Roma 8 maggio ’23
Il giorno 8 aprile
Intervista-confronto della giornalista Emanuela Scarponi al dottor Andrea Pandolfi, ricercatore di studi comportamentali, Università Roma tre, sullo studio della lingua click parlata dai San effettuato sulla base del documentario I San del KALAHARI girato da Emanuela Scarponi.

Andrea Pandolfi con uno studio condotto sui San detti anche Khwe, Basarwa o Boscimani mette in luce
la lingua clik parlata dagli abitanti nel deserto dei Kalahari, con piena sonorità, fanno schioccare la lingua sul palato o contro i denti
Il ricercatore parla del suo lavoro: il perché è fondamentale per rispondere a domande del chi siamo e che cosa facciamo, perché la terra: è un pianeta diverso dagli altri. Per comprendere il linguaggio, la semantica, le neuro scienze e la biologia.
Non sempre quello che ci riporta la scienza ufficiale è di aiuto, pur dandoci dei riferimenti convenzionali. Inizia a rispondere il ricercatore.
Ho avuto modo di entrare nella conoscenza di questo popolo particolare, cerco spiegare perché particolare.
La lingua dei San è strutturata in codice.
In una pubblicazione del 2011, si attesta che migliaia di lingue ed altrettanti dialetti sono originari dall’Africa. La lingua è di 50.000 anni fa. (Focus.it 19 aprile 2011).
La lingua originaria sembrerebbe proprio il linguaggio parlato dai San.
In un’altra pubblicazione del 2006 l’archeologa norvegese Sheila Coulson pubblica le prove del culto del pitone dei San, che veniva compiuto 70.000 anni fa. Apparenterebbe questo studio centra poco con il linguaggio, in tal modo consideriamo il comunicare di 70.000 anni e non di 50.000.
Sheila Coulson mentre stava studiando l’antico gruppo etnico dei San, allocati nella regione Ngamiland, acquisisce prove che gli esseri umani, gli homo Sapiens compivano ritualità sette millenni di anni orsono.
All’interno del deserto del Kalahari, denominate le colline del Tsodilo, vi sono innumerevoli incisioni rupestri. Le colline di Tsodilo rappresentano un luogo sacro per i San, che le denominarono “le montagne degli dei” o “la montagna che bisbiglia”.
Il rito considerato dalla Coulson riguarda il pitone, che avrebbe generato gli esseri umani, nati dalle uova che il serpente portava con sé, in un sacco.
I suoni emessi dai San sono un messaggio nel messaggio, sono sette e raccontano la storia del pitone.
La scienza ufficiale fa un po' d’acqua, la scienza di confine ci può dare una estensione.
Consideriamo i codici genetici. Noi conteniamo una gamma di informazioni.
Osserviamo questa popolazione, dai tratti caratteristici: corpi esili, pelle non scura, diversa struttura e lineamenti hanno le donne che per il ricercatore discendono dall’uomo di Neanderthal, mentre gli uomini sembra provengano dalla Siberia.
La scienza ortodossa ci dice che ci sono dei legami tra i due.
Certamente la scienza ufficiale non attesta che noi umani siano la parte terminale degli esperimenti prodotti dai sette suoni della lingua dei San.
Ritornando alla lingua dei sette suoni. Un linguaggio codice. Il numero sette è un numero ricorrente.
Sette sono i giorni della settimana, le meraviglie del mondo, lo troviamo scritto nella Bibbia è il numero della perfezione e sette per sette, quarantanove: il divino.
La sequenza genetica recepisce agisce e retroagisce.
Secondo un rabbino, mentre noi parliamo facciamo danno ai noi stessi e a chi ci ascolta.
La voce dà degli effetti.
Ascoltando i San, la sonorità si riflette sul codice genetico. Comportamento e codice genetico vanno a braccetto.
Il suono della lingua degli abitanti dei San imposta l’abc dei nostri codici genetici, ci dice lo studioso.
Secondo il mito del pitone, una matrice aliena ha generato una forza lavoro.
Certi siti archeologici, presenti alcuni in Egitto, sono punti di osservatori astronomici di alcune costellazioni secondo le stagioni: il Toro, il Drago, le Pleiadi che sono sette, Orione e il Cane. Sono i riferimenti delle matrici.
Dall’antico Egitto sono partite due matrici. Hanno iniziato un percorso di colonizzazione di tutto il resto.
I San sono portatori dei codici delle matrici delle costellazioni. Con particolare riferimento a quattro costellazioni: Toro, Drago, Orione e Cane.
Con i suoni portano equilibrio al nostro linguaggio parlato.
Interviene la dottoressa Emanuela Scarponi affascinata da Boscimani, molto interessata alle sculture rupestri che sono 3.500. L’enciclopedia dell’epoca, dice che questa lingua arcaica non ha ancora sviluppato le vocali.
La lingua dei San è una lingua aliena, ridimensionata come lingua arcaica.
Le vocali risponde il ricercatore sono giovani. Costantino 1500 anni fa estrapolò dall’alfabeto ebraico, cinque consonanti e le adattò come vocali.
Continua lo studioso: tutto è suono, matrice allo stato puro, dunque il Dna sarebbe originato da una matrice aliena. Per molti il riferimento del dna è: il meteorite, caduto a Terra in un determinato luogo.
Il dna è di matrice aliena.
Non ci sono molti studi sui Boscimani, si è studiato il dna degli Unit, una popolazione della Groenlandia.
Gli Unit sembra abbiano a che fare con i San.
Aggiungendo nuovi dati all’informazione che la scienza ufficiale ci ha dato, dovremmo riscrivere tutto.
Ad esempio nella Bibbia parliamo della costola di Adamo. Mentre la scienza di confine parla di doppio.
Arrivare alla verità un obiettivo molto difficile. Capire e comprendere è determinante per giungere alla realtà rendendo fruibili le notizie.
Il ricercatore dott. A. Pandolfi parla dei San popolo antichissimo, incroci tra popolazioni tali da far perdere le tracce della provenienza.
Sono arrivati a noi per esperimento di ingegneria genetica.
Portatori sani di informazioni, non sono ben visti al Nord né al Sud.
Questo popolo fonte inesauribile dovrebbe essere protetto, perché ha una storia di millenni.
Emanuela Scarponi nel confronto con il ricercatore osserva che i San sembrano più intelligenti dei Bantu, razza molto bella per altro.
Molti sono i rinvenimenti da rituali di resti umani, con corpo minuto e testa grande.
La fondazione Rockfeller nella sua mission compie studi comportamentali. Aggiunge Andrea Pandolfi.
Sono attivi numerosi programmi di ricerca in svariati campi, la fondazione nasce nel 1913.
Nel 1938 con studi compiuti ha coniato il termine lavori: bio-molecolari.
Royal Society ha origini ancora più antiche, si costituisce nel 1662. Curò l’incremento delle scienze fisico- matematiche per la promozione degli studi comportamentali e del linguaggio.
Le due fondazioni sono consultate per interessi nazionali da autorità pubbliche e private.
Il popolo San è in via di estinzione in Namibia. Portatori del famoso codice x per l’influsso di una delle costellazioni.
Quattro i riferimenti delle costellazioni Toro e Drago stavano insieme Orione e Cane.
Orione lascia Cane e si unisce alle altre due, portando il codice della matrice che aveva originato con la costellazione precedente.
La dottoressa Scarponi parla della terra dove vivono i Boscimani, che oggi è stata privatizzata, per essere coltivata. I Boscimani nomadi da tempo, non possono molto circolare ed è stata richiesta una istruzione scolastica. Al momento la loro vita resta complicata.
Tutto ciò che l’Africa è in grado di preservare riuscirà a sopravvivere. Conclude la dottoressa Scarponi.
Noi quello che abbiamo sul nostro pianeta non è negli altri pianeti. Discute il dottore Andrea Pandolfi, educatore bio-comportamentale.
La diversità del nostro pianeta e sicuramente più bello ha incuriosito il ricercatore che attentamente osserva la terra: un laboratorio da cui sono stati strutturati gli esseri umani. Le matrici di specie aliene viaggiano sulle costellazioni ed hanno influssi su pianeta.
Se è vero quello di oggi e vero quello di ieri. Gli abitanti del deserto del Kalahari portatori sani di notevoli informazioni.
Con i suoni della loro lingua potrebbero essere la svolta per determinate ricerche, sono un popolo in via di estinzione e che forse potremmo salvaguardare.
Lavorando sul suono, sulle onde plastiche, ascoltando il linguaggio semplice dei San è possibile far combaciare più opportunità.
L’Africa e la Siberia sono canali di riferimento per la provenienza delle nostre origini.
La natura dell’Africa genera armonia, in sintonia con la forza vitale.
Un continente fortemente esteso difficilmente percorribile, sicuramente per le condizioni climatiche. Tutte ragioni che lo rendono poco conosciuto.
La ricerca ha generato molti dubbi sembrerebbe che non diamo e riceviamo benessere, perché strutturati non per averne.
L’Africa è spesso viene riportata sulle carte geografiche a dimensioni molto ridotte su scala.
Se fosse valorizzata nelle risorse potrebbe provvedere al sostentamento dell’intero pianeta Terra.

Recensione dell’intervista del dottor Andrea Pandolfi.
A cura di Claudia Polveroni Apn Publisher

Florence Korea Film Fest
L'idea di questo reportage nasce dal desiderio di espandere la conoscenza del Festival in quanto snodo per la diffusione dei film coreani e, insieme, di diffondere l’amore per il cinema coreano, che non è un cinema acerbo né può essere considerato meramente una replica orientale di Hollywood.

Il Festival
Il Festival è occasione per poter vedere film altrimenti irreperibili in sala, perché non distribuiti in Italia o non ancora distribuiti, come nel caso delle prime, e offre anche l’opportunità di incontrare dal vivo personalità del mondo cinematografico coreano di statura indiscussa, come i registi Bong Joon-ho e Yim Soon-rye attraverso le masterclass.

Negli ultimi 10 anni si è assistito ad un deciso intensificarsi della cosiddetta onda coreana, Korean Wave o Hallyu Wave, che a partire dagli anni 2000 e dai Paesi orientali, in particolare il Giappone e la Cina, ha investito anche l'Occidente.
Di questa espansione è testimonianza anche il Festival d’Oriente di Roma, che ha previsto una sezione coreana.
Dal cinema alla musica, dalla danza alla cucina, finanche ai corsi di questa difficile lingua, assistiamo ad un fiorire di proposte a tema Corea. Sulla stessa Netflix quasi giornalmente vengono aggiunte produzioni coreane.

Il cinema ha un rapporto con questo fenomeno che è duplice, perché ne è beneficiario, ma anche lo genera, in quanto tutto ciò che può essere considerato produzione cinematografica, quindi cortometraggi, lungometraggi e serie televisive, non è solo un mezzo di intrattenimento, ma è anche un mezzo di trasporto della realtà coreana in altri Paesi. Tali produzioni, infatti, che siano di ambientazione storica o contemporanea, sono vere e proprie finestre che si aprono su una cultura e una realtà per noi molto distanti e che rischiamo facilmente di non comprendere appieno.

La società coreana è sicuramente in un momento, rispetto ai suoi trascorsi storici, che potremmo definire felice, anche grazie a questa “onda coreana”, che naturalmente ha riflessi notevoli, come si può facilmente immaginare, sulla crescita economica del Paese. Questo, tuttavia, non è a costo zero e i costi sociali e culturali della crescita in atto sono, più o meno silenziosamente, denunciati in molte delle produzioni cinematografiche.

In tal senso, con riferimento ai film in programma, “Through My Midwinter”, uno dei film premiati, verte proprio sui dissesti economici, e quindi sociali, che vivono soprattutto i giovani coreani.
Ma vi è anche un altro risvolto, più prettamente culturale, che è costantemente sotteso nei film e nelle serie coreani e che può essere colto nitidamente nel film vincitore del Festival: mi riferisco alla pressione psicologica cui sono sottoposti i giovani in Sud Corea, intrappolati tra valori etici delle generazioni precedenti e le richieste pressanti di una economia in continua rapida ascesa.
“Next Sohee”, il film premiato dalla giuria di questa edizione del Festival, nel denunciare una stortura del sistema formativo presenta senza vis polemica la condizione esistenziale dei ragazzi in età scolastica, condizione che è riportata anche in produzioni il cui focus è centrato su altro. Ad esempio, la recentissima serie Netflix “Corso accelerato sull’amore”, nonostante proponga una trama sentimentale, riporta contestualmente la realtà stressante, fortemente competitiva e con un alto tasso di suicidi in cui crescono i giovani coreani, in particolare i ragazzi, stritolati tra le aspettative familiari e la competitività impietosa di un Paese lanciato al galoppo.

Nel merito
Nel merito, il Festival del cinema coreano di Firenze, che era alla sua 21esima edizione, può essere considerato il festival interamente dedicato al cinema coreano più antico in Europa ed ha una certa diffusione nel suo ambito, grazie anche alla formula della fruizione online sul canale MyMovies di una selezione dei film in programma. Su MyMovies è stato anche possibile seguire la masterclass di Bong Joon-ho, che, come era prevedibile, ha registrato il sold out quasi subito, lasciando moltissimi nella impossibilità di partecipare se non tramite la piattaforma.

Le masterclass organizzate nell’ambito del Festival sono una parte importante di questo evento, in quanto consentono di incontrare dal vivo personalità del calibro di Bong Joon-ho e di approfondire la conoscenza di questa realtà cinematografica attraverso una chiacchierata in libertà, aperta alle richieste del pubblico.

Inaugurato la sera del 30 marzo e concluso la sera del 7 aprile, il Korea Film festival si è svolto presso il cinema-teatro La Compagnia, una location molto gradevole nel centro di Firenze, con una atmosfera da sala da tè di altri tempi che ben introduce allo stile quasi da antidivo dei protagonisti del cinema coreano.

Il Festival, realizzato con il patrocinio di istituzioni italiane e coreane, è stato concepito come uno spazio di realtà coreana trasposta nel centro di Firenze, come ben significato anche dal trailer che lo promuove.

