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ACCERTAMENTO TRIBUTARIO E INTELLIGENZA ARTIFICIALE: RIFLESSIONI di Alessandra Di Giovambattista

ACCERTAMENTO TRIBUTARIO E INTELLIGENZA ARTIFICIALE: RIFLESSIONI
di Alessandra Di Giovambattista

19-04-2023

 

Riprendendo quanto osservato nel precedente articolo in tema di accertamento tributario, il disegno di legge delega sembra aver messo al centro della riforma fiscale l’utilizzo dell’intelligenza artificiale; ma su cosa si fonda l’intelligenza artificiale? Alla sua base vi sono gli algoritmi, cioè tecniche computazionali e soluzioni in grado di replicare il comportamento umano; ad oggi l’intelligenza artificiale è largamente applicata in vari campi: medicina, robotica, mercato azionario, ricerca scientifica. Gli algoritmi, alla base dell’intelligenza artificiale, prenderanno piede anche nell’ambito amministrativo finanziario per effetto della riforma tributaria, in particolare nell’ambito dell’attività di accertamento fiscale. Già dalle prime frasi comprendiamo che stiamo incamminandoci in un campo minato, davvero delicato: si lascia spazio agli algoritmi risolti dalle macchine attraverso l’intelligenza artificiale per trovare soluzione a questioni e problematiche che richiedono approfondimenti normativi ed amministrativi da parte dell’intelligenza e dell’esperienza umana. Ad oggi il legislatore delegato si è posto il problema di garantire il pieno rispetto della normativa in tema di protezione dei dati personali: sul punto a livello comunitario non mancano precise indicazioni a tutela dei cittadini che potranno essere direttamente utilizzate negli ordinamenti dei singoli stati membri. In Italia sia il Garante per la protezione dei dati personali sia il Consiglio di Stato si sono già espressi sull’utilizzo degli algoritmi nel diritto amministrativo ponendo particolare attenzione alla tutela dei dati personali; la riforma in parola offre allora spunti di riflessione per fare una ricognizione sulle possibilità dell’uso dell’intelligenza artificiale in ambito giuridico, con riferimento specifico al diritto tributario, nonché sulle limitazioni di essa e sulle garanzie da adottare a favore dei contribuenti.
La riforma fiscale, come osservato nel precedente articolo, prevede un incisivo utilizzo delle nuove tecnologie informatiche per cercare di rendere efficace la intercomunicazione delle banche dati presenti nell’anagrafe tributaria nonché per rendere più puntuali le analisi e le selezioni dei contribuenti a rischio di evasione. Sono quindi evidenziati, nella legge delega, sia il pieno utilizzo dei dati che affluiscono al sistema informativo dell’anagrafe tributaria sia il potenziamento dell’analisi del rischio, ma anche il ricorso alle tecnologie digitali e alle soluzioni di intelligenza artificiale, il tutto, dovrebbe avvenire, nel rispetto della normativa in tema di protezione dei dati personali. L’intelligenza artificiale dovrebbe rafforzare anche il regime di adempimento collaborativo che, attraverso l’aggiornamento e l’introduzione di nuovi istituti, anche premiali, potrà incentivare forme di collaborazione tra l’Amministrazione finanziaria e i contribuenti. L’obiettivo dell’utilizzo degli algoritmi - che peraltro rappresenta uno dei focus fissati dal PNRR per la riforma ed il miglioramento della qualità del fisco italiano per il quale sono state destinate risorse finanziarie - è rappresentato non tanto dall’aumento dell’attività di accertamento ma soprattutto, dal promuovere e stimolare la crescita delle basi imponibili (c.d. compliance fiscale). In tale contesto possiamo vedere un regime anticipatore dell’utilizzo dei big data e degli algoritmi con i regimi della fatturazione elettronica e della trasmissione telematica dei corrispettivi con i quali si incrociano i dati di natura quantitativa/qualitativa al fine dei controlli di natura fiscale, con la speranza che però si salvaguardi la riservatezza dei dati personali.
Ulteriore aspetto che dovrà essere migliorato con l’utilizzo delle modalità informatiche di incrocio dei dati di natura economica, finanziaria e patrimoniale, è quello relativo al sistema nazionale della riscossione che potrà essere reso più snello eliminando duplicazioni procedurali con riduzione dei costi e miglioramenti di efficienza ed efficacia del sistema della riscossione stessa.
Ciò è quanto ci dice la riforma fiscale e le esperienze finora vissute in tale ambito, ma è necessario introdurre alcuni spunti di riflessione: l’uso dell’intelligenza artificiale e degli algoritmi obbliga alla tutela dei dati personali, in quanto pur riconoscendo al metodo un indubbio valore conoscitivo/predittivo (anche se con le dovute cautele e con tanti dubbi circa la correttezza e la reale capacità predittiva di tali informazioni) non può non considerarsi la delicatezza della questione se si pensa alla possibilità dell’uso che potrebbero farne soggetti con obiettivi di natura diversa da quella squisitamente fiscale. Sul punto si pensi, a mero esempio, all’insieme delle informazioni sanitarie, rilevabili nelle specifiche banche dati, fornite dai contribuenti con scopi puramente tributari e finalizzate all’ottenimento delle detrazioni fiscali; tali dati, manipolati in modo non deontologicamente corretto, potrebbero essere usati in maniera fraudolenta ed inopportuna rispetto all’obiettivo fiscale. Si tenga presente, ad esempio, che con la finalità di contrastare l’evasione, molte delle tutele previste dal codice per la protezione dei dati personali sono state disattese dall’amministrazione finanziaria utilizzando il decreto del 28 giugno 2022, in attuazione dell’articolo 1, commi da 681 a 686 della legge n. 160 del 2019 (legge di bilancio per il 2020). In tale ambito è già intervenuto il Garante della privacy che ha evidenziato le lacune ad oggi esistenti nella normativa a tutela dei dati e delle informazioni dei contribuenti. Si rammenta a tal proposito che i citati commi da 681 a 686 della L. n. 160 del 2019 prevedono che a fini antievasione sono da considerarsi di interesse pubblico rilevante i dati personali presenti in anagrafe tributaria e nelle altre banche dati, con la possibilità, per la pubblica amministrazione o per le società da questa incaricate, di procedere al trattamento dei dati personali in deroga alle disposizioni del codice della privacy; al tal riguardo si evidenzia che viene abrogata, con l’articolo 9 del successivo DL n. 139 del 2021, la possibilità per il Garante di poter prescrivere, in capo al titolare dell’attività di rilevanza pubblica, misure e accorgimenti a garanzia dell’interessato, qualora il trattamento possa esporre il soggetto a rischi elevati di violazione della propria sfera personale.
Quindi l’Agenzia delle entrate, la Guardia di finanza, o altro ente che agisce per conto della pubblica amministrazione, potranno liberamente disporre di informazioni senza dover interagire con il Garante dei dati personali, essendo sufficiente evidenziare che l’utilizzo dei dati è per fini antievasione; ma il problema effettivo è, come già sottolineato, se siano davvero interessanti i dati relativi alla condizione di salute della persona (si consideri che in anagrafe tributaria si trovano, oltre alle semplici indicazioni esposte in fattura, anche i dati relativi alla tipologia di prestazioni sanitarie ricevute dal contribuente nelle strutture pubbliche o convenzionate) ai fini della lotta all’evasione, oppure le scelte di finanziamento di enti ed associazioni no profit e benefiche, o anche le scelte circa la tipologia di acquisti che vengono effettuati da ogni soggetto che si reca al mercato (abbiamo fatto caso che oggi, a differenza di alcuni anni fa, per avere la tessera del supermercato viene richiesto il codice fiscale? Per quale motivo, se non per ragioni di controllo? All’Agenzia delle entrate interessa che il negozio della grande distribuzione paghi il dovuto emettendo lo scontrino fiscale ed invii telematicamente gli incassi o la tipologia di spesa quotidiana che fa ogni contribuente? Possiamo immaginare che a fini anti evasione ci siano dei diligenti impiegati pubblici che controllano gli acquisti di tutti gli italiani per capirne il tenore di vita rispetto a quanto dichiarato, o piuttosto è verosimile ipotizzare una inizio di dittatura dei big data e dell’intelligenza artificiale?). E’ legittimo supporre un uso distorto delle informazioni sanitarie, e più in generale di natura personale, per motivi di controllo e/o di potenziali atti illeciti nei confronti del contribuente assoggettato ad una “simulata” procedura di verifica fiscale? Chi saranno poi i soggetti, pubblici o privati, che potranno manipolare, trattare o anche solo visionare i dati personali di ognuno di noi, con la scusa della pseudo meritoria “attività antievasione e antielusione”, di cui si è già avuto modo di parlare? Potenzialmente potremmo trovarci da una parte migliaia di individui, da ipotizzare non solo connazionali ma anche stranieri, che gestiscono dati, e dall’altra la parte debole, i contribuenti, del tutto inconsapevoli, inermi ed estromessi da ogni forma di tutela e garanzia.
Queste considerazioni, insieme a situazioni concrete che sono già emerse inducono a sottolineare come non sarà di facile soluzione trovare un equilibrio nell’uso dell’intelligenza artificiale in ambito fiscale, rispettando le norme interne e comunitarie in materia di trattamento e protezione dei dati personali. L’utilizzo dell’intelligenza artificiale e degli algoritmi nell’ambito della giustizia amministrativa ha già permesso di mettere in luce alcune criticità che hanno prodotto dei principi generali, sottolineati con la sentenza del Consiglio di Stato n. 2270 dell’8 aprile 2019, che potrebbero essere utilizzati anche nel diritto tributario e qui riassunti: il principio di conoscibilità in base al quale il contribuente/cittadino ha diritto di conoscere l’esistenza dei processi decisionali basati su trattamenti automatizzati che lo riguardano al fine di ricevere informazioni significative circa la logica utilizzata per la determinazione delle conclusioni e di dare la possibilità di comprenderne facilmente le modalità di definizione del procedimento in un atteggiamento di massima trasparenza; il principio di non esclusività della decisione algoritmica secondo il quale il processo decisionale deve essere un procedimento in cui sia presente l’intervento dell’uomo capace di verificare, validare o smentire la decisione che si è formata in modo automatizzato; il principio di non discriminazione algoritmica secondo il quale il titolare del trattamento dei dati (es, Agenzia delle entrate o Guardia di finanza) deve garantire l’utilizzo delle procedure matematico, statistiche, informatiche appropriate per l’analisi della situazione che si intende verificare al fine di assicurare che possano essere rettificate tutte quelle variabili e fattori che comportino inesattezze o non permettano la massima rispondenza al caso in esame e sia così minimizzato il rischio di errori e massimizzata la garanzia della sicurezza dei dati personali con l’obiettivo di non discriminare il soggetto in base alla razza, all’origine etnica, alle scelte ed opinioni politiche, alla religione professata o alle convinzioni personali, allo stato di salute o genetico, all’orientamento sessuale.
Ciò detto è di tutta evidenza la delicatezza della problematica dell’avvento dell’intelligenza artificiale in ambito tributario, ma potremmo dire in tutti gli ambiti, che dovrà essere affrontata con attenzione, cura e sensibilità umana; occorre escludere la dittatura degli algoritmi e delle soluzioni robotizzate che utilizzando dati del passato propongono dati di natura predittiva. In tale contesto mi viene da pensare come e quanto sarebbe stato predittivo ed affidabile, per determinare ad esempio il concordato biennale preventivo, un algoritmo che avesse studiato il trend dei redditi percepiti da tutti gli operatori economici nell’anno 2020, considerando che il dato sarebbe stato costruito con l’uso delle variabili dell’anno precedente, cioè il 2019, che non potevano aver scontato, né previsto, gli effetti nefasti della COVID-19. Se si fosse davvero verificato un evento di tal genere c’è da immaginare che molto probabilmente l’uso degli algoritmi e dell’intelligenza artificiale avrebbero finito per scavare un solco ancora più profondo tra fisco e contribuenti che in taluni casi si sarebbero trovati a dover pagare imposte per redditi non percepiti (es. gli operatori del settore del turismo e della ristorazione), ed in altri casi a lucrare un extra reddito esentasse (es. tutto il settore delle aziende farmaceutiche e delle farmacie ed il settore sanitario in generale), con buona pace della compliance.
Mi piace terminare questo approfondimento sottolineando, in via generale, che l’intelligenza artificiale è un campo di ricerca che pone in forte contrasto scienziati e filosofi poiché mette in gioco aspetti etici, teorici e pratici. L’attenzione va rivolta verso il fatto che l’intelligenza artificiale mira a dotare le macchine di programmi e sistemi che hanno delle caratteristiche considerate tipicamente umane; ma è del tutto errato pensare che la comprensione e l’elaborazione di abitudini e fatti avvenuti nel passato possano essere oggettivi e neutrali e possano anticipare gli eventi del futuro in quanto la programmazione della macchina sarà sempre in mano all’uomo che esprime nel suo operato i suoi difetti di pregiudizio, discriminazione, voglia di potere, manipolazione. La macchina autonomamente non sarà mai in grado di superare tali problematiche e men che meno ignari ed inermi soggetti che si troveranno succubi di un nuovo tecno-potere nazionale e sovranazionale che potrà controllare ed incanalare verso un determinato obiettivo (non sempre condivisibile) le potenziali libere scelte dei cittadini.
Secondo Stephen Hawking l’intelligenza artificiale avrebbe il potenziale per rivoluzionare il nostro mondo e potrebbe essere la migliore, o la peggiore, cosa mai accaduta all’umanità. Il distinguo, nella sua opinione, starà nelle modalità in cui verrà sviluppata. Anche Elon Musk di recente ha firmato una lettera aperta, con più di 1.000 tra scienziati e ricercatori, pubblicata dal Future of Life Institute (facilmente rintracciabile su internet), in cui si legge che “i sistemi di intelligenza artificiale dotati di un’intelligenza competitiva con quella umana possono comportare rischi profondi per la società e l’umanità”; un cambiamento che dovrebbe essere pianificato e gestito in modo accurato e con risorse adeguate. Ma questo non sta avvenendo e ultimamente “i laboratori di intelligenza artificiale si sono impegnati in una corsa fuori controllo per sviluppare e impiegare menti digitali sempre più potenti che nessuno – nemmeno i loro creatori – è in grado di comprendere, prevedere o controllare in modo affidabile”. E ancora si legge: "Dobbiamo lasciare che le macchine inondino i nostri canali di informazione con propaganda e falsità? Dovremmo automatizzare tutti i lavori, compresi quelli più soddisfacenti? Dovremmo sviluppare menti non umane che alla fine potrebbero superarci di numero, essere più intelligenti e sostituirci? Dobbiamo rischiare di perdere il controllo della nostra civiltà? Queste decisioni non devono essere delegate a leader tecnologici non eletti. I potenti sistemi di intelligenza artificiale dovrebbero essere sviluppati solo quando saremo sicuri che i loro effetti saranno positivi e i loro rischi gestibili”. Invito tutti ad una profonda riflessione legata alla rivalutazione della bellezza di alcuni elementi che ci distinguono dal mondo inanimato: la sensibilità, la fantasia ed il rispetto per tutte le forme di vita, in primis, per l’essere umano.

