13-04-2020


                                                                                                                                                                 Gli Orangutan

    Giungla impenetrabile; vette di oltre 4.000 metri; animali di ogni genere e atolli dal mare cristallino rendono il Borneo una delle Regioni più affascinanti di tutto il Sud Est Asiatico.
Diviso tra Malesia, Indonesia e Brunei, il Borneo, terza isola più grande al mondo, agli occhi di noi occidentali viene spesso considerato una meta tanto selvaggia quanto inaccessibile.
Il Sarawak, nel Borneo malese, ospita una delle pochissime riserve al mondo dove è possibile vedere gli Orangutan in stato di libertà: il Semenggoh Wildlife Centre. Qui, da oltre 20 anni i ranger locali lavorano per reinserire nel loro habitat naturale gli Orangutan rimasti orfani o salvati dalla cattività.
     Il Borneo presenta una grande biodiversità se paragonato a molte altre aree. Si trovano circa 15.000 specie di piante da fiore, con 3.000 specie di alberi, oltre a 221 specie di mammiferi terrestri e 420 di uccelli.
     La foresta pluviale del Borneo è l'unico habitat esistente per l'orangutan, oltre ad essere un importante rifugio per molte specie endemiche, come l'elefante del Borneo, il rinoceronte di Sumatra, l'orso malese, il babirussa e il leopardo nebuloso del Borneo.
Gli ominidi (Hominidae Gray, 1825), noti anche come grandi scimmie, sono una famiglia di primati risalente al Miocene inferiore. Di questa famiglia fanno parte gli oranghi, i gorilla, gli scimpanzé, gli esseri umani e alcuni gruppi fossili, tra i quali gli australopitechi. Fino ai primi anni sessanta venivano classificati come ominidi solo l'uomo e generi estinti ritenuti appartenenti alla linea evolutiva umana. Il termine viene ancora usato talvolta nel linguaggio comune con tale significato.
    Le foreste pluviali del Borneo malese costituiscono l’habitat di specie affascinanti come l’orango del Borneo, l’elefante pigmeo, il leopardo nebuloso, la scimmia nasica e il rinoceronte di Sumatra, tutte sull’orlo dell’estinzione. Gli ecosistemi forestali, inoltre, immagazzinano grosse quantità di anidride carbonica che viene di nuovo rilasciata in caso di degrado e abbattimento delle foreste stesse, di dissodamento tramite incendi o di drenaggio delle torbiere per la loro conversione in piantagioni.
     L'orango è un animale tranquillo e pacifico: non fugge alla vista dell'uomo, ma lo fissa incuriosito con calma. Se suppone pericolo, cerca scampo sulla alta cima degli alberi e si nasconde fra il fogliame; se poi non si sente abbastanza sicuro, salta da una cima all'altra, ma sempre con cautela.
Conosce l'impeto e la leggerezza di altre specie di scimmie. E’ sempre così lento nei movimenti che lo si può inseguire comodamente; che però si difenda con bastoni maneggiandoli a foggia di clava è una leggenda raccontata dagli indigeni, ma non è stata mai creduta da alcuno. Senza dubbio se viene ferito e si vede il cacciatore alle calcagna sa difendere valorosamente la propria pelle, e non è avversario spregevole, avendo fortissime le braccia e formidabili mandibole. Con facilità spezza un rampone od il braccio di chi con esso lo minaccia: i suoi morsi sono veramente terribili.
     La Terra è un pianeta dall’incredibile biodiversità: in ogni luogo del globo, infatti, è possibile scovare una moltitudine di specie vegetali e animali tra le più disparate. Eppure, a causa delle attività dell’uomo quali l’urbanizzazione massiccia, il disboscamento e l’inquinamento, molti paradisi di flora e fauna sono oggi altamente minacciati. Ormai da tempo si parla di “polmoni verdi” per indicare quelle aree che, data la loro ricchezza vegetale, contribuiscono in modo preponderante alla salute della Terra. Luoghi estesi e incontaminati, veri e propri serbatoi d’ossigeno che, da millenni, garantiscono la sopravvivenza di ogni essere vivente. Ma quali sono i principali polmoni verdi della Terra e perché sono sempre di più a rischio?
     Sono molte le grandi foreste e i paradisi di vegetazione, disponibili sul nostro Pianeta. Queste aree assolvono alle più svariate funzioni: oltre alla produzione di ossigeno e contestualmente all’assorbimento e alla riduzione dell’immissione di anidride carbonica in atmosfera, risultano fondamentali per la regolazione del clima, per il mantenimento del terreno con una continua azione antierosione, come fonte di nutrimento e riparo per molte specie animali.
Delle foreste immense che ricoprivano il Borneo sono rimasti piccoli fazzoletti di terra. Vengono, infatti, incendiate per guadagnare terra per la coltivazione principalmente dell'olio di palma. Gli animali spesso si rivoltano contro l'uomo e vengono uccisi a colpi di machete. Altre volte vengono percossi o feriti gravemente e lasciati morire.
      Il Centro che ho avuto la fortuna di visitare si occupa di salvare, curare e poi reinserire in natura oltre agli Orangutan anche tutti gli altri animali, cercando di interferire il meno possibile con la natura.
Le strutture che normalmente li ospitano sono grandissime perché questi animali hanno bisogno di molto spazio. Sono state create delle isole in cui gli oranghi vengono tenuti e curati e dove l'uomo si occupa di nutrirli senza entrare in contatto con loro proprio per rispettare la loro natura schiva e per facilitare il loro reinserimento in natura. Ricordiamo che gli animali non sono fatti per l'uso e consumo dell'uomo. Le foreste, purtroppo, sono tutte in pericolo. Non solo in Asia ma in tutto il mondo ci sono multinazionali che depredano ambienti e mettono in pericolo interi ecosistemi irriproducibili, per creare coltivazioni o allevamenti intensivi di animali da carne. È tutto un sistema sbagliato che fa arrivare soldi solo nelle tasche di persone ricche e senza scrupoli. Le popolazioni che usufruiscono di questo sistema sono le popolazioni occidentali che quindi sono direttamente responsabili.
    In cosa consistono le isole dove vengono curati gli oranghi e da chi vengono messe a disposizione? Le isole si trovano all'interno del Centro di recupero e sono divise dall'acqua, di cui gli oranghi hanno paura, come dei piccoli fiumi che le separano. Quindi gli animali non possono scappare ma hanno moltissimo spazio a disposizione. Man mano che si abituano vengono messi in isole più grandi senza rifornirli più di cibo in modo da riabituarli gradualmente all'autonomia. Quando sono pronti vengono catturati e riportati nel cuore della foresta. I volontari si caricano di gabbie pesantissime, perché l'orango è un animale molto grande, e camminano per giorni per raggiungere i luoghi più adatti per liberarli. Gli animali vengono seguiti attraverso un microchip. Mentre ero lì abbiamo visto che una femmina aveva avuto i cuccioli. Questo ci fa ben sperare!

