LA PREVIDENZA COMPLEMENTARE: GENESI, DELEGA FISCALE, CRITICITA’.
di Alessandra Di Giovambattista

Come è cambiato il calcolo delle pensioni negli ultimi decenni e come le modifiche hanno influito sulle prospettive pensionistiche dei nostri giovani? Cerchiamo di fare chiarezza al fine di comprendere la necessità di incentivare la previdenza complementare, specialmente per i giovani lavoratori, anche utilizzando la leva degli incentivi tributari che la recente delega fiscale ha preso in considerazione. Iniziamo.
Le modalità di calcolo delle pensioni sono state modificate con la legge n. 335 del 1995 (c.d. riforma Dini); in particolare la base del calcolo si differenziava in ragione dell’anzianità contributiva maturata fino al 31 dicembre 1995. Sinteticamente si rammenta che per i lavoratori con almeno 18 anni di contributi maturati fino al 31 dicembre 1995 si applicava il sistema di calcolo retributivo (più conveniente poiché basato su una percentuale della media degli stipendi degli ultimi anni di attività), per i lavoratori con meno di 18 anni di contributi maturati al 31 dicembre 1995 si applicava il criterio misto (in parte retributivo ed in parte contributivo), per i lavoratori assunti dopo il 1 gennaio 1996, si applicava il solo sistema di calcolo contributivo. La successiva riforma contenuta nel DL n. 201 del 2011 (c.d. riforma Monti - Fornero) ha previsto l’estensione del calcolo contributivo a tutti i lavoratori a partire dal 1 gennaio 2012, con ciò definendo che anche coloro che hanno maturato almeno 18 anni di contributi entro il 31 dicembre 1995 avranno una pensione calcolata con il metodo misto per cui si manterrà il sistema retributivo fino al 31 dicembre 2011 mentre a decorrere dal 1 gennaio 2012 si calcolerà la quota di pensione con il sistema contributivo.
Il metodo retributivo è quello più conveniente perché prende a base del calcolo la media degli stipendi degli ultimi anni di lavoro e l’anzianità lavorativa; l’aliquota di rendimento è del 2% annuo per retribuzioni inferiori a dei limiti fissati dalla legge o inferiore al 2% per le retribuzioni più elevate.
Il metodo contributivo è più penalizzate rispetto a quello retributivo soprattutto per le nuove generazioni e per i lavoratori che hanno carriere discontinue e stipendi bassi. L’importo della pensione si determina moltiplicando la retribuzione pensionabile annua per un’aliquota di computo; dal calcolo così ottenuto si aggiorna l’ammontare con un tasso di rivalutazione annuo variabile in base alla crescita nominale del Pil degli ultimi cinque anni. E’ evidente che tale metodo risulta essere meno penalizzante per coloro che lasciano il lavoro tardi; infatti in tal caso aumenta sia il montante contributivo sia il coefficiente di trasformazione, che aumenta all’aumentare dell’età del lavoratore.
Il metodo misto, in parte retributivo ed in parte contributivo, consente di avere una rata di pensione mensile più elevata di circa il 25 o il 30% rispetto a quella che si ottiene con il calcolo esclusivamente contributivo.
Detto ciò, si evidenzia che il legislatore ha pensato, per favorire specialmente i giovani, di introdurre lo strumento della previdenza complementare che ha lo scopo di recuperare parzialmente il gap di reddito tra la pensione calcolata con il metodo contributivo e quella determinata con il metodo retributivo ed assicurare quindi una pensione più dignitosa ai futuri percettori di tale reddito.
La previdenza complementare è gestita da fondi pensione, a cui possono aderire lavoratori di diverse categorie; essi sono finanziati tramite i contributi a carico del lavoratore, del datore di lavoro (come nel caso dei fondi pensione negoziali che presentano l’indubbio vantaggio di far confluire al loro interno sia i contributi dei lavoratori sia quelli del datore di lavoro che è obbligato a versare la stessa quota di contributi versata dal lavoratore) e il versamento dell’accantonamento annuo per il trattamento di fine rapporto (TFR).
