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RIEDUCAZIONE DEI DETENUTI MINORENNI: UNA RIFLESSIONE di ALESSANDRA DI GIOVAMBATTISTA

LA RIEDUCAZIONE DEI DETENUTI MINORENNI: UNA RIFLESSIONE di Alessandra Di Giovambattista 

9-2-2023

La legge n. 103 del 2017, in tema di modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all'ordinamento penitenziario, contiene al suo interno anche delle deleghe; tra esse ci si vuol soffermare su quella che detta specifici principi e criteri direttivi per l'adeguamento delle norme dell'ordinamento penitenziario alle esigenze rieducative dei detenuti minorenni, con particolare attenzione all'istruzione ed ai contatti con la società esterna, in funzione del futuro reinserimento sociale del minore. Il provvedimento introduce e disciplina le misure penali di comunità, quali misure alternative alla detenzione rivolte esclusivamente ai condannati minorenni e ai giovani adulti (quelli di età inferiore ai 25 anni). Si tratta di: affidamento in prova al servizio sociale, affidamento in prova con detenzione domiciliare, detenzione domiciliare, semilibertà e affidamento in prova in casi particolari (cosiddetto affidamento terapeutico). Il collocamento del minore può avvenire in comunità pubbliche o del privato sociale, anche in gestione mista con enti locali.
La questione da porsi è se il carcere minorile e le pene inflitte al minore riescano effettivamente a risolvere le problematiche che hanno spinto il soggetto a delinquere. Nella maggior parte dei casi la risposta è negativa; si assiste molto spesso a situazioni in cui la struttura carceraria può addirittura aggravare le problematiche che hanno indotto il minore a compiere il reato, creando e/o consolidando uno stato di emarginazione e di auto esclusione rispetto al mondo esterno. Peraltro la pena detentiva favorisce la segregazione del minore in un ambiente in cui è forte e stretto il contatto con la delinquenza, rafforzando così i legami malavitosi ed accentuando il rapporto conflittuale con la società.
Da qui la necessità di ripensare le pene detentive inflitte ai minorenni; in particolare la detenzione deve rappresentare una misura residuale e applicabile solamente nel caso in cui le misure alternative siano fallite. Quindi le norme rivolte alla rieducazione dei minori devono avere un carattere di autonomia e specificità rispetto al complessivo sistema delle pene detentive in quanto per i minorenni è fondamentale individuare il trattamento che meglio risponda alla situazione psico-sociale del condannato, escludendo ogni rigido automatismo e favorendo, piuttosto, il ricorso alle misure alternative risocializzanti, che meglio possono contribuire al reinserimento del soggetto nella società e impedire che possa tornare a commettere nuovi reati.
Secondo gli ultimi dati tratti da ISTAT e dal Ministero della Giustizia, i detenuti presenti negli istituti penali per i minorenni, al 15 Dicembre 2022, sono 400 (390 uomini e 10 donne); 206 sono minorenni, mentre i restanti 194 hanno tra i 18 ed i 24 anni. Sono 199 gli italiani e 201 gli stranieri. Al 31 dicembre 2021 i detenuti presenti negli stessi istituti erano 318 (311 uomini e 7 donne); 136 erano minorenni e i restanti 182 avevano un’età compresa tra i 18 e i 24 anni. Del totale dei detenuti, il 42 per cento è straniero.
I dati sono in crescita e in generale si assiste ad un’emergenza educativa che spesso sfocia in situazioni di delinquenza minorile, espressa in diverse forme: bullismo, cyberbullismo, violenze fisiche, furti, scippi, spaccio di sostanze stupefacenti, prostituzione, e così via. Dalle ultime rilevazioni si evidenzia che occorre distribuire uniformemente sul territorio italiano i minori stranieri non accompagnati accolti in Italia, in quanto questi sono ragazzi vulnerabili: su 10 ragazzi scomparsi in Italia 9 sono minori stranieri non accompagnati. Dove finiscono? Spesso sono vittime di violenza, sono reclutati dalla malavita, sbandati ed abbandonati. Comunque, in generale, il problema riguarda tutti gli adolescenti; secondo la relazione del 2017 presentata dall’Autorità Garante per l’infanzia e l’adolescenza, i minori, adolescenti, sono “sempre più soli, bambini che chiedono di essere ascoltati e di giocare, con un utilizzo non consapevole dei social media; adulti sempre più distratti o assenti rappresentano indizi di una vera e propria emergenza educativa”. Più di recente, lo stesso organismo ha riportato all’attenzione - a ridosso dell’episodio che ha visto la fuga dall’istituto penale per minori Cesare Beccaria di sette ragazzi il giorno di Natale del 2022 - i temi del disagio e della devianza giovanile; pur riconoscendo che il nostro sistema penale minorile rappresenta un’eccellenza in Europa, va sottolineato che ora la sfida si gioca sulle modalità di pene alternative al carcere. La soluzione non può essere rappresentata esclusivamente dalla detenzione, occorre invece valorizzare le pene alternative; inoltre le sanzioni devono essere commisurate all’età del minore – egli si trova in un’età che vede un incompleto processo formativo, con la personalità ancora in corso di sviluppo ed evoluzione - e deve essere promossa la giustizia riparativa al fine di prevenire ed evitare il processo penale. In tale ambito si ricorda come uno dei principi fondamentali del Codice di Procedura Minorile sia la residualità della detenzione: tale misura è da utilizzare solo nel caso in cui le misure alternative siano fallite, costituendo la summa maxima del procedimento di emarginazione del soggetto.
Funzione rilevante viene svolta anche dai servizi del Ministero della Giustizia, nonché dai servizi sociali degli enti locali; questi ultimi riescono ad individuare le problematiche del minorenne, realizzando progetti di recupero in seguito ad un costante ascolto e in forza di una strutturata comunicazione con il minorenne e la sua famiglia. Il servizio sociale opera su aree diverse, sviluppando un notevole impegno nell’attività di sostegno e di recupero dei minorenni devianti, cercando di comprendere quali possano essere i provvedimenti più idonei da attuare.
Altro aspetto che riguarda il mondo degli adolescenti è la costante crescita della povertà nei nuclei familiari con bambini, specialmente nelle famiglie con tre o più figli minorenni. La povertà economica si traduce, facilmente, in povertà educativa creando ragazzi sempre più distanti dalla realtà che li circonda, sempre più disimpegnati e carichi di rabbia che spesso sfocia in violenza verso tutti, coetanei e non. Quindi una riflessione sull’aspetto educativo è prodromica se si vuol comprendere ed arginare il problema della delinquenza minorile e se si vogliono analizzare quanto siano proficue ed efficaci le possibili modalità di recupero dei minorenni detenuti o affidati alle strutture che implementano le misure alternative.
L’attenzione va posta soprattutto nel contesto di vita dei minori: esistono periferie che sono ghetti, dove l’unica cosa che i giovani possono fare è delinquere; non viene loro offerta alcuna alternativa sana che sia una palestra, un teatro, dei laboratori artigianali e creativi, degli oratori, ecc. Così come anche il troppo benessere induce i giovani benestanti alla ricerca di esperienze nuove spesso al limite della legalità che li possono condurre a commettere atti delinquenziali. Occorre quindi porre attenzione a tutte le forme di disagio e sarebbe auspicabile che in primis la scuola offrisse dei percorsi professionalizzanti e improntati su concrete possibilità di occupazione, affiancata dalle associazioni sportive, dalle parrocchie nonché dalle associazioni del terzo settore con la finalità di svolgere un ruolo aggregante, alternativo ed arginante della malavita. Sarebbe quindi necessario creare spazi di lavoro per i ragazzi che non intendono proseguire gli studi con la possibilità di poter accedere al mercato dei capitali con forme di finanziamento alternative e dirette, come ad esempio il crowfounding, che potrebbe assumere il connotato di “crowfoundig sociale - giovani”, magari con forme di garanzia dello Stato o degli enti locali.
Se un soggetto sceglie di delinquere solitamente è condizionato dall’ambiente in cui è cresciuto: può essersi trovato in un ambiente con poche regole o può aver subito l’indifferenza totale dei genitori; si potrebbe però trattare anche di famiglie con troppe regole, da cui l’adolescente vuole scappare perché si sente oppresso, o anche di situazioni svantaggiate in cui il minore potrebbe essere cresciuto, da cui vuole riscattarsi commettendo crimini per arricchirsi facilmente e velocemente. È importante comprendere, oggi più che mai, che l’indifferenza non educa; i bambini hanno bisogno di certezze ed apprendono le regole essenzialmente dai modelli e dall’insegnamento dei genitori e delle altre figure educative con cui vengono a contatto ed interiorizzano le regole attraverso l’esempio, la testimonianza ricevuta. Occorre anche sottolineare che gli esempi che oggi vengono offerti, specialmente dai media sempre meno indipendenti, si basano su una società c.d. “liquida” dove non c’è più certezza, neanche negli ambiti delle scienze naturali dove, in alcuni casi, le risposte sono nette ed oggettive. Quindi il disorientamento, specialmente per i giovani, è forte ed in alcuni casi sempre meno gestibile. E da qui l’importanza della presenza costruttiva e coraggiosa dei genitori, degli insegnanti, ma anche dei referenti degli ambienti aggreganti quali: palestre (quindi degli istruttori sportivi), oratori (i sacerdoti ed i catechisti nonché gli animatori), centri culturali in genere (pertanto i referenti degli ambienti artistici, dello spettacolo e dell’intrattenimento). Albert Bandura ha sottolineato come i bambini spesso imitano ciò che li circonda e questa è la dimostrazione della teoria dell’apprendimento sociale. Questa teoria sottolinea ancora di più l’importanza dell’educazione per prevenire i reati dei minori fin dalla tenera età. I bambini quasi sempre copiano i comportamenti che apprendono da chi sta loro intorno e le prime esperienze sono quelle che si vivono a casa e a scuola. Per questo motivo bisogna educare i giovani al rispetto delle regole fin da subito, per evitare che imparino comportamenti sbagliati ritenendoli corretti.
Occorre poi che il bambino tragga insegnamento anche dagli errori che può commettere (in questo mi sembra molto educativo lo sport, e specialmente quello di squadra, dove si impara il rispetto, la condivisione e la solidarietà) ed è importante che gli educatori concedano una seconda possibilità al fine di far capire che anche l’impegno volto a riparare lo sbaglio viene riconosciuto; il minore a casa, a scuola, così come nel procedimento penale, deve essere messo nella condizione di imparare dai propri errori e capire che ciò che ha fatto è sbagliato e che può agire in maniera diversa per non incorrere in una punizione futura. La parola fondamentale è la parola “fiducia”, “fede”, che permette a chi la concede e a colui a cui viene concessa di poter fare un passo avanti, di poter crescere e migliorare, di poter confidare in sé stessi e negli altri. Spesso le lacune più grandi si trovano proprio nella spiritualità, nell’interiorità dei giovani che sembra che nessuno voglia provare a riempire: mancano genitori presenti e credibili, educatori seri, che sappiano mettersi in gioco con atteggiamenti costruttivi, che forniscano esempi e indichino poche regole, serie e chiare mediante le quali il minore sappia con certezza quando ha ragione e quando è in errore; in mancanza di ciò si apre la strada alla malavita. Forse un nuovo San Giovanni Bosco, oggi, potrebbe fare molto di più di tanti pseudo educatori.
Ma l’aspetto legato alla fiducia è forse quello che avvicina di più all’esperienza sacerdotale, i cappellani dei carceri minorili incontrano quotidianamente giovani che hanno ferito e che sono a loro volta feriti; in tali contesti i minori non debbono essere nuovamente giudicati, ma piuttosto ascoltati, compresi. Sono le pietre scartate da cui forse si può provare a ricostruire. I cappellani rappresentano delle figure significative per tutti i ragazzi in quanto il loro servizio si basa sull’ascolto e sull’accoglienza, sul prospettare dei punti di vista diversi, non punitivi o giudicanti, ma costruttivi nella ricerca interiore del rispetto e della fiducia. È importante suscitare nel minore il sentimento del sincero pentimento per l’azione commessa; questo potrà essere il vero punto di svolta: comprendere il dolore ed il dramma creato e cercare di riparare, mettendo in gioco qualunque componente personale sia materiale che spirituale, riflettendo anche sulla propria afflizione, causata dal reato commesso.

