LE AGEVOLAZIONI FISCALI PER LA ZONA ECONOMICA SPECIALE UNICA SUD

di Alessandra Di Giovambattista

Con le modifiche apportate al decreto legge n. 91 del 2017, istitutivo delle 8 aree meridionali indicate come zone economiche speciali (ZES), è stata cambiata la strategia della programmazione dello sviluppo delle zone del Sud; ciò è avvenuto attraverso l’emanazione del decreto legge n. 124 del 2023 che ha proceduto all’individuazione di un’unica zona economica speciale che coinvolge tutto il Meridione italiano. A tale nuova disciplina sono poi state apportate modifiche sia con il collegato alla legge di bilancio per il 2025, in materia fiscale, cioè il decreto legge 155 del 2023, sia con la legge di bilancio stessa. L’obiettivo della ZES unica Sud è di far sviluppare in modo sinergico ed efficiente tutte le attività presenti sul territorio nonché di incentivare anche nuove strutture per valorizzare zone che presentano potenziale economico ma che finora hanno stentato a decollare.

Per provare a fare un’analisi circa l’opportunità dell’organizzazione territoriale e della governance unica per il Sud, bisogna prima di tutto riflettere sulle cause per le quali questa parte d’Italia rappresenta il fanalino di coda del tessuto economico nazionale mentre per la Comunità europea è una zona in cui i risultati e le performancesono lontani dalla media europea. Il recupero produttivo del Meridione d’Italia è una questione che riguarda sia il nostro Paese sia l’Europa: se in Italia il prodotto interno lordo (PIL) pro-capite e l’occupazione nella loro totalità non riescono a crescere è perché la nostra Nazione marcia a due velocità, con un centro-nord che è sulla media europea ed un centro-sud che ne è al di sotto del 75%, ma in alcune zone anche del 100% (per un approfondimento si consulti l’ottavo Rapporto sulla Coesione e lo sviluppo dell’Unione europea presentato nel 2022).

Eppure il Sud produce attualmente il 50% dell’energia rinnovabile italiana e questo potrebbe rappresentare un esempio della concreta possibilità per il Meridione di candidarsi come punto di raccolta e stoccaggio delle energie rinnovabili; ma per far questo occorre efficientare amministrazioni ed infrastrutture, potenziare i porti e stimolare la crescita delle aziende nei territori circostanti che si presentano come aree essenziali nel Mediterraneo per gli approvvigionamenti delle materie prime destinate sia al nostro Paese sia all’Europa.

In prima analisi cerchiamo di valutare sinteticamente la situazione che si era delineata sul finire del 1800 e nei primi decenni del novecento, partendo dalle parole di Francesco Saverio Nitti, Presidente del Consiglio dei Ministri del Regno d’Italia tra il 1919 ed il 1920, che nel suo libro “Scienze delle finanze Nord e Sud” scrisse testualmente: “dal Regno delle due Sicilie furono ritirati ben 443 milioni di monete di vario conio, mentre il Regno di Sardegna ne aveva soltanto 27 milioni”, quindi solo il 6% rispetto al “Regno di Napoli che nel 1857 era lo Stato italiano con la maggiore solidità finanziaria, scarso debito, poche imposte ben armonizzate!”. Questa analisi dei fatti fu confermata, successivamente da Antonio Gramsci (nel suo libro “Temi sulla questione Meridionale” del 1926) il quale evidenziò “l’emigrazione di ogni denaro liquido dal Mezzogiorno al Settentrione per trovare maggiori e più immediati utili nell’industria”. Con questi dati si può quindi concludere che una questione meridionale non sembrava esistere prima dell’unità d’Italia e l’impoverimento del Sud da parte del Nord avvenne con il placet della classe politica, sostanzialmente a favore del Regno Sabaudo, che ne sottovalutò la portata in quanto non voleva assolutamente che si palesasse il problema. Poi con lo scoppio della guerra mondiale furono create aziende di forniture militari localizzate essenzialmente al Nord; ciò generò un ulteriore flusso a senso unico di risorse pubbliche prelevate su tutto il territorio italiano a favore delle attività produttive localizzate sul territorio settentrionale.