La cerimonia di apertura è stata occasione per offrire un rinfresco di piatti tipici, preparati da due chef sudcoreani presso la scuola alberghiera di Saffi, in virtù di un accordo di collaborazione stipulato con la città di Jeonju.

L’offerta culinaria è proseguita con aperitivi giornalieri a base di assaggi coreani serviti prima della proiezione di prima serata. Essa ha rappresentato la nota di colore di questa edizione, laddove nelle precedenti sono state proposte altre opportunità di contatto con la cultura coreana, come indossare l’Hanbok, l’abito tradizionale coreano, esperienza che è stata offerta anche dall’edizione 2023 del Festival d’Oriente di Roma.

Negli spazi del cinema antistanti la sala di proiezione erano presenti stands per l’assaggio del Soju, per l’offerta omaggio di noodles e la vendita di piccoli souvenirs coreani.

All’interno della cornice del Festival è stato anche presentato il saggio “Squid Game. Analisi della struttura drammaturgica della serie”, di Giuseppina De Nicola, Giorgio Glaviano e Giovanna Volpi, le cui copie erano in vendita nell’area promozionale.

Nell’ambito del festival è stato dedicato poi uno spazio al fumetto coreano, con una mostra realizzata in collaborazione con il Busàn IT Industry Promotion Agency, dal titolo “Mostra Manhwa e Webtoon: Il Futuro del Fumetto”. Essa ha messo a confronto l’opera cinematografica e la trasposizione in webtoon, i fumetti digitali pensati per essere letti su smartphone, che stanno spopolando in Corea del Sud (un coreano su tre legge regolarmente webtoons). Il tema è stato al centro della prima masterclass del festival, dal titolo “Il fumetto del futuro” con la partecipazione degli illustratori Jeong Kyu-Ah e Kim Woo-Seop.

Una impostazione più ampiamente culturale dunque, quella del Festival fiorentino, in linea con l’associazione Taegukgi – Toscana Korea Association, il cui presidente Riccardo Gelli ne cura la realizzazione. Detta associazione è stata fondata nel 2003 per promuovere la diffusione della cultura coreana a Firenze e favorire gli scambi culturali ed economici con la Repubblica di Corea ed è in tal senso molto attiva, collaborando anche con i maggiori festival cinematografici della Corea (Jinju international film festival e Busan international film festival) per inserire nel loro palinsesto rassegne dei protagonisti del cinema italiano.


Partecipare a questo Festival è una esperienza positiva, certamente per chi ama il cinema coreano in particolare, ma ancor di più per chi ama il cinema e conosce poco o per nulla quello coreano. Il festival consente infatti di calarsi in un vero e proprio mondo, con tecniche proprie, che siano di recitazione, sceneggiatura o regia, che elabora prodotti di qualità. Un mondo che, a mio parere, surclassa per certi aspetti il cinema occidentale, che negli ultimi tempi manifesta una certa stanchezza e ripetitività di contenuti.

Percorsi del Festival
Entrando nel merito della programmazione cinematografica, il Festival si è articolato in cinque percorsi, quattro dei quali si sono intrecciati in alcune proiezioni, per un totale di oltre 60 titoli, tra cortometraggi e lungometraggi, che hanno incluso prime visioni e classici contemporanei.
Si è quindi concluso con la premiazione dei film scelti tra le varie sezioni.

Quanto ai percorsi, Corto, Corti! è stato quello dedicato ai cortometraggi, tra i quali è stato premiato “The Autumn Poem” di Park Chan-ho.
Purtroppo, la contemporaneità delle proiezioni obbligava a scegliere se seguire questa sezione o i lungometraggi.

I lungometraggi sono stati raggruppati nei restanti quattro percorsi, ovvero: Orizzonti coreani, che raccoglie i maggiori successi al botteghino sudcoreano degli ultimi mesi, film dei registi più consolidati che già sono stati proiettati ai festival europei.
A questa sezione appartengono due film premiati, “6/45” e “In Our Prime”, di cui parlerò a breve.

Indipendent Korea, che raggruppa i lavori delle giovani promesse e dei registi emergenti del cinema indipendente. I cinque film di questa sezione sono accomunati dal filo conduttore della ricerca di una vita diversa, che sia attraverso l’amore, il lavoro o il tentativo di integrarsi in un contesto estraneo. Appartiene a questa sezione il film “Through My Midwinter”, che ha ottenuto una menzione speciale dalla giuria.

Key-women, sezione introdotta quest’anno per dare spazio al cinema al femminile in considerazione del ruolo centrale della figura femminile nella società e nel cinema coreano.
In questa sezione possiamo far rientrare anche la masterclass dal titolo: “Generazioni di registe a confronto”, cui hanno partecipato le registe Yim Soon-rye, considerata in Patria autrice di spicco, della quale durante il Festival sono stati proiettati due film (“The Point Men” e “Waikiki Brothers”), e July Jung, al suo secondo lungometraggio, risultato vincitore del premio della giuria del Festival, “Next Sohee”.

La Retrospettiva, dedicata quest’anno, per la prima volta in Italia, all’attore Park Hae-il, con la proiezione di sette film significativi del suo percorso artistico. Di questi particolare menzione meritano “A Muse”, di Jung Ji-woo, del 2012, in cui l’attore, che allora aveva 35 anni, ha interpretato un poeta settantenne, “Boomerang Family”, di Song Hae-sung, per lo spaccato socio-familiare che offre, con la capacità tutta coreana di conservare senso dell’humor e non scadere in una drammaticità scontata, e il noir “Decision to Leave”, di Park Chan-wook, che ha guadagnato al regista il Prix de la mise en scène (Miglior Regia) alla 75ma edizione del Festival di Cannes e che è stato anche proiettato nelle sale italiane all’inizio di quest’anno.
Un ventaglio di ruoli che si dipana in un ventennio di professione, registrandone il processo di maturazione dell’attore e la sua indubbia versatilità.
Park Hae-il è anche protagonista del film di apertura, “Hansan: Rising Dragon Redux”, di cui dirò a breve.
A lui, insieme al regista Kim Han-Min, è stata dedicata la masterclass dal titolo “Note d’attore e regista”.

Programmazione
Nella programmazione sono stati inclusi tutti i generi, dal thriller alla commedia, dalle pellicole impegnate agli action movie, passando per il poliziesco, l’horror e il giallo, a testimonianza di una produzione variegata che si modula secondo diverse scuole e tecniche, sempre con maestria.

Di tutti i titoli in programma, alcuni sono imperdibili.
“Christmas Carol” di Kim Sung-soo, la storia di un ragazzo che entra in un centro di detenzione minorile per vendicare la morte del fratello. La vendetta è uno dei temi cari al cinema coreano e di solito si consuma lavorando nell’ombra e aspettando pazientemente il proprio momento. Il fatto che il film sia ambientato in una situazione di per sé violenta e difficile, rende tutto più complicato per il giovane protagonista.
Il gruppo di giovani attori che compone il cast è di una bravura sorprendente, perché riescono a tenere alta la tensione sia nelle scene di dialogo che in quelle di azione in maniera esemplare. Inoltre, non ci sono controfigure e tutte le scene di azione sono state girate dai ragazzi, con notevole coordinazione.
“Confession” di Yoon Jong-seok, è un noir, un mystery thriller ben costruito. Con una serie di flashback, piano piano si disvela la realtà in una tensione crescente. Notevole la colonna sonora, molto evocativa, composta da Mowg, autore conosciuto per la colonna sonora di “Bourning” di Lee Chang-dong.
“Hunt”, prima italiana, è un thriller di spionaggio diretto da Lee Jung-jae, attore che era stato ospite premiato della scorsa edizione del festival, e che ha raggiunto il successo mondiale nella serie Netflix “Squid Game”, qui al suo primo lungometraggio in qualità di regista.
Si tratta di un film ambientato negli anni Ottanta che racconta un momento della Corea del Sud estremamente diverso da quello attuale, un momento di politica interna molto tesa. A fianco di Lee Jung-jae, che ne è anche protagonista, troviamo Jung Woo-sung.
I due attori sono legati da un rapporto molto particolare, perché iniziarono a lavorare insieme, quando erano entrambi modelli affermati, con il film “City of the Rising Sun” (1999); si è creato da allora un rapporto di amicizia che è diventato anche professionale, quando come partner hanno fondando una loro agenzia, cui hanno aderito molti attori coreani. Questo film è stato quindi l’occasione, per due attori che avevano cominciato insieme, di presentare, una ventina di anni dopo, una nuova collaborazione al Festival di Cannes.
“A Tour Guide”, di Kwak Eun-mi, storia di una giovane dissidente nordcoreana che cerca di trovare la sua strada in Corea del Sud facendo la guida turistica.
È un film che tocca un tema ricorrente e molto sentito in Corea, che è quello dei dissidenti, dei quali sempre si denunciano le difficoltà di inserimento, nonostante il desiderio di integrarsi.
“Gyong-ah's Daughter”, di Kim Jung-eun, è un film toccante sul tema degli abusi e del modo di ognuno di affrontarli. Emerge la forza delle due protagoniste, madre e figlia, la loro relazione fatta di luci e ombre, i loro abusi a confronto e il loro modo di uscirne, insieme e da sole. È un film molto forte sulla tematica del revenge porn, sfortunatamente sempre più attuale, che fa molto riflettere, anche sull’importanza di come vengono trattate le vittime degli abusi nella comunità, di come loro si sentono trattate e di come trattano loro stesse.

Vi sono poi due film che meritano una attenzione particolare, pur non essendo stati premiati.
Il primo è il film di apertura, “Hansan: Dragon Raising Redux”, che è stato presentato dal regista Kim Han-min ed è stato proiettato in anteprima.
Questo kolossal bellico è il secondo capitolo di una trilogia sulle battaglie guidate dall’ammiraglio Yi Sun-sin, nel XVI secolo, e segue il primo film, “The Admiral: Roaring Currents”, che nel 2014 è stato campione d’incassi in Corea con un record di spettatori ancora ineguagliato.
Il film vanta un cast d’eccezione: accanto a Park Hae-il, che ha recitato in oltre 50 tra film e serie ed è stato diretto da registi quali Bong Joon-ho e Park Chan-wook, troviamo Ahn Sung-Ki, uno degli attori più rispettati del panorama coreano, e il bravissimo Byun Yo-han, famoso per la serie di successo “Mr. Sunshine”.
Il film racconta di come l’ammiraglio Yi Sun-sin sia riuscito a sconfiggere la flotta principale giapponese. La battaglia dell’isola di Hansan in termini di importanza storica è, come ha fatto notare lo stesso regista, l’equivalente della nostra battaglia di Lepanto. Essa riuscì non solo a fermare la flotta nemica, ma soprattutto a rinvigorire gli animi dell’esercito coreano, che era molto scoraggiato dalle ripetute sconfitte a terra.
La narrazione è stata creata sulla base del diario dell’Ammiraglio, integrato da deduzioni e interpretazioni personali del regista.
Il lavoro per realizzare la trilogia è stato molto lungo e complesso, soprattutto per le riprese del primo film, per via delle riprese a mare. Tra il primo e il secondo film sono trascorsi otto anni, mentre, con l’evoluzione delle tecnologie si è riusciti a girare il terzo capitolo già insieme al secondo, potendo realizzarli utilizzando la computer grafica per le scene in mare.
È un film impressionante, per numero di comparse, ambientazione e realizzazione, di quelli che non si vedono più. Vale dunque assolutamente la pena vederlo, anche per conoscere qualcosa di più della storia della Corea.

Infine, “The Point Men”, della regista Yim Soon-rye, che lo ha presentato. Della produzione di questo film la regista ha parlato anche durante la masterclass cui ha partecipato.
Il film è stato in testa al box office coreano già dal primo giorno di uscita nelle sale, sia perché la regista è molto conosciuta, sia perché gli interpreti principali sono due attori che hanno un seguito notevole in Patria e all’estero: Hyun Bin, conosciuto in Italia per la serie Netflix “Crash landing on you”, e Hwuang Jung-min, molto amato in Patria. I due attori sono stati chiamati a recitare ruoli che sono diversi da quelli già usuali e questo ha richiesto a entrambi un lavoro particolare. In particolare, Hyun Bin, che è noto per ruoli sentimentali, si è impegnato molto per mostrare al pubblico una versione della sua recitazione finora inedita ed il risultato è senz’altro convincente.
Il film è ispirato a un fatto realmente accaduto in Afghanistan, ovvero il rapimento di 23 missionari coreani da parte dei talebani, e segue la trattativa tra il Governo coreano e le tribù afgane volta a liberarli.
Sotteso alla vicenda c’è, per espressa dichiarazione della regista, il tema della religione vissuta in maniera ossessiva, che porta fino alla disobbedienza civile. Non emerge solo il fanatismo talebano, ma anche la visione dei missionari, che sono entrati in Afghanistan contravvenendo la direttiva del Governo coreano, che aveva intimato ai propri cittadini di non andare in quel Paese.
Per questo motivo il rapimento dei missionari e la successiva trattativa hanno sollevato un vero e proprio dibattito in Corea, perché non era unanime ritenere che il Governo dovesse spendere i soldi dei contribuenti per salvare le persone rapite.
Il film, curato nei dettagli, è stato realizzato con un budget notevole. Ciò non ha impedito che la produzione incontrasse una serie di difficoltà.

Anzitutto le riprese, girate nel deserto giordano, sono iniziate in piena pandemia con tutte le difficoltà del caso. Ciò è stato possibile perché la Regina di Giordania, essendo una fan di Hyun Bin, ha fatto in modo che il programma di lavoro potesse essere rispettato.
Inoltre, poiché in Giordania la lingua afgana non è conosciuta e gli attori afgani sono pochissimi, la produzione ha dovuto risolvere diverse problematiche di tipo linguistico, insegnando agli attori a parlare afgano e coordinando il lavoro di un set multietnico.
Questo film testimonia non solo l’ampio spettro di recitazione dei protagonisti, ma anche la versatilità della regista, che ha diretto un action movie adrenalinico in cui appaiono quasi esclusivamente attori uomini, in condizioni ambientali ostiche, una produzione molto diversa dalla passata, quando aveva diretto film intimisti come Little Forest o musicali come Waikiki brothers.