 

 

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19 Aprile 2023

La previdenza complementare di Alessandra Di GIOVAMBATTISTA

LA PREVIDENZA COMPLEMENTARE: GENESI, DELEGA FISCALE, CRITICITA’.
di Alessandra Di Giovambattista

 

26-04-2023

Come è cambiato il calcolo delle pensioni negli ultimi decenni e come le modifiche hanno influito sulle prospettive pensionistiche dei nostri giovani? Cerchiamo di fare chiarezza al fine di comprendere la necessità di incentivare la previdenza complementare, specialmente per i giovani lavoratori, anche utilizzando la leva degli incentivi tributari che la recente delega fiscale ha preso in considerazione. Iniziamo.
Le modalità di calcolo delle pensioni sono state modificate con la legge n. 335 del 1995 (c.d. riforma Dini); in particolare la base del calcolo si differenziava in ragione dell’anzianità contributiva maturata fino al 31 dicembre 1995. Sinteticamente si rammenta che per i lavoratori con almeno 18 anni di contributi maturati fino al 31 dicembre 1995 si applicava il sistema di calcolo retributivo (più conveniente poiché basato su una percentuale della media degli stipendi degli ultimi anni di attività), per i lavoratori con meno di 18 anni di contributi maturati al 31 dicembre 1995 si applicava il criterio misto (in parte retributivo ed in parte contributivo), per i lavoratori assunti dopo il 1 gennaio 1996, si applicava il solo sistema di calcolo contributivo. La successiva riforma contenuta nel DL n. 201 del 2011 (c.d. riforma Monti - Fornero) ha previsto l’estensione del calcolo contributivo a tutti i lavoratori a partire dal 1 gennaio 2012, con ciò definendo che anche coloro che hanno maturato almeno 18 anni di contributi entro il 31 dicembre 1995 avranno una pensione calcolata con il metodo misto per cui si manterrà il sistema retributivo fino al 31 dicembre 2011 mentre a decorrere dal 1 gennaio 2012 si calcolerà la quota di pensione con il sistema contributivo.
Il metodo retributivo è quello più conveniente perché prende a base del calcolo la media degli stipendi degli ultimi anni di lavoro e l’anzianità lavorativa; l’aliquota di rendimento è del 2% annuo per retribuzioni inferiori a dei limiti fissati dalla legge o inferiore al 2% per le retribuzioni più elevate.
Il metodo contributivo è più penalizzate rispetto a quello retributivo soprattutto per le nuove generazioni e per i lavoratori che hanno carriere discontinue e stipendi bassi. L’importo della pensione si determina moltiplicando la retribuzione pensionabile annua per un’aliquota di computo; dal calcolo così ottenuto si aggiorna l’ammontare con un tasso di rivalutazione annuo variabile in base alla crescita nominale del Pil degli ultimi cinque anni. E’ evidente che tale metodo risulta essere meno penalizzante per coloro che lasciano il lavoro tardi; infatti in tal caso aumenta sia il montante contributivo sia il coefficiente di trasformazione, che aumenta all’aumentare dell’età del lavoratore.
Il metodo misto, in parte retributivo ed in parte contributivo, consente di avere una rata di pensione mensile più elevata di circa il 25 o il 30% rispetto a quella che si ottiene con il calcolo esclusivamente contributivo.
Detto ciò, si evidenzia che il legislatore ha pensato, per favorire specialmente i giovani, di introdurre lo strumento della previdenza complementare che ha lo scopo di recuperare parzialmente il gap di reddito tra la pensione calcolata con il metodo contributivo e quella determinata con il metodo retributivo ed assicurare quindi una pensione più dignitosa ai futuri percettori di tale reddito.
La previdenza complementare è gestita da fondi pensione, a cui possono aderire lavoratori di diverse categorie; essi sono finanziati tramite i contributi a carico del lavoratore, del datore di lavoro (come nel caso dei fondi pensione negoziali che presentano l’indubbio vantaggio di far confluire al loro interno sia i contributi dei lavoratori sia quelli del datore di lavoro che è obbligato a versare la stessa quota di contributi versata dal lavoratore) e il versamento dell’accantonamento annuo per il trattamento di fine rapporto (TFR).
Le prestazioni derivanti dalla previdenza complementare saranno erogate o sotto forma di rendita e di capitale per una quota massima del 50% del capitale finale accumulato; o in rendita vitalizia periodica (pensione); o in capitale in caso in cui la rendita derivante dalla conversione di almeno il 70% del montante finale risulti inferiore al 50% dell’assegno sociale INPS. E’ possibile ottenere anche delle anticipazioni per una quota calcolata sulla posizione individuale maturata e per determinate motivazioni (acquisto prima casa, pagamento spese mediche rilevanti, ecc).
La previdenza complementare, per la sua valenza sociale, è un altro degli ambiti di cui si è occupata la legge delega sulla riforma fiscale, approvata nella seduta del Consiglio dei Ministri del 16 marzo c.a. La riforma muove i suoi passi dalla considerazione che il risparmio previdenziale, sia su base volontaria sia su base obbligatoria, costituisce una forma di risparmio finalizzato per fronteggiare i crescenti bisogni di protezione che accompagnano l’età anziana. In questa prospettiva, il legislatore ha accordato un grado di agevolazione fiscale elettiva, rispetto ad altre forme di risparmio, in relazione alla speciale funzione sociale che la previdenza svolge. Il Governo vorrebbe incentivare il ricorso alla previdenza complementare e in tal senso intenderebbe aprire un dialogo con le parti sociali.
Prima però di approfondire i contenuti della delega, si ritiene utile rammentare sinteticamente il vigente regime fiscale previsto per i partecipanti ai fondi pensione complementare, al fine di comprendere meglio le nuove proposte. Attualmente sono deducibili, nel limite massimo di 5.164,57 euro annui, i contributi versati dagli iscritti, mentre al risultato di gestione delle forme complementari viene applicata un’imposta sostitutiva del 20%, ovvero del 12,5% per la parte del risultato di gestione derivante dalla detenzione di titoli di Stato e di titoli ad essi assimilati. Al momento dell’erogazione delle prestazioni di previdenza complementare la tassazione prevede l’applicazione di un’imposta sostitutiva con aliquota minore rispetto a quelle previste dall’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) che si riduce al crescere degli anni di partecipazione al sistema fino a raggiugere l’aliquota minima del 9%.
La delega fiscale in materia sottolinea che, pur volendo procedere ad una revisione delle tax expenditures (cioè le spese fiscali, quindi tutte le attuali detrazioni/deduzioni dal reddito delle persone fisiche) procedendo ad un loro sfoltimento, si terrà conto delle specificità che presenta la previdenza complementare quale forma di pensione privata a favore dei lavoratori, specialmente i più giovani. Si ipotizza che il limite di deducibilità, fermo al 2000, possa aumentare considerando la funzione integrativa e sociale dei fondi pensione e la valenza di strumento di diversificazione del rischio previdenziale. In tal senso la Commissione di vigilanza sui fondi pensione (COVIP) suggerisce di rivedere i benefici fiscali per favorire l’adesione e la contribuzione di chi non ha ancora aderito al sistema e di coloro che ne rimangono ai margini in ragione della condizione lavorativa più fragile; si potrebbe inoltre prevedere la possibilità di usare in anni successivi la deducibilità non goduta in uno specifico anno di imposta e che si potrebbe valutare la possibilità di attivare incentivi di carattere finanziario per i più giovani, con una contribuzione aggiuntiva a carico dello Stato nei primi 36 mesi di occupazione, diversificando il beneficio in ragione della tipologia di previdenza complementare scelta. La legge delega prevede inoltre la revisione della tassazione dei rendimenti delle attività secondo il principio di cassa, quindi l’imposizione avverrebbe quando effettivamente essi vengono percepiti con la possibilità di compensare plus e minusvalenze, e prevedendo la tassazione del risultato annuale realizzato dalla gestione mediante il mantenimento di un’aliquota di imposta agevolata in ragione della finalità pensionistica. In proposito si sottolinea che per la maggior parte dei paesi europei i rendimenti dei fondi pensione sono del tutto esenti da tassazione.
Dal punto di vista statistico si osserva che dopo la nascita dei fondi pensione, avvenuta già dopo la riforma Dini, il tasso di adesione dei lavoratori è aumentato, passando da 2 milioni a 7 milioni di adesioni complessive, cioè poco più di ¼ dei lavoratori italiani. Per paradosso sono i più giovani, che ne avrebbero più bisogno, a non prevedere questa forma di integrazione pensionistica; si stima che il tasso di sostituzione della pensione calcolata con il metodo contributivo rispetto all’ultimo stipendio sarà in molti casi inferiore al 50% e disporre di un’integrazione del reddito a titolo di pensione potrebbe rappresentare un valido paracadute per il periodo di vita che dovrebbe garantire una maggiore serenità economico finanziaria. Un aspetto penalizzante, rispetto al potenziale ammontare della pensione integrativa, si riscontra nel fatto che ogni anno, un quarto degli iscritti alla previdenza complementare non effettua alcun versamento creando un vuoto contributivo per le prestazioni che dovrebbero poi essere percepite nel futuro.
Per contro occorre sottolineare che spesso tali prodotti previdenziali presentano costi elevati (che si aggirano su una media del 2%) che frequentemente vanno ad erodere per la quasi totalità il margine di rendimento garantito dalla previdenza complementare; questa particolarità si riscontra soprattutto per i piani individuali pensionistici (c.d. PIP) che sono forme di previdenza realizzate attraverso contratti di assicurazione sulla vita. Inoltre la funzione dei PIP è limitata anche perché spesso le compagnie di assicurazione, che propongono il prodotto in argomento, hanno la possibilità di rivedere i coefficienti di conversione del capitale in rendita al termine del piano di accumulo, creando così una sorta di gioco non equo che induce i soggetti a richiedere il capitale in unica soluzione invece che richiedere la rendita. Inoltre vengono spesso sottaciuti sia l’esposizione al rischio finanziario sia la limitata copertura dei rischi legati alla durata della vita. Pertanto sarebbe auspicabile che nel settore della previdenza complementare si rafforzi il sistema di informazioni sui costi, sui rendimenti, sui rischi e sulle prestazioni che gli iscritti potranno attendersi di ricevere al momento del pensionamento. Non si ritiene tutelante un sistema che espone la previdenza sociale a rischi legati al reddito ed agli investimenti finanziari, spesso determinati dai grandi investitori che muovono masse di strumenti finanziari a fini speculativi e che confliggono del tutto con lo spirito che spinge i lavoratori a sottoscrivere un piano di previdenza complementare. I fondi aperti misti garantiscono spesso solo il 50% del capitale versato (c.d. gestione separata) lasciando il rimanente 50% ancorato agli andamenti altalenanti del mercato degli strumenti finanziari sottostanti al piano di previdenza complementare; questa impostazione genera inevitabilmente una asimmetria informativa per il lavoratore che spesso non è in grado di controllare e confrontare sia i costi sia i rendimenti in modo immediato al fine di favorire la comparazione tra differenti piani previdenziali e differenti soggetti che li propongono. Si auspica pertanto una maggiore trasparenza delle informazioni e la messa a punto di strumenti standardizzati, semplici e di facile comprensione che aiutino il soggetto a scegliere il prodotto finanziario che più lo soddisfi.
Ma si sa, l’ignoranza paga sempre coloro che hanno tutto l’interesse a tenere in una zona grigia il lavoratore che nell’incapacità di poter analizzare efficientemente i prodotti presentati si affida a soggetti che contemporaneamente rivestono il ruolo di venditori di prodotti finanziari, assicurativi o previdenziali e di consulenti per i potenziali investitori, creandosi così posizioni di palese conflitto di interessi che, al momento, sembra non suscitino in nessuna parte, sociale o politica, un più che necessario atteggiamento di tutela della parte debole del contratto.

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26 Aprile 2023

Alimenti e mangimi sintetici: uno sguardo d’insieme di Alessandra Di Giovambattista

Alimenti e mangimi sintetici: uno sguardo d’insieme di Alessandra Di Giovambattista

20-05-2023

 