Nel ripercorrere rapidamente le misure più recenti e significative che cercarono di colmare il divario che nei primi del novecento si era formato tra Sud e Nord ci si imbatte, dopo la seconda guerra mondiale, e precisamente nel 1950, con la Cassa per il Mezzogiorno - che lavorò per 40 anni, fino al 1984 – creata come un ente con autonomia progettuale e decisionale che doveva andare ad affiancare (anche sostenendo investimenti privati) gli interventi predisposti dallo Stato finalizzati ad eliminare il divario Nord-Sud. In quel periodo furono costruite le prime grandi infrastrutture del Meridione e il progetto partì dal considerare il Sud come un’unica grande area dove le problematiche di base dovevano essere risolte con uno sguardo unitario, andando al di là della visione localistica. L’esperienza della Cassa, che nei primi due decenni dalla sua costituzione aveva effettivamente migliorato le condizioni di vita delle popolazioni meridionali, si concluse negli ultimi 15 anni di attività con inchieste che evidenziarono sprechi, inefficienze e rapporti clientelari tra classe politica, cittadinanza e organizzazioni malavitose presenti sul territorio. Negli anni 90, dopo che la Cassa per il Mezzogiorno fu commissariata per due anni, dal 1984 al 1986, furono poste in essere delle misure che avrebbero dovuto, da una parte, contrastare la disoccupazione con i contratti d’area, dall’altra ammodernare le infrastrutture ed i servizi del Paese attraverso i patti territoriali. Ma furono misure che non sortirono alcun effetto ed anche in questo caso si dispersero risorse attraverso una gestione politico amministrativa diseconomica.

Tralasciando poi misure disorganiche e a macchia di leopardo che si sono succedute negli anni successivi, si arriva agli obiettivi che si pone il PNRR di rilanciare il territorio meridionale alla ricerca del suo efficientamento produttivo e soprattutto burocratico.

L’Unione Europea ha messo in campo molte risorse finanziarie, anche attraverso i fondi europei, ma sembra che finora quelle investite nel Sud Italia non riescano a far decollare la ripresa economica. Si parla così di “trappola dello sviluppo intermedio”, come evidenziato nel citato Rapporto sulla coesione e lo sviluppo dell’Unione europea, in cui nelle regioni meno sviluppate dell’Europa meridionale (tra cui la parte sud dell’Italia) e Sudoccidentale a seguito di investimenti pubblici si assiste dapprima ad una crescita del PIL, ma dopo un certo punto il processo di sviluppo si arresta o addirittura retrocede ai livelli iniziali e si cade nel declino e nella stagnazione. E questo è ancora più evidente se si considera che le aree meno sviluppate dell’Europa orientale, grazie ai fondi europei, stanno invece recuperando terreno rispetto alla media dell’unione europea e ciò è dovuto al fatto che in tali Paesi il costo del lavoro è inferiore rispetto al meridione italiano. Così come è inferiore la produttività del Sud rispetto ai paesi del Nord Europa, ragione per cui gli investitori privati non sono interessati ad investire. Nel rapporto sono esplicitate ulteriori cause del divario che riconducono alle modalità di gestione ed alle strategie implementate dai Governi nazionali. Ed infatti alcuni Stati membri, dopo avere ottenuto fondi europei, smettono di finanziare con risorse pubbliche interne gli investimenti nelle aree depresse. Si assiste quindi un effetto sostituzione (c.d. crowding out) in cui, una volta che ci sono fondi europei destinati alle zone più arretrate, le risorse finanziarie italiane invece che essere distribuite su tutto il territorio, vengono concentrare in poche zone già a vocazione industriale penalizzando ancora di più le aree deboli.

Così operando, il risultano finale è un depotenziamento delle misure in quanto si disperde l’effetto sinergico delle risorse utilizzate ma soprattutto le aziende non hanno lo stimolo a fidelizzare, con risultati performanti, gli investitori, (perché rappresentati da un soggetto istituzionale europeo, sovranazionale riguardo al quale non ci si sente direttamente coinvolti), generando invece un processo di deresponsabilizzazione dell’impresa verso la propria Nazione, la quale, paradossalmente, utilizzerà parte delle imposte prelevate sugli utili prodotti per finanziare aziende di altre zone, spesso non svantaggiate!