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09 Febbraio 2023

ASPETTI SOCIO-ECONOMICI E DI MERCATO di ALESSANDRA DI GIOVAMBATTISTA

ASPETTI SOCIO-ECONOMICI E DI MERCATO di Alessandra Di Giovambattista 

25-01-2023

 

Abbiamo visto i pro ed i contro del sistema di tassazione proporzionale, almeno quelli che più sono stati evidenziati dalla stampa, più o meno specialistica; ma se si vuole inquadrare bene il problema occorre soffermarsi anche su altri aspetti, alcuni molto tecnici ma che si cercherà di approfondire.
Da qui una serie di considerazioni: una prima analisi va fatta con riferimento ai dati quantitativi riportati (secondo articolo) quando si sono rappresentate le motivazioni che sostengono la tesi contraria alla tassazione proporzionale; il calcolo su riportato si basa sul mero confronto delle aliquote, mentre occorre tener presente che la posizione debitoria fiscale del contribuente è la risultante del totale dei redditi percepiti al netto di tutti gli oneri detraibili e/o deducibili, per cui il contribuente presenta di fatto una posizione fiscale netta. Ciò detto da una semplice analisi dei dati tratti dal dipartimento delle entrate del Ministero dell’economia e delle finanze (MEF) si evince - dal dato macroeconomico complessivo che pone a rapporto l’imposta netta (pertanto al netto delle detrazioni IRPEF) con l’ammontare del reddito complessivo (al netto della cedolare secca) - che l’aliquota media IRPEF è del 18,77%, pertanto una percentuale ben lontana da quella calcolata sull’ipotesi di reddito da lavoro dipendente di 50.000 euro (che calcola un’aliquota media del 28,8%). Inoltre si consideri che il reddito medio da lavoro dipendente è pari a circa 20.700 euro, pertanto meno della metà di 50.000 euro (rappresenta precisamente il 41,4%) su cui si è impostato il confronto. Ora la forte differenza tra il sistema progressivo IRPEF e la flat tax che presenta un’aliquota del 15% su cui riflettere è dovuta al fatto che i contribuenti che scelgono tale imposizione, in mancanza di altri redditi da assoggettare ad IREF, non avranno diritto ad alcuna deduzione/detrazione dal reddito, in quanto la flat tax si presenta come imposta sostitutiva. Quindi per essi l’aliquota sarà unica ed effettivamente del 15%, laddove per i lavoratori dipendenti, pur avendo un’aliquota media che può aggirarsi intorno al 27% (aliquota media IRPEF che spesso viene utilizzata nelle relazioni tecniche governative) si è visto che l’aliquota effettiva media scende al 18,77%.
- un approccio di natura economico/fiscale porta a dover considerare il peso delle imposte e degli oneri sociali (c.d. cuneo fiscale) che grava sui redditi da lavoro dipendente il cui dato medio se diviso per 13 mensilità porta ad un valore mensile di circa 1600 euro di reddito netto disponibile (da uno studio del sole 24ore del 18 giugno 2021 si evidenzia che una famiglia composta da genitori e due figli che vive in una grande città del nord è considerata povera se non riesce a guadagnare complessivamente almeno 1.680 euro al mese). Pertanto si rende necessario un ripensamento della fiscalità personale complessiva, così come si rende necessaria una profonda riflessione sul reddito di cittadinanza che va riconosciuto dietro stringente verifica dei requisiti che ne stabiliscono il diritto, altrimenti si cade nella trappola per cui diviene più conveniente percepire il sussidio senza alcuno sforzo lavorativo (e magari lavorando in nero) rispetto ad andare a lavorare per percepire uno stipendio netto disponibile di poco superiore al sussidio stesso (e comunque applicando uno sforzo e delle conoscenze che non vengono adeguatamente remunerate).
- L’attuale società italiana ha visto, nell’ultimo ventennio un profondo cambiamento nel mercato del lavoro dove sempre più, ai lavoratori di prima occupazione, viene chiesto di aprire la partita IVA per poter lavorare; ciò rappresenta un notevole risparmio per il datore di lavoro, mentre il lavoratore deve accollarsi una serie di oneri relativi ai contributi previdenziali ed assistenziali, alle spese amministrative di gestione, a varie forme di assicurazione professionale, nonché alle eventuali perdite per malattia e gravidanza che vanno direttamente a gravare sul lavoratore.
- Da ciò consegue che i lavoratori autonomi, specialmente all’inizio della loro attività professionale, artigianale, o imprenditoriale, devono saper far fronte al rischio d’impresa, al rischio incertezza del mercato, devono avere le capacità personali e professionali di penetrare il mercato (che peraltro con la globalizzazione presenta sempre più barriere all’entrata) e per tali motivi, almeno nei primi anni lavorativi, percepiscono redditi molto bassi. Tali aspetti pesano molto di più sul lavoratore autonomo che su quello dipendente.
- La presenza di molti lavoratori comunitari ed extra comunitari che spesso lavorano senza aprire alcuna partita IVA e che quindi, oltre ad incrementare il lavoro sommerso spingono il mercato verso il basso. Questo aspetto induce, a sua volta, i nostri giovani a guardare fuori dall’Italia per cercare mercati del lavoro più competitivi e più meritori; da qui il problema della c.d. fuga dei cervelli.
Questi solo alcuni aspetti sociali ed economico/finanziari che possono aiutare a delineare un’idea personale su quanto sia giusta o meno l’introduzione della flat tax per i contribuenti minimi. A voi l’ardua sentenza. Nel prossimo articolo vi fornirò il mio punto di vista che, è evidente, potrete del tutto ignorare in quanto avete ora a disposizione degli strumenti per poter ragionare e prendere una vostra posizione.