In data 7 aprile 2023 è stato presentato il disegno di legge, ad iniziativa governativa, da parte del Ministro dell’agricoltura, sovranità alimentare e foreste, Francesco Lollobrigida e dal Ministro della salute Orazio Schillaci ed assegnato alle commissioni riunite IX e X in sede redigente il 3 maggio 2023, avente ad oggetto il divieto di produzione e di immissione sul mercato di alimenti sintetici, di alimenti cioè che provengono da applicazioni sperimentali di studi in ambito chimico biologico di riproduzione e coltivazione cellulare operata in laboratorio, su cellule animali staminali, al fine di ottenere prodotti alimentari. Ad oggi la ricerca e la produzione di tali alimenti si è concentrata maggiormente sulla carne; in alcuni paesi extra europei, ed in particolare negli Stati Uniti l’organismo di controllo ed autorizzazione alimentare, la Food and Drug Administration (FDA), ha consentito la produzione di carne di pollo sintetica, prodotta in laboratorio e derivante dallo sviluppo di cellule animali: tale circostanza ha indotto una richiesta di commercializzazione anche in Europa. La produzione di alimenti e mangimi sintetici isolati o prodotti a partire da colture cellulari o da tessuti derivanti da animali vertebrati, riguarda principalmente la produzione di carne coltivata in laboratorio a partire da cellule staminali estratte da cellule di animali vivi o da carne fresca e fatte sviluppare in bioreattori, nonché di pesce prodotto nello stesso modo. La carne sintetica è un processo biotecnologico che ha inizio estraendo cellule staminali dai muscoli di animali adulti viventi o cellule staminali pluripotenti da embrioni animali. Tale estrazione può essere sperimentata con qualunque specie vivente, ma per ora è stata condotta solo sui pesci, tacchini, polli, anatre e specialmente bovini. Dopo l’estrazione è prevista la crescita di organismi biologici che deve riprodurre le condizioni ottimali naturalmente presenti nel corpo degli animali al fine di far proliferare le cellule staminali fino alla fase di differenziazione in cui si formano vere e proprie fibre muscolari che continuano a crescere formando un tessuto analogo al tessuto muscolo scheletrico. Tuttavia, per ottenere carne commestibile è necessario una sorta di impalcatura sulla quale far orientare la crescita delle cellule e dar loro una struttura tridimensionale; tale impalcatura è in genere di materiale commestibile, ad esempio a base di amido.
Al riguardo la relazione illustrativa al disegno di legge in parola, evidenzia che numerosi studi condotti da esperti internazionali e pubblicati su insigni riviste scientifiche hanno sottolineato come si sia poco approfondito l’aspetto della sicurezza dei cibi sintetici, ed in particolare della carne e della sua capacità nutrizionale; sembra infatti che la sperimentazione sugli alimenti sintetici sia ancora in una fase embrionale che non permette quindi di escludere ricadute negative per la salute degli esseri umani. In particolare in uno studio si legge che con la moltiplicazione cellulare è probabile che possano verificarsi alcune proliferazioni non regolate e non regolabili, come avviene per le cellule tumorali (“The myth of cultured meat: a rewiew”, frontiers in nutrition 2020 – S. Chriki e J. F. Hocquette). Quindi per ora, secondo la relazione illustrativa, gli aspetti dubbi e non verificati riguardano sia gli effetti sulla salute umana derivanti dal consumo di questi alimenti sintetici sia il problema della sostenibilità ecologica delle produzioni; infatti anche per tale ultimo aspetto si evidenziano delle controversie. In particolare alcuni rapporti sui sistemi alimentari sostenibili, presentati da un gruppo di esperti e scienziati che prendono parte all’International Panel of Experts on Sustainable Food Systems-I-Pes-FOOD, hanno evidenziato che le proteine alternative non sono sostenibili e potenzialmente mettono a rischio la salute umana. Si tratta infatti di prodotti, sia della carne sia vegetali, che vengono realizzati con processi produttivi che richiedono un grande consumo di energia e l’utilizzo di monocolture industriali dannose per l’ambiente; inoltre tali processi di produzione alimentare industriale arrecherebbero danni ai sistemi agricoli, specialmente a quelli più fragili posizionati nelle zone a sud del mondo, con ripercussioni negative anche sull’occupazione perché sarebbe più conveniente produrre dove il lavoro costa meno creando ancora più ingiustizia sociale. Un’ultima osservazione è stata poi riportata, sempre nel corpo della relazione illustrativa, in merito alle affermazioni sul rischio per la salute e per l’impatto sull’ambiente del settore zootecnico. In questo senso si esprime anche la Food and Water Watch (organizzazione non governativa con oltre 3 milioni di sostenitori), la quale osserva che le asserzioni a favore degli alimenti sintetici rispetto a quelli coltivati (ed in particolare la carne) sono speculative; il settore è ancora in una fase sperimentale ma è sicuro che gli investimenti sui prodotti a base di alimenti sintetici si basano su processi produttivi che richiedono ambienti sterili, altamente industrializzati e fortemente energivori, forse anche più degli allevamenti tradizionali. Evidenzia inoltre che per la crescita delle cellule delle carni coltivate occorrono antibiotici che garantiscono la sterilità dell’ambiente di coltivazione, con inevitabili ricadute sul benessere del corpo umano il quale potrebbe essere intossicato da seppur minime quantità di tali farmaci che contribuirebbero a formare agenti patogeni, le c.d. colonie batteriche resistenti agli antibiotici, con evidenti difficoltà per l’essere umano di contrastarle e riacquistare la salute. Inoltre nel corso delle lavorazioni vengono utilizzati altri materiali pericolosi di natura chimica utilizzati per la disinfezione che possono lasciare residui nel prodotto finale; infine la parte più pericolosa sarebbe quella in cui, a fronte di un costante monitoraggio, si dovrebbe garantire che le linee cellulari non mutino o si contaminino al fine di ridurre i rischi per la salute umana. Durante una sperimentazione si è potuto constatare che l’assunzione di cibi ultra lavorati è associata ad un più elevato rischio di malattie cardiovascolari complessive, un aumento del rischio di malattia coronarica, e un incremento di malattie cerebrovascolari. Contestualmente le autorità sanitarie pubbliche di diversi paesi hanno iniziato, di recente, a promuovere alimenti minimamente o assolutamente non trasformati e a raccomandare di limitare l’uso di consumo di alimenti ultra-lavorati.
Con tali presupposti ed in mancanza di una normativa europea specifica il Governo ha ritenuto di intervenire in via precauzionale a livello nazionale per tutelare interessi che sono legati alla salute ed al patrimonio culturale della nazione. A dovere di cronaca si ricorda l’esistenza del regolamento comunitario (CE) n. 178/2002, richiamato nel disegno di legge, che reca norme generali in materia di legislazione alimentare e consolida le norme sulla sicurezza di alimenti e mangimi nella Unione Europea (UE). Il regolamento ha disposto il divieto di mettere in vendita alimenti pericolosi per la salute o non adatti al consumo umano; i controlli riguardano tutte le fasi della catena alimentare e sono volti a: garantire la tracciabilità degli alimenti, dei mangimi e degli animali destinati alla produzione alimentare; ritirare immediatamente gli alimenti ed i mangimi dal mercato in caso di possibili effetti dannosi per la salute; informare le autorità preposte ed i consumatori. Pertanto il disegno di legge specifica che le finalità della proposta normativa sono quelle di tutela della salute umana e del patrimonio agroalimentare quale insieme di prodotti espressione del processo di evoluzione socio-economica e culturale dell’Italia; questo secondo ambito è considerato di rilevanza strategia per l’interesse nazionale. Si prevede quindi, nel disegno di legge, il divieto di produrre e commercializzare alimenti sintetici - individuati some alimenti o mangimi costituiti isolati o prodotti a partire da colture cellulari o di tessuti derivanti da animali vertebrati - nel rispetto del principio di precauzione; il divieto si riferisce sia agli alimenti per il consumo umano sia ai mangimi per il consumo animale e i destinatari del provvedimento sono tutti gli operatori del settore alimentare. In caso di illeciti sono previste sanzioni amministrative che intervengono sulla possibilità di svolgere attività di impresa usufruendo di contributi, agevolazioni, finanziamenti ed altre forme di erogazioni concesse dallo Stato o altri enti pubblici o dall’Unione Europea per l’attuazione di attività imprenditoriali, nonché sull’eventuale chiusura dello stabilimento di produzione per un periodo minimo di un anno e fino ad un massimo di tre anni. In particolare la tutela del patrimonio agroalimentare italiano, che il disegno di legge intende garantire, costituisce uno dei punti di forza del nostro Paese, esso si compone di prodotti qualitativamente molto competitivi che presentano tipicità ed alto livello di reputazione, raggiungendo i più svariati mercati internazionali e registrando ottimi successi commerciali: esso ha acquisito quindi una valenza sociale e culturale oltre che economica. In generale il sostegno dei prodotti delle tradizioni e delle pratiche agroalimentari è riconosciuto a livello internazionale dall’Unesco nell’ambito della tutela del patrimonio immateriale dell’umanità (così la Convenzione per la salvaguardia del patrimonio immateriale conclusa a Parigi il 17 ottobre 2003 e ratificata con la L. n. 167 del 2007). Per patrimonio immateriale culturale si intende l’insieme di prassi, rappresentazioni, espressioni, conoscenze, know-how che le comunità riconoscono in quanto parte del proprio patrimonio culturale; esso è in costante riproduzione in risposta all’ambiente ed alla propria storia dando un senso di identità e di continuità alle comunità. In Italia è stato istituito presso l’attuale Ministero dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste l’inventario del patrimonio agroalimentare italiano con lo scopo di individuare, catalogare e documentare gli elementi culturali afferenti le tradizioni agroalimentari tipiche italiane. Il nostro paese si distingue in Europa per il maggior numero di prodotti a marchio registrato; a livello nazionale il legislatore italiano ha dato sempre grande rilievo all’indicazione obbligatoria dell’origine nazionale della produzione agroalimentare a tutela dei prodotti nazionali. Il recente DL n. 135 del 2018 ha disposto l’obbligo per i prodotti alimentari commercializzati di riportare nell’etichetta anche il luogo di origine o di provenienza delle materie prime. Il patrimonio agroalimentare italiano a causa di vari tentativi di contraffazione è stato oggetto di misure di carattere legislativo per la sua tutela; sono stati istituiti così il fondo per la sovranità alimentare ed il fondo per il sostegno delle eccellenze nella gastronomia e dell’agroalimentare italiano.
Sull’argomento, tuttavia, vi sono diversi scienziati che si schierano a favore della c.d. carne coltivata; in particolare il dott. Roberto Defez, ricercatore dell’istituto di Bioscienze e Biorisorse del CNR di Napoli, ha sottolineato come non sia corretto parlare di carne sintetica, poiché il processo produttivo non prevede procedure di sintesi chimica, bensì la produzione di carne a partire da cellule staminali, fatte sviluppare in laboratorio. Inoltre dal punto di vista dell’impatto ambientale lo stesso ricercatore afferma che, ridurre la produzione di carne ottenuta dagli allevamenti tradizionali potrebbe portare ad una riduzione nel consumo di acqua, terreno e nella produzione di gas serra. Tuttavia anche lui sottolinea che è necessario valutare bene ogni aspetto della questione e prendere decisioni solo dopo aver analizzato accuratamente tutti i dati a disposizione.
Anche l’European Food safety Authority (EFSA) sostiene che la carne coltivata nonché i frutti di mare ottenuti in vitro, potrebbero essere considerati una soluzione promettente ed innovativa per contribuire al raggiungimento degli obiettivi di sistemi alimentari equi, sicuri, sani e rispettosi dell’ambiente (farm to fork). Tuttavia specifica che il potenziale impatto sull’ambiente e sulla sostenibilità devono essere valutati a fondo e la sicurezza dei processi e dei prodotti deve essere stabilita; ciò non significa che gli alimenti coltivati non siano sicuri ma bensì che la scienza deve fare il suo corso. Qualora l’EFSA dovesse autorizzare la produzione ed il commercio di carne coltivata nell’UE il governo si vedrebbe costretto a dover eliminare il divieto di importazione e allo stesso tempo si troverebbe a non poterla produrre. In questo senso si è espresso anche il prof. Michele Morgante, professore ordinario di genetica dell’Università di Udine, il quale ha evidenziato che in Italia in tale ambito si stanno definendo regole prima ancora che si sia fatta chiarezza su elementi importanti che consentirebbero di prendere decisioni informate e definitive. Il disegno di legge in argomento ha giustificato il divieto con riferimento alla scarsa sicurezza degli alimenti coltivati e al rischio derivante per la filiera della produzione della carne da allevamento, ma il Professore conclude dicendo che si può proteggere l’attività della filiera produttiva degli allevatori italiani senza allarmare l’opinione pubblica; infatti si ha l’impressione che la decisione non sia stata presa sulla base di elementi scientifici.
Il dato effettivo è che oggi è difficile riprodurre perfettamente le caratteristiche organolettiche, cioè gusto, profumo, odore, consistenza della carne tradizionale, così come tutti i nutrienti (es. la vitamina B12 che dovrà essere fornita a parte) e alcuni elementi tipici della carne, come ad esempio l’osso per cui alcune ricette di cucina andranno a scomparire. Inoltre l’impatto rilevante sarebbe anche sugli allevamenti tradizionali e non intensivi oggi utili per il mantenimento delle razze autoctone e per la pulizia di boschi e foreste. Per quanto riguarda l’aspetto economico, il costo della carne sintetica è in forte discesa; oggi si attesta su un prezzo di circa 13-15 euro per 250 grammi (quindi circa 50/60 euro al kg) ma c’è chi prevede che il suo costo, per effetto dell’innovazione tecnologica e dell’aumento della domanda, sia destinato a diminuire e ad arrivare anche ad un costo inferiore rispetto a quello della carne normale.
Riassumendo il disegno di legge nasce dal fatto che i cibi sintetici non garantiscono qualità, benessere, tutela della cultura e della tradizione enogastronomica e di produzione, caratteristiche tutte italiane; inoltre ad oggi non ci sono sufficienti studi che permettano di avere chiarezza circa gli effetti che tali cibi potrebbero avere sulla salute dell’uomo. Pertanto di fronte alla possibilità della sua commercializzazione nel nostro paese sarebbe opportuno fare campagne di pubblicizzazione che rendano chiari i pericoli di una immissione in commercio di tali prodotti in modo che siano gli stessi consumatori, adeguatamente informati, a fare le loro scelte ed a fare la differenza sul mercato. Sicuramente allo stadio presente occorre sottolineare in tutta onestà che sembra un po’ prematuro immettere sul mercato beni non ancora testati.
Che la scienza faccia il suo corso è sacrosanto, ma è anche vero che non sarebbe né etico né giusto essere considerati delle cavie!

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20 Maggio 2023

I FATTORI AMBIENTE, SOCIETA’ E GOVERNO DELLE AZIENDE - ESG: IL FUTURO PER IL MONDO? di Alessandra Di Giovambattista

I FATTORI AMBIENTE, SOCIETA’ E GOVERNO DELLE AZIENDE - ESG: IL FUTURO PER IL MONDO? di Alessandra Di Giovambattista 

 

29-05-2023
Con il termine ESG ci si riferisce a fattori di sostenibilità ambientale ed economico-finanziaria che le aziende devono rispettare al fine di garantire al pianeta ed alla propria attività di perdurare nel tempo. Specialmente tra i più giovani questi fattori sono riconosciuti come determinanti per il futuro del pianeta e le aziende stesse comprendono che essi possono fare la differenza e garantire loro dei vantaggi strategici legati al fatto che i consumatori saranno disposti a pagare di più per beni e servizi ecosostenibili.
L’acronimo ESG si riferisce al cosiddetto Environmental: cioè fattori ambientali che riguardano l’ambiente che ci circonda e il focus si concentra su: rifiuti ed inquinamento, risorse naturali e loro esaurimento, garanzia e difesa della biodiversità, emissione dei gas serra, deforestazione, cambiamento climatico; social: cioè i fattori sociali che concernono le modalità con cui le aziende e gli Stati trattano i singoli esseri umani; pertanto un’analisi sulla relazione con i dipendenti, sulle condizioni di lavoro garantite con un’attenzione particolare sul lavoro minorile e sulle diverse forme di schiavitù, sul rispetto delle libertà fondamentali e dei diritti umani, sull’inclusione e la diversità, sui finanziamenti di progetti o di istituzioni che devono tutelare le comunità povere e sottosviluppate, sulla salute, sicurezza e sulla gestione dei conflitti sociali; governance: cioè il sistema di conduzione e direzione dell’azienda; l’attenzione sarà sulle strutture aziendali, sulle regole e le strategie che governano le scelte aziendali e/o degli Stati, sulla politica fiscale, e sulle remunerazioni dei dirigenti, sui processi di lobbying e sulle pressioni politiche, sulla corruzione e sulle strutture di governo differenziate tra aziende private e settore pubblico.
Oggi, la direttiva CSRD - Corporate Sustainability Reporting Directive (direttiva UE n. 2022/2464 pubblicata il 16 dicembre 2022) cambia la prospettiva in materia di valutazione delle imprese basata su criteri di sostenibilità; infatti le informazioni sulla sostenibilità dell’attività aziendale diventano parte integrante della relazione finanziaria annuale annessa al bilancio delle società. Più in generale per valutare un'impresa non basta più guardare ai soli dati finanziari: i fattori ESG delle aziende, anche medio-piccole, dovranno essere leggibili, confrontabili e valutabili nella relazione sulla gestione. Per le PMI e per le aziende tutte, il rispetto dei valori legati alla sostenibilità è diventato un dovere. Nati nel 2005 dai principi per gli investimenti responsabili dell'ONU, i criteri ESG sono ormai al centro del discorso pubblico e rappresentano una bussola che orienterà le scelte di sviluppo mondiale e comporterà, nel breve periodo, l’impegno di ogni singola impresa verso uno sviluppo sostenibile.
Negli ultimi anni si è registrato un importante incremento dell’attenzione sulle informazioni societarie sulla sostenibilità anche da parte delle varie categorie di investitori che cercano di allocare le proprie risorse considerando sempre di più i rischi connessi alla sostenibilità degli investimenti finanziati.
Si percepisce in modo più approfondito la consapevolezza degli effetti che i rischi “ambientali” connessi al clima (ad esempio la perdita di biodiversità) e “sociali” (si pensi ai rischi sanitari che l’emergenza Covid ha fatto emergere) comportano per le imprese e per i relativi business.
Al momento, la rendicontazione è obbligatoria per le sole imprese di grandi dimensioni
(semplificando, le imprese con più di 500 dipendenti) ma, tenuto conto delle esigenze di sostenibilità, vi è la necessità di ampliare la platea dei soggetti impegnati a fornire tale informativa. La nuova prospettiva comunitaria è quella di annoverare tutte le imprese di grandi dimensioni e tutte le imprese quotate, anche medio-piccole (ad eccezione delle microimprese) tra i soggetti tenuti all’informativa in esame, a partire dal 2026.
È tuttavia auspicabile che anche le piccole e medie imprese non quotate considerino, con interesse, la possibilità di applicare la normativa in materia, pur considerando attentamente le caratteristiche legate alla propria dimensione al fine di evitare un inutile appesantimento delle incombenze.