Le prestazioni derivanti dalla previdenza complementare saranno erogate o sotto forma di rendita e di capitale per una quota massima del 50% del capitale finale accumulato; o in rendita vitalizia periodica (pensione); o in capitale in caso in cui la rendita derivante dalla conversione di almeno il 70% del montante finale risulti inferiore al 50% dell’assegno sociale INPS. E’ possibile ottenere anche delle anticipazioni per una quota calcolata sulla posizione individuale maturata e per determinate motivazioni (acquisto prima casa, pagamento spese mediche rilevanti, ecc).
La previdenza complementare, per la sua valenza sociale, è un altro degli ambiti di cui si è occupata la legge delega sulla riforma fiscale, approvata nella seduta del Consiglio dei Ministri del 16 marzo c.a. La riforma muove i suoi passi dalla considerazione che il risparmio previdenziale, sia su base volontaria sia su base obbligatoria, costituisce una forma di risparmio finalizzato per fronteggiare i crescenti bisogni di protezione che accompagnano l’età anziana. In questa prospettiva, il legislatore ha accordato un grado di agevolazione fiscale elettiva, rispetto ad altre forme di risparmio, in relazione alla speciale funzione sociale che la previdenza svolge. Il Governo vorrebbe incentivare il ricorso alla previdenza complementare e in tal senso intenderebbe aprire un dialogo con le parti sociali.
Prima però di approfondire i contenuti della delega, si ritiene utile rammentare sinteticamente il vigente regime fiscale previsto per i partecipanti ai fondi pensione complementare, al fine di comprendere meglio le nuove proposte. Attualmente sono deducibili, nel limite massimo di 5.164,57 euro annui, i contributi versati dagli iscritti, mentre al risultato di gestione delle forme complementari viene applicata un’imposta sostitutiva del 20%, ovvero del 12,5% per la parte del risultato di gestione derivante dalla detenzione di titoli di Stato e di titoli ad essi assimilati. Al momento dell’erogazione delle prestazioni di previdenza complementare la tassazione prevede l’applicazione di un’imposta sostitutiva con aliquota minore rispetto a quelle previste dall’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) che si riduce al crescere degli anni di partecipazione al sistema fino a raggiugere l’aliquota minima del 9%.
La delega fiscale in materia sottolinea che, pur volendo procedere ad una revisione delle tax expenditures (cioè le spese fiscali, quindi tutte le attuali detrazioni/deduzioni dal reddito delle persone fisiche) procedendo ad un loro sfoltimento, si terrà conto delle specificità che presenta la previdenza complementare quale forma di pensione privata a favore dei lavoratori, specialmente i più giovani. Si ipotizza che il limite di deducibilità, fermo al 2000, possa aumentare considerando la funzione integrativa e sociale dei fondi pensione e la valenza di strumento di diversificazione del rischio previdenziale. In tal senso la Commissione di vigilanza sui fondi pensione (COVIP) suggerisce di rivedere i benefici fiscali per favorire l’adesione e la contribuzione di chi non ha ancora aderito al sistema e di coloro che ne rimangono ai margini in ragione della condizione lavorativa più fragile; si potrebbe inoltre prevedere la possibilità di usare in anni successivi la deducibilità non goduta in uno specifico anno di imposta e che si potrebbe valutare la possibilità di attivare incentivi di carattere finanziario per i più giovani, con una contribuzione aggiuntiva a carico dello Stato nei primi 36 mesi di occupazione, diversificando il beneficio in ragione della tipologia di previdenza complementare scelta. La legge delega prevede inoltre la revisione della tassazione dei rendimenti delle attività secondo il principio di cassa, quindi l’imposizione avverrebbe quando effettivamente essi vengono percepiti con la possibilità di compensare plus e minusvalenze, e prevedendo la tassazione del risultato annuale realizzato dalla gestione mediante il mantenimento di un’aliquota di imposta agevolata in ragione della finalità pensionistica. In proposito si sottolinea che per la maggior parte dei paesi europei i rendimenti dei fondi pensione sono del tutto esenti da tassazione.