Alessandra Di Giovambattista 

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25 Gennaio 2023

Il green deal di Alessandra Di Giovambattista

IL GREEN DEAL: E’ TUTTO ORO QUELLO CHE LUCCICA? di ALESSANDRA DI GIOVAMBATTISTA 

 

28-02-2023

In via generale occorre sottolineare che la UE ha predisposto le misure in risposta all'IRA (Inflaction reduction act) statunitense che ha destinato uno stanziamento di circa 370 miliardi di dollari in favore delle produzioni basate sull’energia ed il clima; il pacchetto statunitense prevede forti sgravi fiscali sia per le imprese che produrranno negli USA sia per i consumatori che acquisteranno auto elettriche. Notizie recenti ci informano che la BMW intende investire circa 2 miliardi di dollari nella Carolina del Sud, così come ENEL che ha dichiarato di voler costruire una fabbrica di celle fotovoltaiche negli USA. Così la UE ha deciso di muoversi, però lo sta facendo sia in ritardo sia in modo disorganico ed individualista in quanto sembra voler garantire gli interessi delle singole nazioni e non già dell’Unione europea. Vediamo i perché di tale affermazione.
a) Uno dei pilastri che prevede l’allentamento dei vincoli sugli aiuti di Stato si basa sulla facilitazione dei finanziamenti pubblici verso i settori vocati alla sostenibilità; in tal modo però si favoriscono le nazioni europee che presentano i bilanci statali più solidi a discapito di quelli che hanno un rapporto debito/PIL molto più marcato (come l’Italia, dove è anche molto forte la pressione fiscale), i quali avrebbero limitazioni nelle politiche di finanziamento e non potrebbero concedere aiuti alle imprese nazionali. Infatti l’uso delle risorse già messe disposizione implicherà, per i paesi con alte esposizioni debitorie, il riposizionamento dei finanziamenti a favore delle attività produttive sostenibili, ma probabilmente a discapito del welfare, con possibili ricadute negative sul livello socio-culturale delle Nazioni più vulnerabili. Per evitare ciò, sarebbe opportuno rivedere le modalità e gli importi previsti dal PNRR o pensare alla creazione di un fondo sovrano comunitario finalizzato a tali finanziamenti; ma a tali ipotesi sono contrari Paesi come Germania, Olanda, Danimarca, Svezia e Finlandia, che non hanno un elevato tasso di indebitamento e che non sono quindi favorevoli ad un incremento del debito pubblico a livello UE. Quindi i citati Paesi, insieme alla Francia spingono per un allentamento del quadro di aiuti di stato per i settori green, ma senza prevedere ulteriori risorse che possano coadiuvare i paesi con situazioni finanziarie più complesse. Per una maggiore riflessione sul punto, si consideri che dei 672 miliardi di euro in aiuti di stato che la Commissione ha approvato nel 2022 alla Germania è stato assegnato il 53 per cento, alla Francia il 24 per cento ed all’Italia il solo 7 per cento; va da sé che il restante 16 per cento è stato redistribuito tra le altre 24 nazioni delle 27 che aderiscono all’UE.
b) Si aggiunga che i ministri dell’economia di Germania e Francia di recente si sono recati a Washington con l’intenzione, secondo le loro dichiarazioni, di difendere le condizioni di concorrenza leale tra Stati Uniti e UE. Sono partiti con l’intento di chiedere che gli Stati Uniti estendano agli alleati europei i sussidi garantiti alle aziende statunitensi, canadesi e messicane che producono tecnologie pulite. L’unico vero problema è capire se i due rappresentanti della UE (che dovrebbero essere andati in questa veste) agiranno per ottenere risultati positivi per tutti i paesi comunitari: la situazione economica va affrontata di comune accordo, diversamente si snatureranno le finalità dell’Unione Europea e potrebbero crearsi delle frizioni tra Paesi membri. L’aspetto importante in questo momento è cercare forme di collaborazione con gli Stati Uniti che dovrebbero includere i prodotti europei nei loro mercati; l’Italia rappresenta in Europa la terza economia, dopo la Germania e la Spagna, che si regge sull’export – quasi il 35 per cento del nostro PIL è rivolto alle esportazioni - e posizioni protezionistiche di certo non aiuterebbero. In più per problemi storici non siamo mai stati un Paese colonizzatore (se non per breve tempo), a differenza di molti altri paesi europei, come la Francia (dove ancora vige il diritto di signoraggio sul franco africano), che possono ancora far valere diritti sulle ex colonie, sia come investitori sia come acquirenti di materie prime. Solo in via incidentale si vuol sottolineare che la Libia, una delle ex colonie italiane, fu destabilizzata dalla Francia la quale decise, con l’aiuto degli USA, di sovvertire il governo di Gheddafi solo perché - tra le altre cose - egli aveva iniziato a pensare di liberare l’Africa dal franco africano e creare una moneta unica africana. Quella fu una dimostrazione di forza neocolonialista non giustificata, che ha incrementato l’instabilità nell’area mediterranea, con la conseguenza - così come è emerso anche nell’intervento del Prof. Gianluigi Rossi durante l’incontro in tema di cambiamenti climatici, organizzato dall’ONG Africanpeople, e che si è tenuto nella sede dell’UNAR di Roma il 12 febbraio c.a, - che oggi sia la Francia che l’Italia sono estromessi dalle trattative per la Libia, laddove invece sono presenti Turchia e Russia.
c) Il programma economico predisposto dalla UE non sembra affrontare in modo approfondito il problema dei Paesi africani e della salvaguardia delle loro ricchezze - compresa la protezione della cultura, dell’ambiente e della natura - che dovrebbero in primis essere utilizzate dai nativi; è di questi ultimi giorni l’appello fatto dal Papa nel suo viaggio apostolico in Congo ed in Sud Sudan: “giù le mani dall’Africa”. Nel piano del Green Deal si legge solo un velato impegno allo sviluppo di accordi con i Paesi africani per facilitare l’attrazione e l’espansione degli investimenti, con un’attenzione all’ambiente ed ai diritti del lavoro; in tutto ciò non viene però specificato se gli investimenti saranno per l’interesse di tutti o ad esclusivo vantaggio dell’Europa e dei soliti paesi ex-colonialisti. In più parti si è parlato di un “Piano Marshall” per l’Africa, per il suo sviluppo; sempre il Prof. Rossi, nel citato convegno ha sottolineato l’inadeguatezza della definizione - in prima battuta perché l’Africa è un continente con opportunità e risorse del tutto diverse da quelle dell’Europa post bellica - alla quale bisognerebbe sostituire quella di un “Piano Mattei” dove deve prevalere un atteggiamento di partenariato tra Europa ed Africa in cui sarà necessario un atteggiamento di condivisione di risorse e di rispetto culturale ed umano tra Nazioni; in tale contesto sarebbe auspicabile anche il coinvolgimento dell’Unione Africana (UA).
d) Oltre agli accordi con gli USA, c’è da ricordare che la partita si dovrà giocare anche con la Cina: quest’ultima assegna ingenti risorse alle proprie industrie che ormai fanno breccia, indisturbate, in tutti i paesi del mondo. Per contro le imprese europee incontrano notevoli difficoltà ad accedere al mercato cinese e a far rispettare il diritto di proprietà intellettuale. Inoltre la Cina è ormai già presente in Africa ed ha il diritto di sfruttamento di molte delle miniere di materie prime e non solo: da ormai 20 anni è entrata nel tessuto socio-economico africano senza che l’Europa si interessasse minimamente al problema. Prevedere ora un Club delle materie prime, senza pensare alla presenza cinese ed eventualmente allo sviluppo di forme di cooperazione con la Cina, potrebbe risultare dannoso ed inopportuno: un testa a testa contro questo colosso economico - finanziario vedrebbe certamente capitolare l’Europa.
e) Altro rischio si può intravedere nella richiesta da parte della Commissione di applicare rapidamente ed in modo automatico il regolamento (AFIR); in generale sembra che si trascuri il ruolo fondamentale della normativa, già esistente a protezione dell’ambiente, che deve essere posta alla base delle scelte di investimento delle aziende. La deregolamentazione in un settore nuovo può essere nociva in quanto può incentivare nuove forme di reati in ambito di transizione verde, lasciando spazio alla malavita e alla corruzione che, non più assoggettate a controlli e a norme stringenti, potrebbero aggirare i paletti della legalità.
f) Ulteriore spunto di riflessione va ricercato nelle politiche che vertono sul miglioramento delle competenze umane, con lo scopo di creare posti di lavoro di qualità e ben retribuiti, influendo specialmente sull’istruzione; in questo contesto il timore si volge verso il controllo - attraverso gli indicatori dell’offerta e della domanda di competenze nei settori rilevanti per la transizione ecologica nonché dei finanziamenti pubblici e privati dirottati verso tali settori - delle scelte dei cittadini in ambito didattico e professionale. Occorre garantire la libertà di scelta del tipo di istruzione e di professione che i soggetti vorranno svolgere, in quanto, nel momento in cui si dirottano risorse verso un settore, a parità di condizioni, c’è sempre un altro settore che ne soffre le conseguenze negative per effetto dei definanziamenti. Non ultimo sarà indispensabile garantire la giusta retribuzione per qualsiasi attività svolta, nonché la libertà di didattica e di istruzione: saremo ancora liberi di scegliere cosa fare, cosa studiare, cosa insegnare? Oppure si dovranno studiare solo materie tecnico scientifiche a scapito delle materie umanistiche che formano l’animo dell’uomo e ne esaltano le corde della sensibilità e dell’interiorità, oggi così tanto trascurate?
g) Altra attenzione va posta sul problema dei finanziamenti: il Piano più volte richiama sia quelli pubblici, sia quelli privati; in ogni caso l’interesse ritorna solo in capo al cittadino in quanto le risorse pubbliche provengono dall’imposizione fiscale pagata dai contribuenti, mentre quelle private dal risparmio dei singoli. Fatta tale precisazione l’obiettivo del mercato unico dei capitali, contenuto in uno dei quattro pilastri del green deal, è quello di voler raggiungere la mobilitazione dei capitali privati per ottenere un mercato più dinamico e competitivo a livello mondiale, nel breve e medio termine. In tal senso si vuole:
• creare un punto unico di accesso europeo (ESAP) per gli investitori al fine di ottenere informazioni pubbliche di natura finanziaria e in tema di sostenibilità delle imprese;
• riesaminare il regolamento sui fondi di investimento europei a lungo termine (ELTIF) per facilitare gli investimenti anche da parte dei piccoli investitori verso quelli a lungo termine;
• riesaminare la direttiva sui gestori di fondi di investimento alternativi (GEFIA) per armonizzare le norme che consentono ai fondi di concedere prestiti alle aziende;
• riesaminare il regolamento sui mercati degli strumenti finanziari (MIFIR) per migliorare la trasparenza delle informazioni sulle negoziazioni e per agevolare gli investitori.
Così come presentata sembra essere una risposta adeguata alle sfide future di incrementi e diversificazioni dei capitali che le aziende potrebbero utilizzare in progetti di sviluppo e ricerca a favore delle economie sostenibili, con un’attenzione particolare verso le piccole e medie imprese che più di tutte soffrono di carenza di finanziamenti. Secondo uno studio della commissione europea tra il 2008 ed il 2013 le imprese presenti sul territorio europeo avrebbero potuto beneficiare di ulteriori 90 milioni di euro di risorse finanziarie se il mercato dei capitali unico in Europa fosse stato più efficiente. Tuttavia uno dei punti di criticità nell’indirizzare risorse finanziarie verso le realtà aziendali è nel trade off tra le scelte/interessi dei managers e quelle dei proprietari/imprenditori, e più in generale di tutti gli stakeholders dell’azienda interessati al perdurare nel tempo della stessa. Infatti le attuali forme di governance aziendali, il più delle volte, vedono ai vertici dei managers che sono scollati dalla proprietà e con un occhio attento alla conferma e alla persistenza nel tempo della loro presenza e dei loro benefici all’interno dell’azienda. Già Adam Smith, che non poteva conoscere le dinamiche delle grandi società per azioni dei nostri tempi, scriveva: “Essendo (i manager ndr) i gestori del denaro altrui invece che del proprio, non ci si può attendere che essi lo sorveglino con la stessa ansiosa vigilanza con la quale i soci [in un’impresa gestita dai proprietari] solitamente sorvegliano il proprio denaro (…) Negligenza e prodigalità, pertanto, finiscono sempre per prevalere, bene o male, nella gestione degli affari di una tale società.” Questa separazione si trova più spesso nelle grandi società con azionariato diffuso in cui i proprietari, non riuscendo a coordinarsi tra loro a causa di interessi eterogenei, non riescono più ad influire direttamente sulle scelte dei managers, e pertanto non ne controllano più le decisioni. Gli azionisti/investitori hanno a cuore essenzialmente la massimizzazione dei profitti che rappresenta la quota di reddito a loro destinata (che si traduce nei dividendi) e che può rappresentare una modalità attraverso la quale i managers riescono a farsi riconfermare nel tempo aldilà delle reali performance aziendali. Infatti si assiste spesso a situazioni in cui nell’intento di voler garantire un elevato dividendo le aziende riducono gli investimenti e la forza lavoro, generando così disoccupazione, riduzione dei salari e minore sviluppo aziendale. Tale problematica viene ulteriormente amplificata se gli investimenti vengono finanziati con capitale di debito e non già mediante autofinanziamento: tale situazione indebolisce la struttura economico finanziaria della società e le conferisce rigidità, compromettendo la sua capacità di sopravvivenza sul mercato. Pertanto sarebbe utile conoscere ed approfondire le metodologie che l’Unione dei Mercati dei Capitali, all’interno della UE, utilizzerebbe al fine di incoraggiare gli investimenti e stimolare gli investitori privati a concedere finanziamenti soddisfacendo interessi che, andando aldilà del pagamento dei dividendi, riguardino tutti gli stakeholders.
h) Occorre poi sottolineare la delicatezza della questione riguardante il notevole volume di risparmio che gli italiani detengono, rispetto alla media dei paesi UE e del resto del mondo, e che dovrebbe confluire sul mercato unico a favore di tutte le aziende europee, indistintamente. Per la Commissione europea i mercati dei capitali ampi e integrati faciliteranno la ripresa dell’Ue, assicurando che le imprese, in particolare le piccole e medie imprese, abbiano accesso a fonti di finanziamento e che i risparmiatori europei aumentino la fiducia negli investimenti per il loro futuro. In questo ambito l’attenzione va posta su un problema che andrebbe preventivamente risolto ed arginato: il probabile deflusso di risorse finanziarie dall’Italia verso aziende europee, molto probabilmente tedesche, francesi, olandesi, spagnole, depotenziando ancora di più le aziende italiane, essenzialmente piccole e medie imprese, poco forti sui mercati rispetto ai competitor europei citati. In tale contesto bisognerà evitare scenari di disomogeneità e squilibrio, con possibili conflitti interni alla UE ed ulteriore allargamento delle disuguaglianze dove i forti saranno sempre più forti e compatti ed i deboli sempre più deboli ed isolati.
Si ha come la sensazione che nel futuro dovremo assistere ad una “dittatura del green” dove massimo sarà il controllo della maggioranza delle persone a vantaggio della libertà di pochi, definiti non inquinanti. Occorre che la programmazione aziendale abbia uno sguardo sul lungo periodo, che vada ben oltre i 10 anni, e che arrivi a coprire anche 50, 60 anni; prendo da qui lo spunto per un breve ma significativo esempio, che vuole essere anche una provocazione: oggi chi monta i pannelli fotovoltaici è green e sostenibile, ma quando tra 20 anni dovrà dismettere l’impianto e le celle fotovoltaiche, diventerà immediatamente inquinante!

