29-08-2019
La Négritude.
Se si vuole meglio comprendere la creazione letteraria di L. S. Senghor si deve prima affrontare e chiarire il tema della Négritude. Per quanto esista in lingua italiana un vocabolo corrispondente (Negritudine), preferisco lasciarlo in francese, com'esso è stato presentato negli anni Trenta, cercando di precisarne il significato e di farne apprezzare il valore. Si faccia anzitutto, come propone il Memmi, la distinzione tra “négrité e négrisme e Negritudine.
La Négrité è "l'insieme di persone, gruppi e popoli negri"; négrisme è "l'insieme dei valori tradizionali e culturali dei popoli negri"; Négritude è "il modo di sentirsi e di essere negri", mentre nel Grand Larousse Enciclopedie troviamo la seguente definizione: "l'ensemble des valeurs culturelles et spirituelles du monde noir". Come si nota il Larousse invece non fa grande distinzione.
Nel decennio che precedette la Seconda Guerra Mondiale, ossia negli anni compresi tra il 1930 ed il 1940, gli studenti africani che abitavano a Parigi solevano incontrarsi con gli scrittori americani di razza negra ed erano affascinati da alcuni temi maggiormente trattati, quali il culto degli antenati, l’esaltazione della razza, una certa nostalgia del paese natio, quasi sempre l'Africa.
Senghor africano sin nel più profondo del suo cuore fondò con Aimé Césaire e con altri studenti negri La Revue du Monde Noir: era il 1934.
Aimé Césaire, figlio della Martinica, scrittore e uomo politico, anche lui poeta, adoperò per la prima volta il termine Négritude qualche anno dopo nel suo Cahier d'un retour au pays natal. Ecco le definizione che in questo Cahier egli dà della Négritude. "...è il semplice riconoscimento del fatto di essere negro, l’accettazione di questo fatto, del nostro destino di negri, della nostra storia e della nostra cultura". Si tratta da un lato dell'amore per il Paese natio, l'amore per la Négritude, dall'altro dell'accusa contro il colonialismo.
Alle poesie di Césaire fecero eco quelle del senegalese Senghor e di Léon Damas della Guyana. Per Senghor la Négritude è "l’insieme dei valori culturali del mondo negro, valori che si esprimono nella vita, nelle istituzioni e nelle opere dei negri. Dico che questa è una realtà: un intreccio di realtà. Non siamo noi che abbiamo inventato le espressioni "arte negra”, “musica negra”, "danza negra”. Non siamo stati noi (che abbiamo inventato) la legge di "partecipazione”. Sono dei bianchi europei. Per noi, la nostra preoccupazione, dopo gli anni 1932-34, la nostra unica preoccupazione è stata di accettarla consapevolmente, questa Négritude, vivendola e, avendola vissuta, di approfondirne il significato. Per presentarla, al mondo, come una pietra angolare nell'edificazione della "Civilisation de l'Universel", che sarà l'opera comune di tutte le razze, di tutte le civiltà differenti oppure non lo sarà affatto.
Quando la Francia si trovò sotto l'oppressione nazista, anche la voce de L'Etudiant Noir fu soffocata. Si dovette attendere la fine del 1947 perché, contemporaneamente a Dakar e a Parigi, comparisse la prima copia della rivista Présence Africaine. Vi collaborarono scrittori africani, mentre i maggiori rappresentanti della cultura francese dell'epoca avevano costituito un comitato di patronato: Gide, Sartre e Camus spiccavano tra gli intellettuali francesi, mentre tra gli scrittori africani si doveva annoverare anzitutto Senghor.
La prefazione a quel primo numero della rivista fu scritta da André Gide, il quale tra l'altro asseriva che il periodo dello sfruttamento e quello della commiserazione susseguitasi erano terminati; era subentrata la fase nella quale i popoli europei, i bianchi, e soprattutto i Francesi avrebbero – sì - pensato di educare, ma si sarebbero anche lasciati istruire dalla cultura africana. Era finito il tempo di disconoscere i valori della Négritude. Se E. Mounier interveniva con la sua Lettre à un ami africain, Senghor auspicava e sollecitava incontri proficui tra scrittori negri e colleghi europei. Sarebbero dovuti essere "rendez-vous de donner et de recevoir".
Alla fine degli anni Quaranta, precisamente nel 1948, veniva alla ribalta anche Jean-Paul Sartre, il quale prendeva posizione sull'argomento con la sua ricca prefazione all'antologia della nuova poesia negra e malgascia. Intervenendo con tutto il prestigio della sua personalità di filosofo e letterato, Sartre dava un titolo significativo, Orphée noir, così da presentare la sua prefazione come un manifesto, anzi il manifesto, della Négritude.
Questo Orfeo negro avrebbe dovuto svegliare l'Africa dal suo sonno troppo lungo e metterla in marcia, farle sentire la sua missione. Sartre però vedeva in questo movimento come una reazione, quasi una rivolta dei popoli di colore contro i bianchi, "un racisme anti-raciste". Al filosofo francese che scriveva testualmente: “Ainsi le noir qui revendique sa Négritude dans un mouvement révolutionnaire se place d'emblée sur le terrain de la Réflexion, soit qu'il veuille retrouver certain traits objectivement constatés dans les civilisations africaines, soit qu'il espère découvrir l'Essence noire dans le puits de son coeur", rispondeva puntualizzando l'africano del Senegal, e in più riprese.
Parlando infatti alla Sorbona il 21 aprile 1981, Senghor precisava: "Jean-Paul Sartre n'a pas tout à fait raison quand, dans Orphée Noir, il définit la Négritude "un racisme antiraciste”; il a surement raison quand il la présente comma une certaine attitude affective à l’égard du monde"".
Due anni dopo, in un articolo dal titolo “Négritude et civilisation de l'universel” pubblicato dalla rivista Présence Africaine, Senghor chiariva maggiormente il suo pensiero con la seguente osservazione: "La Négritude n'est ni racisme ni contorsions. C'est tout simplement l'ensemble des valeurs de civilisation du monde noir. Non pas valeurs du pasjgé, mais culture authentique."
La lira dell'Orfeo negro, il risveglio auspicato da Sartre hanno sortito il loro effetto: invero dal settembre del 1956 scrittori ed artisti negri organizzano congressi, internazionali con un certo ritmo regolare. Il primo si è tenuto a Parigi nella data predetta, il secondo è stato organizzato a Roma nel 1959 dall'Istituto Italiano per l'Africa. Alquanto polemico il primo, più pacato e più mirante ad un'intesa culturale il secondo. Pablo Picasso raffigurava gli uomini in cammino verso una meta comune, Senghor insisteva sul contributo che ognuno avrebbe potuto recare alla "Comunità universale senza razze e senza frontiere".
Emanuela Scarponi