazione economica e commerciale. La cooperazione economica e commerciale vantaggiosa per tutti tra Cina e Italia e la Belt and Road Initiative possono portare allo sviluppo di molti potenziali per lo sviluppo congiunto e la cooperazione tra le due parti.

L'Italia ha ottimi prodotti di marca, design industriale e tecnologia, e la Cina si sta sviluppando l'economia ad alta velocità e un grande paese con una popolazione di 1,4 miliardi ha una grande domanda di mercato per prodotti italiani e prodotti tecnologici. Allo stesso tempo, in termini di turismo, i cinesi sperano vivamente di espandere ulteriormente il consumo turistico in Italia, e anche più imprenditori cinesi vogliono investire in società internazionali.

Spero di investire in Italia. In qualità di rappresentante principale in Cina del Centro di cooperazione internazionale Belt and Road italiano, ho svolto molte ricerche e scambi con molte associazioni di imprenditori di agenzie governative italiane e molte città e organizzazioni imprenditoriali cinesi. I risultati mostrano che le due parti hanno un forte spazio di cooperazione, me compreso. Di recente e quest'anno ho lanciato una serie di progetti di cooperazione e scambio economico e commerciale Italia-Cina. Allo stesso tempo, di recente ho visto alcuni media italiani avere alcuni rapporti negativi sulla comunità cinese, tra cui l'evasione fiscale cinese e il riciclaggio di denaro. Penso che questo sia un comportamento individuale e non rappresenti l'intera comunità cinese in Italia. Ci sono immigrati di più etnie e italiani in Italia. Rispettiamo tutti le leggi e i regolamenti italiani senza discriminazioni in Italia. I cinesi che vivono in Italia lavorano sodo e si integrano costantemente nel mainstream locale. Nel complesso, noi cinesi stiamo lavorando sodo per contribuire al progresso della società italiana e allo sviluppo economico.

Atti illegali individuali non devono causare un attacco alla comunità cinese.

Credo che anche tutti i miei amici, da amici italiani con una coscienza, saranno d'accordo con me.

Ora, ho visto rapporti correlati sugli scambi tra polizia italiana e cinese. Qui condividerò la mia esperienza personale. Nel 2019 c'è stato un incidente a Roma in cui dei connazionali cinesi sono stati fucilati e derubati da malintenzionati. I miei compatrioti avevano la sensazione di una grave crisi nella pubblica sicurezza. In qualità di leader cinese, ho immediatamente contattato gli agenti di polizia italiani e gli agenti di polizia cinesi che stavano effettuando scambi di polizia in Italia, e li ho invitati a partecipare all'incontro dell'evento, che ha ricevuto una buona risposta sociale e tutti sono d'accordo! Allo stesso tempo, alcune persone hanno chiesto informazioni su Cina e Taiwan. Sono qui per dirvi che Taiwan e la Cina sono come una famiglia. Ognuno è una famiglia. Se uno dei bambini dice che non fa parte della famiglia, quando sorge un conflitto in una famiglia, la famiglia dovrebbe sedersi e discuterne per risolverlo. Secondo me, un paese e una famiglia sono la stessa cosa!

l nome la Via della Seta si deve al Geografo tedesco Ferdinand Von Richthofen, (1883–1905), che nell’introduzione alla sua opera, “Tagebucher aus China”, (1877), utilizza il termine Seidenstraße, la «Via della Seta», per definire dal punto di vista storico, geografico, sociale ed economico quell’insieme di percorsi carovanieri e rotte commerciali, marittime e fluviali che congiungevano l’Asia Orientale, in particolare la Cina, al Vicino Oriente ed al bacino del Mediterraneo.

Si trattava di almeno 5 vie commerciali principali, alle quali nel corso del tempo si associarono deviazioni secondarie. Il ramo primario aveva la sua partenza dalle antiche capitali Cinesi Xi’an e Luoyang, nel bacino del Fiume Giallo, attraversava lo storico ed impervio corridoio del Gansu, raggiungendo la Cina occidentale nella regione dello Xinjiang per poi proseguire verso l’Asia Centrale e quindi l’Europa.