 

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28 Febbraio 2023

MATTEI ED I POTERI FORTI OCCIDENTALI di Alessandra Di Giovambattista

MATTEI ED I POTERI FORTI OCCIDENTALI

di Alessandra Di Giovambattista

 21-03-2024

Volendo far luce su quelli che furono i rapporti tra Enrico Mattei, capitano d’azienda e fondatore nel 1953 dell’Ente Nazionale Idrocarburi (ENI) e i rappresentanti delle multinazionali di idrocarburi americane possiamo iniziare leggendo alcune considerazioni dell’allora ambasciatore italiano a Washington, sua eccellenza Egidio Ortona. Nei primi anni del Dopoguerra si descriveva Enrico Mattei come un personaggio complicato ma poliedrico, combattivo e per alcuni versi cupo, ma capace anche di essere a tempo debito aperto e scherzoso, guardingo ma desideroso di dimostrare che non aveva pregiudizi nei confronti degli americani e di essere pronto alla collaborazione. Dall’altra parte gli Americani avevano un atteggiamento rilassato nei riguardi di Mattei in quanto le multinazionali petrolifere erano certe che il presidente dell’ENI non avrebbe potuto sviluppare nessun programma in assenza di finanziamenti. Invece Mattei negli anni ‘50 dimostrò al mondo di potercela fare ed i vari Governi italiani di quel periodo lo assecondarono, mentre le tensioni con gli Stati Uniti d’America aumentarono.

Nel momento in cui prese le redini dell’AGIP Mattei si convinse che l’Italia avrebbe potuto  giocare un ruolo importante nel campo dell’energia e in ragione delle sue convinzioni lasciò il partito della Democrazia Cristiana (DC), di cui era esponente - peraltro osteggiato anche da alcuni suoi colleghi di partito - per seguire le sue opinioni in materia di energia e fondò l’ENI. L’elemento che ne diede la spinta propulsiva fu la scoperta di un giacimento di metano a Cortemaggiore nel 1949: sia Alcide De Gasperi che l’allora ministro delle finanze, Ezio Vanoni visitarono il luogo delle estrazioni. Occorre evidenziare che un altro illustre italiano, Luigi Einaudi, anche da Presidente della Repubblica, non vedendo con favore la liquidazione dell’AGIP (che doveva essere assorbita dalla società EDISON), fu dalla parte di Enrico Mattei nel suo intento di tenerla in vita ed in tal modo osteggiò anche il piano del Partito comunista italiano (PCI) che invece voleva nazionalizzarla. La nazionalizzazione dell’AGIP fu contrastata nettamente anche da Enrico Mattei che non credeva assolutamente a questa strategia che avrebbe portato ad un appesantimento della gestione, causato dalla burocrazia statale, considerata incompetente e farraginosa. Per contro gli furono contrari diversi politici italiani: tra i più agguerriti vi fu il fondatore del Partito popolare, Don Luigi Sturzo, il quale non perse occasione per contrastare e schernire l’operato di Mattei, come nel caso della scoperta di un giacimento di petrolio nel ragusano nel 1953, da parte della multinazionale americana Gulf Oil. In quell’occasione Luigi Sturzo disse che si doveva alle trivelle americane se si era aperta la strada per la rinascita della Sicilia, ciò che, a suo dire, “sarebbe avvenuto sicuramente anche altrove nel Sud dell’Italia, qualora ci si fosse affidati alle società statunitensi”. Tuttavia Enrico Mattei fu sostenuto da Ezio Vanoni, da Giovanni Gronchi, allora Presidente della Repubblica, da Vittorio Valletta, presidente della FIAT, da Raffaele Mattioli, Presidente della Banca Commerciale Italiana, e da Imbriani Longo, direttore della Banca Nazionale del Lavoro.

