LA RIEDUCAZIONE DEI DETENUTI MINORENNI: UNA RIFLESSIONE

La legge n. 103 del 2017, in tema di modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all'ordinamento penitenziario, contiene al suo interno anche delle deleghe; tra esse ci si vuol soffermare su quella che detta specifici principi e criteri direttivi per l'adeguamento delle norme dell'ordinamento penitenziario alle esigenze rieducative dei detenuti minorenni, con particolare attenzione all'istruzione ed ai contatti con la società esterna, in funzione del futuro reinserimento sociale del minore. Il provvedimento introduce e disciplina le misure penali di comunità, quali misure alternative alla detenzione rivolte esclusivamente ai condannati minorenni e ai giovani adulti (quelli di età inferiore ai 25 anni). Si tratta di: affidamento in prova al servizio sociale, affidamento in prova con detenzione domiciliare, detenzione domiciliare, semilibertà e affidamento in prova in casi particolari (cosiddetto affidamento terapeutico). Il collocamento del minore può avvenire in comunità pubbliche o del privato sociale, anche in gestione mista con enti locali.
La questione da porsi è se il carcere minorile e le pene inflitte al minore riescano effettivamente a risolvere le problematiche che hanno spinto il soggetto a delinquere. Nella maggior parte dei casi la risposta è negativa; si assiste molto spesso a situazioni in cui la struttura carceraria può addirittura aggravare le problematiche che hanno indotto il minore a compiere il reato, creando e/o consolidando uno stato di emarginazione e di auto esclusione rispetto al mondo esterno. Peraltro la pena detentiva favorisce la segregazione del minore in un ambiente in cui è forte e stretto il contatto con la delinquenza, rafforzando così i legami malavitosi ed accentuando il rapporto conflittuale con la società.
Da qui la necessità di ripensare le pene detentive inflitte ai minorenni; in particolare la detenzione deve rappresentare una misura residuale e applicabile solamente nel caso in cui le misure alternative siano fallite. Quindi le norme rivolte alla rieducazione dei minori devono avere un carattere di autonomia e specificità rispetto al complessivo sistema delle pene detentive in quanto per i minorenni è fondamentale individuare il trattamento che meglio risponda alla situazione psico-sociale del condannato, escludendo ogni rigido automatismo e favorendo, piuttosto, il ricorso alle misure alternative risocializzanti, che meglio possono contribuire al reinserimento del soggetto nella società e impedire che possa tornare a commettere nuovi reati.
Secondo gli ultimi dati tratti da ISTAT e dal Ministero della Giustizia, i detenuti presenti negli istituti penali per i minorenni, al 15 Dicembre 2022, sono 400 (390 uomini e 10 donne); 206 sono minorenni, mentre i restanti 194 hanno tra i 18 ed i 24 anni. Sono 199 gli italiani e 201 gli stranieri. Al 31 dicembre 2021 i detenuti presenti negli stessi istituti erano 318 (311 uomini e 7 donne); 136 erano minorenni e i restanti 182 avevano un’età compresa tra i 18 e i 24 anni. Del totale dei detenuti, il 42 per cento è straniero.
I dati sono in crescita e in generale si assiste ad un’emergenza educativa che spesso sfocia in situazioni di delinquenza minorile, espressa in diverse forme: bullismo, cyberbullismo, violenze fisiche, furti, scippi, spaccio di sostanze stupefacenti, prostituzione, e così via. Dalle ultime rilevazioni si evidenzia che occorre distribuire uniformemente sul territorio italiano i minori stranieri non accompagnati accolti in Italia, in quanto questi sono ragazzi vulnerabili: su 10 ragazzi scomparsi in Italia 9 sono minori stranieri non accompagnati. Dove finiscono? Spesso sono vittime di violenza, sono reclutati dalla malavita, sbandati ed abbandonati. Comunque, in generale, il problema riguarda tutti gli adolescenti; secondo la relazione del 2017 presentata dall’Autorità Garante per l’infanzia e l’adolescenza, i minori, adolescenti, sono “sempre più soli, bambini che chiedono di essere ascoltati e di giocare, con un utilizzo non consapevole dei social media; adulti sempre più distratti o assenti rappresentano indizi di una vera e propria emergenza educativa”. Più di recente, lo stesso organismo ha riportato all’attenzione - a ridosso dell’episodio che ha visto la fuga dall’istituto penale per minori Cesare Beccaria di sette ragazzi il giorno di Natale del 2022 - i temi del disagio e della devianza giovanile; pur riconoscendo che il nostro sistema penale minorile rappresenta un’eccellenza in Europa, va sottolineato che ora la sfida si gioca sulle modalità di pene alternative al carcere. La soluzione non può essere rappresentata esclusivamente dalla detenzione, occorre invece valorizzare le pene alternative; inoltre le sanzioni devono essere commisurate all’età del minore – egli si trova in un’età che vede un incompleto processo formativo, con la personalità ancora in corso di sviluppo ed evoluzione - e deve essere promossa la giustizia riparativa al fine di prevenire ed evitare il processo penale. In tale ambito si ricorda come uno dei principi fondamentali del Codice di Procedura Minorile sia la residualità della detenzione: tale misura è da utilizzare solo nel caso in cui le misure alternative siano fallite, costituendo la summa maxima del procedimento di emarginazione del soggetto.
Funzione rilevante viene svolta anche dai servizi del Ministero della Giustizia, nonché dai servizi sociali degli enti locali; questi ultimi riescono ad individuare le problematiche del minorenne, realizzando progetti di recupero in seguito ad un costante ascolto e in forza di una strutturata comunicazione con il minorenne e la sua famiglia. Il servizio sociale opera su aree diverse, sviluppando un notevole impegno nell’attività di sostegno e di recupero dei minorenni devianti, cercando di comprendere quali possano essere i provvedimenti più idonei da attuare.