Dalla Cina e dall’Oriente arrivarono in Europa pietre preziose, spezie, profumi, medicinali, bestiame, porcellana, giada, oggetti in bronzo e lacca, specchi. Miglio, riso, tè, grandi invenzioni che segnarono profondamente la storia occidentale come la carta e la polvere da sparo.
Naturalmente in grandi quantità, tanto da attribuire il nome all’intero sistema delle vie di comunicazione, prodotti in Seta, la merce per eccellenza, oggetto per secoli di un vero e proprio segreto della civiltà cinese, la merce più preziosa, leggera, facile da trasportare.
UNA MERCE PAGATA A PESO D’ORO, SOPRATTUTTO IN EPOCA ROMANA, TANTO DA OBBLIGARE IL SENATO ROMANO ALL’EMANAZIONI DI EDITTI PER IMPEDIRNE L’USO AL FINE DI EVITARE PROBLEMI FINANZIARI.
In senso contrario Dall’Europa/Asia arrivarono in Cina metalli preziosi, lana, pelli di animali, tessuti di cotone, ricami in filo d’oro, bestiame cavalli, cammelli e pecore, prodotti agricoli quali il frumento, fagiolini, erba medica, sesamo, cipolle, cetrioli, carote, melograni, uva, pesche, fichi, angurie ma anche religioni e scuole di pensiero quali il Buddismo, l’Islam ed il Cristianesimo.
viaggiatori sulla via della setaLa nascita della Via della Seta può essere fatta risalirà a più di 2000 anni fa quando per volere dell’Imperatore Wudi, (156/87 a.C.), della dinastia Han, (206 a.C./220 d.C.), fu attuata una “rivoluzionaria” apertura da parte dell’allora protetta ed ancora sconosciuta economia e società Cinese, verso mercati limitrofi, aprendo rotte commerciali con l’Asia Centrale e gradualmente verso l’Europa.
La nomina del generale Zhang Qian come ambasciatore dell’Impero in Asia Centrale aprì di fatto questo momento storico che si protrasse fino al 1368 d.C. quando, con la caduta della dinastia mongola Yuan, (1279/1368), le vie di comunicazioni non risultarono vie ormai più sicure e vennero sostituite gradualmente da commerci marittimi più veloci.
ALCUNE TAPPE STORICHE DELLA VIA DELLA SETA:

1000 a.C. – Dinastia Shang, i mercanti del popolo Yuezhi del Xinjiang creano i primi percorsi commerciali lungo il cosiddetto “corridoio del Gansu”. La Seta viene portata verso la Siberia ma si ipotizza, da ritrovamenti di fibre seriche in una tomba di un faraone egizio databile intorno al 1070 a.C., che ci fossero già scambi commerciali lungo la Via della Seta meridionale;
600 a.C. – Dinastia Zhou, (1045/221 a.C.), iniziano i primi scambi commerciali con l’Europa di oro, giada e seta. Ritrovamenti di tracce di seta in una tomba in Germania risalgono già al VI secolo a.C.;
138 a.C. – Zhang Qian esplorò e rese sicure le rotte commerciali che da Xi’An si spingevano a Ovest, debellando il problema dei predoni che assalivano regolarmente le carovane;
220/581 d.C. – (Epoca dei Tre Regni) – cade la dinastia Han. Disordini sociali e scarso controllo militare determinano una brusca interruzione del commercio lungo la Via della Seta;
618/671 – Dinastia Tang. Le tribù turche che avevano preso il controllo dei mercati e di quello della seta in particolare, vengono conquistate e viene riaperto il canale commerciale diretto con l’Europa;
629 – Il monaco Xuanzang, percorre la Via della Seta fino all’India creando le condizioni per una notevole crescita delle relazioni con questa area geografica. Nasce la leggenda del “Viaggio in Occidente” uno dei classici della letteratura cinese;
1271/1368 – Il leggendario condottiero mongolo Gengis Khan conquista i vari piccoli stati dell’Asia centrale ed orientale, unificando l’intero territorio. Con il nipote Kublai Khan fonda la dinastia Yuan. La Via della Seta viene riaperta e i commerci rifioriscono.
marco polo vie commerciali
1269 –Marco Polo (1254/1324), “Quivi si fa molta seta” con queste parole Marco Polo descrive nel Milione l’economia della provincia cinese del Catai. Leggendari i suoi lasciapassare emessi dal governo Tuan che gli permettono di spostarsi liberamente in queste regioni in un momento storico nei quali i commerci ebbero il loro massimo splendore: pietre preziose, spezie, profumi, medicinali, bestiame, schiavi ed in grandi quantità prodotti in Seta;
1368/1644 – Cade l’impero Tuan e nasce quello Ming. La tecnica della produzione di seta si era ormai diffusa nell’Europa, prima in Italia e intorno al 1400 anche in Francia nel distretto di Lione. L’impero Ming sceglie una politica di estrema chiusura e gli scambi sulla Via della Seta definitivamente interrotti