Per le imprese di grandi dimensioni si prevede che nella relazione sulla gestione vengano presentate informazioni necessarie alla comprensione dell’impatto dell’azienda sulle questioni di sostenibilità e del modo in cui le medesime questioni influiscono sull’andamento dell’impresa, sui suoi risultati e sulla sua situazione economico-finanziaria.
Nello specifico vengono richieste informazioni, con le prospettive temporali di breve, medio e lungo periodo - in particolare però le aziende dovranno imparare a ragionare in termini di lungo periodo, ma davvero lungo, si parla anche di 30/40 anni - in tema di strategia aziendale che indichi la resilienza del modello e delle modalità di approccio alle problematiche, nonché le eventuali opportunità che l’azienda stessa potrebbe trarre, in relazione ai rischi connessi alle questioni di sostenibilità; in relazione a ciò sarà necessario valutare i piani dell’impresa atti a contrastare i vari rischi connessi alla sostenibilità nonché le modalità di approccio alla soddisfazione delle esigenze di tutti i soggetti portatori di interessi (stakeholders);obiettivi temporalmente definiti e connessi alle questioni di sostenibilità individuati dall’impresa e monitorati nel tempo;ruolo degli organi di governo in tema di sostenibilità e capacità di gestione dei fattori ESG; politiche strategiche in relazione alla sostenibilità;
informazioni sull’esistenza di sistemi di incentivi per organi sociali e alta direzione che si occupa di sostenibilità; rischi connessi alle questioni ESG e modalità di gestione e contrasto dei rischi da essi nascenti.
La direttiva sarà applicata in quattro fasi, così scansionate nel tempo: - 2024 per le imprese già soggette alla direttiva sulla comunicazione di informazioni di carattere non finanziario; - 2025 per le grandi imprese; - 2026 per le PMI quotate (a eccezione delle microimprese), gli enti creditizi piccoli e non complessi e le imprese di assicurazione; - 2028 per le imprese di paesi terzi che realizzano ricavi netti delle vendite e delle prestazioni superiori a 150 milioni di euro nell'Unione europea, se hanno almeno un'impresa figlia o una succursale nell'UE che supera determinate soglie.
Con l'approvazione del Next Generation Eu, il piano per il rilancio dell’economia promosso dall’unione europea, l’impegno verso la sostenibilità diventa imprescindibile per ogni paese dell’unione. Il rispetto dei principi ESG non sarà più solo un volano di marketing da utilizzare a breve termine, bensì l’imperativo futuro per tutte le imprese.
Per ottenere le risorse economiche messe a disposizione dell’Europa, i piani nazionali devono rispettare alcuni criteri. Il 37% o più delle risorse deve essere destinato alla transizione ambientale, il 20% alla digitalizzazione e l’innovazione e il restante deve essere impiegato nella sostenibilità sociale.
Si è però visto che non è solo una questione di normative europee: negli ultimi anni anche i consumatori sono diventati sempre più sensibili rispetto alle problematiche di sostenibilità; infatti secondo una ricerca di Altroconsumo, più di un italiano su due è disposto a spendere di più per un prodotto che riconosce come sostenibile.
Nel 2015 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha sottoscritto un programma d’azione per il pianeta, le persone e la prosperità, denominato Agenda 2030, che si compone di 17 obiettivi per lo sviluppo sostenibile (Sustainable Developments Goals, SDGs) e di 169 target da raggiungere in ambito economico, ambientale e sociale entro il 2030.
I 17 obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile pongono in equilibrio i tre principi ESG e non riguardano solo la questione ambientale; l’attuazione dell’Agenda 2030 è un impegno complessivo di tutte le parti della società attraverso un approccio integrato e lo sviluppo di misure concrete, necessarie per far evolvere in modo sostenibile la crescita economica, l’inclusione sociale e la tutela ambientale.
In questo contesto, l’Italia si è impegnata nel definire cosa le SDGs rappresentino per il nostro contesto socio-economico, sviluppando un piano che evidenzia la Strategia Nazionale per lo Sviluppo Sostenibile.
Questo piano si articola in cinque aree tematiche, dette le Cinque P dello Sviluppo Sostenibile: PERSONE, PIANETA, PROSPERITA’, PACE, PARTENARIATO.
Ad oggi, oltre 1.500 investitori si sono impegnati ufficialmente a seguire questi principi. In 3 anni le risorse gestite da fondi ESG sono raddoppiati superando i mille miliardi di dollari.
Le imprese italiane sono particolarmente interessate ai temi della sostenibilità. Secondo un sondaggio Ipsos sul tema dell'economia circolare, presentato all'EcoForum di ottobre, si legge che: “Un'azienda su quattro investe in modo convinto in sostenibilità già da tempo; altre lo fanno in modo limitato e non strutturato e alcune hanno affrontato il tema solo di recente, ma in futuro per il 56% delle aziende l'enfasi crescerà, come pure gli investimenti in comunicazione”.
Un sondaggio diverso, curato dalla Capgemini sulla sostenibilità nelle aziende, evidenzia invece che soltanto un dirigente su cinque (quindi il 20%) ritiene che la sostenibilità sia un vantaggio per la competitività aziendale, mentre il 53% ritiene che il suo costo superi i potenziali vantaggi. Tuttavia si è dimostrato vero il contrario: lo stesso studio ha evidenziato che le imprese con chiare priorità di sostenibilità stanno già superando le imprese che non si pongono tali obiettivi. La distanza è destinata ad allargarsi nel futuro prossimo per effetto dell’aumento della regolamentazione e della pressione da parte della società civile che si tradurrà in maggior controllo da parte degli investitori e dei consumatori. Quasi tutte le aziende che hanno partecipato allo studio hanno annunciato impegni per arrivare a zero emissioni nette entro il 2030 o il 2040, però meno della metà (su un totale di 668 società private e pubbliche di 12 Paesi) ha programmi concreti da attuare e sta cercando figure esperte in materia.
Infine secondo i risultati del Sustainability Leaders Survey, il 70% dei responsabili della sostenibilità aziendale non crede alla possibilità di evitare i gravi danni climatici in arrivo.
Su tale ultimo aspetto forse una riflessione va fatta: come possono essere credibili i programmi di sostenibilità se le più grandi potenze industriali (Cina, India, Usa, Russia) non si interessano ai problemi legati ai cambiamenti climatici ed alle più generali questioni degli ESG? Nessuno riflette, ad esempio, sul grado di inquinamento dovuto alle guerre in atto dove si utilizzano armi con potenziali di inquinamento elevatissimi; si pensi solo alla possibilità, più volte paventata, dell’uso di ordigni nucleari. E’ ancora vivo il ricordo dell’esperimento nell’oceano pacifico nei pressi dell’isola di Mururoa, atollo dell’arcipelago delle Tuamotu, nella Polinesia Francese, dove i francesi fecero esplodere , in pieno oceano, un ordigno nucleare….e nessuno in quell’occasione si è premurato di conoscere le ricadute in termini ambientali, per gli uomini e per tutte le altre forme di vita, di tale scellerata prova e tantomeno qualcuno si è posto oggi il problema di andare ad indagare gli eventuali strascichi derivanti dal citato evento? E chissà quanti altri esperimenti si compiono a nostra insaputa che generano processi di decadimento e di distruzione ambientale; è evidente che la sfida principale va sostenuta dai Governi e dai poteri forti; appare abbastanza fuorviante e capzioso far credere che siamo noi gli elementi più inquinanti del pianeta, attraverso le nostre scelte quotidiane. Sicuramente noi consumatori abbiamo diverse armi in mano ma non dimentichiamo che spesso le nostre scelte vengono guidate dagli interessi dei grandi potenti rappresentati dai proprietari delle multinazionali. In particolare con la crescente attenzione verso il cambiamento climatico e la sensibilità dei consumatori verso le tematiche green, la tentazione da parte delle aziende di produzione o finanziarie, di offrire un’immagine ecosostenibile per attirare clienti e decisamente molto alta; se però le dichiarazioni non corrispondono alla sostanza delle scelte effettive di gestione aziendale il rischio è quello di scivolare nella pratica del greenwashing, ossia di fornire la sola immagine di facciata di una impresa attenta all’ambienta anche se la realtà non è assolutamente così. Ormai la maggior parte di noi non vuole, o meglio non sa, più di ragionare con le proprie capacità intellettive perché spesso ci basiamo sui risultati superficiali senza approfondire le problematiche e tale atteggiamento purtroppo viene insegnato anche nelle scuole in modo da far crescere i nostri figli del tutto acritici e indottrinati. Altro esempio che rafforza questa impostazione è l’assoluto silenzio, o meglio l’atteggiamento di assoluta inattività da parte degli Stati, tutti, nei confronti della continua distruzione della foresta amazzonica…. Perché nessun Governo affronta seriamente il problema? Solo il Papa si è fatto portavoce dei più deboli, ma purtroppo è rimasto inascoltato…. Forse ci sono dietro degli interessi forti e malavitosi che nessuno vuole andare a toccare? Nessuno punta il dito contro l’inquinamento prodotto dalle aziende chimiche, di high tech, la distruzione di interi territori nei paesi del terzo mondo, spesso africani, per depredarli di materie prime utilizzando lavoro minorile e negando ogni minimo diritto umano? Questi problemi non sembrano far emergere criticità,,,,, sarà perché forse c’è il rischio di scontrarsi contro gli interessi delle grandi aziende multinazionali?
La riflessione vorrei concluderla dicendo che sicuramente ogni singola azione compiuta da ciascuno di noi produce effetti e già solo per questo dobbiamo comportarci in modo consapevole ed attento alle ricadute in termini di ecosostenibilità; però a fronte di tale considerazione cerchiamo di fare ordine. Cerchiamo di comprendere che i più grandi irrispettosi dell’ambiente sono stati finora gli Stati che hanno perseguito politiche aggressive dal punto di vista del governo economico e sociale, spesso attori principali, oppure conniventi con i poteri forti e malavitosi gestiti da pochi e potenti uomini che gestiscono, anche attraverso gli strumenti informatici, le scelte, e purtroppo sempre di più, anche le menti di ognuno di noi. La questione del rispetto della sostenibilità deve essere ricondotta prima di tutto a delle linee guida ben chiare che restituiscano ad ogni attore economico e sociale il rispettivo e adeguato livello di responsabilità. Diversamente assisteremo alla nascita di una dittatura del green, guidata dai Bill Gates e dai George Soros di turno, che eliminerà i basilari diritti dell’uomo e prostrerà la sua volontà agli interessi di pochi…. Saremo ancora liberi… Ci saranno riconosciuti i diritti di procreare, di poter professare una religione, di mangiare alimenti naturali, di muoversi, di poter socializzare e dedicarsi a passatempi, di potersi curare anche con medicine naturali, di poter riflettere e ragionare diversamente dal pensiero unico?

 

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29 Maggio 2023

Le comunità energetiche verso il futuro: funzionamento, costi, benefici di Alessandra Di Giovambattista

Le comunità energetiche verso il futuro: funzionamento, costi, benefici

di Alessandra Di Giovambattista

22-06-2023

Continuiamo l’approfondimento sulle comunità energetiche, siano esse CER (comunità energetiche rinnovabili) oppure AC (gruppi di autoconsumo collettivo); abbiamo visto che il concetto di energia condivisa implica la possibilità di utilizzo anche da parte di soggetti che si trovano in prossimità del punto di produzione, pur non essendo essi stessi produttori di energia rinnovabile. Si evidenzia che in tal caso la direttiva comunitaria prevede anche degli incentivi. Il concetto di condivisione è definito sia da un fattore spaziale sia temporale: la contemporaneità tra produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili e consumo che avviene per il tramite della rete nazionale. Oltre a AC e CER, esistono gli auto consumatori individuali a distanza, direttamente connessi tra loro o collegati dalla rete di distribuzione e le Comunità Energetiche dei cittadini (CEC) già previste dalla Direttiva sul mercato interno dell’energia elettrica (Direttiva UE 2019/944).  Si tratta però di realtà al momento marginali. 

Per quanto riguarda i vantaggi derivanti dalla comunità energetiche, in qualunque forma esse si presentino, occorre evidenziare sin da subito che non può parlarsi di soli benefici economici, ma anche di tipo sociale ed ambientale. Secondo le indicazioni contenute nella direttiva UE, le comunità energetiche devono rappresentare un valore per il singolo, per la sua casa e per l’ambite circostante, proprio grazie all’uso di fonti di energia rinnovabile ed al ruolo primario della condivisione che presenta un valore educativo e sociale.

Dal punto di vista dei vantaggi economici si evidenzia che l’adesione ad una CER comporta:

- il risparmio sulla spesa energetica: chi auto produce ed auto consuma non preleva energia dalla rete ed ha quindi il massimo del risparmio; questo incentivo è definito premio di ritorno ed ha lo scopo di incentivare i partecipanti a spostare i loro consumi in sincronia con la produzione. Ogni ora il Gestore dei servizi elettrici (GSE) valuta l’energia condivisa a cui corrisponde un premio di ritorno che varia, al massimo, tra i 10 ed i 14 € per KWh a seconda delle caratteristiche della comunità. Ovviamente il premio di ritorno è nullo qualora non si produca energia (nel caso del fotovoltaico è dopo in tramonto e fino all’alba). E’ il GSE che mensilmente produce i calcoli sommando i premi orari e versa la somma totale al referente della Comunità; da sottolineare che la rete ed i contatori rimangono in mano esclusivamente al distributore locale per cui i consumatori pagheranno al venditore i consumi in bolletta come in precedenza, salvo poi il GSE fare i conteggi ed inviare, a posteriori, gli incentivi.