Altro aspetto che riguarda il mondo degli adolescenti è la costante crescita della povertà nei nuclei familiari con bambini, specialmente nelle famiglie con tre o più figli minorenni. La povertà economica si traduce, facilmente, in povertà educativa creando ragazzi sempre più distanti dalla realtà che li circonda, sempre più disimpegnati e carichi di rabbia che spesso sfocia in violenza verso tutti, coetanei e non. Quindi una riflessione sull’aspetto educativo è prodromica se si vuol comprendere ed arginare il problema della delinquenza minorile e se si vogliono analizzare quanto siano proficue ed efficaci le possibili modalità di recupero dei minorenni detenuti o affidati alle strutture che implementano le misure alternative.
L’attenzione va posta soprattutto nel contesto di vita dei minori: esistono periferie che sono ghetti, dove l’unica cosa che i giovani possono fare è delinquere; non viene loro offerta alcuna alternativa sana che sia una palestra, un teatro, dei laboratori artigianali e creativi, degli oratori, ecc. Così come anche il troppo benessere induce i giovani benestanti alla ricerca di esperienze nuove spesso al limite della legalità che li possono condurre a commettere atti delinquenziali. Occorre quindi porre attenzione a tutte le forme di disagio e sarebbe auspicabile che in primis la scuola offrisse dei percorsi professionalizzanti e improntati su concrete possibilità di occupazione, affiancata dalle associazioni sportive, dalle parrocchie nonché dalle associazioni del terzo settore con la finalità di svolgere un ruolo aggregante, alternativo ed arginante della malavita. Sarebbe quindi necessario creare spazi di lavoro per i ragazzi che non intendono proseguire gli studi con la possibilità di poter accedere al mercato dei capitali con forme di finanziamento alternative e dirette, come ad esempio il crowfounding, che potrebbe assumere il connotato di “crowfoundig sociale - giovani”, magari con forme di garanzia dello Stato o degli enti locali.
Se un soggetto sceglie di delinquere solitamente è condizionato dall’ambiente in cui è cresciuto: può essersi trovato in un ambiente con poche regole o può aver subito l’indifferenza totale dei genitori; si potrebbe però trattare anche di famiglie con troppe regole, da cui l’adolescente vuole scappare perché si sente oppresso, o anche di situazioni svantaggiate in cui il minore potrebbe essere cresciuto, da cui vuole riscattarsi commettendo crimini per arricchirsi facilmente e velocemente. È importante comprendere, oggi più che mai, che l’indifferenza non educa; i bambini hanno bisogno di certezze ed apprendono le regole essenzialmente dai modelli e dall’insegnamento dei genitori e delle altre figure educative con cui vengono a contatto ed interiorizzano le regole attraverso l’esempio, la testimonianza ricevuta. Occorre anche sottolineare che gli esempi che oggi vengono offerti, specialmente dai media sempre meno indipendenti, si basano su una società c.d. “liquida” dove non c’è più certezza, neanche negli ambiti delle scienze naturali dove, in alcuni casi, le risposte sono nette ed oggettive. Quindi il disorientamento, specialmente per i giovani, è forte ed in alcuni casi sempre meno gestibile. E da qui l’importanza della presenza costruttiva e coraggiosa dei genitori, degli insegnanti, ma anche dei referenti degli ambienti aggreganti quali: palestre (quindi degli istruttori sportivi), oratori (i sacerdoti ed i catechisti nonché gli animatori), centri culturali in genere (pertanto i referenti degli ambienti artistici, dello spettacolo e dell’intrattenimento). Albert Bandura ha sottolineato come i bambini spesso imitano ciò che li circonda e questa è la dimostrazione della teoria dell’apprendimento sociale. Questa teoria sottolinea ancora di più l’importanza dell’educazione per prevenire i reati dei minori fin dalla tenera età. I bambini quasi sempre copiano i comportamenti che apprendono da chi sta loro intorno e le prime esperienze sono quelle che si vivono a casa e a scuola. Per questo motivo bisogna educare i giovani al rispetto delle regole fin da subito, per evitare che imparino comportamenti sbagliati ritenendoli corretti.
Occorre poi che il bambino tragga insegnamento anche dagli errori che può commettere (in questo mi sembra molto educativo lo sport, e specialmente quello di squadra, dove si impara il rispetto, la condivisione e la solidarietà) ed è importante che gli educatori concedano una seconda possibilità al fine di far capire che anche l’impegno volto a riparare lo sbaglio viene riconosciuto; il minore a casa, a scuola, così come nel procedimento penale, deve essere messo nella condizione di imparare dai propri errori e capire che ciò che ha fatto è sbagliato e che può agire in maniera diversa per non incorrere in una punizione futura. La parola fondamentale è la parola “fiducia”, “fede”, che permette a chi la concede e a colui a cui viene concessa di poter fare un passo avanti, di poter crescere e migliorare, di poter confidare in sé stessi e negli altri. Spesso le lacune più grandi si trovano proprio nella spiritualità, nell’interiorità dei giovani che sembra che nessuno voglia provare a riempire: mancano genitori presenti e credibili, educatori seri, che sappiano mettersi in gioco con atteggiamenti costruttivi, che forniscano esempi e indichino poche regole, serie e chiare mediante le quali il minore sappia con certezza quando ha ragione e quando è in errore; in mancanza di ciò si apre la strada alla malavita. Forse un nuovo San Giovanni Bosco, oggi, potrebbe fare molto di più di tanti pseudo educatori.
Ma l’aspetto legato alla fiducia è forse quello che avvicina di più all’esperienza sacerdotale, i cappellani dei carceri minorili incontrano quotidianamente giovani che hanno ferito e che sono a loro volta feriti; in tali contesti i minori non debbono essere nuovamente giudicati, ma piuttosto ascoltati, compresi. Sono le pietre scartate da cui forse si può provare a ricostruire. I cappellani rappresentano delle figure significative per tutti i ragazzi in quanto il loro servizio si basa sull’ascolto e sull’accoglienza, sul prospettare dei punti di vista diversi, non punitivi o giudicanti, ma costruttivi nella ricerca interiore del rispetto e della fiducia. È importante suscitare nel minore il sentimento del sincero pentimento per l’azione commessa; questo potrà essere il vero punto di svolta: comprendere il dolore ed il dramma creato e cercare di riparare, mettendo in gioco qualunque componente personale sia materiale che spirituale, riflettendo anche sulla propria afflizione, causata dal reato commesso.