Ed è invece nelle zone più deboli che è necessario, dopo l’iniziale ripresa dovuta allo sviluppo delle infrastrutture, passare a curare l’espansione ed il consolidamento dei processi innovativi, della ricerca, della formazione qualificata - anche attraverso campagne di finanziamenti collettivi (c.d. crowfounding) - e il cambiamento di mentalità nella gestione dei servizi pubblici e nei Governi locali che devono essere effettivamente al servizio dei cittadini. Questo con uno sguardo di programmazione di lungo periodo (anche ultra decennale) che permetta di sostenere e consolidare l’andamento migliorativo che si innesca con le politiche di sostegno.

È su questi presupposti che si deve riflettere sulla sfida aperta con la ZES unica Sud affinché questa misura diventi un’effettiva opportunità e non un ulteriore buco nell’acqua con dispendio di risorse e consolidamento di un’immagine di inefficienza del Meridione, ma non solo, bensì di tutto il sistema Italia. Il Sud ogni anno perde circa 130.00 giovani, per la maggioranza laureati, che emigrano verso paesi esteri o verso le zone del nord Italia; eppure la Campania è la terza regione in cui sono presenti start up innovative!

Questi contrasti andrebbero letti con più attenzione. Una prima riflessione va fatta sulla effettiva opportunità degli incentivi fiscali che non andrebbero dati a pioggia, sulla base di programmi che spesso non sono del tutto veritieri circa la sostenibilità ed efficienza degli investimenti o che non sono del tutto ben compresi da una classe burocratica poco avvezza alle questioni pratiche economiche e più orientata verso forme di puro garantismo giuridico che può creare blocchi di procedure attraverso reiterati nulla osta ed autorizzazioni (si pensi alla Conferenza dei servizi dove saranno presenti numerosi ed eterogenei soggetti). Andrebbero invece premiate in corso d’opera le realtà aziendali più meritevoli (eliminando il clientelismo politico che abbiamo visto nell’esperienze precedenti), dove i giovani, affiancati da tutor, possano iniziare la propria idea imprenditoriale e proseguirla con fondi pubblici, adeguatamente remunerati (pena la restituzione), nell’intento di evitare finanziamenti a poche singole aziende e di sfidare e competere con le realtà straniere più efficienti. Il processo di verifica degli obiettivi e risultati andrebbe regolarmente monitorato, da persone capaci e trasparenti, al fine di riflettere sui risultati intermedi (c.d. feedback) ed effettuare modifiche in itinere che permettano di migliorare gli esiti finali e consentire alle neo realtà imprenditoriali del Sud di continuare da sole la corsa verso il successo.

Un altro spunto di riflessione riguarda le politiche fiscali agevolative che, seppur valide nei meccanismi e nei risultati (ad esempio la DIT - Dual Income Tax - che sostanzialmente premiava le forme di autofinanziamento aziendale, sostituita, nel tempo da varie misure temporanee di agevolazione degli investimenti, le c.d.“Tremonti”) ed in base alle quali le aziende programmano i propri piani finanziari, dopo pochi anni vengono totalmente stravolte o abolite. Questa poca coerenza nella gestione della politica fiscale mina la fiducia dei cittadini ed allontana gli investitori, nazionali ed esteri.

Pertanto se si vuole che il modello ZES unica Sud sia un’opportunità positiva e inneschi il processo di sviluppo delle zone del Sud occorre prima di tutto riflettere sugli errori passati e chiedere che la classe politica ed amministrativa faccia molti passi indietro: che siano guide e non ostacoli. La finalità è quella di innescare un processo virtuoso valido per la crescita del Meridione a favore di tutto il tessuto economico della Nazione; un Paese che marcia a velocità diverse è diviso in sé stesso e pertanto non riuscirà mai a raggiungere uno sviluppo armonioso e completo ed anzi genererà astio e incomprensione tra connazionali. In questo senso non sono da condividere posizioni di separatismo territoriale e un’attenzione particolare deve essere rivolta al federalismo differenziato che, come tutti gli strumenti, può nuocere o migliorare a seconda delle modalità utilizzate nella sua gestione.