Premiazione
Infine, sono stati premiati i film vincitori di questa 21esima edizione.
“Next Sohee”, di July Jung, come si è detto, è stato premiato dalla giuria come miglior film. Esso narra di una studentessa brillante e con una ricca personalità, che resta imprigionata in un sistema che la stritola, condannata dalle aspettative familiari e dalla propria etica a spegnersi, perdendo via via la sua luce.
Significativa la motivazione scritta dalla giuria per il conferimento del premio a questo film: «una immersione graduale poetica e totalizzante dentro il mistero di una vita giovane, fatta di desideri semplici. La complessiva comprensione di una voce finora soffocata da un sistema, che chiede di esserci senza esistere veramente. Con il passo dolce ed insieme fermo di chi lotta per una verità scomoda, Next Sohee ci accompagna alla consapevolezza che solo fermandosi ad ascoltare proprio dove la speranza si è persa è possibile ripartire e magari cambiare qualcosa».
Illuminante è altresì la motivazione per la menzione speciale della giuria per “Through My Midwinter”, di Oh Seong-ho, un film che racconta le difficoltà di una coppia, messa a dura prova da circostanze economico-lavorative comuni tra i giovani della realtà urbana sudcoreana. Secondo la giuria, il film «attraverso pochi, essenziali, elementi narrativi e visivi, è capace di raccontare una storia universale di sconfitta e allontanamento, rendendo le mute forze sociali evidenti e vicinissime al cuore dei due protagonisti che ne restano schiacciati. Il lavoro, la classe, l’ascesa (o la discesa) sociale, l’amore, disegnati con tratti leggeri e delicati, pur restando fortemente ancorati alla Corea, ne trascendono i confini e parlano forse della nostra condizione di uomini del XXI secolo».
“6/45”, di Park Gyu-tae, premiato quale miglior film dal pubblico, è una commedia davvero molto divertente, che tratta in maniera del tutto originale la problematica, fortemente sentita e presente in molti film coreani, della divisione Nord-Sud e dei rapporti umani tra le due parti. Un film divertente e commovente al contempo.
Il regista Park Gyu-tae, nel presentare la proiezione, ha detto di aver deciso di affrontare la questione della divisione del Paese con una commedia secondo la massima di Chaplin, per cui vista da vicino la vita è una tragedia, ma vista da lontano sembra una commedia. Ha poi spiegato di aver diretto gli attori affinché recitassero senza ricorrere al registro comico, focalizzandosi sulla situazione, con il risultato di ottenere una comicità più convincente.
Anche “In Our Prime”, di Park Dong-hoon, scelto dal pubblico online, tratta della divisione tra Nord e Sud dal punto di vista di un dissidente e della sua difficile integrazione, un tema, come abbiamo visto, ricorrente nella cinematografia coreana.
Il film riporta sullo schermo un attore sensazionale qual è Choi Min-sik, che qui accompagna un giovanissimo che ha debuttato da pochi anni.
Un incontro generazionale e un rapporto di fiducia e rispetto tra due persone molto distanti tra loro, che entrano in contatto quando il giovane si trova in difficoltà. Scoprirà allora che il dissidente nordcoreano che lavora come responsabile della sicurezza nel suo liceo è in realtà un famoso matematico.

Chiusura del Festival
Dopo la premiazione, il Festival si è concluso con la proiezione di “Life is Beautiful”, di Choi Kook-hee, un musical centrato su due attori protagonisti di mezza età, per la prima volta impegnati nel genere musicale. Ancora una volta si conferma l’originalità del cinema coreano, maestro nel fondere i registri comico e drammatico e nel sorprendere lo spettatore con colpi di scena, anche in storie strutturalmente prive di suspence.

 

 

L’antica Via della Seta

 Il nome la Via della Seta si deve al Geografo tedesco Ferdinand Von Richthofen, (1883–1905), che nell’introduzione alla sua opera, “Tagebucher aus China”, (1877), utilizza il termine Seidenstraße, la «Via della Seta», per definire dal punto di vista storico, geografico, sociale ed economico quell’insieme di percorsi carovanieri e rotte commerciali, marittime e fluviali che congiungevano l’Asia Orientale, in particolare la Cina, al Vicino Oriente ed al bacino del Mediterraneo.


Si trattava di almeno 5 vie commerciali principali, alle quali nel corso del tempo si associarono deviazioni secondarie. Il ramo primario aveva la sua partenza dalle antiche capitali Cinesi Xi’an e Luoyang, nel bacino del Fiume Giallo, attraversava lo storico ed impervio corridoio del Gansu, raggiungendo la Cina occidentale nella regione dello Xinjiang per poi proseguire verso l’Asia Centrale e quindi l’Europa.

Dalla Cina e dall’Oriente arrivarono in Europa pietre preziose, spezie, profumi, medicinali, bestiame, porcellana, giada, oggetti in bronzo e lacca, specchi. Miglio, riso, tè, grandi invenzioni che segnarono profondamente la storia occidentale come la carta e la polvere da sparo.
Naturalmente in grandi quantità, tanto da attribuire il nome all’intero sistema delle vie di comunicazione, prodotti in Seta, la merce per eccellenza, oggetto per secoli di un vero e proprio segreto della civiltà cinese, la merce più preziosa, leggera, facile da trasportare.
UNA MERCE PAGATA A PESO D’ORO, SOPRATTUTTO IN EPOCA ROMANA, TANTO DA OBBLIGARE IL SENATO ROMANO ALL’EMANAZIONI DI EDITTI PER IMPEDIRNE L’USO AL FINE DI EVITARE PROBLEMI FINANZIARI.
In senso contrario Dall’Europa/Asia arrivarono in Cina metalli preziosi, lana, pelli di animali, tessuti di cotone, ricami in filo d’oro, bestiame cavalli, cammelli e pecore, prodotti agricoli quali il frumento, fagiolini, erba medica, sesamo, cipolle, cetrioli, carote, melograni, uva, pesche, fichi, angurie ma anche religioni e scuole di pensiero quali il Buddismo, l’Islam ed il Cristianesimo.
viaggiatori sulla via della setaLa nascita della Via della Seta può essere fatta risalirà a più di 2000 anni fa quando per volere dell’Imperatore Wudi, (156/87 a.C.), della dinastia Han, (206 a.C./220 d.C.), fu attuata una “rivoluzionaria” apertura da parte dell’allora protetta ed ancora sconosciuta economia e società Cinese, verso mercati limitrofi, aprendo rotte commerciali con l’Asia Centrale e gradualmente verso l’Europa.
La nomina del generale Zhang Qian come ambasciatore dell’Impero in Asia Centrale aprì di fatto questo momento storico che si protrasse fino al 1368 d.C. quando, con la caduta della dinastia mongola Yuan, (1279/1368), le vie di comunicazioni non risultarono vie ormai più sicure e vennero sostituite gradualmente da commerci marittimi più veloci.
ALCUNE TAPPE STORICHE DELLA VIA DELLA SETA:

1000 a.C. – Dinastia Shang, i mercanti del popolo Yuezhi del Xinjiang creano i primi percorsi commerciali lungo il cosiddetto “corridoio del Gansu”. La Seta viene portata verso la Siberia ma si ipotizza, da ritrovamenti di fibre seriche in una tomba di un faraone egizio databile intorno al 1070 a.C., che ci fossero già scambi commerciali lungo la Via della Seta meridionale;
600 a.C. – Dinastia Zhou, (1045/221 a.C.), iniziano i primi scambi commerciali con l’Europa di oro, giada e seta. Ritrovamenti di tracce di seta in una tomba in Germania risalgono già al VI secolo a.C.;
138 a.C. – Zhang Qian esplorò e rese sicure le rotte commerciali che da Xi’An si spingevano a Ovest, debellando il problema dei predoni che assalivano regolarmente le carovane;
220/581 d.C. – (Epoca dei Tre Regni) – cade la dinastia Han. Disordini sociali e scarso controllo militare determinano una brusca interruzione del commercio lungo la Via della Seta;
618/671 – Dinastia Tang. Le tribù turche che avevano preso il controllo dei mercati e di quello della seta in particolare, vengono conquistate e viene riaperto il canale commerciale diretto con l’Europa;
629 – Il monaco Xuanzang, percorre la Via della Seta fino all’India creando le condizioni per una notevole crescita delle relazioni con questa area geografica. Nasce la leggenda del “Viaggio in Occidente” uno dei classici della letteratura cinese;
1271/1368 – Il leggendario condottiero mongolo Gengis Khan conquista i vari piccoli stati dell’Asia centrale ed orientale, unificando l’intero territorio. Con il nipote Kublai Khan fonda la dinastia Yuan. La Via della Seta viene riaperta e i commerci rifioriscono.
marco polo vie commerciali
1269 –Marco Polo (1254/1324), “Quivi si fa molta seta” con queste parole Marco Polo descrive nel Milione l’economia della provincia cinese del Catai. Leggendari i suoi lasciapassare emessi dal governo Tuan che gli permettono di spostarsi liberamente in queste regioni in un momento storico nei quali i commerci ebbero il loro massimo splendore: pietre preziose, spezie, profumi, medicinali, bestiame, schiavi ed in grandi quantità prodotti in Seta;
1368/1644 – Cade l’impero Tuan e nasce quello Ming. La tecnica della produzione di seta si era ormai diffusa nell’Europa, prima in Italia e intorno al 1400 anche in Francia nel distretto di Lione. L’impero Ming sceglie una politica di estrema chiusura e gli scambi sulla Via della Seta definitivamente interrotti

Già in epoca romana questo lunghissimo itinerario attraversava tutta l’Asia, dalla sua estremità più orientale, fino ai confini con il continente europeo.


I mercanti cinesi

Per centinaia e centinaia di anni, i mercanti cinesi che commerciavano con l’Occidente, cioè con l’Europa, dovevano percorrere l’antica Via della Seta.

Erano 8 000 chilometri di pianure senza fine, alte montagne, passi pericolosi da attraversare, su cammelli e con carri trainati da cavalli, dall’Oceano Pacifico al Mar Mediterraneo. Le difficoltà erano molte: mesi o anche anni lontano da casa, fatica, cattivo tempo e banditi sempre in agguato. Ma i mercanti che si affrontavano questi rischi riuscivano poi a ottenere grandi guadagni.

 

Tappe importanti erano Samarcanda (oggi in Uzbekistan) e Bisanzio (poi Costantinopoli, l’attuale Istanbul, in Turchia).

Giunti al Mediterraneo i mercanti percorrevano, a volte via mare a volte via terra, gli ultimi chilometri per arrivare a Roma e in altre città importanti dell’impero romano. Potevano così finalmente vendere i propri preziosi prodotti, primo fra tutti la seta. Infatti, mentre la produzione di seta dai bozzoli dei bachi era già conosciuta in Cina dal 3000 a.C., in Europa l’origine di questo bellissimo tessuto era ancora sconosciuta. Ma i patrizi romani erano innamorati di questa stoffa tanto morbida e luminosa…


I mercanti europei

Durante il Medioevo alcuni mercanti europei percorsero la Via della Seta al contrario, ma solo una spedizione veneziana, che comprendeva il giovanissimo Marco Polo (quando partì aveva 17 anni, ma quando tornò ne aveva più di 40), riuscì ad arrivare fino in Cina. Il racconto della sua lunga visita in questo Paese, descritta nel libro Il Milione, restò a lungo per gli europei la base della conoscenza della civiltà cinese.

 

Commercio e scambio di idee


L’importanza della Via della Seta non era infatti solo commerciale, perché permise soprattutto l’incontro di uomini e di culture. Popoli diversissimi tra loro entrarono in contatto e cominciarono a conoscersi. Si scambiarono così anche usi, costumi, scoperte e invenzioni. Si comunicarono idee legate alla matematica, all’astronomia, alla tecnica, alla religione.

 


Le nuove Vie della Seta

 

Oggi il governo cinese sta dando una nuova vita a questa antica via di comunicazione.

 

Vie della Seta

La Cina è diventata la seconda potenza economica del pianeta, dopo gli Stati Uniti, e commercia ormai con tutti i Paesi del mondo. Così, ha lanciato la “Nuova Via della Seta” che ha l’obiettivo di creare collegamenti tra Cina ed Europa, ma anche con l’Africa e il resto dell’Asia. Questo grande progetto di investimenti e cooperazione economica coinvolge decine di Paesi, due oceani e diversi mari, oltre 3 miliardi di persone e un terzo della ricchezza mondiale.

Per far viaggiare le merci e la tecnologia attraverso questa moderna Via della Seta si costruiscono nuovi porti, nuove strade, nuove ferrovie, utilizzando le più avanzate conoscenze della tecnica.

 

Via terra e via mare

Dovremmo in realtà parlare di Vie della Seta al plurale, perché c’è un itinerario terrestre e uno marittimo. Quest’ultimo parte dall’Oceano Pacifico per raggiungere la città di Venezia, attraversando l’Oceano Indiano, il Mar Rosso e il Mar Mediterraneo. Da Venezia, una via terrestre porta poi fino ai porti del Mare del Nord.

Come in passato, questa nuove vie dei commerci hanno all’inizio una motivazione economica, ma permettono poi anche di unire maggiormente i popoli, mettendo in contatto diverse conoscenze, modi di vivere e di pensare. Se sono fatti nel rispetto reciproco, i traffici mercantili sono un importante elemento di pace per i territori che attraversano.

Anche il commercio internazionale è uno strumento importante per raggiungere i traguardi di collaborazione tra i diversi Paesi che si è posto l’Obiettivo 17 dell’Agenda 2030.