Ma Mattei e la sua politica furono supportati specialmente dall’allora ministro delle finanze, Ezio Vanoni; egli sosteneva che grazie all’esperienza di quegli anni - contro l’approccio esclusivamente privatistico e capitalistico - si era dimostrata l’efficienza anche delle strutture produttive partecipate dallo Stato, quando queste ultime sono nelle mani di uomini che dedicano tutta la propria attività ed intelligenza alla tutela del bene comune. In più il 24 aprile del 1952, in occasione dell’istituzione dell’ENI, il relatore al progetto di legge - il democristiano Franco Varaldo - definì inconcepibile che lo Stato lasciasse allo sfruttamento dei privati un patrimonio che l’AGIP aveva reperito con il denaro pubblico e aveva gestito attraverso dirigenti di elevato livello qualitativo. In definitiva sembrava prossima la possibilità di conferire all’ENI il monopolio dei carotaggi nella Valle Padana e con qualche limite, anche nelle altre Regioni; invece, con l’avvento del nuovo ministro dell’industria, il liberale Guido Cortese, iniziarono i tentativi di estromettere Mattei dal mercato degli idrocarburi. Ma nel 1955 il politico, studioso ed economista Ernesto Rossi inviò il giurista Giuseppe Guarino e l’economista Paolo Sylos Labini negli Stati Uniti ed in Canada per approfondire gli allora vigenti regolamenti in materia mineraria. Di ritorno dal viaggio, sia dal punto di vista economico sia giuridico, gli studiosi consolidarono l’idea che il sistema ibrido di privatizzazione in cui l’ENI si sarebbe dovuta muovere (qualora avesse lasciato il suo carattere pubblico), in concorrenza con i privati, avrebbe spinto l’azienda ad allearsi con i gruppi monopolistici italiani e stranieri per cercare di raggiungere i propri obiettivi strategici. Ma ciò avrebbe significato allontanare ENI dal suo ruolo di azienda pubblica impedendo al Governo di usarla come strumento della sua politica nel mercato degli idrocarburi. Per continuare a garantire il carattere pubblicistico dell’azienda si sarebbe invece dovuto vietare per legge di consentirgli di associarsi con partecipazioni azionarie ai privati. È su questi principi che Enrico Mattei fondò la filosofia di gestione dell’ENI che divenne così azienda a carattere pubblico che nel 1957 ottenne il monopolio della ricerca e dello sfruttamento degli idrocarburi su tutto il territorio italiano.

In quel momento Enrico Mattei aveva l’appoggio del Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi il quale, in una lettera inviata al presidente degli Stati Uniti Eisenhower, propose che all’Italia fosse affidato un ruolo di primo piano nel settore degli idrocarburi nell’area mediorientale. Tale progetto fu invece contrastato dal ministro degli esteri, il liberale Gaetano Martino, che bloccò l’iniziativa intrapresa da Gronchi.  

Nel corso degli anni '50 la storia documenta l’avversione che le compagnie petrolifere americane avevano nei confronti di Mattei; la Standard Oil Company del New Jersey, nel gennaio del 1951, inviò un proprio rappresentante dall’allora presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi. per dare un avvertimento sull’operato di Mattei. Dopo circa un mese fu inviato un telegramma nel quale si sottolineava che il trattamento preferenziale del Governo italiano a favore di AGIP sarebbe stato considerato dalle società americane una azione di discriminazione non consentita dai trattati sottoscritti nel 1949 tra i governi italiano e americano.

Il presidente americano Eisenhower fece capire che il governo statunitense era schierato al fianco delle sue compagnie petrolifere; ciò contribuì ad aumentare le ostilità nei confronti di Enrico Mattei sia da parte dell’Italia sia di diverse altre nazioni. Specialmente nel periodo dal 1953 al 1957 furono pubblicati diversi articoli, scritti con toni violenti contro la politica industriale di Mattei e contro la sua stessa persona, pubblicati dalle riviste “Fortune”, “Newsweek”, “Time”, “The New York Herald Tribune”. Il “New York Times” arrivò a definire un attentato alla sicurezza della libertà nel mondo la decisione di Mattei di vendere all’Unione Sovietica pompe e tubature, che in quell’occasione furono definite attrezzature di tipo strategico. A tutte queste provocazioni Mattei rispose con una modalità moderna, cercando di coinvolgere stampa, cinema, professionalità giovani ed emergenti, che fosse in grado di contrastare la campagna denigratoria organizzata nei suoi confronti. In primo luogo raccolse tutti gli articoli di giornale scritti contro di lui – che furono organizzati in 36 volumi nell’antologia “Stampa ed oro nero” pubblicata postuma alla morte - fondò la testata giornalistica “Il Giorno” e l’agenzia di stampa AGI, fece realizzare il documentario “L’Italia non è un Paese povero” e commissionò per ENI un film, completato dopo la sua morte (nel 1967), dall’allora giovane regista Bernardo Bertolucci, dal titolo “La via del petrolio”. Fu affiancato da giovani professionisti e studiosi quali, per citarne solo alcuni, Sabino Cassese, Giorgio Ruffolo, Manin Carabba, Mario Pirani. In particolare a Ruffolo ed a Pirani fu assegnato il compito di tenere i rapporti con il Fronte di liberazione nazionale algerino, durante la guerra di indipendenza.

Nello stesso periodo Mattei otteneva concessioni di ricerca petrolifera in Somalia, Egitto, Iran, Marocco, Libia, Sudan e Tunisia. Il suo accordo 75/25 (riguardante la suddivisione degli utili) provocò l’ira delle principali compagnie petrolifere mondiali nonché degli USA, almeno fino all’avvento di J.F. Kennedy. Mattei era convinto che la perdita delle colonie rendesse l’Italia un valido interlocutore con i Paesi che cercavano di affrancarsi dal dominio e dallo sfruttamento francese, inglese ed americano; inoltre sosteneva che l’esosa politica dei prezzi praticata dal trust anglo-americano non potesse continuare per molto tempo sia perché si affacciavano sul mercato operatori indipendenti, sia perché i Paesi produttori rivendicavano la sovranità dei loro territori e delle loro risorse; queste affermazioni, in particolare, incontrarono il favore dei rappresentanti del mondo arabo.

Tornando ai rapporti con gli Stati Uniti, l’iniziale ostilità durante la presidenza di Eisenhower - documentata in un rapporto della CIA in cui si evidenziava che Mattei pregiudicava i fattori economici del mercato di maggior interesse degli Stati Uniti – iniziò a stemperarsi quando divenne presidente J.F.Kennedy; da quel momento l’atteggiamento americano si modificò grazie anche alla politica del nuovo presidente nei confronti dei Paesi cosiddetti del Terzo mondo, in difesa dei diritti civili e della politica sul controllo dei prezzi dei monopoli, che rese il Presidente inviso alle grandi imprese multinazionali. Da parte sua, Enrico Mattei si mostrò disponibile ad andare negli Stati Uniti e a parlare con le compagnie petrolifere americane. L’emissario del presidente Kennedy, A.W. Harriman, quando si trovò a colloquio con il presidente dell’ENI ne riconobbe e ne sottolineò la lungimiranza e la chiarezza del suo sguardo nei confronti degli avvenimenti futuri. Nel 1962, durante una riunione del dipartimento di Stato americano (documentata negli atti declassificati del dipartimento) si discusse in merito alla possibilità di incoraggiare accordi tra le maggiori società petrolifere multinazionali ed Eni ed in particolare furono individuati la Standard Oil Company del New Jersey e la Socony-Mobil Oli Company come possibili interlocutori. Ma diversi erano i rappresentanti del mondo politico ed economico convinti che si dovesse ricomporre la frattura tra le sette sorelle e l’ENI; in particolare Vittorio Valletta e Gianni Agnelli, rispettivamente presidente e fondatore della FIAT, durante un incontro con il presidente Kennedy chiesero di avere riguardo alla persona di Mattei e questo atteggiamento di distensione nei rapporti tra USA ed ENI fu sottolineato dall’incontro tra il sottosegretario di stato americano George Ball ed Enrico Mattei del 22 maggio del 1962. Questo dialogo sottolineava il clima di distensione e rappresentava il preludio di un viaggio negli Stati Uniti per stipulare nuovi accordi tra ENI e l’amministrazione Kennedy, ma l’incontro non avvenne mai perché il 27 ottobre del 1962 esplose, sui cieli di Bascapè, l’aereo pilotato da Irnerio Bertuzzi con a bordo Enrico Mattei ed il giornalista americano William McHale.

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21 Marzo 2024

UN BREVE APPROFONDIMENTO ECONOMICO DEL PIANO MATTEI di Alessandra Di Giovambattista

UN BREVE APPROFONDIMENTO ECONOMICO DEL PIANO MATTEI

di Alessandra Di Giovambattista

 25-03-2024

A ridosso delle crisi energetica e dei flussi migratori e con un’attenzione particolare al quadro geopolitico attuale, il Governo italiano ha varato il decreto legge n. 161 del 15 novembre 2023 contenente “Disposizioni urgenti per il “Piano Mattei” per lo sviluppo in Stati del Continente africano” convertito con modificazioni in legge n. 2 dell’11 gennaio 2024. L’ossatura del programma si fonda sulla condivisione degli obiettivi tra Stati, essendo di fatto un piano di partenariato, cioè un progetto basato su interventi volti, in prima analisi, a coadiuvare il continente africano a crescere e a prosperare utilizzando le sue stesse risorse. Il riferimento già nel titolo all’economista Enrico Mattei, sottolinea l’effettivo contenuto dell’atto che si basa sull’applicazione dei principi che ispirarono il pensiero socio economico del grande capitano d’azienda, fondatore nel 1953 dell’Ente Nazionale Idrocarburi (ENI), il quale mirava a rafforzare il partenariato tra l’Italia ed alcuni Paesi africani nel rispetto degli interessi reciproci.