Biografia
Figlio di Giacomo (nato nel 1878, albergatore richiamato in servizio sul fronte dell'Isonzo e in Trentino sul monte Corno[5]) e Rosa Silvestri (originaria di Rovereto sulla Secchia)[6]. Durante le fasi finali della Seconda guerra mondiale, Angelo Del Boca fu costretto ad arruolarsi nella Repubblica Sociale Italiana al fine di scongiurare l'arresto del padre da parte delle autorità di Salò, che ricorrevano all'arresto dei familiari dei giovani in età di leva per costringerli a unirsi alle file della Repubblica Sociale[7]. Venne quindi inviato in Germania, dove si sottopose all'addestramento e venne assegnato alla 4ª Divisione alpina Monterosa[6]; rientrato in Italia, disertò nell'estate 1944 per unirsi al movimento resistenziale che combatteva le truppe tedesche e i collaborazionisti di Salò, entrando a far parte della 7ª brigata alpina della 1ª divisione Giustizia e Libertà Piacenza. Durante il periodo della guerra conobbe l'infermiera Maria Teresa Maestri[7], che sposò nel 1947 e da cui ebbe i figli Alessandra, Daniela e Davide; dopo la morte di Maria Teresa, s'è sposato con Paola Zoli, da cui nel 1991 è nata Ilaria[8]. I suoi trascorsi nella resistenza vennero poi raccolti nel volume Nella notte ci guidano le stelle, in cui descrive la paura dei rastrellamenti, degli incendi dei paesi, della violenza delle truppe nazi-fasciste, rivelando in un passaggio nel volume tutte le inquietudini di un adolescente: «Combatto non per la Patria ma per rivedere il volto di mia madre»[9]