- La remunerazione per l’energia immessa in rete e non consumata o non condivisa con i partecipanti alla CER; essa prende il nome di incentivo per la vendita diretta. L’energia prodotta in eccesso viene ceduta al GSE che è obbligato a comprarla, ma ad un prezzo che è ben minore (dalla metà ad un terzo) del prezzo al quale viene venduta l’energia ai consumatori. Il GSE registra l’energia in eccesso immessa in rete dai membri attivi e poi, fatti i conteggi mensili, versa periodicamente alla Comunità il ricavo della vendita. In teoria la Comunità potrebbe vendere ad altri l’energia immessa in rete, ma questa soluzione non è ancora praticamente perseguibile.

- un incentivo calcolato in favore di tutti i partecipanti alla CER basato sull’energia condivisa e sul tipo di contratto sottoscritto dai partecipanti; in questo tipo di incentivo si comprende anche il compenso per la riduzione delle perdite in rete grazie al fatto che l’energia condivisa alleggerisce il carico della rete.

I vantaggi sociali, che pertanto riguardano la collettività nel suo insieme, risiedono proprio nella forma collaborativa di gestione e valorizzazione dell'energia. Quest'ultima diventa un bene comune, condiviso, in grado di creare un valore economico che sarà redistribuito tra i membri della comunità che vi partecipano: privati, pubbliche amministrazioni e imprese.

Le pubbliche amministrazioni, in particolare, oltre a risparmiare sul costo per l’energia, avranno un ulteriore vantaggio: potranno sfruttare la loro presenza territoriale per fungere da aggregatori sociali, con l’ulteriore specificità di utilizzare un valido supporto per combattere la povertà energetica. Un tema, quest'ultimo, che è stato a lungo oggetto di dibattito proprio per la sua ricaduta sulla società grazie alla capacità di innescare vere e proprie forme c.d. di “sharing economy”, cioè modelli di produzione e consumo che si fondano sulla condivisione.

I vantaggi ambientali possono riassumersi in ricadute positive sulle emissioni; le CER sono state indicate dalla UE come un valido strumento per l’incremento delle fonti rinnovabili a cui si affianca un modello operativo/gestionale capace di sviluppare un consapevole ed efficiente utilizzo delle fonti energetiche, che ha quale obiettivo la diminuzione delle emissioni, e di imprimere un valore educativo e formativo nei soggetti coinvolti.

Dal punto di vista più strettamente operativo il primo passo è quello della costituzione del soggetto giuridico; sottolineiamo che i condomini non hanno bisogno di costituzione essendo essi stessi dei soggetti giuridici già esistenti. Negli altri casi occorrerà:

  • costituire il soggetto giuridico: ad oggi non c’è una definizione univoca di quale sia la migliore forma giuridica per costituire le CER; indubbiamente quella che più si presta è la forma della cooperativa. In ogni caso si tratta di un contratto privato tra diversi partecipanti che sono liberi di ripartire gli oneri, gli incentivi ed i guadagni in ragione di diversi parametri.

  • Prevedere una fase di avvio che implica la progettazione e la costituzione della CER secondo gli adempimenti prevista dal GSE, e che termina con l’installazione degli impianti.

  • Organizzare la gestione dell’impianto che prevederà sia la manutenzione, sia la gestione amministrativa, il controllo economico ed il monitoraggio della redistribuzione di tutti i benefit riconosciuti in favore dei soggetti aderenti alla CER.

  • Ottimizzare l’uso dell’energia condivisa implementando eventuali sistemi di stoccaggio ed istituendo sistemi c.d. di “load management” per la redistribuzione e l’utilizzo efficiente dei carichi.

I requisiti richiesti perché si possa attivare una CER, oltre alla tipologia di soggetti che possono parteciparvi - e che ricordiamo essere privati, enti pubblici, associazioni, piccole e medie imprese (purché per queste ultime la partecipazione alla CER non rappresenti l’attività commerciale o industriale principale) - sono:

  • titolarità di un POD, cioè di un punto di prelievo di energia dalla rete;

  • adesione di almeno due soggetti: il prosumer ed il consumer che devono essere forniti dalla stessa cabina primaria;

  • installazione di nuovi impianti con una potenza complessiva inferiore ad 1 MW; tuttavia nelle CER possono partecipare anche impianti già esistenti purché non superino il 30% della potenza complessiva;

  • L’energia deve essere condivisa utilizzando la rete nazionale di distribuzione.

Un aspetto importante da approfondire riguarda i costi per l’organizzazione delle comunità energetiche; i fattori determinanti risiedono nei soggetti che finanziano gli impianti fotovoltaici, i quali rappresentano la voce di costo più consistente, nonché le modalità di organizzazione e lo scopo finale. Esistono, ad esempio, Comunità Energetiche promosse da enti pubblici con la finalità di valorizzare le fonti rinnovabili e combattere la povertà energetica che non richiedono alcun contributo economico ai singoli cittadini. Inoltre è possibile ricevere contributi dedicati a promuovere lo sviluppo delle CER erogati sia da soggetti pubblici - mediante partecipazione a bandi regionali o utilizzando i fondi per il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR approvato il 13 luglio 2021) - sia da soggetti privati - tra cui anche le fondazioni bancarie le quali erogano gli aiuti nel rispetto di determinate condizioni che le comunità devono possedere – i quali contribuiscono al sostenimento dei costi per la progettazione e la messa in esercizio degli impianti.

Dal 2020, in Italia le Comunità Energetiche hanno acquisito caratteristiche proprie e ben definite e i progetti presentati hanno attirato l’interesse crescente dei media; tuttavia viene accusato un ritardo nel decollo di tali realtà, in considerazione della complessità del processo normativo, che ha implicato una fase sperimentale durata circa due anni. In questo periodo, pertanto, i progetti realizzati sul territorio nazionale sono stati un numero ridotto: secondo Legambiente (nel suo ultimo report di maggio 2022) le realtà operative in Italia sono 35, mentre 41 sono in fase di progettazione. Ci si attende però una crescita con il perfezionamento del quadro normativo.

Dal punto di vista normativo si rammenta che solo di recente l'Italia ha recepito la Direttiva europea, peraltro in più riprese, a partire dall'emendamento al Decreto Milleproroghe, convertito nella legge n. 8 del 28 febbraio 2020, che di fatto ha aperto la strada alla costituzione di Comunità Energetiche fissandone anche i limiti di potenza.

Dal punto di vista regolatorio si è invece mossa l’Autorità per l’energia (ARERA) con delibera 318/2020/R/eel ed il Ministero dello sviluppo economico con il DM 16 settembre 2020; mediante tali atti si sono regolati gli aspetti economici per il ritiro dell’energia e fissata la tariffa incentivante per l’auto consumo elettrico collettivo, alternativa agli incentivi attualmente previsti e/o al meccanismo dello scambio sul posto. Le regole tecniche per accedervi sono state fissate in un documento del GSE pubblicato il 22 dicembre 2020, contestualmente alla guida per l’invio delle istanze preliminari di accesso tramite l’apposito portale predisposto sempre dal GSE.

Infine la direttiva UE 2018/2001 è stata portata a compimento con il decreto legislativo n. 199 dell’8 novembre 2021 che ha anche ampliato il limite di potenza degli impianti e l’orizzonte geografico. Dal punto di vista della disponibilità delle risorse finanziarie si evidenzia che il PNRR ha destinato oltre 2 mld di euro allo sviluppo delle CER, riconoscendone il valore di strumento atto ad aumentare la produzione complessiva di energia rinnovabile.

Ora poniamoci la domanda se può convenire o meno istituire una comunità energetica in una delle forme suddette: il primo passo è costruire, nel modo più verosimile possibile, un progetto tecnico-economico che valuti l’ammontare degli investimenti necessari ed i costi di gestione al fine di quantificare i tempi di recupero degli investimenti. Prima di tutto occorre dare una valutazione sull’energia producibile dall’impianto e il conseguente ricavo derivante dalla vendita al GSE. Sarà poi importante valutare anche l’incentivo di ritorno che dipenderà dal comportamento dei consumatori di energia con riferimento alle ore di produzione; in tal senso sarà d’aiuto l’uso delle moderne metodiche della domotica in quanto saranno programmate le azioni più efficaci e rapide in termini di utilizzo dell’energia prodotta. Si sottolinea in questo contesto che nel caso dei condomini bisognerà valutare adeguatamente la disponibilità dei residenti a spostare i propri consumi nelle ore più convenienti, quelle in cui la comunità produce l’energia. Secondo analisi effettuate da centri specializzati è molto probabile recuperare un investimento in circa 6 - 8 anni.

Se però si approfondisce l’argomento ci si accorge che le comunità energetiche sembrano non ancora ben normate per consentire loro di cogliere le opportunità dello sviluppo delle energie rinnovabili; infatti il mercato dell’energia a monte delle CER si presenta con prezzi vincolati che esprimono una grande forza da parte dei distributori di energia, a fronte di un mercato di utenti non adeguatamente protetto. Tale condizione potrebbe implicare un controllo ed un’invasione di competenze, da parte dei grandi colossi della distribuzione, nei confronti del mercato a valle, degli utenti/produttori, ostacolando ogni innovazione suscettibile di dare anche un potere concorrenziale al mercato formato dalle CER. E’ facile ipotizzare che i protagonisti del mercato dei contatori e della distribuzione faranno l’impossibile per presidiare e controllare in tutti i modi il mercato degli utenti, agendo su strategie che daranno loro ancora più potere e meno libertà, per le CER, di innovare anche il mercato della distribuzione.

Il grande potenziale economico per le CER è rappresentato sia dagli aspetti energetici, sia da quelli economici di recupero/remunerazione; in diversi paesi si stanno preparando piattaforme digitali per consentire alle CER di partecipare anche ai mercati accessori della capacità, della flessibilità, del controllo della tensione e della frequenza, finalizzati al miglior utilizzo dell’energia prodotta. Negli USA, ad esempio, sono state emanate delle disposizioni che impongono al mercato elettrico l’apertura totale nei confronti di queste aggregazioni, rimuovendo le barriere che limitano le loro azioni. La finalità va verso l’incentivazione della ricerca ed innovazione a vantaggio degli utenti, evitando di limitare le convenienze economiche e lo sviluppo delle forme di energia rinnovabile.

Pertanto possiamo concludere evidenziando la necessità di una normativa interna che esalti tali realtà e le affranchi dalle aggregazioni più consolidate e presenti sul mercato che rischiano di invadere spazi economici e produttivi delle CER, impedendo loro di entrare ad armi pari sul mercato delle risorse energetiche. Il nostro paese sembra fermo alla strenua difesa della esclusività delle concessioni ai distributori, la cui salute economica va certamente salvaguardata, ma senza penalizzare irragionevolmente gli utenti. Solo la politica e l’innovazione normativa di settore potrà migliorare il rapporto di forza tra il mercato odierno fatto di poche grandi realtà oligopolistiche e le nuove realtà delle CER fatte da utenti che hanno a cuore sia l’aspetto economico sia quello ecologico.

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22 Giugno 2023

LA LEGGE DI DELEGAZIONE EUROPEA 2022/2023: IL REGOLAMENTO SUI FLUSSI DI CONTANTE di Alessandra Di Giovambattista

LA LEGGE DI DELEGAZIONE EUROPEA 2022/2023: IL REGOLAMENTO SUI FLUSSI DI CONTANTE

di Alessandra Di Giovambattista

 03-07-2023

Il 15 giugno 2023 il Consiglio dei Ministri ha comunicato di voler seguire il percorso dell’approvazione con procedura d’urgenza del disegno di legge di delega al Governo per il recepimento delle Direttive Europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione Europea (UE) per il periodo 2022/2023 (la c.d. legge di delegazione europea); in particolare il disegno di legge è complementare al decreto legge n. 69 del 13 giugno 2023. Tale prassi è stata scelta per velocizzare l’iter parlamentare consentendo l’adeguamento dell’ordinamento nazionale a quello europeo e prevenendo altresì l’apertura di procedure di infrazione per mancato recepimento di direttive UE e non corretta attuazione di regolamenti.

Il testo permette il recepimento di 19 direttive e l'adeguamento, con interventi di carattere sistemico, dell'ordinamento nazionale a 4 regolamenti europei. 

Nel dettaglio, il Capo I (articoli 1 e 2) contiene le disposizioni generali per il recepimento e l'attuazione degli atti dell'Unione Europea, secondo i termini, le procedure, i princìpi e criteri direttivi previsti dalla legislazione vigente.

Il Capo II (articoli da 3 a 9) contiene i princìpi e criteri direttivi specifici per il recepimento di alcune direttive concernenti diversi ambiti, tra cui le misure volte: ad incrementare il grado di resilienza dei soggetti pubblici e privati in vari settori, alla protezione dei consumatori e dei lavoratori, all’armonizzazione della legislazione in tema di apparecchiature radio al fine di limitare la frammentazione delle interfacce di ricarica dei telefoni cellulari, alle modalità di uso di materiali atti alla moltiplicazione delle piante da frutto e sulle piante da frutto, alla riduzione delle emissioni di gas serra in tutti i settori, ed in particolare in quello del trasporto aereo, con l’istituzione di un sistema di scambio di quote di emissioni dei gas ad effetto serra nell’Unione.

Infine il capo III (articoli da 10 a 13) contiene le disposizioni relative all'attuazione di 4 regolamenti europei:

 

 

  • regolamento (UE) n. 2022/2036  sul trattamento prudenziale degli enti di importanza sistemica a livello mondiale;

  •  regolamento (UE) n. 2018/1672  finalizzato a migliorare i controlli sui flussi di denaro in contante sia in entrata che in uscita dal territorio dell'Unione Europea, armonizzando le misure volte al monitoraggio del trasporto transfrontaliero di denaro contante, nonché quelle volte alla condivisione e utilizzazione delle relative informazioni;

  •  regolamento (UE) n. 2022/2554 volto a conseguire un elevato livello di resilienza operativa digitale per le entità finanziarie regolamentate;

  • regolamento (UE) n. 2022/868 finalizzato a migliorare ulteriormente le condizioni per la condivisione dei dati nel mercato interno, creando un quadro armonizzato per gli scambi di dati e stabilendo alcuni requisiti di base per la governance dei dati, allo scopo di facilitare la cooperazione tra gli Stati membri.

L’approfondimento che qui si vuol fare riguarda il regolamento UE 2018/1672 relativo ai controlli sul denaro contante in entrata nell’Unione o in uscita dall’Unione e che abroga il precedente regolamento CE n. 1889/2005 nonché le disposizioni attuative contenute nel regolamento di esecuzione UE n. 2021/776.