Per entrare nella tematica partiamo da un’analisi statistico-quantitativa: le relazioni commerciali nel 2022 tra Italia ed Africa, secondo i dati dell’Istituto per il Commercio Estero (ICE), registrano un ammontare complessivo pari a circa 68 miliardi di euro. Le importazioni italiane dall’Africa generano scambi che ammontano a circa 47 miliardi di euro essenzialmente diretti per l’acquisto di materie prime collocando, in tal modo, il nostro Paese al secondo posto tra i Paesi del mondo per importazioni di prodotti africani, mentre per i prodotti esportati verso l’Africa - sostanzialmente macchinari per impieghi vari, materiale elettrico e prodotti farmaceutici - l’Italia si colloca all’undicesimo posto con un valore di scambi pari a circa 21,3 miliardi di euro. I maggiori Stati africani fornitori dell’Italia sono: Algeria, Libia, Egitto nella zona del Magreb, mentre Angola, Mozambico, Gabon, Ghana e Congo nella parte sud Sahariana. Analizzando però il potenziale che l’Africa presenta, si potrebbero incrementare gli scambi, che a ben vedere, presentano una certa staticità in quanto dal 2012 al 2022 l’export italiano è passato da 19 miliardi di euro agli indicati 21,3 miliardi (con un tasso di incremento del 12% circa in 10 anni), mentre nello stesso periodo di tempo l’import italiano è passato da 35,2 miliardi di euro ai citati 47 miliardi (con un tasso di incremento del 33,5% circa in dieci anni).

Con riferimento invece agli investimenti italiani si rammenta che nel 2015 l’Italia risultava il primo investitore assoluto verso l’Africa, mentre nel 2016 è stato il primo investitore europeo. Tali dati, però, soffrono del fatto che i costi italiani per beni e servizi pluriennali hanno rappresentato progetti in settori a forte investimento di capitali (c.d. capital intensive); il più importante di questi settori è stato quello energetico. Le statistiche, trainate dalle capacità di politica industriale dell’Ente Nazionale Idrocarburi (ENI), che si pone come primo operatore dell’Oil & Gas in Africa, risentono molto degli investimenti dell’ente in territorio africano: dell’ammontare complessivo degli investimenti del 2015, pari a circa 7,4 miliardi, oltre 6 miliardi sono stati investiti da ENI nel progetto di sviluppo del gas naturale nel giacimento del Zohr in Egitto. Invece i dati degli ultimi anni, in particolare quelli relativi al 2021, confermati anche dalla Banca d’Italia e dall’Istat, registrano una contrazione degli investimenti italiani in Africa per circa 1 miliardo di euro; ciò è però la risultante di un complesso di cause che hanno riguardato un po’ tutte le nazioni: la pandemia da Covid-19, i conflitti in diverse aree del mondo, il rialzo dei tassi di interesse.

È anche per questo che il recente decreto-legge, che dovrebbe incentivare gli investimenti ed il partenariato con diversi Paesi africani, è visto con favore perché potrebbe rappresentare la chiave per creare quel substrato economico e sociale che incentivi le piccole medie imprese italiane ad investire nei territori dell’Africa. Ormai la concorrenza nel continente africano è forte e proviene da diversi Paesi: Cina, Stati Uniti d’America, Turchia, Israele, Brasile e gli investitori italiani lamentano, da una parte, la quasi inesistente presenza delle grandi banche italiane e dall’altra la diffidenza dovuta alla forte instabilità sociopolitica della maggior parte dei Paesi africani. Un atteggiamento di partenariato con i Paesi dell’Africa potrebbe aprire un varco affinché le aziende italiane possano presentarsi sul mercato africano ricche di conoscenze ed esperienze tecnico-produttive (c.d. know how) per aggiungere valore e trasformare merci e servizi da vendere prima di tutto nel continente stesso e per incentivare il libero mercato interno, peraltro già individuato nell’area di libero commercio africana (African Continental Free Trade Area - AfCFTA).

A ben vedere e seguendo una logica di sviluppo equilibrato, il modello della piccola media impresa italiana ben si sposa con il percorso iniziale di una classe imprenditoriale africana; le conoscenze e la gestione delle intere filiere produttive, l’utilizzo di macchinari, le tecnologie e le esperienze strategiche che le piccole medie imprese italiane possiedono rispetto alle grandi multinazionali, potrebbero di fatto segnare la differenza. In particolare potrebbero aiutare a far decollare un’imprenditoria locale che potrebbe riscattarsi dagli interessi delle nazioni predatrici ed incentivare la crescita ed il benessere economico delle popolazioni indigene, il tutto nel rispetto dei territori, delle tradizioni e delle culture. E in quest’ottica il decreto legge può forse essere letto come un atto che potrebbe offrire un possibile scenario di recupero della presenza italiana in questi territori che, secondo il pensiero di Enrico Mattei, deve essere collaborativa e rispettosa dei reciproci interessi.

Nella strategia aziendale di Mattei era molto forte l’approccio anticolonialistico: il Paese africano produttore di materie prime era coinvolto nelle fasi di produzione e sviluppo industriale, ben al di là della semplice figura di uno Stato con un territorio che veniva sostanzialmente sfruttato dai Paesi colonizzatori. Dal punto di vista storico si ricorda che Enrico Mattei fu un importante alleato della rivoluzione algerina, soprattutto per la fiducia che manifestò nel futuro stato indipendente dell’Algeria, optando per lo sfruttamento del petrolio algerino a condizioni molto più eque rispetto a quelle che venivano praticate dalle grandi compagnie petrolifere mondiali che si ritagliavano la fetta maggiore dei profitti. Ovviamente per i potenti Stati soggiogare economicamente un Paese ricco di risorse, in virtù di pseudo diritti alla libertà e alla democrazia e di un non ben giustificato diritto al colonialismo, significa gestirne il governo, lo sviluppo e la crescita culturale e sociale, con l’obiettivo di renderlo sempre più debole e riconoscente nei confronti di un discutibile benessere garantito dallo stato colonizzatore e dalle sue imprese.

Di fatto il piano Mattei di sviluppo dell’Africa si avvantaggiò, inizialmente, del disinteresse da parte delle multinazionali energetiche le quali non credendo nello sviluppo economico del continente africano, guardavano più verso il medio oriente. Enrico Mattei ebbe l’intuizione di creare un sistema africano di raffinazione degli idrocarburi basato su compagnie miste partecipate da Eni e dai Governi locali; la nuova idea si basava sulla necessità che l’uso della materia prima “petrolio” beneficiasse non solo, e in prima battuta, i Paesi produttori, migliorandone la qualità della vita, ma anche i Paesi consumatori. In tal modo si creava anche un nuovo approccio nei rapporti tra occidente industrializzato e Stati poveri: Mattei pensò alla c.d. formula 75/25 che esprimeva le quote di distribuzione degli utili; la percentuale più alta andava ai Paesi produttori, mentre la quota più bassa era di pertinenza dell’Eni. La nuova formula prevedeva a fianco del pagamento dei diritti di sfruttamento del petrolio (le c.d. royalties che pagavano anche gli altri competitors) anche il coinvolgimento del Paese produttore, per la quota del 50%, negli investimenti per la produzione e lo sviluppo delle proprie risorse. Il risultato era quello, da una parte, di considerare in modo paritario lo Stato produttore e quello utilizzatore della materia prima, in un approccio fondamentalmente anticolonialistico, e dall’altra di non subire perdite in termini di rendimento del capitale investito rispetto alla formula storicamente adottata dalle multinazionali. Questa modalità di suddivisione degli utili, confliggendo con quella consolidata dalle “sette sorelle” (espressione creata da Mattei stesso per indicare l’allora Consorzio per l’Iran) del 50/50, cioè la divisione egualitaria tra Paesi produttori e società utilizzatrici del petrolio, creò molto risentimento tra le multinazionali - quindi Stati Uniti e Gran Bretagna - ed ENI, cioè l’Italia, nella persona di Mattei. Per Enrico Mattei questo voleva significare anche un inizio di ricostruzione di un’Italia sull’idea di indipendenza dalle potenze atlantiche; ma questo purtroppo si scontrava con forti interessi esterni ed interni all’Italia stessa, una nazione che ha sempre avuto al suo interno forti contrasti localistici ed un atteggiamento di prostrazione di fronte al potere estero.

Fu così che, nel 1957, la formula Mattei del 75/25 prese vita nel medio oriente attraverso la costituzione della società partecipata tra Agip e il Governo Iraniano (société Irano-Italienne des pétroles) distribuita per il 51% agli italiani e per il 49% all’Iran - sodalizio che provocò un grande scontro con le grandi compagnie petrolifere. Ma prima ancora nel 1954 fu creata nella zona del nord Africa la società tra ENI e l’Egitto (Compagnie Orientale des pétroles d’Egypte) il cui 51% era detenuto indirettamente dall’Italia ed il restante 49% da enti pubblici egiziani. Da sottolineare che la partenership italo-egiziana vedeva l’impiego di mano d’opera locale nel settore impiegatizio, amministrativo ed operaio, mentre le posizioni dei quadri tecnici erano lasciate agli italiani. Ovviamente non sempre le cose andavano per il verso giusto, come nel caso in cui, nel 1960, la quantità di greggio esportato dall’Egitto in Italia e destinato alle raffinerie dell’Eni si ridusse ad 1/5 rispetto alle esportazioni del 1959. Tuttavia la collaborazione con l’Egitto continuò e si estese dal settore petrolifero a quello petrolchimico, industriale, della progettazione di infrastrutture e dei lavori pubblici sul suolo egiziano. Questo progetto prevedeva investimenti italiani per circa 30 miliardi delle vecchie lire da restituire ad un tasso di interesse del 4,5% annuo da pagare in valuta o in greggio; fu così che gli impianti di raffinerie di Gela arrivarono a lavorazioni di greggio per una quantità pari a circa 1,8 milioni di tonnellate.