Nel dopoguerra s'iscrisse al Partito socialista italiano di unità proletaria (PSIUP)[7] e iniziò a scrivere libri di memorie (tra cui la raccolta di racconti Dentro mi è nato l'uomo) e articoli giornalistici, divenendo redattore capo del settimanale socialista «Il Lavoratore» di Novara; in seguito divenne inviato speciale della «Gazzetta del Popolo» e del quotidiano «Il Giorno» di Enrico Mattei (direttore Italo Pietra); nel 1981, con l'avvento di Bettino Craxi, Angelo Del Boca decise di abbandonare «Il Giorno» e il Partito socialista italiano[7]. Dopo aver smesso i panni di giornalista e caporedattore, Del Boca si concentrò sullo studio del passato coloniale italiano, che gli ha permesso di scrivere numerosi libri, pubblicati da importanti case editrici come Laterza, Feltrinelli, Bompiani, Neri Pozza e Mondadori, sulla guerra di aggressione fascista di Benito Mussolini in Africa orientale e sulla riconquista della Libia, denunciando per la prima volta l'uso, da parte italiana, dei gas contro i membri della resistenza e le popolazioni africane[7]. Tra il 1976 e il 1984 pubblica la sua opera più importante e famosa, suddivisa in quattro volumi: Gli italiani in Africa orientale, alla quale seguì nel 1986 la storia del colonialismo in Libia descritta nei due volumi Gli italiani in Libia. A queste due importantissime opere seguirono diversi volumi, i più significativi dei quali sono L'Africa nella coscienza degli italiani del 1992; la biografia di Hailé Selassié Il negus. Vita e morte dell'ultimo re dei re del 1995; I gas di Mussolini. Il fascismo e la guerra d'Etiopia del 1996. Nel 1998 Del Boca ebbe la possibilità di incontrare nel deserto il dittatore libico Muammar Gheddafi, e il lungo colloquio si tradusse nel volume Gheddafi. Una sfida dal deserto, similmente a quanto gli accadde anni prima, quando ebbe la possibilità di conoscere e stimare il negus Hailé Selassié e di poter accedere ai suoi archivi[10]. Nel 2005 uscì uno dei maggiori successi editoriali, Italiani, brava gente?, in cui vengono narrati i peggiori crimini italiani: dalla soppressione del brigantaggio nel 1861 alla ribellione dei boxer in Cina, dai crimini in Libia ed Etiopia alla guerra d'occupazione nei Balcani ed al vergognoso collaborazionismo della Repubblica Sociale Italiana nelle deportazioni naziste, dimostrando ancora una volta che il mito degl'«italiani brava gente», incapaci di crudeli atrocità, è smentito dalla storiografia[11]. I crimini compiuti dagli italiani in Africa e altrove «e le tragedie che nella nostra storia ci hanno travolto non sono sentite come effetto di una nostra partecipazione», mentre «i cattivi stanno sempre dall'altra parte»; e, secondo Del Boca e molti altri storici, quella dell'italiano brava gente «è un'autoimmagine, un concetto creato da noi stessi. È un mito che nasce nell'immediato dopoguerra».[12]

Nel 2008 ha pubblicato la sua autobiografia Il mio Novecento: biografia di un giornalista e di un intellettuale rigoroso, in cui ripercorre tutta la propria vita intrecciando quella della sua generazione (una generazione che, con gente come lui, ha fatto l'Italia democratica e repubblicana) a quella di tanti uomini in varie aree del mondo[13]. Ultimo importante lavoro in ordine temporale è Nella notte ci guidano le stelle. La mia storia partigiana (con chiaro riferimento nel titolo a un verso della famosa canzone partigiana Fischia il vento), pubblicato da Mondadori nel 2015.