 Già in epoca romana questo lunghissimo itinerario attraversava tutta l’Asia, dalla sua estremità più orientale, fino ai confini con il continente europeo.


I mercanti cinesi

Per centinaia e centinaia di anni, i mercanti cinesi che commerciavano con l’Occidente, cioè con l’Europa, dovevano percorrere l’antica Via della Seta.

Erano 8 000 chilometri di pianure senza fine, alte montagne, passi pericolosi da attraversare, su cammelli e con carri trainati da cavalli, dall’Oceano Pacifico al Mar Mediterraneo. Le difficoltà erano molte: mesi o anche anni lontano da casa, fatica, cattivo tempo e banditi sempre in agguato. Ma i mercanti che si affrontavano questi rischi riuscivano poi a ottenere grandi guadagni.

 

Tappe importanti erano Samarcanda (oggi in Uzbekistan) e Bisanzio (poi Costantinopoli, l’attuale Istanbul, in Turchia).

Giunti al Mediterraneo i mercanti percorrevano, a volte via mare a volte via terra, gli ultimi chilometri per arrivare a Roma e in altre città importanti dell’impero romano. Potevano così finalmente vendere i propri preziosi prodotti, primo fra tutti la seta. Infatti, mentre la produzione di seta dai bozzoli dei bachi era già conosciuta in Cina dal 3000 a.C., in Europa l’origine di questo bellissimo tessuto era ancora sconosciuta. Ma i patrizi romani erano innamorati di questa stoffa tanto morbida e luminosa…


I mercanti europei

Durante il Medioevo alcuni mercanti europei percorsero la Via della Seta al contrario, ma solo una spedizione veneziana, che comprendeva il giovanissimo Marco Polo (quando partì aveva 17 anni, ma quando tornò ne aveva più di 40), riuscì ad arrivare fino in Cina. Il racconto della sua lunga visita in questo Paese, descritta nel libro Il Milione, restò a lungo per gli europei la base della conoscenza della civiltà cinese.

 

Commercio e scambio di idee

 

 

 

 

 

 


L’importanza della Via della Seta non era infatti solo commerciale, perché permise soprattutto l’incontro di uomini e di culture. Popoli diversissimi tra loro entrarono in contatto e cominciarono a conoscersi. Si scambiarono così anche usi, costumi, scoperte e invenzioni. Si comunicarono idee legate alla matematica, all’astronomia, alla tecnica, alla religione.

 


Le nuove Vie della Seta

 

Oggi il governo cinese sta dando una nuova vita a questa antica via di comunicazione.

 

Vie della Seta

La Cina è diventata la seconda potenza economica del pianeta, dopo gli Stati Uniti, e commercia ormai con tutti i Paesi del mondo. Così, ha lanciato la “Nuova Via della Seta” che ha l’obiettivo di creare collegamenti tra Cina ed Europa, ma anche con l’Africa e il resto dell’Asia. Questo grande progetto di investimenti e cooperazione economica coinvolge decine di Paesi, due oceani e diversi mari, oltre 3 miliardi di persone e un terzo della ricchezza mondiale.

Per far viaggiare le merci e la tecnologia attraverso questa moderna Via della Seta si costruiscono nuovi porti, nuove strade, nuove ferrovie, utilizzando le più avanzate conoscenze della tecnica.

 

Via terra e via mare

Dovremmo in realtà parlare di Vie della Seta al plurale, perché c’è un itinerario terrestre e uno marittimo. Quest’ultimo parte dall’Oceano Pacifico per raggiungere la città di Venezia, attraversando l’Oceano Indiano, il Mar Rosso e il Mar Mediterraneo. Da Venezia, una via terrestre porta poi fino ai porti del Mare del Nord.