Ma non solo, effetti benefici si ebbero anche in termini di prezzi, che furono mantenuti bassi rispetto ai prezzi praticati dalle grandi compagnie petrolifere anglo-americane; nel 1960 il prezzo della benzina in Italia era il più basso in Europa. Enrico Mattei si prodigò in un’opera di modernizzazione dell’Italia realizzando le stazioni di servizio per la distribuzione del carburante, con annessi bar, impeccabili servizi igienici e diversi motel Agip. I lavoratori dei distributori controllavano olio e gli altri liquidi utili per la miglior resa dei motori. Un mercato degli idrocarburi che aveva dato lavoro, prestigio e ricchezza in un’Italia che provava a rialzarsi dopo la grande sconfitta della seconda guerra mondiale.

Poi purtroppo l’architettura di politica industriale e sociale creata da Mattei crollò con la sua prematura scomparsa, nell’ottobre del 1962, in un incidente aereo le cui cause rimasero oscure per decenni…. Ma questa è un’altra storia!



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25 Marzo 2024

L’APPROVAZIONE DEL DL. 161/2023: SULLE ORME DEL PENSIERO DI MATTEI

L’APPROVAZIONE DEL DL. 161/2023: SULLE ORME DEL PENSIERO DI MATTEI

di Alessandra Di Giovambattista

 30-03-2024

All’inizio dell’anno, la seconda legge emanata dal nostro Parlamento – la legge n. 2 del 10 gennaio 2024 (legge di conversione del Decreto legge n. 161 del 15 novembre 2023) - è stata quella relativa al partenariato tra Italia ed alcuni Stati dell’Africa per incentivarne lo sviluppo e le relazioni commerciali, attraverso investimenti e trasferimento di conoscenze. Si è quindi definito il cosiddetto piano “Mattei” che consta di cinque pilastri: agricoltura, energia, acqua, istruzione e salute. Tra i diversi obiettivi della legge vi sono anche quelli strettamente nazionali, che potrebbero segnare un vantaggio economico e sociale per il nostro Paese. In particolare si pensi: alle necessità energetiche che potrebbero essere garantite da accordi con gli Stati africani, al problema migratorio che potrebbe essere arginato, almeno in gran parte, da programmi di industrializzazione, di autosufficienza e di miglioramento di vita delle popolazioni indigene, all’ampliamento dei mercati di sbocco di beni e servizi prodotti dall’Italia grazie a piani di collaborazioni economiche e di investimenti, e non ultimo all’impegno per il controllo ed il contrasto delle frange estremiste. In ragione di questi obiettivi, sicuramente complessi, ci si attende una politica italiana che guardi con determinazione ad un ruolo attivo e propositivo all’interno dell’Europa sostenendo un approccio equo e produttivo per tutti i soggetti facenti parte del partenariato.

In termini finanziari è previsto uno stanziamento complessivo di circa 5,5 miliardi di euro, da versare nei prossimi quattro anni, che oltre a finanziare direttamente opere e servizi dovrebbe stimolare, indirettamente, nuovi investimenti da parte delle aziende private. Nell’articolo 1 del decreto si legge che il piano Mattei rappresenta un documento programmatico-strategico volto a promuovere lo sviluppo delle attività di collaborazione tra Stato italiano e continente africano. Vengono inoltre individuati gli ambiti di intervento e le priorità con riferimento specialmente alla promozione delle esportazioni e degli investimenti, al potenziamento delle infrastrutture digitali, alla cooperazione allo sviluppo in ambito industriale, sanitario, educativo, culturale e sociale, alla valorizzazione delle fonti rinnovabili e dell’economia circolare. Quest’ultima rappresenta un modello di produzione e consumo che implica condivisione, prestito, riutilizzo, riparazione, ricondizionamento e riciclo dei materiali e dei prodotti commercializzati finalizzato all’uso dei beni il più a lungo possibile. In tal modo si contrasta la logica del consumismo, che ha caratterizzato l’approccio all’utilizzo delle risorse e dei prodotti nell’ultimo secolo, e si prolunga il ciclo di vita dei prodotti, contribuendo anche alla riduzione dei rifiuti.

Con riferimento ai cinque pilastri si sottolinea che gli interventi concernenti l’istruzione e la formazione mirano a preparare ed aggiornare i docenti, ad avviare corsi professionali e di formazione in linea con i fabbisogni del mercato del lavoro, promuovendo l’occupazione sia maschile sia femminile, e la collaborazione con le imprese italiane che esporterebbero il modello della piccola media impresa, una realtà peculiare nostrana che vanta delle ineguagliabili eccellenze.

Nell’ambito dell’agricoltura gli obiettivi del piano riguardano la diminuzione del tasso di malnutrizione, lo sviluppo delle filiere agro alimentari, l’incentivazione dei biocarburanti non fossili.

Il settore sanitario sarà interessato da una politica di rafforzamento dei sistemi sanitari, migliorando specialmente l’accessibilità e la qualità dei servizi materno - infantili.

Gli interventi con riferimento all’acqua riguarderanno la perforazione di pozzi alimentati da sistemi fotovoltaici, la manutenzione dei punti acqua esistenti, gli investimenti sulle reti di distribuzione e le attività di sensibilizzazione sull’utilizzo dell’acqua potabile.

Dal punto di vista energetico la proposta contenuta nel piano risulta molto ambiziosa; si vorrebbe far diventare l’Italia uno snodo, un punto centrale (c.d. hub) energetico, un vero e proprio ponte tra Europa ed Africa. In particolare emerge il duplice interesse italiano: quello di aiutare gli Stati africani a generare ricchezza mediante l’utilizzo delle proprie materie prime – così cercando anche di arginare il fenomeno delle migrazioni di massa - e contestualmente quello di trovare nuove rotte di forniture energetiche. Ed è proprio in questo ambito che si coglie lo stretto legame tra il modello che Mattei aveva attuato nella metà del ventesimo secolo e quanto vorrebbe realizzare il Governo attuale: una cooperazione non predatoria in cui tutti i partener debbono poter crescere e migliorare. La scommessa si basa sulla possibilità che entro il biennio prossimo ci si possa, da un lato, sganciare totalmente dal gas russo e, dall’altro, provvedere a distribuire l’energia dal Nord Africa all’Europa. Come prima risposta, con l’intento di cogliere l’obiettivo, sono stati sottoscritti degli accordi tra ENI e la Sonatrach, azienda algerina, per il miglioramento dell’esportazione di energia nel nostro Paese; si sottolinea che nel 2023 l’Algeria è stata la nazione che ha fornito la maggior parte di gas all’Italia sostituendo una parte significativa delle importazioni di gas della Russia. A ciò si aggiungono gli obiettivi di efficienza energetica - eliminando sprechi e dispersioni di gas - di sviluppo delle energie rinnovabili, di produzione di idrogeno verde e di cattura e stoccaggio di anidride carbonica con le finalità di sicurezza e di transizione energetica sostenibile.

Alla luce degli obiettivi evidenziati è chiaro che i finanziamenti stanziati risultano limitati; per questo il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, nel corso del vertice Italia-Africa tenutosi nei giorni 29 e 30 gennaio 2024 a Roma, nella cornice di Palazzo Madama, ha espresso la volontà di voler coinvolgere le istituzioni finanziarie internazionali ed altri Stati donatori che hanno già espresso la loro disponibilità. Inoltre entro un anno ha annunciato la creazione di un nuovo strumento finanziario gestito da Cassa depositi e Prestiti per agevolare gli investimenti privati previsti nel piano Mattei. Con questa finalità la società Simest SpA ha previsto un finanziamento agevolato da 200 milioni di euro per la crescita sinergica dei Paesi africani e dell’Italia nell’ambito del piano. La società Simest SpA è una società del gruppo della Cassa depositi e Prestiti che sostiene la crescita delle imprese italiane nell’internazionalizzazione della loro attività per la loro espansione all’estero e per l’apertura verso nuovi mercati attraverso investimenti diretti.

È poi emerso che, durante la presidenza del G7, l’Italia lavorerà per migliorare la diversificazione delle catene di approvvigionamento e di produzione. Più nello specifico in Marocco si punterà a realizzare un grande centro di formazione professionale sull’energia rinnovabile, e miglioramenti in termini di istruzione e sanità sono previsti, rispettivamente, in Tunisia ed in Costa d’Avorio. Inoltre si avvierà un progetto di monitoraggio in agricoltura in Algeria, si provvederà alla costruzione di un centro agroalimentare in Mozambico ed alla creazione di un’area di produzione di cereali e legumi in Egitto, ed infine sarà sviluppata una filiera di biocarburanti in Kenya. Il tutto dovrà basarsi sull’incremento degli investimenti, in particolare in infrastrutture - nella duplice accezione di infrastrutture fisiche e digitali - che sono uno dei fattori cardine nell’economia dello sviluppo. Strade, ponti, reti elettriche, reti di comunicazione fisiche e digitali sono essenziali per lo sviluppo del commercio interno ed estero; investire in infrastrutture migliora efficienza e competitività.