Caso non eccezionale di giornalista diventato storico autodidatta, ha ricevuto (a settantacinque anni compiuti) una laurea honoris causa nel 2002 da parte dell'Università degli studi di Torino, a cui poi si aggiunse anche un analogo riconoscimento da parte dell'università di Lucerna; nel luglio del 2014 anche l'Università di Addis Abeba gli conferì una laurea onorifica in Storia africana[14], rendendo Del Boca il primo italiano e il primo europeo a ottenere tale riconoscimento in Etiopia dopo la Seconda guerra mondiale[10]. Stima che Del Boca ha mostrato, affiancata a una serena critica, nei confronti di Hailé Selassié, imperatore d'Etiopia, nel proprio libro biografico Il Negus, vita e morte dell’ultimo Re dei Re, che Del Boca concluse così: «Qualunque sia il giudizio finale su Hailè Selassiè, la sua figura merita rispetto e considerazione[15]. È impossibile non provare un senso di grande ammirazione e di riconoscenza verso l’uomo che il 30 giugno 1936, dalla tribuna ginevrina della Società delle Nazioni, denunciava al mondo i crimini del fascismo e avvertiva che l’Etiopia non sarebbe stata che la prima vittima di quella funesta ideologia. Per questo suo messaggio, malauguratamente non ascoltato, gli siamo un po' tutti debitori.[16]».

Ricerca storiografica
Dopo un primo fortunato volume del 1965 sulla guerra d'Etiopia, a metà degli anni Settanta, dopo avere smesso la professione d'inviato speciale e di caporedattore, Del Boca si concentrò sullo studio del colonialismo italiano, avviando una poderosa ricerca storiografica che portò alla pubblicazione di quattro volumi dedicati alla colonizzazione italiana dell'Africa orientale, due volumi incentrati sulla conquista della Libia e due ampie biografie su Hailé Selassié e Muʿammar Gheddafi[3]. La ricostruzione complessiva della storia militare e politica italiana in Africa terminò all'incirca a metà degli anni '80; da quel momento anche il panorama degli studi sul colonialismo italiano conobbe significativi mutamenti: spinta dall'interesse suscitato dalla ricerca di Del Boca in ambito accademico, una nuova generazione di storici italiani, ma anche africani ed europei, iniziò a occuparsi della storia dei paesi un tempo dominati dall'Italia[3]; contemporaneamente però, s'aprirono nuove polemiche e dibattiti che acquisirono rilevanza non solo culturale e storiografica, ma soprattutto politica e diplomatica[17].

Nel secondo dopoguerra in Italia vennero profuse pochissime energie per documentare e affrontare il passato coloniale italiano, e ancor meno per accendere il dibattito civile e politico nei confronti delle ex colonie; forse solo Del Boca seppe coniugare il rigore della ricerca alla capacità d'intervento pubblico: negli anni '80 e '90, in particolare, decine e decine di migliaia di lettori e un'ancor più vasta platea televisiva hanno imparato a conoscere e a criticare il passato coloniale italiano[18]. Fino ad allora la memoria degli italiani in Africa era legata soprattutto alle esperienze dirette degl'italiani che effettivamente furono mandati a combattere o che vi si trasferirono per colonizzare i nuovi territori; la maggior parte degli italiani avevano vissuto l'esperienza coloniale solo attraverso la propaganda del regime, che negli anni del dopoguerra fu velocemente dimenticata. Fu Del Boca a riportare in auge la storia coloniale e ad aprire un dibattito fino ad allora non affrontato[19].

Fu tra i primi studiosi italiano a denunciare le atrocità compiute dalle truppe italiane in Libia[20] e in Etiopia, anche col ricorso a bombardamenti aerei terroristici su centri abitati e talora persino coll'impiego d'armi chimiche come iprite, fosgene e arsina contro le truppe combattenti e la popolazione civile; documentò inoltre l'apertura di campi di concentramento per l'internamento di guerriglieri e personalità nemiche e il ricorso alle deportazioni di massa, come avvenne con le popolazioni della Cirenaica. Per le sue denunce Angelo Del Boca è stato per anni contestato dalla stampa conservatrice e dalle associazioni di reduci e di profughi italiani dall'Africa; primo fra tutti il già ministro dell'Africa Italiana Alessandro Lessona, il quale, appena Del Boca iniziò a documentare, alla fine degli anni Sessanta, la storia della campagna d'Etiopia e il ricorso italiano alle armi chimiche, polemizzò con lo storico sostenendo energicamente per il resto della propria vita che l'Italia fascista non aveva mai usato le armi chimiche in Etiopia; per questa sua posizione, Lessona ricevette il sostegno dalla platea ancora abbastanza ampia di reduci e di nostalgici, che, nelle elezioni dell'aprile 1963, gli valse un seggio senatoriale a Firenze per il MSI[21]. Ma solo dalla seconda metà degli anni '80, con la pubblicazione completa dell'opera Gli italiani in Africa orientale, il dibattito si fece più intenso e interessò anche gli ambienti politici. Del Boca ne fece fin da subito le spese: nel 1982 l'Associazione nazionale reduci d'Africa dichiarò di voler portare lo storico in tribunale a causa dei suoi scritti e per la «tutela morale del sacrificio compiuto dagli Italiani in Africa»[22], e sempre in quell'anno la rivista «Il reduce d'Africa» dedicò a Del Boca un articolo ricco di invettive, alle quali affiancò l'invito criminale a chiunque si fosse ritenuto offeso da quanto scritto «a recarsi dai Del Boca vari e provvedere da solo, a propria difesa, a difesa di ciò che fu e fece»[23] In quest'ottica l'opera di ricostruzione storica dei crimini italiani in Africa e di fustigazione del colonialismo italiano ha avuto il merito di incrinare nell'opinione pubblica il mito degl'«Italiani brava gente», vessillo delle destre italiane e degli ambienti neofascisti[22]; opera che però s'è scontrata, secondo Del Boca stesso, anche con la storiografia vicina «agli ambienti conservatori per cui certe cose non si possono dire perché siamo, appunto, "brava gente"»[24].