Come in passato, questa nuove vie dei commerci hanno all’inizio una motivazione economica, ma permettono poi anche di unire maggiormente i popoli, mettendo in contatto diverse conoscenze, modi di vivere e di pensare. Se sono fatti nel rispetto reciproco, i traffici mercantili sono un importante elemento di pace per i territori che attraversano.

Anche il commercio internazionale è uno strumento importante per raggiungere i traguardi di collaborazione tra i diversi Paesi che si è posto l’Obiettivo 17 dell’Agenda 2030.

 

 


LA NUOVA VIA DELLA SETA

La nuova Via della Seta più che un progetto rappresenta un sistema complesso attraverso il quale il governo di Pechino intende consolidare e rilanciare l’interconnessione infrastrutturale e commerciale Cinese con il continente Euroasiatico.
nuova via della seta moderna

Il progetto BRI, “Belt and Road Initiative”, corrispondente all’acronimo inglese OBOR, (One Belt, One Road), annunciato nel 2013 dal presidente Cinese Xi Jinping e promosso dal ministro Li Keqiang, denominato come “La nuova Via della Seta”, richiamando l’epopea degli scambi dove la Seta rappresentava il fulcro di un sistema in grande espansione, si pone l’obbiettivo di realizzare di fatto ciò che durante il XIX congresso del Partito comunista cinese venne definito ”The Chinese dream is a dream about history, the present and the future”

ALCUNI DATI SUI 65 PAESI COINVOLTI

63% della popolazione mondiale 4,4 miliardi di persone;
29% del Pil mondiale per 21 miliardi di Dollari;
75% delle riserve energetiche.
3 principali direttrici

Dall’Europa attraversando Kazakhstan, Russia e Polonia verso il Mar Baltico;
Ripresa della via Transiberiana;
Più a Sud più la direttrice per il Golfo Persico, toccando Islamabad, Teheran e Istanbul.
2 rotte marittime

Dal porto cinese di Fuzhou attraverso l’Oceano Indiano e il mar Rosso fino all’Africa congiungendo i porti Europei meridionali (Italia e Grecia);
Dal porto cinese di Fuzhou verso le isole del Pacifico.
Una serie di gasdotti ed oleodotti.
900 miliardi di Dollari di investimento previsto su due macro-progetti e direttrici complementari

Silk Road Economic Belt del tratto terrestre;
Maritime Silk Road tratto marittimo.
Il più grande progetto di investimento mondiale pari almeno 12 volte l’European Recovery Program, meglio noto come Piano Marshall.
Costituzione della Banca Asiatica d’Investimento per le Infrastrutture (AIIIB )con un capitale di 100 miliardi di Dollari

 

 

 

 


Un progetto ambizioso e colossale che proprio per le sue dimensioni ed implicazioni non solo strutturali ma anche economiche e sociali è e sarà a maggior ragione oggetto di continue ridefinizioni nonché di pressioni e contrapposizioni politiche economiche e sociali da parte delle altre potenze economiche mondiali (Europa/USA/Russia/India).

 

 

 

 