La disciplina interessa il sistema di controlli sul denaro contante di valore pari o superiore a 10.000 euro in entrata o in uscita dall'Unione che dovrà integrare il quadro giuridico per la prevenzione del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo (contenuto nella direttiva UE n. 2015/849). Per la legislazione odierna è già previsto che chiunque entri o esca dal territorio nazionale trasportando denaro contante per importi superiori a 10.000 euro deve presentare dichiarazione all’Agenzia delle Dogane. Le indicazioni contenute nella legge di delegazione europea prevedono interventi di tipo sostanziale e formale, oltre ad attribuire all’Agenzia delle Dogane ed alla Guardia di Finanza, la facoltà di esercitare, nell’attività di controllo, i poteri di cui sono titolari in materia fiscale. Vengono quindi definiti gli elementi informativi che deve contenere la nuova modulistica - come ad esempio i dati anagrafici del dichiarante, del proprietario, del mittene e del destinatario, i numeri identificativi e di registrazione nonché il paese di registrazione, di partenza e di invio, ecc. - con la finalità: di ridurre il rischio di errori relativi all’identità, di ridurre il rischio di ritardi in fase di verifica successiva, di migliorare l’azione di contrasto all’evasione/finanziamento del terrorismo mediante l’uso dell’analisi del rischio. Tale analisi costituisce il presupposto determinante per gestione un’azione di carattere sia preventivo che repressivo nei confronti delle frodi e del finanziamento terroristico: il sistema di sorveglianza sui movimenti transfrontalieri di denaro contante ne rappresenta un corollario imprescindibile.

È evidente che il sistema di sorveglianza si realizza anche attraverso l'adozione di forme armonizzate di collaborazione e di scambio di informazioni tra le autorità competenti dei diversi Paesi - compresa anche la Commissione europea - utilizzando specifici supporti informatici, ogni qual volta ci sia il sospetto di movimenti di denaro contante connessi ad attività illecite di riciclaggio, di fronde e di finanziamento del terrorismo.

Per raggiungere tali obiettivi la legge di delegazione prevede che il Governo adotti dei decreti legislativi di adeguamento della normativa interna con quanto disposto dal regolamento n. 2018/1672, nonché emani disposizioni integrative e correttive per la migliore armonizzazione delle norme interne con quelle comunitarie. Ribadisce poi che l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli e la Guardia di Finanza possono esercitare i poteri e le facoltà loro riconosciuti dall’ordinamento nazionale al fine di verificare l’osservanza dell’obbligo di dichiarazione al fine di garantire la celerità, l’economicità e l’efficacia dei controlli. Al riguardo si sottolinea che già oggi la Guardia di finanza, con le proprie capacità investigative, garantisce l’efficacia e la rapidità delle azioni di verifica e controllo, volte a reprimere atti illeciti, proprio mediante l’uso e lo sviluppo costante della metodologia dell’analisi dei rischi. Gli uffici di controllo non possono non tener conto del fatto che la disciplina valutaria pur apparendo autonoma da quella fiscale presenta indubbiamente dei punti di contatto con quest’ultima in quanto il più delle volte le azioni illecite sono tra loro agganciate e a violazioni di tipo valutario si riconducono, spesso, anche violazioni di tipo fiscale.

Indubbiamente a tali considerazioni occorre aggiungere che in un sistema finanziario in continua evoluzione, anche in termini di creazione di nuovi negozi giuridici non sempre disciplinati espressamente dai singoli ordinamenti, l’attenzione che pone il legislatore comunitario alle attività illecite in senso lato, sono condivisibili in quanto il riciclaggio di proventi illeciti nel sistema economico e l’uso del denaro per finanziare attività illegali creano distorsioni e svantaggi competitivi per i cittadini e le imprese rispettosi della legge e rappresentano, quindi, una minaccia per il funzionamento del mercato interno. Si tratta di preoccupazioni sempre presenti sul mercato reale e dei capitali e non descrivono certo delle situazioni nuove tuttavia, oggi, il grado di complessità delle problematiche legate all’uso del denaro si è incrementato rispetto al passato. Basti pensare all’introduzione della moneta virtuale che crea problemi di monitoraggio e di contrasto degli illeciti riconducibili al suo uso ed al suo scambio; oppure alle situazioni che si vengono a creare con l’evoluzione dell’intelligenza artificiale che consente di creare realtà virtuali e parallele ai mercati finanziari con l’uso di algoritmi appositamente impostati. Poiché tali situazioni, che spesso celano atti criminali e terroristici, coinvolgono non più singoli Stati, bensì più soggetti tra loro collegati, l’UE ha deciso di porre mano alla materia anche a scopi cautelativi

Ha pertanto previsto ed introdotto una serie di misure ed obblighi per gli enti finanziari, le persone giuridiche e talune professioni al fine di garantire la trasparenza e la conservazione di registri delle movimentazioni in entrata ed in uscita, oltre a disporre, ulteriormente, di norme che avranno come obiettivo quello di approfondire la conoscenza dei propri clienti. Sono pertanto state istituite delle unità di informazione finanziaria nazionali (UIF), con l’obiettivo di far pervenire loro le transazioni sospette al fine di monitorarle e controllarle e valutare se coinvolgere nel processo di controllo e di valutazione anche parti terze presenti in altri Paesi e se necessario informare le autorità giudiziarie. La previsione di sorvegliare i movimenti transfrontalieri di denaro contante anche ai movimenti tra l’Italia e gli altri Stati membri è di elevata rilevanza anche se non rappresenta una innovazione per il nostro sistema di controllo per il già rilevato rapporto che intercorre tra riciclaggio ed evasione fiscale, un ambito attenzionato dai nostri organi finanziari da ormai molto tempo.

Il Governo è poi delegato a definire il sistema sanzionatorio per la violazione degli obblighi di dichiarazione attraverso la previsione di sanzioni amministrative dissuasive e proporzionate alla gravità delle violazioni commesse, evidenziando, indirettamente, una inadeguatezza del vigente sistema giuridico in tema di sanzioni. Tuttavia nella delega non sono fornite informazioni circa i criteri ed i principi specifici che dovranno essere seguiti. A tal fine sarebbe auspicabile evitare duplicazioni di controlli e sovrapposizioni di obblighi dichiarativi che potrebbero, in qualche modo, rendere meno efficaci le forme di contrasto agli illeciti e, conseguentemente, rendere confuse le sanzioni amministrative applicabili. In tal senso si sa che dove si possono aprire falle nel sistema sanzionatorio l’attività di contrasto all’evasione, al riciclaggio ed al terrorismo rischia di perdere proprio le caratteristiche che la delega intende rafforzare e cioè: l’efficacia, la celerità e l’economicità dell’azione amministrativa.

 

 

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03 Luglio 2023

IL PRIMO PASSO VERSO UNA LEGGE DI REGOLAMENTAZIONE DEL LOBBISMO di Alessandra Di Giovambattista

IL PRIMO PASSO VERSO UNA LEGGE DI REGOLAMENTAZIONE DEL LOBBISMO
di Alessandra Di Giovambattista

30-08-2023

 


Più di un anno fa, il 12 gennaio 2022, la Camera dei Deputati ha approvato la proposta di legge recante la disciplina dell’attività di lobbying. Si rammenta che la I Commissione della Camera - Affari costituzionali, Presidenza del Consiglio e Interni – avviò nel dicembre 2019 l’esame di più proposte di legge tra loro abbinate volte a regolare l’attività di rappresentanza degli interessi ed all’istituzione di un registro pubblico dei rappresentanti di interessi. La Commissione è giunta, dopo diverse audizioni a quella dell’agosto 2021 in cui si è adottato un testo unificato delle diverse proposte di legge.
In Italia il vuoto normativo in tema di lobbying è sempre esistito; tuttavia dal 1976 sono stati presentati almeno 96 disegni di legge, tutti lasciati decadere consentendo a privati e ad organizzazioni di continuare nell’attività di rappresentanza di interessi, in un contesto privo di inquadramento giuridico che ha favorito legami non trasparenti e non etici, spesso mossi dal tornaconto personale del singolo o dei soggetti da essi rappresentati che hanno potuto influenzare il corso degli eventi politici.
Il tema è molto delicato ed è bene ricordare, secondo la descrizione dell’enciclopedia Treccani, che il termine lobbying viene utilizzato “per definire quei gruppi di persone che, senza appartenere a un corpo legislativo e senza incarichi di governo, si propongono di esercitare la loro influenza su chi ha facoltà di decisioni politiche, per ottenere l’emanazione di provvedimenti normativi, in proprio favore o dei loro clienti, riguardo a determinati problemi o interessi”. In tale definizione possiamo far rientrare aziende, associazioni di categoria, privati, ordini professionali ed altre organizzazioni non meglio definite.
Alla luce del nuovo testo di disegno di legge - licenziato dalla Camera dei deputati dopo un percorso lungo ed accidentato, iniziato nel 2019 e assoggettato a modifiche mediazioni, scontri ed emendamenti ed inviato nel gennaio 2023 al Senato della Repubblica, con la speranza di un sua definitiva approvazione entro il 2023 - possiamo sottolineare sinteticamente alcuni aspetti di peculiare importanza:
• l’iscrizione al Registro nazionale per la trasparenza dell’attività di relazione per la rappresentanza di interessi, tenuto dall’Antitrust (Autorità garante della concorrenza e del mercato – AGCM), per coloro che intendono svolgere tale attività presso i decisori pubblici; l’elenco sarà consultabile da tutti i cittadini mediante l’utilizzo di spid o carta d’identità elettronica.
• L’istituzione di un’agenda degli incontri tra i rappresentanti di interessi ed i decisori pubblici che dovrà essere aggiornata dai rappresentanti settimanalmente. Invece i decisori pubblici potranno chiedere di rimuovere i contenuti giudicati non veritieri.
• La creazione di un Comitato di sorveglianza presso l’Antitrust che si occuperà di verificare la trasparenza dei processi decisionali pubblici, di comminare sanzioni amministrative in caso di violazioni delle disposizioni normative e di adottare un codice deontologico con le modalità di comportamento che dovranno tenere i rappresentanti degli interessi nello svolgimento della loro attività di relazioni istituzionali. Le funzioni del comitato di sorveglianza sono svolte da una Commissione bicamerale composta da 5 deputati e 5 senatori.
• La non applicazione delle norme in caso di rappresentanza di interessi svolta da enti pubblici o soggetti rappresentanti di essi nonché da partiti o movimenti politici e da organizzazioni sindacali ed imprenditoriali, come ad esempio Confindustria.
L’approvazione del disegno di legge, avvenuta con 339 voti favorevoli, nessun voto contrario, e 42 astenuti, tenta di colmare un vuoto normativo in materia di trasparenza e inclusività dei rapporti decisionali; spetterà ora al Senato modificare il testo o approvarlo così come votato alla Camera.
Esaminando in via sintetica il disegno di legge, si evidenzia il contenuto delle norme più importanti:
• l’oggetto dell’intervento legislativo riguarda l’attività delle relazioni istituzionali per la rappresentanza di interessi, intesa come contributo alla formazione delle decisioni pubbliche, svolta dai rappresentanti di interessi “particolari”, nell’osservanza della normativa vigente, nel rispetto dell’autonomia delle istituzioni e con obbligo di lealtà verso di esse. I principi ispiratori sono quelli di trasparenza, pubblicità, partecipazione democratica e conoscibilità dei processi ispiratori (articolo 1);
• i rappresentanti di interessi sono individuati nei soggetti che esercitano l’attività di lobbying, che si configura come ogni attività finalizzata alla rappresentanza di interessi, di rilevanza anche non generale e anche di natura non economica, nell’ambito dei processi pubblici e svolta da specifici soggetti in modo professionale. L’attività di rappresentanza di interessi viene svolta mediante molteplici modalità quali la presentazione di domande di incontro, proposte, richieste studi, ricerche, ecc. (articolo 2);
• le disposizioni emanate non trovano applicazione nei confronti di alcuni soggetti, quali i funzionari pubblici, i giornalisti, i rappresentanti dei governi e dei partiti, i movimenti e gruppi politici di Stati stranieri, i rappresentanti delle confessioni religiose riconosciute. Dal punto di vista oggettivo le disposizioni in materia di lobbying non si applicano: ai rapporti la cui pubblicità costituisce violazione delle norme sul segreto di Stato, d’ufficio, professionale o confessionale; alle attività di comunicazione istituzionale, orali o scritte, rese nell’ambito di sedute o audizioni presso gli organi parlamentari, o le commissioni; all’attività di rappresentanza svolta nell’ambito di processi decisionali che si concludono mediante protocolli d’intesa o altre modalità di decisione collettiva (articolo 3);
• l’istituzione del citato Registro per la trasparenza dell’attività dei soggetti che svolgono attività di lobbying al quale devono iscriversi tutti coloro che vogliono svolgere attività di relazione istituzionale per la rappresentanza di interessi. Il registro è tenuto presso la AGCM. Il registro, tenuto in forma digitale, è articolato in due parti: una ad accesso riservato ai soggetti iscritti e alle amministrazioni pubbliche e l’altra ad accesso pubblico, consultabile per via telematica (articolo 4);
• la creazione di un’agenda degli incontri tra lobbisti iscritti al registro e decisori pubblici; ciascun rappresentante di interessi aggiorna settimanalmente la propria agenda che è consultabile nella parte aperta del Registro alla pubblica lettura. È anche previsto un procedimento di opposizione da parte dei decisori pubblici alla pubblicazione di informazioni che risultano non veritiere (articolo 5);
• l’adozione di un codice deontologico da parte del Comitato di sorveglianza sulla trasparenza dei processi decisionali pubblici, istituito presso la AGCM (articolo 6);
• l’assegnazione all’AGCM della tenuta del registro e delle funzioni di sorveglianza e controllo di cui agli articoli 5 e 6. Con riferimento all’attività parlamentare le funzioni del Comitato di sorveglianza sono svolte da una commissione parlamentare bicamerale. I componenti del comitato sono nominati dal Presidente della Repubblica ed è composto da un magistrato della Corte di Cassazione, da un magistrato della Corte dei conti, e da un membro del CNEL che svolge anche le funzioni di Presidente del Comitato (articolo 7);
• la definizione dei diritti riconosciuti ai lobbisti iscritti nel registro. In particolare essi possono presentare ai decisori pubblici domande di incontro, proposte, richieste, studi, ricerche; possono svolgere attività dirette a perseguire interessi leciti di rilevanza non generale e concorrere alla formazione delle scelte pubbliche; accedere alle sedi istituzionali dei decisori pubblici (articolo 8);
• la determinazione di obblighi a cui sono tenuti gli iscritti al registro. In particolare si stabilisce il divieto per i lobbisti di corrispondere, a titolo di liberalità, somme di denaro o altre utilità economiche di rilevante importo ai decisori pubblici, nonché l’obbligo da parte di ciascun portatore di interessi di predisporre entro il 31 gennaio di ogni anno una relazione sull’attività di rappresentanza di interessi volta nell’anno precedente. Anche il Comitato di sorveglianza è tenuto a redigere, entro il 30 giugno di ogni anno, una relazione annuale sull'attività dei lobbisti, nella quale possono essere segnalate eventuali criticità e formulate proposte (articolo 9);
• l’istituzione di una procedura mediante la quale ciascun decisore pubblico può indire una consultazione qualora intenda proporre o adottare un atto normativo o regolatorio di carattere generale; tale procedura di consultazione deve essere pubblicata sul registro al fine di averne la massima pubblicità ed essere di facile accesso pubblico (articolo 10);
• la definizione di una disciplina sanzionatoria in caso di violazione di obblighi stabiliti dalla legge nei confronti del lobbista. Le sanzioni sono regolate in ragione della gravità della condotta, definendo così: l’ammonizione, la censura, la sospensione dall’iscrizione nel registro, la cancellazione dal registro (articolo 11).
La proposta di legge approvata, per ora, dalla sola Camera dei deputati ha indubbiamente il merito di provare a normare un ambito che finora è rimasto fuori da ogni regolamentazione; probabilmente questa situazione di totale delegificazione è stata voluta al fine di non palesare incontri, impegni, pressioni, interessi di singoli o di gruppi di potere per rendere meno trasparente possibile la rete di conoscenze e di clientele che generano scelte e decisioni politiche di favore per pochi soggetti, alimentando al contempo forme di corruzione.
Le nuove disposizioni riconoscono un ruolo importante ai portatori di interessi con la finalità di garantire, nel modo più ampio possibile, l’espressione democratica delle necessità e delle opportunità sentite dai soggetti operanti nel contesto socio-economico e più in generale dalla società civile.
Secondo diversi osservatori il registro unico nazionale dei portatori di interessi consentirà di chiarire i soggetti che svolgono tale attività, peraltro in modo professionale, ricompattando tutte le informazioni ad oggi presenti e frammentate presso i registri tenuti dalla Camera dei deputati, e da alcuni ministeri ed enti locali. Tale registro permetterà di conoscere gli incontri e le relazioni instauratisi tra i lobbisti ed i politici e funzionari pubblici.
Tuttavia si sottolineano alcune perplessità rappresentate dagli esperti del settore: in prima analisi si evidenzia che il sistema finora ha premiato coloro che hanno già l’abitudine e l’attitudine a trattare con i decisori pubblici, escludendo tutti gli altri potenziali interlocutori; in tale contesto il dubbio della corruzione riemerge prepotentemente ed è sostenuto dalla asimmetrie informative presenti ad oggi sul mercato. Sarà quindi importante vigilare e affinare la normativa proposta affinché tutti abbiano le stesse possibilità di svolgere l’attività di rappresentanza di interessi.
Un altro aspetto da sottolineare che presenta delle criticità con riferimento al processo di trasparenza delle decisioni pubbliche, riguarda la disposizione che, ad oggi, non obbliga al rispetto della legge sul lobbismo due importanti interlocutori: i sindacati e Confindustria. La motivazione posta a questa lettura legislativa sembra essere riconducibile al fatto che tali due interlocutori rappresentano gli interessi generali. Tuttavia è stato da più parti osservato che anche associazioni mondiali come Greenpeace o Amnesty International o le varie organizzazioni non governative (ONG) sono portatori di interessi generali, o meglio di attivismo (vedremo che l’OCSE definisce tale forma di tutela di interessi generali con la parola “advocacy”) e secondo la legge in esame loro saranno obbligati a tenere traccia e a dare conto degli incontri avuti con i decisori pubblici e di rendicontare l’attività di rappresentanza svolta, mentre questo obbligo non esisterà per altri attori quali quelli già menzionati cioè i sindacati e Confindustria. Eppure proprio questi ultimi già presenti e ben radicati con i loro interessi nel nostro Paese dovrebbero, forse, più degli altri rendicontare e rendere trasparenti incontri e decisioni prese; d’altronde proprio con tali interlocutori spesso i rappresentanti politici costruiscono i loro programmi di Governo e tale forma di trasparenza forse permetterebbe agli elettori anche di svolgere un controllo e di scegliere i propri rappresentanti in modo più consapevole e democratico. Sarebbe opportuno che la società conoscesse la loro influenza sulle scelte dei decisori pubblici che poi vengono votati.
Un altro aspetto da attenzionare riguarda il tempo che deve passare prima che un rappresentante pubblico (membri del Governo o delle giunte regionali) dopo essere cessato dal proprio incarico, possa agire privatamente come un lobbista; la legge per il momento fissa questo periodo di congelamento dell’attività in un anno. Anche per tale aspetto non sono mancate critiche; infatti un così breve lasso di tempo permette a soggetti attivi nell’ambito politico di sfruttare conoscenze di persone e di fatti che altri non hanno e che oltre a dare ad essi una rendita di posizione, generando asimmetrie informative, offre il fianco a corruzioni e connivenze dovute proprio al loro ruolo che li vede in una veste privilegiata rispetto agli altri lobbisti. La soluzione che potrebbe prospettarsi e legata non solo al prolungamento del periodo di congelamento, ben oltre l’anno previsto attualmente, ma anche all’inibizione dello svolgimento di attività di lobby nel settore nel quale il soggetto ha operato in veste di attore pubblico.
Non dovrebbero essere anche queste delle finalità che la legge sul lobbismo dovrebbe perseguire a garanzia della democrazia, della trasparenza e delle conoscenze consapevoli per la società civile?