Di rilievo è la sua polemica del 1995 con il giornalista Indro Montanelli, il quale sosteneva che quello italiano fu un colonialismo mite, portato avanti grazie all'azione d'un esercito cavalleresco, incapace di compiere brutalità, rispettoso del nemico e delle popolazioni indigene[25]; in numerosi interventi pubblici, Montanelli negò infatti ripetutamente l'impiego sistematico di armi chimiche da parte dell'aviazione militare italiana in Etiopia[26][27]: tuttavia nel 1996 Montanelli si scusò pubblicamente con Del Boca quando quest'ultimo dimostrò, documenti alla mano, l'impiego di tali mezzi di distruzione[28]. Montanelli basava le proprie tesi sulla testimonianza oculare, ma Del Boca, oltre a dimostrare che l'apparato militare italiano riuscì a mantenere uno stretto segreto sulla guerra chimica grazie all'allontanamento dei giornalisti dal fronte e all'impiego di squadre del servizio per la bonifica del terreno, dimostrò anche come lo stesso Montanelli, durante i primi episodi di impiego delle armi chimiche, era ricoverato in ospedale ad Asmara e che, quando fu dimesso, non tornò più al fronte, per cui non poteva essere considerato attendibile[23]. A confermare definitivamente le parole di Del Boca fu, nel 1996, l'ammissione dell'allora ministro della Difesa generale Domenico Corcione, che riferì al Parlamento dell'impiego di bombe d'aereo e proiettili d'artiglieria caricati a iprite e arsine durante la guerra d'Etiopia[29].

Del Boca ebbe anche il merito di far conoscere diversi crimini di cui si era macchiata l'Italia, come quelli commessi durante la riconquista della Libia a cavallo del 1930, la strage di civili nella capitale Addis Abeba a seguito della rappresaglia scatenata dagli italiani dopo l'attentato al generale Rodolfo Graziani del febbraio 1937, il massacro di monaci copti nella città-convento di Debra Libanòs nel maggio del 1937 – diretto dal gen. Pietro Maletti, ma voluto e rivendicato dallo stesso Graziani – e le famigerate operazioni di «polizia coloniale», con cui si cercò di pacificare con la repressione e il terrorismo le diverse regioni dell'Etiopia. Nel 2010 proprio queste operazioni sono state al centro del saggio di Federica Saini Fasanotti, storica legata agli ambienti della destra cattolica, in Etiopia: 1936-1940. Le operazioni di polizia coloniale nelle fonti dell'esercito italiano; la quale, pur condannando l'aggressione italiana e riconoscendo le molte atrocità commesse dal nostro esercito, cita il telegramma firmato da Graziani il 31 ottobre, in cui il viceré auspicava «larga generosità e perdono» ai guerriglieri, e quindi esprime un giudizio positivo, per la capacità del successore di Graziani, il duca d'Aosta, d'istaurare buoni rapporti con gli etiopici e di combattere la guerriglia in modo efficace; tanto da far pensare che, se non fosse scoppiata la Seconda guerra mondiale, l'insurrezione sarebbe andata scemando fino a esaurirsi. Del Boca si disse d'accordo solo in parte, riconoscendo al duca d'Aosta il merito di aver intrapreso una politica di dialogo con i capi abissini, ma ricorda che non cessarono rappresaglie e l'uso di gas tossici; tanto che la rivolta etiopica contro l'occupante, dopo una flessione, era tornata vigorosa nel 1939. Molto diverso è il parere di Del Boca sul telegramma: «Graziani aveva sulla coscienza massacri spaventosi, come l'eccidio di massa dei monaci copti di Debrá Libanós, e la sua presunta resipiscenza non convince. Ormai era in disgrazia presso Mussolini, a causa degli effetti pessimi della sua politica, e cercava di mettere le mani avanti. Ma non servì, perché venne sostituito poco dopo»[15]. D'accordo con l'analisi di Del Boca si espresse anche lo storico Matteo Dominioni, che descrisse la ricerca della Fasanotti di «stampo neocolonialista», una ricerca che ha posto l'accento sulle crudeltà dei guerriglieri con l'intento di giustificare i crimini commessi da un esercito invasore verso un popolo di «selvaggi» che si opponevano alla gloriosa «missione civilizzatrice» italiana; Dominioni, come Del Boca, non nega che «gli abissini fossero un popolo bellicoso, capace di gesti brutali», ma affermò altresì che in una ricerca storiografica «non ci si può basare solo su documenti italiani» d'epoca fascista: bisogna considerare anche l'altro punto di vista[15].