 

 


LA NUOVA VIA DELLA SETA

La nuova Via della Seta più che un progetto rappresenta un sistema complesso attraverso il quale il governo di Pechino intende consolidare e rilanciare l’interconnessione infrastrutturale e commerciale Cinese con il continente Euroasiatico.
nuova via della seta moderna

Il progetto BRI, “Belt and Road Initiative”, corrispondente all’acronimo inglese OBOR, (One Belt, One Road), annunciato nel 2013 dal presidente Cinese Xi Jinping e promosso dal ministro Li Keqiang, denominato come “La nuova Via della Seta”, richiamando l’epopea degli scambi dove la Seta rappresentava il fulcro di un sistema in grande espansione, si pone l’obbiettivo di realizzare di fatto ciò che durante il XIX congresso del Partito comunista cinese venne definito ”The Chinese dream is a dream about history, the present and the future”

ALCUNI DATI SUI 65 PAESI COINVOLTI

63% della popolazione mondiale 4,4 miliardi di persone;
29% del Pil mondiale per 21 miliardi di Dollari;
75% delle riserve energetiche.
3 principali direttrici

Dall’Europa attraversando Kazakhstan, Russia e Polonia verso il Mar Baltico;
Ripresa della via Transiberiana;
Più a Sud più la direttrice per il Golfo Persico, toccando Islamabad, Teheran e Istanbul.
2 rotte marittime

Dal porto cinese di Fuzhou attraverso l’Oceano Indiano e il mar Rosso fino all’Africa congiungendo i porti Europei meridionali (Italia e Grecia);
Dal porto cinese di Fuzhou verso le isole del Pacifico.
Una serie di gasdotti ed oleodotti.
900 miliardi di Dollari di investimento previsto su due macro-progetti e direttrici complementari

Silk Road Economic Belt del tratto terrestre;
Maritime Silk Road tratto marittimo.
Il più grande progetto di investimento mondiale pari almeno 12 volte l’European Recovery Program, meglio noto come Piano Marshall.
Costituzione della Banca Asiatica d’Investimento per le Infrastrutture (AIIIB )con un capitale di 100 miliardi di Dollari

 

 

 

 


Un progetto ambizioso e colossale che proprio per le sue dimensioni ed implicazioni non solo strutturali ma anche economiche e sociali è e sarà a maggior ragione oggetto di continue ridefinizioni nonché di pressioni e contrapposizioni politiche economiche e sociali da parte delle altre potenze economiche mondiali (Europa/USA/Russia/India).

 

Dubai, lungo la Via della Seta

Tra tutte le metropoli arabe del Golfo, quella più presente nell’immaginario collettivo è, senza dubbio, Dubai. Il suo ruolo di grande hub per i trasporti globali, le avveniristiche costruzioni, la mole di eventi che ospita (a cominciare dalla prossima edizione di Expo) sono alcuni degli aspetti che rendono la città emiratina l’esempio per eccellenza delle ambizioni dei ricchissimi sceicchi dell’area. Rispetto a Doha o Abu Dhabi, capitale nonché rivale interna negli Emirati arabi uniti, Dubai è la città che meglio è riuscita ad affrancare il proprio benessere dalla dipendenza dagli idrocarburi, diventando addirittura, nell’arco di un paio di decenni, una rinomata meta turistica.
Il successo di Dubai, città capitale dell’omonimo Emirato, è innanzitutto dovuto alla struttura federale degli Emirati Arabi Uniti, che ha consentito ai regnanti locali di perseguire una politica di sviluppo del tutto indipendente dal resto dello Stato e distinta rispetto all’altro grande emirato del Paese, quello di Abu Dhabi. Se per la capitale il motore dello sviluppo è rappresentato, in linea con il resto della regione, dall’esportazione di petrolio e gas naturale, Dubai si è invece concentrata sullo sviluppo del commercio globale. La competizione tra i due emirati non ha mai causato crisi all’interno dello Stato; al contrario, la loro differente natura e la mutua collaborazione hanno permesso agli Emirati Arabi Uniti di prosperare e diventare il più importante tra i Paesi arabi del Golfo dopo l’Arabia Saudita.
La ricchezza della città è seconda solo alla smisurata ambizione dei suoi governanti. Un quadro chiaro su quello che Dubai intende diventare nei prossimi decenni è stato recentemente tracciato dal suo leader, nonché primo ministro e vicepresidente degli Emirati Arabi Uniti, lo sceicco Mohammed bin Rashid Al-Maktoum, noto a Dubai semplicemente come Big Mo. Al-Maktoum è stato tra i principali artefici del miracolo di Dubai e, in occasione dei cinquant’anni dal suo primo incarico di governo, ha voluto tracciare un percorso in 9 tappe per la crescita futura dell’Emirato. Nel primo punto del documento viene sottolineato che già oggi Dubai ospita il più grande aeroporto internazionale del mondo e che nei prossimi dieci anni è previsto che saranno un miliardo le persone che vi transiteranno. Anche sul fronte marittimo la situazione si presentata come ottimale, con collegamenti portuali con centinaia di destinazioni. Il punto nodale del documento è molto ambizioso e allude nientemeno che a un ritorno ai fasti della Via della seta nello sviluppo del commercio globale. Storicamente, infatti, una delle principali direttrici della Via delle Seta lambiva proprio le sponde arabe del Golfo Persico.
Il progetto che oggi si richiama a quel mitico percorso del passato, la Belt and Road Initiative (BRI) promossa da Pechino, prevede invece due tracciati principali: il primo, terrestre, raggiungerebbe l’Europa attraverso l’Asia Centrale, l’Iran, la Turchia e la Russia; il secondo, marittimo, passa per il Sud-Est asiatico, raggiunge i porti africani sull’Oceano Indiano ‒ costruiti con fondi cinesi ‒ per giungere infine nel Mediterraneo attraverso il Canale di Suez. In entrambi i casi, la zona del Golfo Persico sembra non essere coinvolta dalla Belt and Road cinese. Oltre che per fattori logistici, Dubai pare essere sfavorita da fattori politici: gli Emirati Arabi Uniti sono tra i più fidati alleati degli Stati Uniti, in accesa rivalità con l’Iran, alleato storico della Cina. Nonostante queste premesse, gli Emirati Arabi Uniti, con in testa proprio Dubai, sono riusciti negli anni ad attirarsi simpatie e finanziamenti dalla Cina e a rientrare nei faraonici piani di collegamento commerciale progettati da Pechino.
La Cina costituisce il partner commerciale principale di Dubai, con un giro d’affari da 60 miliadi di dollari nel 2017. Se da un lato la Cina non può lasciarsi sfuggire la possibilità di collegare la propria Belt and Road al terzo polo d’esportazione mondiale dopo Hong Kong e Singapore, dall’altro Dubai, sempre più desiderosa di divenire snodo cruciale dei traffici globali, non può permettersi di rimanere fuori dalla rete di collegamenti cinese. Uno dei più grandi operatori portuali di Dubai, la DP World, ha non a caso annunciato una partnership con la Zhejiang Provincial Seaport Investment & Operation Group per la costruzione di una stazione logistica per la Belt and Road a Dubai, con l’obiettivo di offrire servizi adeguati al flusso di merci che transiterà nei porti della città emiratina.
Se c’è però un aspetto del potenziale di Dubai che interessa molto la Cina è quello che riguarda i progetti di investimento sulle energie rinnovabili. Nell’estate del 2018 il Fondo cinese per la Via della Seta ha annunciato di voler acquisire un quarto della proprietà della futura, enorme centrale solare che verrà costruita nei pressi di Dubai. L’accordo è stato siglato durante la visita di tre giorni del presidente cinese Xi Jinping negli Emirati Arabi Uniti, che ha anche portato all’annuncio di investimenti cinesi nell’area per circa 20 miliardi di dollari. Soltanto pochi mesi prima, la Shangai Electric aveva annunciato un finanziamento per la costruzione della centrale. Musica per le orecchie di Al-Maktoum, il cui piano di sviluppo energetico prevede un significativo aumento della quota proveniente da fonti rinnovabili nei prossimi anni: dal 25% nel 2030 fino al 75% nel 2050.
Al netto però dei proclami, e nonostante l’impressionante crescita conseguita in termini di potere, prestigio e ricchezza, la strada da fare per Dubai per passare dall’essere una ricca metropoli a un polo d’attrazione globale appare ancora lunga. Il report della Banca mondiale che misura, in base a diversi parametri, la forza “logistica” dei vari Paesi pone nel 2018 gli Emirati Arabi Uniti subito al di fuori della top 10 globale. Un risultato incoraggiante e in leggera crescita rispetto al 2016 ma non ottimale se si pensa che la rivale Singapore, da sola, si colloca al settimo posto.
Nel XXI secolo la logistica delle merci certamente non costituisce il solo fattore del successo per un polo economico e commerciale. Per questo uno degli articoli della carta d’intenti dello sceicco vede Dubai come futuro punto di riferimento per il commercio virtuale. L’obiettivo è creare una vera e propria città virtuale per il commercio che induca ben 100.000 imprese a operare al suo interno. Allo stato attuale tuttavia, se si prende il settore economico che più tra tutti si presta ad essere liquido e intangibile, quello finanziario, Dubai si posiziona in una situazione non troppo diversa rispetto al suo potenziale logistico. Il Global Financial Index la colloca infatti al 15esimo posto a livello globale; in crescita, ma ancora distante dai poli finanziari più importanti del pianeta.
Del resto, pur avendo saputo sfruttare a proprio vantaggio la crescita economica della regione legata al commercio degli idrocarburi, Dubai sperimenta anche i limiti di un paradigma di crescita estremamente legato alle performance dei suoi vicini. A differenza di Singapore, Dubai non può vantare una posizione realmente cruciale nei traffici commerciali del pianeta e se il Golfo non fosse tanto ricco grazie a petrolio e gas, con ogni probabilità gli investitori attratti da Dubai sarebbero molti di meno. Questo è un aspetto da affrontare nel quadro di futuri scenari “post-petroliferi”. La città sarà davvero in grado, con le sue sole forze, di conservare, se non persino ampliare, il proprio potenziale commerciale?
La diretta concorrenza di metropoli vicinissime, diverse per molti aspetti ma accomunate da una grande opulenza, è un altro aspetto potenzialmente limitante per Dubai. Tra Doha, Kuhait city, le grandi città saudite e, naturalmente, la rivale Abu Dhabi, sono molti i rischi che nel prossimo futuro Dubai, piuttosto che splendere di luce propria, possa adeguarsi a diventare solo una parte di un complesso più ampio. A questo contribuisce l’ultimo aspetto di criticità, probabilmente il più importante. Big Mo sa bene che non avendo alle spalle un grande Paese disposto a supportarne la crescita, il policy making cittadino è essenziale per vincere le sfide che ha posto alla sua creatura. Per questo ha promesso di redigere una carta programmatica della città ogni anno; una vera e propria versione in piccolo dei documenti strategici pubblicati dagli Stati.
Dubai però non è uno Stato indipendente. Nonostante la grande autonomia di cui gode, gli obiettivi della città non sono sempre coincidenti con quelli del resto del Paese, e soprattutto con quelli di Abu Dhabi, che invece è al meglio espressione delle ambizioni di tutti gli (altri) Emirati. La crisi finanziaria del 2008 pose Dubai, già al tempo proiettata nel mercato finanziario, sotto l’occhio vigile di Abu Dhabi e di tutto il Paese, nel timore che si dovesse attingere alla ricchezza ottenuta dagli idrocarburi per fare fronte alle perdite subite dalla città. Se finora Dubai ha potuto contare sul supporto di tutti gli Emirati, con il crescere delle ambizioni della città e del suo leader, potrebbe essere vista sempre più come una fonte di instabilità e di rischio.

Italy-China Economic and Cultural Exchange Series News:
On May 1, International Labor Day, at 15.30 p.m. in Rome, Italy, the Cultural Exhibition Center of the New Silk Road Association attracted Kuang Jian, Mayor of Wuwei, Anhui Province, China, as the delegation leader, Xia Lei, President of Wuhu Trade Promotion Association, The 8-member economic and trade delegation, including Deputy Director of the Foreign Affairs Office, Tenghui, and the purpose of the delegation's trip was to sign a memorandum of cooperation between the Wuhu Trade Promotion Association and the Silk Road Association, aiming to promote deep economic, trade and cultural cooperation between Italy and their cities Exchanges to help develop economic and trade cooperation between Italian and Chinese cities. Italy is an important industrial and technological power in the European Union. It has a high international influence in industrial manufacturing, design, technology, innovation, biomedicine, fashion brands, food, historical and cultural tourism. Chinese people like Italian products very much. Wuhu is an important industrial city in Anhui Province, China. Liu Weijun, head of the International Development Center of the New Silk Road Association, said that this organization has the background of uniting the Italian National Federation of Manufacturing Industry and the cooperation of multiple Italian municipal governments and regions , an economic and trade cooperation representative office established in Beijing, Zhejiang, Anhui, Jiangsu, Fujian, Hainan, and Wuhu is the first city to sign a memorandum of cooperation in the Rome office after the new crown epidemic. The cooperation between the two parties is of great significance Significance, after the new crown epidemic, the world pattern has undergone great changes. China's modernization and internationalization will be further advanced under the new situation. Leo weijun, as a Chinese representative of the Italian business community, will further work harder for the international friendly exchanges between China and Italy. Do a good job. The main Italian representatives who participated in the exchange include Shi hengshun, the person in charge of cultural development, sun dawei, the deputy director of the center, david xia, the consultant, Judecollins, the person in charge of African economics and trade, marco, the director of the Wushu Culture International Center, and the person in charge of the new energy development center. Agstini, the person in charge of the South American Development Department anazd, Maurizio, the president of Silk Road Press, and other members of the association.Italy-China Economic and Cultural Exchange Series News:

 

Il 23 aprile, secondo quanto riportato dal centro comunicati stampa del Festival Internazionale della Cultura del Centro Congressi ed Esposizioni di Roma, alla conferenza stampa dell'Agenzia Italiana Media Via della Seta, Liu Weijun, presidente dell'Italian Belt and Road International Economic, Trade and Consiglio di cooperazione culturale, ha tenuto un discorso programmatico come rappresentante del discorso ed ha risposto alla domanda del giornalista: l'Italia e la Cina sono entrambe antiche civiltà famose in tutto il mondo. La Cina e l'antica Roma avevano scambi economici e commerciali attraverso la Via della Seta 1000 anni fa. L'italiano Marco Polo arrivò in Cina come rappresentante degli uomini d'affari italiani e aprì il commercio est-ovest. In termini di scambi culturali internazionali, la nazione cinese e la nazione italiana sono entrambe nazioni amanti della pace, nonché nazioni che amano l'economia, il commercio e il commercio. Nel 2019, il presidente cinese Xi Jinping ha visitato l'Italia ed i due governi hanno firmato un memorandum di cooperazione sulla Belt and Road Initiative. È una testimonianza storica dell'ulteriore estensione della Via della Seta e dell'ulteriore sviluppo della cooperazione economica, commerciale e culturale tra i due Paesi nel nuovo contesto internazionale nella nuova era. Sarà sicuramente fornire un ampio spazio per la cooperazione tra i due Paesi sotto la nuova forma internazionale. Allo stesso tempo, Liu, in risposta alle domande del conduttore e alle preoccupazioni di altri giornalisti italiani sull'atteggiamento cinese nei confronti della guerra Russia-Ucraina e alcune ulteriori osservazioni sul commercio sino-italiano, ha espresso la sua opinione: come tutti sappiamo, i cinesi che vivono in Italia sono circa 350.000, e quindi, non approviamo il comportamento bellico e noi, come il popolo italiano, speriamo di porre fine alla guerra Russia-Ucraina il prima possibile.