Dal punto di vista statistico si osserva che dopo la nascita dei fondi pensione, avvenuta già dopo la riforma Dini, il tasso di adesione dei lavoratori è aumentato, passando da 2 milioni a 7 milioni di adesioni complessive, cioè poco più di ¼ dei lavoratori italiani. Per paradosso sono i più giovani, che ne avrebbero più bisogno, a non prevedere questa forma di integrazione pensionistica; si stima che il tasso di sostituzione della pensione calcolata con il metodo contributivo rispetto all’ultimo stipendio sarà in molti casi inferiore al 50% e disporre di un’integrazione del reddito a titolo di pensione potrebbe rappresentare un valido paracadute per il periodo di vita che dovrebbe garantire una maggiore serenità economico finanziaria. Un aspetto penalizzante, rispetto al potenziale ammontare della pensione integrativa, si riscontra nel fatto che ogni anno, un quarto degli iscritti alla previdenza complementare non effettua alcun versamento creando un vuoto contributivo per le prestazioni che dovrebbero poi essere percepite nel futuro.
Per contro occorre sottolineare che spesso tali prodotti previdenziali presentano costi elevati (che si aggirano su una media del 2%) che frequentemente vanno ad erodere per la quasi totalità il margine di rendimento garantito dalla previdenza complementare; questa particolarità si riscontra soprattutto per i piani individuali pensionistici (c.d. PIP) che sono forme di previdenza realizzate attraverso contratti di assicurazione sulla vita. Inoltre la funzione dei PIP è limitata anche perché spesso le compagnie di assicurazione, che propongono il prodotto in argomento, hanno la possibilità di rivedere i coefficienti di conversione del capitale in rendita al termine del piano di accumulo, creando così una sorta di gioco non equo che induce i soggetti a richiedere il capitale in unica soluzione invece che richiedere la rendita. Inoltre vengono spesso sottaciuti sia l’esposizione al rischio finanziario sia la limitata copertura dei rischi legati alla durata della vita. Pertanto sarebbe auspicabile che nel settore della previdenza complementare si rafforzi il sistema di informazioni sui costi, sui rendimenti, sui rischi e sulle prestazioni che gli iscritti potranno attendersi di ricevere al momento del pensionamento. Non si ritiene tutelante un sistema che espone la previdenza sociale a rischi legati al reddito ed agli investimenti finanziari, spesso determinati dai grandi investitori che muovono masse di strumenti finanziari a fini speculativi e che confliggono del tutto con lo spirito che spinge i lavoratori a sottoscrivere un piano di previdenza complementare. I fondi aperti misti garantiscono spesso solo il 50% del capitale versato (c.d. gestione separata) lasciando il rimanente 50% ancorato agli andamenti altalenanti del mercato degli strumenti finanziari sottostanti al piano di previdenza complementare; questa impostazione genera inevitabilmente una asimmetria informativa per il lavoratore che spesso non è in grado di controllare e confrontare sia i costi sia i rendimenti in modo immediato al fine di favorire la comparazione tra differenti piani previdenziali e differenti soggetti che li propongono. Si auspica pertanto una maggiore trasparenza delle informazioni e la messa a punto di strumenti standardizzati, semplici e di facile comprensione che aiutino il soggetto a scegliere il prodotto finanziario che più lo soddisfi.
Ma si sa, l’ignoranza paga sempre coloro che hanno tutto l’interesse a tenere in una zona grigia il lavoratore che nell’incapacità di poter analizzare efficientemente i prodotti presentati si affida a soggetti che contemporaneamente rivestono il ruolo di venditori di prodotti finanziari, assicurativi o previdenziali e di consulenti per i potenziali investitori, creandosi così posizioni di palese conflitto di interessi che, al momento, sembra non suscitino in nessuna parte, sociale o politica, un più che necessario atteggiamento di tutela della parte debole del contratto.