Dediche
In memoria di Del Boca è stata allestita nell'autunno del 2021, presso il Museo Villa Freischütz di Merano, a cura di Ariane Karbe e Hannes Obermair la mostra «Il mantello etiope» che verte sulla questione coloniale e della restituzione di beni museali appropriati nel contesto della guerra d'Etiopia. La dedica è stata motivata così: «i suoi lavori critici sul periodo coloniale italo-fascista, nonostante forti opposizioni, hanno cambiato permanentemente il profilo storico pubblico, non ultimo anche grazie al loro sguardo empatico, sempre attento all'"altro" e che ha quindi cambiato anche la percezione del "sé"»[30][31].

 

 

 

 

 

Titolo: Spiaggia Sardina

Tecnica: grafite su carta Accademia da Fabriano (200 gr)

Misure:
misure del dipinto: 90x60 cm
misure con passe-partout e cornice: 114x84 cm

Recensione:

“Spiaggia Sardina” è una opera in grafite che ne approfondisce uno spaccato di vita antica dell’attività di pesca, nel caso, del villaggio di Matosinhos in Portogallo.
All’inizio del XX secolo i pescherecci scaricavano i loro pesci posando le reti direttamente sulla battigia della spiaggia.
Le sardine venivano sucessivamente lavate nell’acqua del mare per essere transportate in ceste di vimini ai punti vendita del pesce o agli stabilimenti conservifici.

 

 

 

 

 

 

 