Capisco l'atteggiamento e la posizione della Cina sulla guerra russo-ucraina e spero che le due parti negozino pacificamente, mostrando una posizione di una persona responsabile di un grande paese! Il popolo cinese è una nazione amante della pace e gli sforzi della Cina per la pace sono evidenti a tutti, compresi i recenti colloqui di pace tra Iran e Arabia Saudita tenutisi a Pechino, che hanno ottenuto un grande successo e aperto la via della speranza per la pace nei Paesi del Medio Orientei. È una buona prova. Allo stesso tempo, credo che tutti i giornalisti e gli amici qui oggi, guardino alla realtà, cioè che il costo della vita è aumentato drasticamente.

Ora il costo della vita è più alto rispetto a prima della guerra russo-ucraina. Ad esempio, prima era di 1.000 euro, ma ora dopo che il prezzo delle merci, compresi i costi di elettricità e gas, è aumentato, il prezzo del cibo solo arriva fino a 700 euro. Siamo diventati poveri?

Pertanto, a noi cinesi, come ai nostri amici italiani, la guerra non è vantaggiosa. Allo stesso tempo, i cinesi sono una nazione che ama promuovere la cooperazione economica e commerciale. La cooperazione economica e commerciale vantaggiosa per tutti tra Cina e Italia e la Belt and Road Initiative possono portare allo sviluppo di molti potenziali per lo sviluppo congiunto e la cooperazione tra le due parti.

L'Italia ha ottimi prodotti di marca, design industriale e tecnologia, e la Cina si sta sviluppando l'economia ad alta velocità e un grande paese con una popolazione di 1,4 miliardi ha una grande domanda di mercato per prodotti italiani e prodotti tecnologici. Allo stesso tempo, in termini di turismo, i cinesi sperano vivamente di espandere ulteriormente il consumo turistico in Italia, e anche più imprenditori cinesi vogliono investire in società internazionali.

Spero di investire in Italia. In qualità di rappresentante principale in Cina del Centro di cooperazione internazionale Belt and Road italiano, ho svolto molte ricerche e scambi con molte associazioni di imprenditori di agenzie governative italiane e molte città e organizzazioni imprenditoriali cinesi. I risultati mostrano che le due parti hanno un forte spazio di cooperazione, me compreso. Di recente e quest'anno ho lanciato una serie di progetti di cooperazione e scambio economico e commerciale Italia-Cina. Allo stesso tempo, di recente ho visto alcuni media italiani avere alcuni rapporti negativi sulla comunità cinese, tra cui l'evasione fiscale cinese e il riciclaggio di denaro. Penso che questo sia un comportamento individuale e non rappresenti l'intera comunità cinese in Italia. Ci sono immigrati di più etnie e italiani in Italia. Rispettiamo tutti le leggi e i regolamenti italiani senza discriminazioni in Italia. I cinesi che vivono in Italia lavorano sodo e si integrano costantemente nel mainstream locale. Nel complesso, noi cinesi stiamo lavorando sodo per contribuire al progresso della società italiana e allo sviluppo economico.

Atti illegali individuali non devono causare un attacco alla comunità cinese.

Credo che anche tutti i miei amici, da amici italiani con una coscienza, saranno d'accordo con me.

Ora, ho visto rapporti correlati sugli scambi tra polizia italiana e cinese. Qui condividerò la mia esperienza personale. Nel 2019 c'è stato un incidente a Roma in cui dei connazionali cinesi sono stati fucilati e derubati da malintenzionati. I miei compatrioti avevano la sensazione di una grave crisi nella pubblica sicurezza. In qualità di leader cinese, ho immediatamente contattato gli agenti di polizia italiani e gli agenti di polizia cinesi che stavano effettuando scambi di polizia in Italia, e li ho invitati a partecipare all'incontro dell'evento, che ha ricevuto una buona risposta sociale e tutti sono d'accordo! Allo stesso tempo, alcune persone hanno chiesto informazioni su Cina e Taiwan. Sono qui per dirvi che Taiwan e la Cina sono come una famiglia. Ognuno è una famiglia. Se uno dei bambini dice che non fa parte della famiglia, quando sorge un conflitto in una famiglia, la famiglia dovrebbe sedersi e discuterne per risolverlo. Secondo me, un paese e una famiglia sono la stessa cosa!

NAMIBIA – Le incisioni rupestri di Twyfelfontein
I San del Kalahari
Il quadro etnico anteriore all’arrivo degli Europei nell’Africa australe si presenta vivo e complesso e molto più articolato di quanto normalmente si ritenga. Gli studi storici, con una metodologia comparata che trae spunto dalle tradizioni orali e si avvale dell’analisi dei dati archeologici, etnologici, linguistici e botanici sono oggi progrediti nella ricostruzione del passato remoto dell’Africa. Le genti più antiche dell’Africa meridionale sono indubbiamente i Khoisan. Sono questi i nomi, Khoi e San, con cui gli studiosi preferiscono indicare rispettivamente gli Ottentotti e i Boscimani, termini di spregio coniati dai primi Europei. I Khoi furono detti Ottentotti con voce onomatopeica, perché nella loro fonetica vi sono frequenti suoni gutturali a schiocco (click), mentre i San furono detti uomini della boscaglia (Bosjeman in olandese, da cui l’inglese Bushman) perché dediti alla caccia. In realtà oggi si è inclini a considerarli due gruppi in uno, legati da una forma instabile di dipendenza tra padroni e servi corrispondenti a pastori e cacciatori, per cui era normale per un cacciatore San tentare di acquisire bestiame e trasformarsi in pastore, oppure per un pastore Khoi, se perdeva il suo armento, vivere esclusivamente di caccia. Agli antichi Khoisan appartengono le pitture rupestri disseminate nelle caverne e sotto i ripari dei kopjes di quasi tutte le regioni dell’Africa meridionale. Lo stile le raccorda con le pitture rupestri preistoriche dell’Africa e dell’Europa, dalla Tanzania al Sahara, dal Nord Africa alla Spagna e alla Francia. Ma l’evidente analogia delle forme e dello stile non viene considerata motivo sufficiente per supporre un’unità etnica o anche solo culturale dei loro autori. I Khoisan odierni non praticano più la pittura di questo genere. Vi sono però testimonianze che l’attestano viva ancora nel secolo scorso. Le incisioni sembrano più antiche.

In genere ritraggono animali: gazzelle, antilopi, elefanti, struzzi. Mentre nel Sahara la fauna serve a stabilire l’antichità delle pitture, nell’Africa meridionale, dove gli animali dipinti sono ancora quelli di oggi, non si presta sempre allo scopo. La stratigrafia dei colori mostra che le pitture monocrome sono anteriori alle pitture bicrome e queste alle policrome. Il verismo delle figure animali è talvolta sorprendente per la raffinatezza. Vi sono rappresentati cacciatori singoli o coordinati in battuta, raduni sociali o rituali con uomini seduti a cerchio. Le figure umane sono quasi filiformi, ma colgono bene l’agilità dei movimenti. Spesso è possibile riconoscere l’appartenenza etnica delle figure: i Khoisan sono ritratti con statura bassa, colore giallo, rosso e bruno; i Bantu sono alti e di colore nero; gli Europei portano vestiti e sono armati di fucile. Il periodo pre-Bantu si fa risalire a prima del 1600; quello delle figure europee al XVIII e XIX secolo. Nell’interpretazione delle figurazioni non è necessario ipotizzare fantastici richiami storico-culturali. Per esempio, gli abiti sumeriani di alcune pitture non hanno nulla di sumerico, ma riproducono il modo di coprirsi degli abitanti delle montagne del Lesotho. Così pure, la singolare figura della gola di Tsibab nella Namibia, detta la dama bianca di Brandberg, è certamente un uomo africano ricoperto di decorazioni bianche e di perline secondo l’abitudine di moltissimi popoli africani. Se la spiegazione delle pitture per motivi magici può sembrare plausibile, sarebbe far violenza alle cose non riconoscere nel gusto della pittura, oltre l’abilità tecnica, il senso estetico di genti abituate al contatto della natura e a un grado notevole di partecipazione sociale. L’insediamento dei Bantu nell’Africa meridionale è relativamente recente. Risale ai primi secoli dopo Cristo. Tuttavia i movimenti migratori, con la formazione di nuovi gruppi etnici, non erano cessati ancora nel XIX secolo. Dei più antichi spostamenti ci sono rimaste numerose vestigia archeologiche che vengono alla luce con il progredire degli studi e delle quali le più imponenti sono quelle di Zimbabwe, conosciute ai più. Ma i Bantu si spingono oltre, espandendosi fino all’estremità dell’Africa australe dove incontrano mescolandosi i Khoisan che, in netta minoranza, risalgono verso Nord. La Namibia, Stato indipendente di recente istituzione, non può essere trattata quindi distintamente dal Sud Africa dal punto di vista storico-geografico ed etnico.