Dubai, un’ambizione che corre sulle Nuove Vie della Seta

Tra tutte le metropoli arabe del Golfo, quella più presente nell’immaginario collettivo è, senza dubbio, Dubai. Il suo ruolo di grande hub per i trasporti globali, le avveniristiche costruzioni, la mole di eventi che ospita (a cominciare dalla prossima edizione di Expo) sono alcuni degli aspetti che rendono la città emiratina l’esempio per eccellenza delle ambizioni dei ricchissimi sceicchi dell’area. Rispetto a Doha, o Abu Dhabi, capitale nonché rivale interna negli Emirati Arabi Uniti, Dubai è la città che meglio è riuscita ad affrancare il proprio benessere dalla dipendenza dagli idrocarburi, diventando addirittura, nell’arco di un paio di decenni, una rinomata meta turistica.
Il successo di Dubai, città capitale dell’omonimo Emirato, è innanzitutto dovuto alla struttura federale degli Emirati Arabi Uniti, che ha consentito ai regnanti locali di perseguire una politica di sviluppo del tutto indipendente dal resto dello Stato e distinta rispetto all’altro grande emirato del Paese, quello di Abu Dhabi. Se per la capitale il motore dello sviluppo è rappresentato, in linea con il resto della regione, dall’esportazione di petrolio e gas naturale, Dubai si è invece concentrata sullo sviluppo del commercio globale. La competizione tra i due emirati non ha mai causato crisi all’interno dello Stato; al contrario, la loro differente natura e la mutua collaborazione hanno permesso agli Emirati Arabi Uniti di prosperare e diventare il più importante tra i Paesi arabi del Golfo dopo l’Arabia Saudita.
La ricchezza della città è seconda solo alla smisurata ambizione dei suoi governanti. Un quadro chiaro su quello che Dubai intende diventare nei prossimi decenni è stato recentemente tracciato dal suo leader, nonché primo ministro e vicepresidente degli Emirati Arabi Uniti, lo sceicco Mohammed bin Rashid Al-Maktoum, noto a Dubai semplicemente come Big Mo. Al-Maktoum è stato tra i principali artefici del miracolo di Dubai e, in occasione dei cinquant’anni dal suo primo incarico di governo, ha voluto tracciare un percorso in nove tappe per la crescita futura dell’Emirato. Nel primo punto del documento viene sottolineato che già oggi Dubai ospita il più grande aeroporto internazionale del mondo e che nei prossimi dieci anni è previsto che saranno un miliardo le persone che vi transiteranno. Anche sul fronte marittimo la situazione si presentata come ottimale, con collegamenti portuali con centinaia di destinazioni. Il punto nodale del documento è molto ambizioso e allude nientemeno che a un ritorno ai fasti della Via della Seta nello sviluppo del commercio globale. Storicamente, infatti, una delle principali direttrici della Via delle Seta lambiva proprio le sponde arabe del Golfo Persico.
Il progetto che oggi si richiama a quel mitico percorso del passato, la Belt and Road Initiative (BRI) promossa da Pechino, prevede invece due tracciati principali: il primo, terrestre, raggiungerebbe l’Europa attraverso l’Asia Centrale, l’Iran, la Turchia e la Russia; il secondo, marittimo, passa per il Sud-Est asiatico, raggiunge i porti africani sull’Oceano Indiano ‒ costruiti con fondi cinesi ‒ per giungere infine nel Mediterraneo attraverso il Canale di Suez. In entrambi i casi, la zona del Golfo Persico sembra non essere coinvolta dalla Belt and Road cinese. Oltre che per fattori logistici, Dubai pare essere sfavorita da fattori politici: gli Emirati Arabi Uniti sono tra i più fidati alleati degli Stati Uniti, in accesa rivalità con l’Iran, alleato storico della Cina. Nonostante queste premesse, gli Emirati Arabi Uniti, con in testa proprio Dubai, sono riusciti negli anni ad attirarsi simpatie e finanziamenti dalla Cina e a rientrare nei faraonici piani di collegamento commerciale progettati da Pechino.
La Cina costituisce il partner commerciale principale di Dubai, con un giro d’affari da 60 miliardi di dollari nel 2017. Se da un lato la Cina non può lasciarsi sfuggire la possibilità di collegare la propria Belt and Road al terzo polo d’esportazione mondiale dopo Hong Kong e Singapore, dall’altro Dubai, sempre più desiderosa di divenire snodo cruciale dei traffici globali, non può permettersi di rimanere fuori dalla rete di collegamenti cinese. Uno dei più grandi operatori portuali di Dubai, la DP World, ha non a caso annunciato una partnership con la Zhejiang Provincial Seaport Investment & Operation Group per la costruzione di una stazione logistica per la Belt and Road a Dubai, con l’obiettivo di offrire servizi adeguati al flusso di merci che transiterà nei porti della città emiratina.