L’Italia opererà a favore dell’Africa anche con l’obiettivo del miglioramento del nesso: energia- clima- sviluppo. Durante l’intervento la Presidente del Consiglio dei Ministri ha evidenziato che verrà destinato al continente africano il 70% del fondo italiano per il Clima (pari a 3 miliardi di euro) e che 100 milioni di euro saranno donati sul Fondo perdite e danni istituito durante la COP28. Quindi il partenariato si baserà su crescita e sicurezza di entrambi i lati: dell’Europa e dell’Africa, cercando di rafforzare il potenziale energetico africano ed accompagnare così l’equo scambio tra energia prodotta in loco e destinata alle popolazioni residenti e la vendita del surplus all’Europa.

Il decreto ha poi istituito, all’articolo 2, la Cabina di Regia per il Piano Mattei, ai cui componenti non spetta alcun compenso, e di cui faranno parte politici e direttori amministrativi ed anche rappresentanti di imprese, università, terzo settore ed esperti nelle diverse materie trattate. Tale organismo dovrà sovraintendere al piano per tutta la durata dei quattro anni previsti e sarà responsabile del coordinamento delle attività di collaborazione tra Africa ed Italia; dovrà anche coordinare i diversi livelli di amministrazione e provvedere ad incentivare l’accesso a nuove risorse finanziarie internazionali. Ulteriore compito sarà quello di aggiornare il Parlamento circa obiettivi e risultati ottenuti mediante una relazione annuale da presentare entro il 30 giugno di ogni anno (ci si attende una prima relazione entro il 30 giugno di quest’anno) e nella quale un posto di rilievo sarà dato alle misure proposte e volte a migliorare l’attuazione del piano e ad accrescere l’efficacia degli interventi in un processo di analisi a consuntivo degli obiettivi e dei risultati ottenuti. Ci si attende anche che nell’esame degli scostamenti si approfondiscano le criticità e gli errori commessi nella speranza di fornire valide modalità di correzione o di riprogrammazione del piano, in una sorta di circolo virtuoso tra ritorni di informazioni - feedback - e nuove azioni/obiettivi.

Sicuramente, alla fine di questa breve disamina, occorre sottolineare la delicatezza della situazione in un momento della storia in cui le differenze culturali e religiose sono molto profonde ed esacerbate e in cui è ancora molto forte il sentimento anti-colonialista. Sarebbero quindi da valutare anche i rischi di totale perdita degli investimenti da parte degli operatori italiani qualora si creassero fratture di tipo socio politico ed atteggiamenti di violenza estremista, che potrebbero riscontrarsi anche se la nostra Nazione, almeno nei propositi, non sembra presentarsi con intenti predatori.

 

 

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30 Marzo 2024

"Il Tempo delle Donne”. di Emanuela Scarponi

"Il Tempo delle Donne”.





L’organizzazione non governativa Africanpeople, nata dalla frantumazione del vecchio IsIao, è tesa all'obiettivo di divenire un punto di riferimento per l'Africa per tutti dal punto di vista culturale e sociale.

A tal fine, ha avviato una serie di attività in collaborazione con altre organizzazioni esistenti; tra queste, Il Tempo delle Donne, ideato da Rita Valenzuela, giornalista della Repubblica domenicana, registrata presso l’Ordine dei giornalisti del Lazio, che si pone l'obiettivo di mettere in evidenza e proteggere le donne. e’ un’associazione che mette insieme donne straniere provenienti da varie parti del mondo ed italiane al contempo, che cercano la loro strada di liberazione ed emancipazione nell'arte.

Quindi, lo sforzo di tutti noi è quello di ampliare il pubblico interessato e coinvolgere il maggior numero di persone, donne in particolare che, approdate nel nostro Paese, sentono il bisogno di esprimersi in vario modo, attraverso il lavoro e l'impegno sociale. A tale scopo, il Tempo delle Donne continua a cercare artiste donne che vogliano interagire con l’associazione al fine di creare una rete di promozione sociale, culturale, politica verso la liberazione delle donne dalla schiavitù, come avviene ancora in molti Paesi del Medio Oriente e dell'Africa.

Ma, a ben vedere, anche in Italia il fenomeno del femminicidio cresce a dismisura giorno dopo giorno e questo sta diventando un vero problema sociale. 

Giovani di tutte le sfere sociali commettono violenza sulle donne, senza provare sensi di colpa. Fuggono dalle loro malefatte per non pagare la pena senza rimorsi.

Questo penso sia l'aspetto più grave della faccenda. La nostra società sta andando verso un tale degrado sociale che diviene pericoloso per le donne poter vivere liberamente, a dispetto di tutta la storia recente, tesa all’emancipazione femminile costante.

Noi siamo il risultato di questa storia. Le donne che si affacciano al mondo dell’imprenditoria, dell’editoria, dell’arte, ripudiando la posizione - ormai desueta - della donna oggetto di bellezza ed attrazione fisica, troveranno nell’associazione il Tempo delle Donne una risposta concreta ai loro bisogni interiori, psicologici e di concreto aiuto alla loro indipendenza.

Il Tempo delle Donne, d’ispirazione alle sorelle Mirabal, Patria, Minerva e Maria Teresa, che rappresentano un simbolo per la Repubblica domenicana e per il mondo intero, che festeggia la Giornata internazionale delle donne proprio il giorno del loro ricordo, 25 novembre, sta crescendo anno dopo anno, promuovendo arte ma non solo, anche corsi di perfezionamento nella storia dell'arte, nel corso di lettura delle immagini, nella evidenziazione di società matriarcali presenti nel nostro pianeta, come la società Himba.

A tale proposito, si ricorda che il 3 marzo prossimo sarà presentato presso il Comune di Roma il libro d'arte “Donne: attimi di vita” a cura di Rita Valenzuela, giornalista della Repubblica domenicana in Italia e direttore della testata italodominicano.tv.



Emanuela Scarponi, vice presidente della ong Africanpeople

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10 Gennaio 2025

premiazione del concorso fotografico Il tempo delle donne

 

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La organizzazione non governativa Africanpeople, nata dalla frantumazione del vecchio IsIao, è tesa all'obiettivo di divenire un punto di riferimento per l'Africa per tutti dal punto di vista culturale e sociale. 

a al fine, ha avviato una serie di attività in collaborazione con altre organizzazioni esistenti; tra queste, Il tempo delle donne, ideato da Rita Valenzuela, giornalista della Repubblica domenicana, che si pone l'obiettivo di mettere in evidenza e proteggere le donne. e una associazione che mette insieme donne straniere provenienti a varie parti del mondo, ed italiane al contempo, che cercano la loro strada di liberazione ed emancipazione nell'arte. quindi lo sforzo di tutti noi è quello di ampliare il pubblico interessato e coinvolgere il maggior numero di persone, donne in particolare, che approdate nel nostro Paese, sentono il bisogno di esprimessi in vario modo, attraverso il lavoro e l'impegnò sociale. a tale scopo, il tempo delle donne continua a cercare artiste donne che vogliano interagire con la associazione al fine di creare una rete di promozione sociale, culturale, politica verso la liberazione delle donne dalla schiavitù, come avviene ancora in molti paesi del medio oriente e dell'Africa. 

ma a ben vedere anche in Italia il fenomeno del femminicidio cresce a dismisura girono dopo giorno e questo sta diventando un vero problema sociale. 

Giovani di tutte le sfere sociali commettono violenza sulle donne, senza sensi di colpa. fuggono dalle loro malefatte per non pagare la pena e non sentono il senso di colpa. questo pensa sia l'aspetto più grave della faccenda. la nostra società sta andando verso un tale degrado sociale che diviene pericoloso per le donne poter vivere liberamente, a dispetto di tutta la storia recente tesa alla emancipazione femminile costante. 

noi siamo il risultato di questa storia. le donne che si affacciano al mondo della imprenditoria, della editoria, della arte ripudiando la posizione ormai desueta della donna oggetto di bellezza ed attrazione fisica,  troveranno nella associazione il tempo delle donne una risposta concreta ai loro bisogni interiori psicologici e di concreto aiuto alla loro indipendenza. 

il tempo delle donne, di ispirazione alle sorelle Mirabal, che rappresentano un simbolo per la repubblica domenicana e per il mondo intero, che festeggia la Giornata internazionale delle donne proprio il giorno del loro ricordo, sta crescendo anno dopo anno, promuovendo arte ma non solo, anche corsi di perfezionamento nella storia dell'arte, nel corso di immagine digitale, nella evidenziazione di società matriarcali presenti nel nostro pianeta, come la società bimba. 

a tale proposito, si ricorda che il 3 marzo verrà presentato il libro d'arte a cura di Rita Valenzuela, - giornalista della Repubblica domenicana in Italia e direttore della tv dominicano.it , presso il Comune di Roma.

 

di Emanuela Scarponi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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09 Gennaio 2025

premiazione sguardo donna 2025. a cura di Rita Valenzuela, ordine dei giornalisti sezione stranieri

https://www.facebook.com/reel/1370915040728870

 

 

 

 

 

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09 Gennaio 2025

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Progetto Africa di Emanuela Scarponi

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