Siamo nel cuore del Damaraland e di colpo la natura attorno a noi torna ad accendersi dei suoi colori più vivi. Il cielo è di nuovo blu, senza nuvole, le rocce e la terra sono di un bel rosso dorato, la vegetazione si riappropria del territorio, tornano le acacie e i primi gracili arbusti di mopane. Anche il clima è diventato immediatamente caldo e asciutto. Il Damaraland è una regione arida, ma il paesaggio offre colori e contrasti spettacolari, la pianura è spesso interrotta da catene montuose e stravaganti formazioni rocciose.
Twyfelfontein è uno spettacolare massiccio montano, famoso per l’abbondanza di pitture ed incisioni rupestri che si stima risalgano a più di 6.000 anni fa e che si sono conservate fino ad oggi grazie a favorevoli condizioni naturali. Sono stati rinvenuti oltre 2.500 graffiti, catalogati secondo il periodo in cui si stima siano stati eseguiti.
Una vera e propria galleria di arte a cielo aperto dichiarata nel 2007 Patrimonio della Umanità e inclusa della lista dell’Unesco tra i monumenti da tutelare. I disegni rappresentano animali, le loro orme, pozze d’acqua, più raramente troviamo rappresentata la figura umana.
Si ipotizza che gli autori di queste testimonianze siano gli antenati degli attuali Boscimani, una antica tribù di cacciatori e raccoglitori dell’Africa australe.
Raggiungiamo Twyfelfontein non senza poche difficoltà. In alcuni punti la pista era talmente sconnessa che temevo non solo di bucare ma di rompere il semiasse o qualche altro pezzo meccanico della nostra “micro-machine”! Un altro viaggetto non esattamente rilassante e della durata non trascurabile. Partiti da Swakopmund, in mattinata abbiamo raggiunto il Twyfelfontein che era già buio e praticamente senza soste lungo tutto il tragitto!
Pernottiamo al Twyfelfontein Country Lodge, un vero e proprio miracolo architettonico. Nonostante lungo la strada sia ben segnalato e la strada privata che conduce al Logde sia annunciata da una piramide di pietre di dimensioni ragguardevoli, l’intera struttura è stata costruita con materiali e colori talmente in sintonia con l’ambiente circostante che fino all’ultimo non si vede. È composto di 64 camere, arredate secondo il tipico stile africano, caldo e ospitale, un ristorante e una piscina. Un vero gioiellino!
Partiamo dal Twyfelfontein Rock Paintings , qui non trovate pitture bensì graffiti, eseguiti scolpendo la dura patina superficiale che ricopre l’arenaria, patina che con il passare del tempo si è riformata proteggendo le incisioni dall’erosione fino al loro ritrovamento.
L’intera area è protetta e il parco gestito da una cooperativa locale che fornisce guide, personale di sorveglianza, e di segreteria. In reception trovate numerosi pannelli esplicativi con foto, la storia del luogo e ovviamente spiegazioni dettagliate sulle opere rupestri che di li a poco andrete ad osservare.
La visita può avvenire solo ed esclusivamente con una guida, facilmente reperibile al vostro arrivo e ad una cifra irrisoria. La guida vi accompagnerà attraverso 2 diversi percorsi che sono stati allestiti lungo le pendici del monte per farvi apprezzare al meglio le incisioni: il Kudu Dancing Trek e il Lion Trek. Entrambi i percorsi sono attrezzati con corrimano e scale per farvi osservare le opere dalla migliore prospettiva possibile. E ovviamente per agevolare il passaggio dei numerosi turisti.Qui potrete osservare anche la fonte di Twyfelfontein, che ha dato il nome a questa zona. Twyfelfontein significa infatti “fontana dubbiosa” perché in origine i primi coloni bianchi che si spinsero in questa zona, dubitavano della presenza di acqua in un territorio cosi aspro e arido e di conseguenza ritenevano impossibile viverci. Oggi sappiamo che si sbagliavano.Vi stupirete di fronte alla vista delle così dette “lavagne preistoriche”, enormi blocchi di arenaria su cui sono stati incisi tutti gli animali della savana: elefanti, giraffe, leoni, rinoceronti, struzzi, ci sono addirittura le otarie! A testimonianza che milioni di anni non lontano da qui c’era il mare. Sono positivamente colpita dall’ abilità di questi popoli primitivi nel rappresentare le scene di vita del tempo e penso che se dovessi cercare di riprodurre gli stessi animali, molto probabilmente eseguirei esattamente gli stessi graffiti, nonostante siano trascorsi milioni di anni! Questo pensiero mi affascina.L’incisone più fotografata è sicuramente il leone con la coda eretta, usato anche come logo dell’associazione. Si ritiene fosse in realtà la rappresentazione di uno sciamano, un uomo-dio venerato e osannato dalle tribù.
Incontro con i San nel deserto del Kalahari
Prima colazione e partenza verso la più grande massa di sabbia della Terra, il Kalahari Desert. I Boscimani lo chiamano Anima del Mondo, un modo caloroso ed emotivo per descrivere queste terre sconfinate abitate da una varietà incredibile di antilopi, piccoli mammiferi, insetti e rettili che rendono il deserto del Kalahari un ecosistema speciale e unico. Pranzo in corso di viaggio, cena e pernottamento al Aoub Lodge; serata tranquilla: assistiamo ad una matrimonio tra due coloured...si chiamano così gli appartenenti ad una etnia mista, tra i misti! Un'altra etnia, una via di mezzo tra bianchi e neri....e sì che sono strani....
Al mattino, arrivo e trasferimento allo Zebra lodge. I compagni di viaggio partono ed io, che non ho resistito al fascino dell'Africa, resto nel deserto del Kalahari per incontrare i San.... !!!
I componenti del gruppo scendono dal camion per un ultimo saluto prima di ripartire. Io ed il cameraman, veniamo prelevati da una jeep per scomparire dopo breve dietro un cancello del nulla, situato nel mezzo della sabbia rossa del deserto del Kalahari e scomparire.....dietro la collina.
Il richiamo per me è troppo forte....voglio incontrare quelli che sembra siano i più antichi Uomini del mondo...e presto accadrà. Una volta depositate le valigie in questo splendido lodge, mi precipito per incontrare i pochi uomini San rimasti vivi al mondo...
Improvvisamente dal nulla appaiono sei giovani San, ricoperti solo da una gonnellino poggiata sui fianchi fatta di pelle di antilope.... resto esterrefatta....
Sono veloci, istintivi, attenti, intelligenti, muniti di un bastone con cui solo soliti cacciare..... raggiungono il lodge..... Assieme a loro il traduttore di lingua click-inglese!!! Salutano, parlano, si presentano.....non so più cosa fanno: ....cantano, parlano, suonano, guardano.....perdo il senso della razionalità.... mi emoziono...li guardo esterrefatta!
Non so più se guardarli o ascoltarli...resto immobile a guardare i loro volti...simili ed al contempo diversi dal mio di donna moderna......ma c'è di più... Sono creature meravigliose...non sono molto alti; anzi.. Sono uomini in miniatura e vivono di caccia, come l'Uomo viveva in natura; sono dotati di una saggezza antica, tesa alla sopravvivenza nel deserto, e così di padre in figlio oralmente hanno tramandato la loro cultura, e miracolosamente sono arrivati fino a noi, mantenendo un aspetto arcaico, un po' differente dal nostro.
Infatti, al nostro incontro ridono....perché la differenza non è poca. Inoltre sanno di sembrare molto più giovani di quello che in realtà sono... sembrano avere il dono della giovinezza. Sembrano tutti adolescenti. Mentre non è così ed il loro capo di 34 anni ha il volto triste. Poi gli chiedo il perché di un tatuaggio che prontamente fotografo sul suo braccio: ha lasciato sua moglie e suo figlio al villaggio e ne sente la mancanza. Così ha si è fatto il tatuaggio ed ha portato sua moglie con sé.
Io ho imparato a parlare con lui con il mimo. Ho messo la mano sul cuore mostrando il battito....per esprimere il sentimento di amore e ho indicato la statura di un bambino.... ha capito perfettamente il mio mimo.... e mi ha sorriso....ebbene si!
Sono riuscita ad entrare in contatto con loro e ad avere il loro rispetto....ora possiamo interagire alla pari.... Talmente emozionata, ho immortalato con più scatti che potevo le loro voci, i loro visi, i loro gesti mentre ho lasciato la telecamera fare il suo lavoro coadiuvata dal treppiedi un po' sbilenco. Non ho mai visto niente di simile. Pongo ulteriori domande attraverso il traduttore - per la prima volta nella mia vita - e mi sembra di parlare ai miei antichi progenitori....ascolto e guardo il traduttore in attesa che i loro suoni siano tradotti in inglese. E' molto difficile ripetere i sette suoni che sono alla base della loro lingua: in un intervallare di sensazioni ed emozioni.
Se io sono qui è grazie a loro, penso dentro di me!!! Chiedo se vogliono vivere all'Occidentale. Mi dicono che non hanno più scelta. Non possono più cacciare. Allora ne deduco che i territori sono tutti privatizzati e divenuti proprietà delle farm. Ma ho intervistato nel merito il Presidente della Repubblica Sam Nujoma il giorno successivo all'incontro ed il Ministro dell'economia del Governo della Namibia, due giorni dopo.
Pongo la medesima domanda ad entrambi: lo dovevo ai San ed agli Himba e mi sono fatta portavoce dei loro bisogni presso i loro capi politici. Entrambi sottolineano l'esigenza di mandare a scuola i bambini Himba e San come gli altri e diventare parte attiva della Namibia, in quanto loro nazione. Non devono vivere emarginati, come ora - costoro pensano - dal resto del mondo.
Esiste a sentir loro un problema di tasse! Sembra che debbano pagare le tasse per cacciare. Il Governo namibiano sta fronteggiando tale problema perché i cittadini locali ne pagano troppe!
Questo problema l'ho già sentito...e stanno prefigurando un sistema di tipo proporzionale: le tasse verranno pagate in base al reddito!
Una fortuna per i San e per gli Himba che come reddito hanno solo le mucche e gli orici...
Onestamente, i punti di vista sono diversi e la situazione è molto complessa. Per me devono essere loro a decidere. Ma questa è la mia umile posizione.
Dono loro con semplicità il mio libro..... non sanno leggere, figuriamoci la lingua italiana, ma sanno guardare le figure....si riconoscono nelle pitture rupestri fotografate....eh sì.
I San non lo sanno ma sono famosi nel mondo per le splendide pitture rupestri presenti in tutta l'Africa australe da oltre 6.000 anni fa disegnate dai loro antenati. Hanno scritto intere enciclopedie sul mondo animale ivi presente e sugli uomini e le loro tradizioni, abitudini e piante tanto da far diventare inquietante l'interpretazione degli antropologi della famosa Dama bianca della Namibia che ha messo in ginocchio generazioni di scienziati..... Grazie ad essi, sappiamo del processo di desertificazione che ha avuto luogo in Africa. ...non solo.... le pitture rupestri sono vere e proprie opere d'arte....
E così i San ci insegnano a cacciare, a bere, a mangiare, ad avvelenare gli animali ed a nutrirsi... Mimano, suonano, schioccano la lingua, parlano...sono un incanto! Ho registrato tutto. Seguirà un documentario solo ed esclusivamente su di loro. Non sappiamo quanto ancora queste popolazioni sopravviveranno alla civiltà occidentale.
Mi sento davvero fortunata ad aver avuto la possibilità di incontrarli. Mi hanno detto che è molto importante che si parli delle loro tradizioni e delle loro abitudini.
E così imparano a volermi bene, anche se non sono come loro. Ho espresso il mio desiderio di imparare la loro lingua! Mi hanno risposto che ci vuole tempo e che in tal caso io dovrei vivere un po' di tempo con loro e condividere la vita in un loro villaggio!!!
Forse un giorno.....In verità, io il salto nel vuoto non sono mai riuscita a farlo...e così inspiro tutto l'ossigeno che posso quando vivo queste realtà e lo trattengo. Sognando l'Africa, per tutto il tempo che mi separa dalla stessa, ricordo spesso tutte le sensazioni provate nel mio percorso di viaggio.
Un ultimo brindisi al tramonto africano, in cima ad una duna rossa, dopo aver avvistato una coppia di leoni del deserto del Kalahari, mentre riposavano tra la sterpaglia: sono più spettinati degli altri.....e più selvaggi forse a causa dell'ambiente ostile.
(Le pitture rupestri sparse in tutte le grotte e tra le rocce nella maggior parte dell'Africa australe sono prodotte dagli antichi San. Lo stile è simile a quello delle pitture rupestri preistoriche del resto dell'Africa e dell'Europa, dalla Tanzania al Sahara, dal Nord Africa alla Spagna e Francia. La ovvia analogia nella forma e nello stile non è considerata abbastanza evidente per dimostrare una connessione etnica o persino culturale tra loro. Oggi i Khoisan non producono più pitture di questo tipo.
Vi sono comunque resoconti che testimoniano la produzione di questi dipinti durante l'ultimo secolo. Le incisioni sembrano più antiche. In generale essi riproducono animali: gazzelle, antilopi, elefanti, struzzi. Nel Sahara gli animali selvaggi dipinti permisero di datare le pitture. Ma questo non è sempre possibile nell'Africa australe, dove gli animali sono sempre i medesimi. La stratigrafia del colore mostra che i dipinti monocromi precedono quelli bicromi, e policromi. L'esatta riproduzione degli animali può essere a volte sorprendente così pure le figure umane. I cacciatori sono dipinti o soli o in gruppo, ma catturano l'agilità dei movimenti. Spesso si riconosce l'origine etnica delle figure: i Khoisan sono piccoli, riprodotti con il giallo, rosso e marrone, i Bantu sono alti e neri; gli Europei indossano vestiti e sono armati.
Il periodo pre-Bantu risale ad un periodo anteriore al 1600; le figure europee risalgono ai secoli XVIII e XIX. Non abbiamo bisogno di ipotizzare alcunché circa i riferimenti culturali, storici, quando si interpretano queste rappresentazioni. Per esempio, gli abiti sumeri di alcuni dipinti non sono affatto sumeri ma mostrano il modo in cui gli abitanti delle montagne del Lesotho si vestono. Allo stesso modo, la figura inusuale nella Gole di Tsinab in Namibia, chiamata "La dama bianca di Brandberg", è senza alcun dubbio un uomo africano ricoperto di decorazioni bianche secondo la tradizione di molti popoli africani. La spiegazione per cui i dipinti avessero una motivazione magica sembra plausibile, ma dobbiamo riconoscere lo stile, al di là della abilità tecnica, ed il senso estetico utilizzato dai Khoisan che evidenzia il contatto con la natura e con un alto grado di partecipazione sociale. 
La stabilizzazione dei Bantu in Africa australe è abbastanza recente. Risale ai primi secoli prima di Cristo. Comunque i movimenti migratori, con la formazione di nuovi gruppi etnici, non era ancora finita nel 19esimo secolo. 
Durante i continui studi, molti resti archeologici sono venuti alla luce in relazione ai più antichi movimenti, i più impressionanti e più conosciuti dei quali sono quelli nello Zimbabwe. I Bantu, comunque, si spinsero in avanti, espandendo i lori territori alle estremità Sud dell'Africa mescolandosi con i Khoisan che, trovandosi in minoranza, andarono verso Nord).


Le antichissime immagini scolpite sulla roccia nel cuore del Damaraland, Namibia. L’incontro con le stupende incisioni rupestri di Twyfelfontein
C’è qualcosa di profondamente commovente nel trovarsi davanti al segno lasciato dall’uomo di un passato remoto e nel cercare di capirlo, di immaginare la mano che lo ha tracciato. Qui, sulle rocce di Twyfelfontein, c’è anche l’impronta di una di quelle mani di seimila anni fa che hanno disegnato con mano sensibile leoni, giraffe, rinoceronti e altri animali sulla roccia rossa di quello che oggi è il Damaraland. E’ un’impronta piccola, ma è quella di un uomo, non ci si può sbagliare. In questa regione la roccia parla e le occasioni di ascoltare le storie che racconta sono innumerevoli. Le incisioni rupestri di Twyfelfontein sono tantissime: questa vallata riarsa e stupenda è infatti ricoperta da 2500 opere, forse di più. E non sono le uniche, nel Damaraland. A poco più di cento chilometri da qui c’è il massiccio del Brandberg, famoso per la White Lady.
Le figure create sulla roccia sono talmente sinuose e vicine l’una all’altra che sembrano muoversi. Quando le guardo con la coda dell’occhio si mettono a danzare come in un cartone animato: orici, struzzi, giraffe, springbock, kudu , elefantiche si confondono l’uno con l’altro. Ma no, non si muovono, se non nella mia mente. “Immagini propiziatorie per la caccia” avevo letto. “E’ come una mappa” ci spiega, invece la nostra guida, una simpatica ragazza Damara che si diverte a farci sentire gli schiocchi tipici della sua lingua. E’ un copione che ripete sicuramente ogni giorno, ma che non sembra annoiarla neanche oggi che il suo pubblico è ridotto a una coppia di italiani e una di tedeschi. Ci mostra sulla pietra, accanto agli animali, cerchi, segni che potrebbero essere laghi e fiumi: indicazioni geografiche per trovare gli animali e il cibo.
Erano immagini con un significato magico, spiegavano invece i pannelli all’ingresso del parco: ecco gli animali con le zampe allungate che mostrano la tensione verso un altro mondo, ecco le spirali che aiutano a entrare in trance, ecco il leone con la coda che si trasforma in una mano. Rappresenta lo sciamano. Forse queste figure erano davvero tutto questo.
Davanti a queste immagini mi sembra quasi di parlare con questi uomini, avverto una connessione che attraversa lo spazio e il tempo. E’ quasi come comunicare col passato, una breve conversazione, con la differenza, rispetto a una normale chiacchierata, che non ci sono risposte. Non c’è modo di capirsi, solo di riconoscersi, come se ci gridassimo dalle due sponde di un fiume, senza sentire quello che diciamo.
Ma siamo uomini, camminiamo e abbiamo camminato su questa terra e c’è qualcosa che ci lega.
I primi a tracciare questi graffiti appartenevano, secondo gli archeologi, alla cosiddetta cultura di Wilton. Poi,  qualche migliaio di anni dopo, sono arrivati i khoi, affini ai san, altro popolo antichissimo (ci sono elementi che fanno risalire la loro cultura a oltre 40mila anni fa, conferma Wikipedia) che ancora oggi vive in Namibia, anche se da tutt’altra parte, a est. Sono detti anche bushmen (boscimani), gli uomini delle terre selvagge.
Il tedesco che è con noi fa alla guida una domanda interessante, ma in fondo ingenua: “I san vengono mai a vedere queste incisioni dei loro antenati?”. La risposta è netta: “No, in dieci anni non ne ho mai visto uno… hanno le loro vite. E altri problemi a cui pensare”.