Se c’è però un aspetto del potenziale di Dubai che interessa molto la Cina è quello che riguarda i progetti di investimento sulle energie rinnovabili. Nell’estate del 2018 il Fondo cinese per la Via della Seta ha annunciato di voler acquisire un quarto della proprietà della futura, enorme centrale solare che verrà costruita nei pressi di Dubai. L’accordo è stato siglato durante la visita di tre giorni del presidente cinese Xi Jinping negli Emirati Arabi Uniti, che ha anche portato all’annuncio di investimenti cinesi nell’area per circa 20 miliardi di dollari. Soltanto pochi mesi prima, la Shangai Electric aveva annunciato un finanziamento per la costruzione della centrale. Musica per le orecchie di Al-Maktoum, il cui piano di sviluppo energetico prevede un significativo aumento della quota proveniente da fonti rinnovabili nei prossimi anni: dal 25% nel 2030 fino al 75% nel 2050.
Al netto però dei proclami, e nonostante l’impressionante crescita conseguita in termini di potere, prestigio e ricchezza, la strada da fare per Dubai per passare dall’essere una ricca metropoli a un polo d’attrazione globale appare ancora lunga. Il report della Banca mondiale che misura, in base a diversi parametri, la forza “logistica” dei vari Paesi pone nel 2018 gli Emirati Arabi Uniti subito al di fuori della top 10 globale. Un risultato incoraggiante e in leggera crescita rispetto al 2016 ma non ottimale se si pensa che la rivale Singapore, da sola, si colloca al settimo posto.
Nel XXI secolo la logistica delle merci certamente non costituisce il solo fattore del successo per un polo economico e commerciale. Per questo uno degli articoli della carta d’intenti dello sceicco vede Dubai come futuro punto di riferimento per il commercio virtuale. L’obiettivo è creare una vera e propria città virtuale per il commercio che induca ben 100.000 imprese a operare al suo interno. Allo stato attuale tuttavia, se si prende il settore economico che più tra tutti si presta ad essere liquido e intangibile, quello finanziario, Dubai si posiziona in una situazione non troppo diversa rispetto al suo potenziale logistico. Il Global Financial Index la colloca infatti al quindicesimo posto a livello globale; in crescita, ma ancora distante dai poli finanziari più importanti del pianeta.
Del resto, pur avendo saputo sfruttare a proprio vantaggio la crescita economica della regione legata al commercio degli idrocarburi, Dubai sperimenta anche i limiti di un paradigma di crescita estremamente legato alle performance dei suoi vicini. A differenza di Singapore, Dubai non può vantare una posizione realmente cruciale nei traffici commerciali del pianeta e se il Golfo non fosse tanto ricco grazie a petrolio e gas, con ogni probabilità gli investitori attratti da Dubai sarebbero molti di meno. Questo è un aspetto da affrontare nel quadro di futuri scenari “post-petroliferi”. La città sarà davvero in grado, con le sue sole forze, di conservare, se non persino ampliare, il proprio potenziale commerciale?
La diretta concorrenza di metropoli vicinissime, diverse per molti aspetti ma accomunate da una grande opulenza, è un altro aspetto potenzialmente limitante per Dubai. Tra Doha, Kuwait City, le grandi città saudite e, naturalmente, la rivale Abu Dhabi, sono molti i rischi che nel prossimo futuro Dubai, piuttosto che splendere di luce propria, possa adeguarsi a diventare solo una parte di un complesso più ampio. A questo contribuisce l’ultimo aspetto di criticità, probabilmente il più importante. Big Mo sa bene che non avendo alle spalle un grande Paese disposto a supportarne la crescita, il policy making cittadino è essenziale per vincere le sfide che ha posto alla sua creatura. Per questo ha promesso di redigere una carta programmatica della città ogni anno; una vera e propria versione in piccolo dei documenti strategici pubblicati dagli Stati.
Dubai però non è uno Stato indipendente. Nonostante la grande autonomia di cui gode, gli obiettivi della città non sono sempre coincidenti con quelli del resto del Paese, e soprattutto con quelli di Abu Dhabi, che invece è al meglio espressione delle ambizioni di tutti gli (altri) Emirati. La crisi finanziaria del 2008 pose Dubai, già al tempo proiettata nel mercato finanziario, sotto l’occhio preoccupato e vigile di Abu Dhabi e di tutto il Paese, nel timore che si dovesse attingere alla ricchezza ottenuta dagli idrocarburi per fare fronte alle perdite subite dalla città. Se finora Dubai ha potuto contare sul supporto di tutti gli Emirati, con il crescere delle ambizioni della città e del suo leader, potrebbe essere vista sempre più come una fonte di instabilità e di rischio.