Fiera Roma riparte con la cooperazione
Ripartire con la Cooperazione Internazionale. Dopo il lungo blocco di attività causato dalla
pandemia da Covid19, l’autunno di ripresa di Fiera Roma vede tra i suoi protagonisti
Codeway, la manifestazione dedicata alla Cooperazione allo Sviluppo Internazionale, che si
svilupperà in due momenti: uno virtuale dall’1 al 3 dicembre 2021 e uno fisico, presso i
padiglioni della fiera capitolina, dal 18 al 20 maggio 2022. Codeway raccoglie il testimone di
Exco2019, sarà il punto di incontro e confronto tra soggetti pubblici, ong e aziende, una
piazza e una piattaforma dove conoscersi, discutere e riflettere, un’opportunità per
affrontare con una visione realmente d’insieme sfide cruciali.
Codeway 2021 Digital Edition, l’appuntamento digitale di dicembre, sarà ideale premessa
dell’edizione 2022: lancerà temi, programmi, progetti e contest che troveranno coronamento
nel maggio successivo. Offrirà una Area Espositiva Virtuale (con stand, video meeting, AV),
una Area Conferenze (Programma Plenaria e Focus Event), una Area Progetti (Consulenza,
finanziamento, partnership) e alcune Aree Business to Development: Topic Tables, B2B, B2C,
B2G. Tra i temi che verranno messi in luce spiccano l’Agenda 2030 e i nuovi paradigmi della
Cooperazione Internazionale (con particolare attenzione al nuovo Bilancio UE 2021-2027
che, tra le diverse misure, dota di ben 79,5 miliardi di euro lo Strumento di vicinato e di
cooperazione internazionale e allo sviluppo), il tema della Transizione ecologica (con
particolare riferimento alle energie rinnovabili e all’economia circolare) oppure il tema della
digitalizzazione. L’evento tornerà poi nel maggio 2022 nella sua presentazione di
tradizionale manifestazione con presenza di espositori, attendees e pubblico.
Codeway raccoglie il testimone di Exco2019 e riparte con la forza di importanti patrocini a
cominciare da quello del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale
(Maeci), della Conferenza delle Regioni, dell’Associazione dei comuni italiani (Anci), dell’ICE,
ma anche del mondo del terzo settore e delle aziende.
“Il patrocinio della Farnesina alla prossima edizione di CODEWAY – commenta Marina
Sereni, Vice Ministra degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale - testimonia il
sostegno che daremo a una fiera dedicata al ruolo del settore privato nella cooperazione allo
Organizzata da:
Fiera Roma Srl con Socio Unico | Via Portuense, 1645/1647 | 00148 Roma (RM) | T. +39 06 65074 200
Società soggetta a direzione e coordinamento di Investimenti S.p.A.
www.codewayexpo.com
sviluppo. Questo duplice evento può costituire un momento importante di incontro e
collaborazione tra tutti gli attori pubblici, profit e non profit del Sistema della cooperazione”.
Con i suoi due appuntamenti, la manifestazione si propone di creare un percorso virtuoso
verso sostenibilità e crescita, tracciando la nuova roadmap per le imprese sostenibili nella
cooperazione allo sviluppo. Obiettivo ancora più importante alla luce di alcune tendenze
osservate durante la pandemia: “Il Covid, in molti paesi del mondo, a volte ha alimentato fasi
di un crescente ‘sentimento nazionalista’ che in alcuni momenti è sembrato arrivare a
minacciare anche il senso stesso di cooperazione internazionale. Il virus ha spinto qualcuno
a pensare di alzare muri sia in ambito economico che politico culturale. Ma proprio la
pandemia in realtà ci ha dimostrato come viviamo in un mondo sempre più interdipendente
e connesso, e nel quale come ora tutti sembrano riconoscere ‘nessuno si salva da solo’. Tutti
dovremmo aver compreso che il processo di una crescita globale e sostenibile, sia dal punto
di vista sociale che ambientale, è inevitabile perché utile” spiega Wladimiro Boccali,
coordinatore di Codeway. Secondo Boccali, l’aiuto allo Sviluppo non va più visto più come
“opera da anime belle” ma come un “nuovo modello di sviluppo globale”.
“La cooperazione allo sviluppo - aggiunge Pietro Piccinetti, Direttore generale di Fiera Roma
- ha assistito a vari cambiamenti negli ultimi anni. Quello che una volta era unicamente un
quadro bilaterale tra attori e stakeholder tradizionali incorpora, oggi, assieme alla società
civile e alle istituzioni multilaterali, il decisivo coinvolgimento di attori privati. Solo una
cooperazione realmente condivisa, profit e sostenibile può essere la via per una la creazione
di lavoro nei Paesi emergenti. Ciò si realizza anche offrendo nuovi ambiti di azione a tali
Paesi: questi ultimi diventano - nel contempo - beneficiari e motore di uno sviluppo
sostenibile che li vede sempre più protagonisti”. Codeway 2021/2022 intende rilanciare con
forza questi concetti, inserendo la manifestazione sulla scia della nuova legge sulla
Cooperazione (la Legge 125) e andando a concentrarsi in particolare sulla necessità di
creare sinergie tra gli attori della cooperazione, con particolare attenzione al ruolo
dell’impresa profit.
“Un appuntamento fieristico dedicato alla cooperazione allo sviluppo internazionale -
sottolinea Lorenzo Tagliavanti, Presidente della Camera di commercio Roma-Lazio - è
Organizzata da:
Fiera Roma Srl con Socio Unico | Via Portuense, 1645/1647 | 00148 Roma (RM) | T. +39 06 65074 200
Società soggetta a direzione e coordinamento di Investimenti S.p.A.
www.codewayexpo.com
strategico per supportare le imprese italiane interessate a inaugurare o incrementare la
propria presenza sui mercati internazionali. In un contesto in cui il settore privato profit è
destinato a giocare un ruolo sempre più centrale e decisivo nella cooperazione
internazionale per il raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, un
appuntamento come Codeway, che fa dialogare aziende, ong e soggetti pubblici, con un
importante sostegno da parte delle istituzioni, rappresenta una vetrina ideale. L’Agenda
2030 definisce il commercio il “motore per una crescita economica inclusiva” e chiede
all’imprenditoria privata di impiegare “creatività e innovazione al fine di trovare una
soluzione alle sfide dello sviluppo sostenibile”: con Codeway vogliamo offrire un supporto al
raggiungimento di questi alti obiettivi”.

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