Il nome Twyfelfontein, che significa ‘fonte incerta’ in afrikaans, risale a David Levin che alla fine degli anni quaranta si trasferì nella valle con la famiglia. L’unica sorgente in zona era molto debole e fonte di costante preoccupazione. Fu sempre Levin a ‘scoprire’ le incisioni, la cui presenza era però già nota alle popolazioni locali. Twyfelfontein dal 2007 è patrimonio dell’umanità Unesco.

 


La Dama bianca della Namibia


La Namibia, che ha recentemente raggiunto l'indipendenza, non può essere trattata distintamente dal Sud Africa, da un punto di vista storico, geografico ed etnico. Particolarmente attraente e misteriosa appare la cosiddetta White Lady, una delle più affascinanti pitture rupestri dei San, conosciuti da noi come Boscimani, la più antica popolazione dell'Africa australe. In passato, la Dama Bianca ha suscitato molte controversie e sono state formulate numerose teorie contrastanti per spiegare la sua presenza nel Brandberg. Tra le figure umane emerge chiaramente differente una figura umana di pelle bianca, che 1.800 anni fa, data cui sembra risalire la pittura rupestre, non era possibile riscontrare nell'area. Nel Brandberg si contano circa un migliaio di pareti rocciose dipinte, per un totale di oltre 45.000 figure, soprattutto di uomini e animali. Il complesso pittorico della Dama Bianca si trova in una grotta chiamata "Maack Shelter" ("rifugio di Maack") dal nome del cartografo che per primo trovò il dipinto in epoca coloniale tedesca. Il complesso pittorico della Dama Bianca comprende numerosi soggetti, sia umani che animali (probabilmente orici) e misura approssimativamente 5,5 x 1,5 m. La Dama Bianca (in inglese The White Lady, in tedesco Weisse Dame) è un celebre dipinto rupestre situato in Namibia, sui monti Brandberg, nella zona del Damaraland. L'archeologia moderna attribuisce in genere il dipinto ai Boscimani (San), ma altri dettagli della sua origine non sono noti.
Il dipinto si trova nel cuore del Brandberg, grosso modo sulla strada fra Khorixas e Henties Bay, nei pressi della cittadina di Uis. Il sito è raggiungibile solo a piedi, al termine di un percorso di circa 40 minuti che segue una stretta valle nota come Gola di Tsisab (Tsisab Gorge. Il dipinto venne scoperto nel 1918 dall'esploratore e topografo tedesco Reinhard Maack, che stava cartografando il Brandberg per conto delle autorità coloniali tedesche. Maack fu impressionato dal disegno, e ne fece diverse copie, che in seguito inviò in Europa. Egli descrisse la figura con l'arco come un "guerriero", e annotò nei suoi appunti che "lo stile mediterraneo ed egizio di queste figure è sorprendente". Nel 1929, gli appunti di Maack giunsero nelle mani dell'abate francese Henri Breuil, antropologo e archeologo (ricordato tra l'altro per i suoi ritrovamenti nelle grotte di Lascaux), che era in visita a Città del Capo.
Sulla base dei disegni di Maack, Breuil osservò che il dipinto aveva forti analogie con alcune figure di atleti ritrovate a Cnosso, e suggerì che potesse essere opera di un gruppo di coloni provenienti dal Mediterraneo orientale. Fu ancora Breuil a interpretare il soggetto del dipinto come "dama", lettura da cui deriva il nome attuale con cui l'opera è nota. Breuil riuscì a visitare il sito nel 1945, e negli anni successivi pubblicò le sue osservazioni e congetture prima in Sudafrica e poi in Europa.
Il lavoro di Breuil diede origine a una serie di teorie che attribuivano il dipinto a una misteriosa presenza di popoli di origine europea o mediorientale in Namibia in tempi antichi. Alcuni autori sostennero in particolare che esso poteva risalire a un'antica colonia fenicia, teoria che è stata ripresa anche da autori recenti come lo storico zulu Credo Mutwa. Nella seconda metà del XX secolo la maggior parte delle teorie sulle influenze mediterranee nello sviluppo dell'Africa subsahariana vennero gradualmente abbandonate. La paternità del dipinto della Dama Bianca venne quindi attribuita più semplicemente ai boscimani (che popolavano l'area fin dalla preistoria, e a cui erano già stati attribuiti in modo meno controverso gli altri dipinti del Brandberg e l'arte rupestre presente in altri siti del Damaraland, come Twyfelfontein).
Alle diverse teorie sulla paternità dell'opera sono state associate nel tempo ipotesi molto diverse sulla sua datazione. L'analisi cromatografica ha determinato che il dipinto non può avere meno di 1800 anni, in quanto risulta totalmente privo delle proteine originariamente presenti nei pigmenti utilizzati per dipingerlo. Si ritiene che il gruppo della Dama Bianca rappresenti complessivamente una danza rituale, e che la figura predominante - la "Dama" - sia in realtà uno sciamano.
Lo sciamano indossa coperture decorative alle braccia, ai gomiti, alle ginocchia, al bacino e al petto, e forse anche un indumento decorativo al pene. In una mano regge un arco, e nell'altra quello che potrebbe essere un sonaglio o una specie di calice. Tutte le altre figure umane indossano qualche tipo di calzatura, e uno degli orici è stato rappresentato con gambe evidentemente umane. Un'altra interpretazione è che la Dama sia un giovane col corpo cosparso d'argilla bianca secondo una procedura rituale, forse connessa alla circoncisione.
I materiali usati per realizzare il dipinto sono probabilmente quelli tipici della pittura boscimane, ovvero principalmente polveri di pietra ferrosa ed ematite, ocra, carbone, manganese, e carbonato di calcio, miscelati con bianco d'uovo e altri liquidi di origine organica come aggreganti. Tutto il complesso pittorico ha subìto un notevole deterioramento dai tempi del suo ritrovamento. In passato, i turisti talvolta bagnavano la roccia per far risaltare meglio i colori nelle fotografie, e l'immagine si è rapidamente sbiadita. Oggi l'intero sito è un'area protetta, con lo status di "patrimonio nazionale" della Namibia, e può essere visitato solo insieme a guide autorizzate.

 

l nome la Via della Seta si deve al Geografo tedesco Ferdinand Von Richthofen, (1883–1905), che nell’introduzione alla sua opera, “Tagebucher aus China”, (1877), utilizza il termine Seidenstraße, la «Via della Seta», per definire dal punto di vista storico, geografico, sociale ed economico quell’insieme di percorsi carovanieri e rotte commerciali, marittime e fluviali che congiungevano l’Asia Orientale, in particolare la Cina, al Vicino Oriente ed al bacino del Mediterraneo.

Si trattava di almeno 5 vie commerciali principali, alle quali nel corso del tempo si associarono deviazioni secondarie. Il ramo primario aveva la sua partenza dalle antiche capitali Cinesi Xi’an e Luoyang, nel bacino del Fiume Giallo, attraversava lo storico ed impervio corridoio del Gansu, raggiungendo la Cina occidentale nella regione dello Xinjiang per poi proseguire verso l’Asia Centrale e quindi l’Europa.


Dalla Cina e dall’Oriente arrivarono in Europa pietre preziose, spezie, profumi, medicinali, bestiame, porcellana, giada, oggetti in bronzo e lacca, specchi. Miglio, riso, tè, grandi invenzioni che segnarono profondamente la storia occidentale come la carta e la polvere da sparo.
Naturalmente in grandi quantità, tanto da attribuire il nome all’intero sistema delle vie di comunicazione, prodotti in Seta, la merce per eccellenza, oggetto per secoli di un vero e proprio segreto della civiltà cinese, la merce più preziosa, leggera, facile da trasportare.
UNA MERCE PAGATA A PESO D’ORO, SOPRATTUTTO IN EPOCA ROMANA, TANTO DA OBBLIGARE IL SENATO ROMANO ALL’EMANAZIONI DI EDITTI PER IMPEDIRNE L’USO AL FINE DI EVITARE PROBLEMI FINANZIARI.
In senso contrario Dall’Europa/Asia arrivarono in Cina metalli preziosi, lana, pelli di animali, tessuti di cotone, ricami in filo d’oro, bestiame cavalli, cammelli e pecore, prodotti agricoli quali il frumento, fagiolini, erba medica, sesamo, cipolle, cetrioli, carote, melograni, uva, pesche, fichi, angurie ma anche religioni e scuole di pensiero quali il Buddismo, l’Islam ed il Cristianesimo.
viaggiatori sulla via della setaLa nascita della Via della Seta può essere fatta risalirà a più di 2000 anni fa quando per volere dell’Imperatore Wudi, (156/87 a.C.), della dinastia Han, (206 a.C./220 d.C.), fu attuata una “rivoluzionaria” apertura da parte dell’allora protetta ed ancora sconosciuta economia e società Cinese, verso mercati limitrofi, aprendo rotte commerciali con l’Asia Centrale e gradualmente verso l’Europa.
La nomina del generale Zhang Qian come ambasciatore dell’Impero in Asia Centrale aprì di fatto questo momento storico che si protrasse fino al 1368 d.C. quando, con la caduta della dinastia mongola Yuan, (1279/1368), le vie di comunicazioni non risultarono vie ormai più sicure e vennero sostituite gradualmente da commerci marittimi più veloci.
ALCUNE TAPPE STORICHE DELLA VIA DELLA SETA:

1000 a.C. – Dinastia Shang, i mercanti del popolo Yuezhi del Xinjiang creano i primi percorsi commerciali lungo il cosiddetto “corridoio del Gansu”. La Seta viene portata verso la Siberia ma si ipotizza, da ritrovamenti di fibre seriche in una tomba di un faraone egizio databile intorno al 1070 a.C., che ci fossero già scambi commerciali lungo la Via della Seta meridionale;
600 a.C. – Dinastia Zhou, (1045/221 a.C.), iniziano i primi scambi commerciali con l’Europa di oro, giada e seta. Ritrovamenti di tracce di seta in una tomba in Germania risalgono già al VI secolo a.C.;
138 a.C. – Zhang Qian esplorò e rese sicure le rotte commerciali che da Xi’An si spingevano a Ovest, debellando il problema dei predoni che assalivano regolarmente le carovane;
220/581 d.C. – (Epoca dei Tre Regni) – cade la dinastia Han. Disordini sociali e scarso controllo militare determinano una brusca interruzione del commercio lungo la Via della Seta;
618/671 – Dinastia Tang. Le tribù turche che avevano preso il controllo dei mercati e di quello della seta in particolare, vengono conquistate e viene riaperto il canale commerciale diretto con l’Europa;
629 – Il monaco Xuanzang, percorre la Via della Seta fino all’India creando le condizioni per una notevole crescita delle relazioni con questa area geografica. Nasce la leggenda del “Viaggio in Occidente” uno dei classici della letteratura cinese;
1271/1368 – Il leggendario condottiero mongolo Gengis Khan conquista i vari piccoli stati dell’Asia centrale ed orientale, unificando l’intero territorio. Con il nipote Kublai Khan fonda la dinastia Yuan. La Via della Seta viene riaperta e i commerci rifioriscono.
marco polo vie commerciali
1269 –Marco Polo (1254/1324), “Quivi si fa molta seta” con queste parole Marco Polo descrive nel Milione l’economia della provincia cinese del Catai. Leggendari i suoi lasciapassare emessi dal governo Tuan che gli permettono di spostarsi liberamente in queste regioni in un momento storico nei quali i commerci ebbero il loro massimo splendore: pietre preziose, spezie, profumi, medicinali, bestiame, schiavi ed in grandi quantità prodotti in Seta;
1368/1644 – Cade l’impero Tuan e nasce quello Ming. La tecnica della produzione di seta si era ormai diffusa nell’Europa, prima in Italia e intorno al 1400 anche in Francia nel distretto di Lione. L’impero Ming sceglie una politica di estrema chiusura e gli scambi sulla Via della Seta definitivamente interrotti

 Già in epoca romana questo lunghissimo itinerario attraversava tutta l’Asia, dalla sua estremità più orientale, fino ai confini con il continente europeo.


I mercanti cinesi

Per centinaia e centinaia di anni, i mercanti cinesi che commerciavano con l’Occidente, cioè con l’Europa, dovevano percorrere l’antica Via della Seta.

Erano 8 000 chilometri di pianure senza fine, alte montagne, passi pericolosi da attraversare, su cammelli e con carri trainati da cavalli, dall’Oceano Pacifico al Mar Mediterraneo. Le difficoltà erano molte: mesi o anche anni lontano da casa, fatica, cattivo tempo e banditi sempre in agguato. Ma i mercanti che si affrontavano questi rischi riuscivano poi a ottenere grandi guadagni.

 

Tappe importanti erano Samarcanda (oggi in Uzbekistan) e Bisanzio (poi Costantinopoli, l’attuale Istanbul, in Turchia).

Giunti al Mediterraneo i mercanti percorrevano, a volte via mare a volte via terra, gli ultimi chilometri per arrivare a Roma e in altre città importanti dell’impero romano. Potevano così finalmente vendere i propri preziosi prodotti, primo fra tutti la seta. Infatti, mentre la produzione di seta dai bozzoli dei bachi era già conosciuta in Cina dal 3000 a.C., in Europa l’origine di questo bellissimo tessuto era ancora sconosciuta. Ma i patrizi romani erano innamorati di questa stoffa tanto morbida e luminosa…


I mercanti europei

Durante il Medioevo alcuni mercanti europei percorsero la Via della Seta al contrario, ma solo una spedizione veneziana, che comprendeva il giovanissimo Marco Polo (quando partì aveva 17 anni, ma quando tornò ne aveva più di 40), riuscì ad arrivare fino in Cina. Il racconto della sua lunga visita in questo Paese, descritta nel libro Il Milione, restò a lungo per gli europei la base della conoscenza della civiltà cinese.