 

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30 Agosto 2023

Le comunità energetiche: un fenomeno recente? di Alessandra Di Giovambattista

Le comunità energetiche: un fenomeno recente?

di Alessandra Di Giovambattista

 16-06-2023 

Un argomento di attualità, ancora però sconosciuto ai più, riguarda le comunità energetiche rinnovabili (CER). In particolare con il termine CER si indica un gruppo di soggetti che si organizzano per produrre e condividere localmente l'energia prodotta da fonti rinnovabili. Quindi rappresenta una vera e propria comunità costituita da enti privati, singoli cittadini, associazioni ed enti pubblici che decidono di associarsi per produrre sul loro territorio energia derivante da fonti rinnovabili (per esempio fotovoltaico ed eolico), per poi condividerla tra loro.

A Roma, la prima CER, chiamata “Le vele” è stata individuata grazie alla collaborazione tra l’Istituto Leonarda Vaccari – grazie alla sensibilità e disponibilità della nipote della fondatrice, oggi presidente dell’istituto - che si occupa di riabilitazione psico-fisica e integrazione didattica e sociale delle persone diversamente abili, la Federconsumatori Lazio ed il Municipio Roma I centro; essa si concretizza in un impianto da 90KW che produrrà circa 120 mila KWH.

Nel progetto si evidenzia che lo scopo, oltre al beneficio ambientale, è quello di finanziare, con i risparmi ottenuti dalla produzione di energia rinnovabile e con i proventi derivanti dagli incentivi, interventi sociali a favore delle persone presenti nella comunità del Municipio e che si trovano in difficoltà e specifici progetti rivolti ai pazienti dell’istituto per rafforzare la politica di assistenza e recupero. Si noti che l’Istituto Leonarda Vaccari è stato premiato per ben quattro volte con la Medaglia d’Oro al merito della Sanità pubblica.

Se questa può sembrare un’innovazione in realtà, facendo un salto indietro nella storia, vediamo che le origini di questo nuovo mondo sono da ricercare nelle "vecchie" cooperative energetiche. Un tempo, alla fine dell'Ottocento, l'elettricità veniva prodotta da piccole centrali costruite nei pressi delle fabbriche e quella in eccesso era data al vicinato. All'epoca nessuno le chiamava comunità energetiche, perché non esistevano ancora le reti centralizzate di distribuzione. Era semplicemente la forma più diffusa di distribuzione dell’energia. Così nacquero le prime cooperative; regolate da una legge del Regno d’Italia era permesso ai soci di produrre e distribuire energia. Così queste cooperative gestivano centrali idroelettriche ed i soci, privati, industrie, enti pubblici locali, beneficiavano dell’energia prodotta. Alcune di queste realtà sopravvivono ancora oggi nel nord Italia - fra le altre a Brunico, Dobbiaco, Prato allo Stelvio, Funes, dove nessuno ha sottoscritto contratti con distributori nazionali in quanto l’energia prodotta in loco è a prezzi molto bassi, essendosi anche aggiunte, oltre all’idroelettrico, forme di produzione di energia rinnovabile quali il fotovoltaico e l’eolico – mentre nel nord Europa, ed in particolare in Germania, Belgio e Danimarca, tali organizzazioni sono sopravvissute e si sono diffuse. Sono proprio queste realtà, ed il modello che incarnano, che hanno ispirato l'idea delle comunità energetiche vere e proprie a partire dal 2010.

Ricordiamo inoltre che negli anni novanta in Italia sono nate le grandi concessionarie di distribuzione separate dalla produzione; tuttavia alle cooperative storiche è stato permesso di continuare ad operare, forse perché in nord Europa sono tanto diffuse e di grandi dimensioni. Tuttavia è ancora vietato fondarne di nuove. Il fenomeno dell’accentramento in grandi reti nazionali, secondo Brian Janous, general manager di Microsoft, era un processo inevitabile, in quanto l’unico a garantire una distribuzione a bassi costi finalizzata all’uso da parte di tutti e un servizio il più omogeneo possibile. Tali obiettivi previsti per l’energia elettrica, ora si vogliono raggiungere anche nel traffico dei dati, attività che sta curando Microsoft; tuttavia poiché la distribuzione elettrica sta incrementando l’energia solare ed eolica, si sta puntando l’attenzione sul ruolo determinante delle batterie per immagazzinarla e dell’intelligenza artificiale per gestirne al meglio consumi, picchi e potenza di calcolo.

Le comunità energetiche di cui parliamo oggi arrivano venti anni dopo, anche grazie all’avvento dei pannelli solari, con l’idea nata dal basso nelle associazioni ambientaliste e dalla federazione europea delle cooperative Rescooop. 

Ma è solo nel 2018 che viene impressa una spinta sostanziale, con la direttiva europea che sancisce il diritto all'autoconsumo energetico approvata per bloccare iniziative dei singoli stati contro il fotovoltaico. Nel 2015, infatti, il governo spagnolo di Mariano Rajoy, del Partito Popolare, aveva pubblicato il Regio Decreto 900/2015, con il quale si applicavano una serie di complicazioni amministrative, tasse e sovrattasse alle installazioni di rinnovabili per proprio consumo (venne battezzata la "tassa sul sole"). Di qui l'articolo 21 della direttiva europea (UE) 2018/2001 che dà potere ai consumatori consentendo loro un autoconsumo "senza restrizioni indebite e di essere remunerati per l'elettricità che immettono nella rete". Le fonti rinnovabili, come il fotovoltaico e l’eolico, che per loro natura si prestano poco alla centralizzazione e molto di più alla produzione e all’uso locale, hanno fatto tornare a guardare con favore alla produzione e condivisione dell’energia nel modo delle vecchie cooperative energetiche.

La citata Direttiva UE 2018/2001 dispone che gli Stati membri provvedono collettivamente a far sì che nel 2030, la quota di energia da fonti rinnovabili nel consumo finale lordo di energia dell’Unione sia almeno pari al 32% e la quota di energia da fonti rinnovabili nei trasporti sia almeno pari al 14% del consumo finale in tale settore. Ogni stato membro deve fissare i contributi nazionali per conseguire collettivamente l’obiettivo vincolante del 2030 ognuno nell’ambito dei propri piani nazionali integrati per l’energia ed il clima-PNIEC. Gli obiettivi del piano che nello specifico dovrà conseguire l’Italia entro il 2030 riguardano: il raggiungimento di una percentuale di energia da fonti rinnovabili nei consumi finali lordi pari al 30%; una quota di energia da fonti rinnovabili nei trasporti pari al 22% dei consumi finali lordi (bisogna tener presente l’obiettivo complessivo UE si attesta sul 14%) che dovrà essere garantita dai fornitori di carburante. La direttiva regola anche i principi ed i criteri per disciplinare: il sostegno finanziario all’energia elettrica da fonti rinnovabili, l’autoconsumo dell’energia elettrica prodotta dalle rinnovabili, l’uso di tale energia nel settore del riscaldamento e raffrescamento e nel settore dei trasporti, la cooperazione tra gli stati membri e paesi terzi su progetti per la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili, la garanzia di origine dell’energia, le procedure amministrative per agevolare le fonti rinnovabili, l’informazione e la formazione su di esse. La direttiva in argomento fissa anche i criteri di sostenibilità e di riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra per i biocarburanti, i bioliquidi ed i combustibili da biomassa.

Gli stati membri sono stati obbligati a recepire nel diritto nazionale la direttiva entro il 30 giugno 2021 ed è entrata in vigore il 1 luglio dello stesso anno.

Chiariti questi primi aspetti cerchiamo di muovere i primi passi nel mondo delle comunità energetiche rinnovabili, approfondendo alcuni aspetti. Intanto le CER sono un modello di produzione e consumo nate per la gestione dell’energia da fonti rinnovabili. La normativa esistente ha cercato di favorire due modelli di costituzione di tali comunità: le CER vere e proprie, ed i gruppi di autoconsumo collettivo (AC). In ambedue le tipologie troviamo la partecipazione di soggetti diversi ed il decentramento della produzione con la finalità di generare e consumare autonomamente, nello stesso sito, energia elettrica derivante da fonti rinnovabili. Nella gran parte dei casi questo è possibile attraverso l’utilizzo di impianti fotovoltaici che possono essere installati da uno o più partecipanti alla Comunità Energetica, con una serie di benefici economici, sociali e ambientali che ricadono su tutti gli aderenti e sulla collettività. Nello specifico le CER possono essere di diverse tipologie in ragione della fonte di energia utilizzata. Nella gran parte dei casi, si basano sul fotovoltaico e sull’unione di più prosumer, cioè produttori-auto consumatori di energia, e di consumer che all’interno delle CER trovano il modo più efficace di impiegare l’energia elettrica. La costituzione delle CER è strettamente collegata alla figura del prosumer: sarà centrale l’auto produzione di energia e l’autoconsumo per soddisfare prima di tutto il proprio fabbisogno energetico. Sono pertanto delle reti virtuali tra più unità produttive e di consumo siano quest’ultime persone fisiche private, aziende, edifici pubblici o di culto, condomini; in tal modo si individua un’isola di produzione/consumo in un ambito territoriale ben definito.