 

Commercio e scambio di idee

 

 

 

 

 

 


L’importanza della Via della Seta non era infatti solo commerciale, perché permise soprattutto l’incontro di uomini e di culture. Popoli diversissimi tra loro entrarono in contatto e cominciarono a conoscersi. Si scambiarono così anche usi, costumi, scoperte e invenzioni. Si comunicarono idee legate alla matematica, all’astronomia, alla tecnica, alla religione.

 


Le nuove Vie della Seta

 

Oggi il governo cinese sta dando una nuova vita a questa antica via di comunicazione.

 

Vie della Seta

La Cina è diventata la seconda potenza economica del pianeta, dopo gli Stati Uniti, e commercia ormai con tutti i Paesi del mondo. Così, ha lanciato la “Nuova Via della Seta” che ha l’obiettivo di creare collegamenti tra Cina ed Europa, ma anche con l’Africa e il resto dell’Asia. Questo grande progetto di investimenti e cooperazione economica coinvolge decine di Paesi, due oceani e diversi mari, oltre 3 miliardi di persone e un terzo della ricchezza mondiale.

Per far viaggiare le merci e la tecnologia attraverso questa moderna Via della Seta si costruiscono nuovi porti, nuove strade, nuove ferrovie, utilizzando le più avanzate conoscenze della tecnica.

 

Via terra e via mare

Dovremmo in realtà parlare di Vie della Seta al plurale, perché c’è un itinerario terrestre e uno marittimo. Quest’ultimo parte dall’Oceano Pacifico per raggiungere la città di Venezia, attraversando l’Oceano Indiano, il Mar Rosso e il Mar Mediterraneo. Da Venezia, una via terrestre porta poi fino ai porti del Mare del Nord.

Come in passato, questa nuove vie dei commerci hanno all’inizio una motivazione economica, ma permettono poi anche di unire maggiormente i popoli, mettendo in contatto diverse conoscenze, modi di vivere e di pensare. Se sono fatti nel rispetto reciproco, i traffici mercantili sono un importante elemento di pace per i territori che attraversano.

Anche il commercio internazionale è uno strumento importante per raggiungere i traguardi di collaborazione tra i diversi Paesi che si è posto l’Obiettivo 17 dell’Agenda 2030.

 

 


LA NUOVA VIA DELLA SETA

La nuova Via della Seta più che un progetto rappresenta un sistema complesso attraverso il quale il governo di Pechino intende consolidare e rilanciare l’interconnessione infrastrutturale e commerciale Cinese con il continente Euroasiatico.
nuova via della seta moderna

Il progetto BRI, “Belt and Road Initiative”, corrispondente all’acronimo inglese OBOR, (One Belt, One Road), annunciato nel 2013 dal presidente Cinese Xi Jinping e promosso dal ministro Li Keqiang, denominato come “La nuova Via della Seta”, richiamando l’epopea degli scambi dove la Seta rappresentava il fulcro di un sistema in grande espansione, si pone l’obbiettivo di realizzare di fatto ciò che durante il XIX congresso del Partito comunista cinese venne definito ”The Chinese dream is a dream about history, the present and the future”

ALCUNI DATI SUI 65 PAESI COINVOLTI

63% della popolazione mondiale 4,4 miliardi di persone;
29% del Pil mondiale per 21 miliardi di Dollari;
75% delle riserve energetiche.
3 principali direttrici

Dall’Europa attraversando Kazakhstan, Russia e Polonia verso il Mar Baltico;
Ripresa della via Transiberiana;
Più a Sud più la direttrice per il Golfo Persico, toccando Islamabad, Teheran e Istanbul.
2 rotte marittime

Dal porto cinese di Fuzhou attraverso l’Oceano Indiano e il mar Rosso fino all’Africa congiungendo i porti Europei meridionali (Italia e Grecia);
Dal porto cinese di Fuzhou verso le isole del Pacifico.
Una serie di gasdotti ed oleodotti.
900 miliardi di Dollari di investimento previsto su due macro-progetti e direttrici complementari

Silk Road Economic Belt del tratto terrestre;
Maritime Silk Road tratto marittimo.
Il più grande progetto di investimento mondiale pari almeno 12 volte l’European Recovery Program, meglio noto come Piano Marshall.
Costituzione della Banca Asiatica d’Investimento per le Infrastrutture (AIIIB )con un capitale di 100 miliardi di Dollari

 

 

 

 


Un progetto ambizioso e colossale che proprio per le sue dimensioni ed implicazioni non solo strutturali ma anche economiche e sociali è e sarà a maggior ragione oggetto di continue ridefinizioni nonché di pressioni e contrapposizioni politiche economiche e sociali da parte delle altre potenze economiche mondiali (Europa/USA/Russia/India).

 

 

 

 

Dubai, un’ambizione che corre sulle Nuove Vie della Seta

Tra tutte le metropoli arabe del Golfo, quella più presente nell’immaginario collettivo è, senza dubbio, Dubai. Il suo ruolo di grande hub per i trasporti globali, le avveniristiche costruzioni, la mole di eventi che ospita (a cominciare dalla prossima edizione di Expo) sono alcuni degli aspetti che rendono la città emiratina l’esempio per eccellenza delle ambizioni dei ricchissimi sceicchi dell’area. Rispetto a Doha, o Abu Dhabi, capitale nonché rivale interna negli Emirati Arabi Uniti, Dubai è la città che meglio è riuscita ad affrancare il proprio benessere dalla dipendenza dagli idrocarburi, diventando addirittura, nell’arco di un paio di decenni, una rinomata meta turistica.
Il successo di Dubai, città capitale dell’omonimo Emirato, è innanzitutto dovuto alla struttura federale degli Emirati Arabi Uniti, che ha consentito ai regnanti locali di perseguire una politica di sviluppo del tutto indipendente dal resto dello Stato e distinta rispetto all’altro grande emirato del Paese, quello di Abu Dhabi. Se per la capitale il motore dello sviluppo è rappresentato, in linea con il resto della regione, dall’esportazione di petrolio e gas naturale, Dubai si è invece concentrata sullo sviluppo del commercio globale. La competizione tra i due emirati non ha mai causato crisi all’interno dello Stato; al contrario, la loro differente natura e la mutua collaborazione hanno permesso agli Emirati Arabi Uniti di prosperare e diventare il più importante tra i Paesi arabi del Golfo dopo l’Arabia Saudita.
La ricchezza della città è seconda solo alla smisurata ambizione dei suoi governanti. Un quadro chiaro su quello che Dubai intende diventare nei prossimi decenni è stato recentemente tracciato dal suo leader, nonché primo ministro e vicepresidente degli Emirati Arabi Uniti, lo sceicco Mohammed bin Rashid Al-Maktoum, noto a Dubai semplicemente come Big Mo. Al-Maktoum è stato tra i principali artefici del miracolo di Dubai e, in occasione dei cinquant’anni dal suo primo incarico di governo, ha voluto tracciare un percorso in nove tappe per la crescita futura dell’Emirato. Nel primo punto del documento viene sottolineato che già oggi Dubai ospita il più grande aeroporto internazionale del mondo e che nei prossimi dieci anni è previsto che saranno un miliardo le persone che vi transiteranno. Anche sul fronte marittimo la situazione si presentata come ottimale, con collegamenti portuali con centinaia di destinazioni. Il punto nodale del documento è molto ambizioso e allude nientemeno che a un ritorno ai fasti della Via della Seta nello sviluppo del commercio globale. Storicamente, infatti, una delle principali direttrici della Via delle Seta lambiva proprio le sponde arabe del Golfo Persico.
Il progetto che oggi si richiama a quel mitico percorso del passato, la Belt and Road Initiative (BRI) promossa da Pechino, prevede invece due tracciati principali: il primo, terrestre, raggiungerebbe l’Europa attraverso l’Asia Centrale, l’Iran, la Turchia e la Russia; il secondo, marittimo, passa per il Sud-Est asiatico, raggiunge i porti africani sull’Oceano Indiano ‒ costruiti con fondi cinesi ‒ per giungere infine nel Mediterraneo attraverso il Canale di Suez. In entrambi i casi, la zona del Golfo Persico sembra non essere coinvolta dalla Belt and Road cinese. Oltre che per fattori logistici, Dubai pare essere sfavorita da fattori politici: gli Emirati Arabi Uniti sono tra i più fidati alleati degli Stati Uniti, in accesa rivalità con l’Iran, alleato storico della Cina. Nonostante queste premesse, gli Emirati Arabi Uniti, con in testa proprio Dubai, sono riusciti negli anni ad attirarsi simpatie e finanziamenti dalla Cina e a rientrare nei faraonici piani di collegamento commerciale progettati da Pechino.
La Cina costituisce il partner commerciale principale di Dubai, con un giro d’affari da 60 miliardi di dollari nel 2017. Se da un lato la Cina non può lasciarsi sfuggire la possibilità di collegare la propria Belt and Road al terzo polo d’esportazione mondiale dopo Hong Kong e Singapore, dall’altro Dubai, sempre più desiderosa di divenire snodo cruciale dei traffici globali, non può permettersi di rimanere fuori dalla rete di collegamenti cinese. Uno dei più grandi operatori portuali di Dubai, la DP World, ha non a caso annunciato una partnership con la Zhejiang Provincial Seaport Investment & Operation Group per la costruzione di una stazione logistica per la Belt and Road a Dubai, con l’obiettivo di offrire servizi adeguati al flusso di merci che transiterà nei porti della città emiratina.
Se c’è però un aspetto del potenziale di Dubai che interessa molto la Cina è quello che riguarda i progetti di investimento sulle energie rinnovabili. Nell’estate del 2018 il Fondo cinese per la Via della Seta ha annunciato di voler acquisire un quarto della proprietà della futura, enorme centrale solare che verrà costruita nei pressi di Dubai. L’accordo è stato siglato durante la visita di tre giorni del presidente cinese Xi Jinping negli Emirati Arabi Uniti, che ha anche portato all’annuncio di investimenti cinesi nell’area per circa 20 miliardi di dollari. Soltanto pochi mesi prima, la Shangai Electric aveva annunciato un finanziamento per la costruzione della centrale. Musica per le orecchie di Al-Maktoum, il cui piano di sviluppo energetico prevede un significativo aumento della quota proveniente da fonti rinnovabili nei prossimi anni: dal 25% nel 2030 fino al 75% nel 2050.
Al netto però dei proclami, e nonostante l’impressionante crescita conseguita in termini di potere, prestigio e ricchezza, la strada da fare per Dubai per passare dall’essere una ricca metropoli a un polo d’attrazione globale appare ancora lunga. Il report della Banca mondiale che misura, in base a diversi parametri, la forza “logistica” dei vari Paesi pone nel 2018 gli Emirati Arabi Uniti subito al di fuori della top 10 globale. Un risultato incoraggiante e in leggera crescita rispetto al 2016 ma non ottimale se si pensa che la rivale Singapore, da sola, si colloca al settimo posto.
Nel XXI secolo la logistica delle merci certamente non costituisce il solo fattore del successo per un polo economico e commerciale. Per questo uno degli articoli della carta d’intenti dello sceicco vede Dubai come futuro punto di riferimento per il commercio virtuale. L’obiettivo è creare una vera e propria città virtuale per il commercio che induca ben 100.000 imprese a operare al suo interno. Allo stato attuale tuttavia, se si prende il settore economico che più tra tutti si presta ad essere liquido e intangibile, quello finanziario, Dubai si posiziona in una situazione non troppo diversa rispetto al suo potenziale logistico. Il Global Financial Index la colloca infatti al quindicesimo posto a livello globale; in crescita, ma ancora distante dai poli finanziari più importanti del pianeta.
Del resto, pur avendo saputo sfruttare a proprio vantaggio la crescita economica della regione legata al commercio degli idrocarburi, Dubai sperimenta anche i limiti di un paradigma di crescita estremamente legato alle performance dei suoi vicini. A differenza di Singapore, Dubai non può vantare una posizione realmente cruciale nei traffici commerciali del pianeta e se il Golfo non fosse tanto ricco grazie a petrolio e gas, con ogni probabilità gli investitori attratti da Dubai sarebbero molti di meno. Questo è un aspetto da affrontare nel quadro di futuri scenari “post-petroliferi”. La città sarà davvero in grado, con le sue sole forze, di conservare, se non persino ampliare, il proprio potenziale commerciale?
La diretta concorrenza di metropoli vicinissime, diverse per molti aspetti ma accomunate da una grande opulenza, è un altro aspetto potenzialmente limitante per Dubai. Tra Doha, Kuwait City, le grandi città saudite e, naturalmente, la rivale Abu Dhabi, sono molti i rischi che nel prossimo futuro Dubai, piuttosto che splendere di luce propria, possa adeguarsi a diventare solo una parte di un complesso più ampio. A questo contribuisce l’ultimo aspetto di criticità, probabilmente il più importante. Big Mo sa bene che non avendo alle spalle un grande Paese disposto a supportarne la crescita, il policy making cittadino è essenziale per vincere le sfide che ha posto alla sua creatura. Per questo ha promesso di redigere una carta programmatica della città ogni anno; una vera e propria versione in piccolo dei documenti strategici pubblicati dagli Stati.
Dubai però non è uno Stato indipendente. Nonostante la grande autonomia di cui gode, gli obiettivi della città non sono sempre coincidenti con quelli del resto del Paese, e soprattutto con quelli di Abu Dhabi, che invece è al meglio espressione delle ambizioni di tutti gli (altri) Emirati. La crisi finanziaria del 2008 pose Dubai, già al tempo proiettata nel mercato finanziario, sotto l’occhio preoccupato e vigile di Abu Dhabi e di tutto il Paese, nel timore che si dovesse attingere alla ricchezza ottenuta dagli idrocarburi per fare fronte alle perdite subite dalla città. Se finora Dubai ha potuto contare sul supporto di tutti gli Emirati, con il crescere delle ambizioni della città e del suo leader, potrebbe essere vista sempre più come una fonte di instabilità e di rischio.