Le due configurazioni presentano le seguenti caratteristiche: le CER sono rappresentate solitamente da un condominio, ma anche da parrocchie o scuole, trattate come un unico soggetto che condivide l’energia prodotta dal proprio impianto fotovoltaico anche con le singole abitazioni che lo compongono, mentre le AC sono definite come una più ampia associazione di soggetti, produttori e consumatori geograficamente vicini in modo da poter unire più impianti di energie rinnovabili (essenzialmente fotovoltaico). La direttiva UE specifica le caratteristiche principali delle “comunità di energia rinnovabile”: devono essere un soggetto giuridico che si basa sulla partecipazione aperta e volontaria che è autonomo e soggiace a una vicinanza dei membri agli impianti di produzione. In tale modo è abbastanza evidente l’accostamento tra queste tipologie di soggetti e la realtà giuridica delle nostre cooperative. I partecipanti sono persone fisiche, piccole e medie imprese, o autorità locali comprese le amministrazioni comunali che hanno come obiettivo quello di fornire benefici ambientali, economici o sociali a livello di comunità, direttamente ai partecipanti, o alle aree locali in cui operano. In questa visione, il principio di autoconsumo viene espanso ad un concetto più ampio: quello di energia condivisa. Non è più necessario, infatti, consumare l'energia nello stesso punto in cui questa è stata prodotta, ma può essere condivisa virtualmente con chi è in prossimità della produzione. Così si ottimizza l’auto consumo di ogni prosumer il quale potrà rivendere l’energia in eccesso a beneficio degli altri partecipanti alla comunità e presenti sul territorio (energia condivisa).

 

 

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16 Giugno 2023

Il processo di lobbying: storia e significato di Alessandra Di Giovambattista

Il processo di lobbying: storia e significato
di Alessandra Di Giovambattista

29-08-2023

L’attività di lobbying, ossia il tentativo da parte di gruppi o singoli individui di influenzare l’attività e le decisioni del Governo di una Paese, sembra abbia origine nel XVIII secolo negli attuali Stati Uniti d’America. Il termine inglese lobby traduce specificatamente la “loggia”, ossia il luogo considerato come tribuna parlamentare riservata al pubblico. I soggetti portatori di interessi propri o di gruppo, svolgono attività di influenza e pressione sul sistema politico; tale modalità di azione viene definita lobbying, in italiano lobbismo. Lobby è una parola che deriva dal tardo latino, medioevale: “laubia” con significato di loggia, portico. Secondo alcuni autori la parola lobby venne usata per la prima volta da Thomas Becon, nel seconda metà del 1500, poi sembra ripresa da William Shakespeare nell’opera Enrico IV, volendo indicare il “passaggio”, il “corridoio”. Altri fanno derivare la parola inglese lobby dall’antica lingua tedesca “lauba” (chiaramente derivata dal tardo latino, come su detto) con il significato di deposito di documenti. Tuttavia fu nel XIX secolo (intorno al 1830) che il termine lobby andò ad indicare, nella “Camera dei Comuni”, la grande anticamera in cui i membri del parlamento inglese usavano esprimere il proprio voto durante una sessione di “division”, ossia di votazione. Successivamente il termine fu usato per individuare la zona del Parlamento in cui i rappresentanti dei gruppi di pressione cercavano di contattare i membri del Parlamento per perorare i propri interessi; con il termine lobby furono quindi indicate le anticamere di fronte alle aule in cui le decisioni parlamentari venivano prese. Si iniziò così, durante il XIX secolo, ad utilizzare il termine lobbyist e lobbying per indicare rispettivamente i soggetti portatori di interessi specifici e le loro attività.
Quindi in senso lato la parola lobby indica il gruppo di pressione che si riunisce per incontrare i parlamentari e portare avanti interessi di gruppi o personali. Così il termine è approdato anche nella nostra lingua che, con terminologia essenzialmente giornalistica, indica i gruppi di potere/interesse con lobbies, i soggetti come lobbisti, e le attività di pressione in attività di lobbying. I gruppi di pressione, spesso rappresentati anche da ditte professioniste specializzate nell’offrire servizi di lobbying, sono quindi gruppi organizzati di individui o aziende che tentano, con varie strategie di influenzare le decisioni che le istituzioni intendono prendere per favorire determinati interessi; molti sono i modi e le forme in cui tali gruppi provano a condizionare il potere legislativo. Alcune volte le modalità di azione possono non essere sempre trasparenti o legali, ad esempio si possono usare pratiche di corruzione, traffico di influenze illecite per corrompere pubblici ufficiali, divulgazione di notizie propagandistiche attraverso i media con la finalità di raggiungere determinati obiettivi.
In Italia, come anche nel resto dei paesi Europei, il lavoro del lobbista non gode di buona fama, spesso viene ricondotto a scandali, alla corruzione ed alla concussione, ed i lobbisti sono considerati solo come portatori di interessi particolari, contrari a quelli generali; in particolare, l’associazione internazionale contro la corruzione - la Trasparency International Italia – ha individuato tre cause che fanno intravedere l’attività di lobbying come un’attività riconducibile a discutibili pratiche di influenza socio-politica. Una prima causa, di natura storica, è riconducibile al peso che la rivoluzione francese ed il pensiero di Rousseau hanno avuto sulle modalità di espressione della volontà popolare: quest’ultima è considerata come il prodotto della volontà dello Stato espressa unicamente attraverso l’attività legislativa e non già come possibile mediazione tra parti rappresentanti differenti interessi. Altro aspetto, riconducibile ai criteri dettati dalla Costituzione italiana, si ritrova nel fatto che i partiti politici sono visti come gli unici attori che possono intervenire e mediare con le istituzioni. Il terzo motivo risiede nella mancanza di regolamentazione e di trasparenza delle attività di rappresentanza di interessi che le fanno percepire come pratiche non lecite e negative. Indubbiamente in Italia e nel mondo non mancano scandali che contribuiscono a conferire un’alea di negatività alle attività di lobbying; si rammentano gli scandali legati ad associazioni segrete finalizzate al controllo e all’ingerenza negli appalti e negli incarichi pubblici che hanno coinvolto politici, magistrati ed imprenditori (le cosiddette logge “P3” e “P4”, fenomeni degli anni 2010/2011), o più recentemente gli scandali che hanno creato il caso di “Mafia Capitale” nel 2015, che ha evidenziato il legame tra politica e criminalità organizzata sul territorio romano.
Tuttavia il fenomeno del lobbismo non può essere relegato e ricondotto frettolosamente alle pratiche malavitose, ci sono di fatto organizzazioni che cercano di stabilire delle regole di trasparenza e responsabilità alle attività di lobbying al fine di cooperare con la sfera politica e la società civile anche in ambiti meritori quali l’ambiente, la giustizia, l’equità e l’uguaglianza: è il caso di “The good lobby”. Quest’ultima è un’organizzazione non profit la cui missione, così come la autodefiniscono, è quella di democratizzare l’accesso alle decisioni pubbliche; cerca di realizzare l’obiettivo attraverso la sensibilizzazione dei cittadini, dei movimenti, dei gruppi e delle organizzazioni del terzo settore sull’importanza di occuparsi della politica economica, al fine di influenzare le scelte dei decisori pubblici verso le migliori opportunità. Sottolinea ancora che la loro attività è in primis rivolta alla formazione dei soggetti che seppur portatori di interessi condivisi faticano ad essere coinvolti nei processi decisionali o non hanno risorse e strutture per poterlo fare.
Quindi un gruppo di interesse si attiva con la finalità di influenzare le decisioni del potere legislativo ed esecutivo, delle Authority e degli enti pubblici e più in generale della pubblica amministrazione tutta. In Europa tale attività si verifica presso la Commissione europea a Bruxelles e in misura inferiore presso il Parlamento a Strasburgo; negli Stati Uniti d’America i gruppi di interesse agiscono sul Congresso e sui vertici dell’esecutivo, a cui capo troviamo il presidente degli USA. Qui i lobbisti hanno un elevato ed eterogeneo grado di istruzione - spaziando dalla formazione giuridica a quella più specifica in medicina, biologia, ingegneria, ecc – e retribuzioni molto alte; circa la metà dei parlamentari che non vengono riconfermati nelle elezioni successive diventano lobbisti, andando ad aumentare la schiera di soggetti rappresentanti di imprese, università, professioni, associazioni, enti, nazionali ed esteri (così creando il fenomeno delle “porte girevoli” evidenziato in Europa, come vedremo). Seguendo questo sistema di produzione di leggi – così come sostiene un aneddoto diffuso nel Congresso Americano – per conoscere a fondo un progetto di legge è utile ascoltare sia li lobbista a favore sia quello contrario al provvedimento!
Secondo Luigi Graziano, politologo e professore universitario, il lobbying si presenta come “libero mercato dei gruppi di pressione organizzati in competizione pura e perfetta per ottenere accoglimento dell’interesse rappresentato presso il decisore politico”; le lobbies viste finora come sinonimo di corruzione, incominciano invece a prendere il loro spazio e sono sempre più presenti nella vita dei sistemi democratici, per lo più dei sistemi politici di tipo liberal democratico, come quello degli USA in cui lo Stato ha una presenza minimale, mentre la società civile, molto attiva, presenta una maggiore articolazione degli interessi ed una grande capacità di aggregarli in finalità comuni e dai connotati socio-economici.
Pertanto oggi lo studio dei processi di lobbying assume un grande rilievo per capire il funzionamento delle democrazie moderne; soprattutto in questa epoca di globalizzazione in cui per le aziende il dialogo diretto con la compagine politica diviene anche un campo per ottenere vantaggi competitivi e sviluppare tattiche finora non sperimentate. In un contesto di buona regolamentazione le attività di pressione possono svolgere un attivo e positivo processo di sviluppo; in mancanza di regole invece questo stesso processo può divenire foriero di ingiustizie e di creazione di leggi contrarie all’interesse pubblico ed al bene sociale.
In Italia, fino a poco tempo fa, non si aveva una regolamentazione delle attività di pressione e quindi la visibilità del fenomeno era ricondotta alla suddette pratiche illegittime e poco trasparenti, con il conseguente rigetto delle figure dei lobbisti e del loro operato. Il primo serio esercizio di regolamentazione del lobbismo si ha con il regolamento della Camera dei deputati, dove i gruppi di interesse sono stati normati nel regolamento parlamentare che pur avendo perso di efficacia nel 2017, ha continuato ad essere rispettato in mancanza di altro. Si introducono diversi parametri per cercare di definire varie situazioni e soggetti: viene definita in primo luogo la figura del lobbista; si introduce un registro elettronico pubblico obbligatorio per chi vuole avere un incontro con i parlamentari; si prevede il divieto di iscrizione per coloro che sono stati condannati in via definitiva per reati contro la pubblica amministrazione; si obbligano gli iscritti al registro a presentare ogni anno una relazione sull’attività di rappresentanza degli interessi. Finora quindi in Italia la regolamentazione del fenomeno delle lobbies non è completa e rigorosa in quanto manca: una legislazione nazionale, un registro nazionale per i lobbisti, una regolamentazione delle sanzioni applicabili a coloro che non rispettano le norme in materia, un codice di condotta che si applichi sia ai lobbisti sia ai parlamentari e ai funzionari governativi. Il 12 gennaio del 2022, in Italia, è stato approvato dalla Camera dei deputati un disegno di legge che regolamenta l’attività di lobbying.
In Europa, tuttavia le cose sono diverse; Bruxelles è la seconda capitale del lobbying dopo Washington; nel 2021 gli organi Europei hanno adottato nuove regole, redendo obbligatoria l’iscrizione dei rappresentanti d’interesse al registro per la trasparenza, nel caso intendano svolgere attività di pressione che puntino ad influenzare gli ambiti legati al processo di decisione e di creazione legislativa e di politica. L’iscrizione al registro è subordinata al rispetto di un codice di condotta comune per tutti i lobbisti, mentre i parlamentari sono obbligati a rendere pubblica la lista degli incontri con i portatori di interesse. Ovviamente non sono tutte rose e fiori; anche in un sistema regolamentato si possono avere delle falle; nel report del 2017 dell’Unione europea, si è evidenziato il problema delle cosiddette “porte girevoli”: i politici e gli ex commissari europei finito il loro mandato entrano a far parte delle organizzazioni di lobbying esprimendo così forza ed influenza nei processi di produzione delle norme, nonostante non siano stati rieletti e sfruttando le conoscenze ed il potere guadagnatosi durante i mandati. Si stima che a Bruxelles siano presenti circa 15.000 lobbisti che difendono ogni forma di interesse; il fenomeno è in costante ascesa e ciò è dovuto al fatto che la legislazione europea è sempre più presente ed invasiva nella sostanza dei procedimenti legislativi delle istituzioni parlamentari nazionali dei diversi Stati europei.
Sicuramente la regolamentazione del fenomeno del lobbismo contribuirà alla trasparenza del sistema di formazione delle leggi e delle pressioni socio/economiche da parte dei gruppi di interesse; tuttavia è innegabile che sarà necessario vigilare perché dove c’è denaro e dove si formano relazioni personali e circolano informazioni, i responsabili politici divengono molto sensibili e vulnerabili. Per sua natura l’attività di lobbying è associata ad un alto rischio di corruzione, conflitto di interessi, traffico di influenze, connivenze e scambi di favore. Gli scandali nel modo del lobbying sono sempre presenti e secondo Trasparency International i livelli di corruzione percepiti in Italia sono molto più elevati che negli altri Paesi europei e si chiede pertanto che norme etiche e trasparenti consentano un recupero di fiducia da parte dei cittadini.
Tuttavia un ruolo importante lo gioca anche l’informazione; qui si apre un altro tasto dolente. Purtroppo il nostro sistema di gestione e somministrazione delle informazioni è esso stesso spesso corrotto e asservito al potere politico-economico: in una simile situazione come si possono raccogliere informazioni trasparenti al fine di verificare la correttezza del comportamento del politico e del responsabile amministrativo? Si vede chiaramente la criticità del sistema laddove il cittadino non può essere messo in grado di conoscere il fatto puro e semplice salvo successivamente farsi un’opinione personale sulla scelta migliore da prendere escludendo dalla mercato delle informazioni ogni sedicente opinionista, il più delle volte assoldato dai poteri forti? Come possiamo noi difenderci da un’informazione malata e nel futuro sempre più controllata da forme di governo delle notizie gestite da intelligenze artificiali a cui si farà dire ciò che i poteri forti vorranno farci credere? Sono i cittadini il vero ago della bilancia che dovrebbero giudicare la correttezza del comportamento dei politici/amministratori della cosa pubblica e quindi dovrebbero poter osservare e giudicare ed avere il diritto di sapere cosa sta realmente accadendo nel processo di elaborazione delle politiche socio-economiche.
In più un sistema equo e trasparente dovrebbe prevedere anche forme di responsabilità immediatamente denunciabili da parte dei cittadini elettori che dovrebbero poter segnalare qualsiasi illecito commesso da funzionari amministrativi e politici ai competenti organi di controllo e giustizia, senza temere ripercussioni o ritorsioni personali.
In mancanza di verità e di trasparenza sui fatti realmente accaduti ed in mancanza di un robusto sistema giudiziario e sanzionatorio, che restituisca e garantisca ad ognuno il dovuto, anche quella parte di informazione pulita ed indipendente non potrà fare molto per denunciare illeciti e corruzione; l’impatto reale di un potente gruppo di interessi potrà così rimanere nascosto ed impunito agli occhi della società, tutta, impedendo una giusta e legittima reazione ad un illecito politico ed amministrativo da parte della società civile.

 

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29 Agosto 2023

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