 Emanuela Scarponi

Orsi polari

03-04-2020


        Del riscaldamento globale ne trattano i giornali, gli studi scientifici, la televisione ed i blog della rete, ma la situazione si aggrava sempre di più. Che la colpa sia interamente dell’uomo o soltanto in parte, resta il fatto che diverse specie animali sono state costrette a cambiare habitat, spostandosi in zone più adatte a loro a livello di clima. Il surriscaldamento sta sciogliendo i ghiacci, riducendo l’Artico ad isole sparse nell’oceano.
       La perdita dei ghiacci non significa soltanto aumento del livello marino: molti animali migrano, non trovando più una temperatura adatta, e i predatori di questi finiscono per perdere la loro principale fonte di sopravvivenza. In questo cambiamento, tra l’altro piuttosto rapido, alcune specie animali non fanno neppure in tempo ad adattarsi o non ne hanno la possibilità. E’ il caso dell’orso polare (Ursus maritimus), che più di tutti ha sofferto la rovina del proprio ecosistema.
       La Groenlandia dista 280 chilometri dall'Islanda. Quindi, malgrado gli orsi polari non siano nativi di questa terra, occasionalmente ci finiscono navigando per il mare sugli iceberg provenienti dall'Est della Groenlandia.

 

 

         (Estratto dall'articolo di Ævar Petersen del maggio 2010 Icelandic Institute of Natural History). Sono circa 500 i riferimenti storici documentati ad avvistamenti di orsi polari in Islanda riportati su giornali ed articoli, pubblicazioni di storia naturale, biografie, annali e manoscritti, ma bisogna tenere presente che molti racconti sono tramandati per tradizione orale. Nel marzo 2010 si sono praticamente contati 289 avvistamenti di orsi polari accertati nella storia di Islanda, e 611 i riferimenti generici.

                   

Questa è la distribuzione degli avvistamenti degli orsi polari in Islanda. Ogni punto rappresenta una singola osservazione. Il punto al centro dell'Islanda indica il numero di osservazioni che non può essere specificato ulteriormente).
         Il più antico riferimento risale all'anno 890 ed è riportato nel "Book of Settlement (Landnámabók), dove si attesta che Ingimundr il Vecchio, che abitava nella Vatnsdalur Valley, incontra un orso femmina coi suoi due cuccioli presso un lago conosciuto oggi come cubs Húnavatn o Cub-Lake. Cattura gli animali vivi e li porta in regalo al re Haraldr di Norvegia. Haraldr premia Ingimundr con una nave Stìgandi, carica di legname. Sono sporadici i riferimenti precedenti ad avvistamenti di orsi polari, ma sono molte le storie narrate ed i luoghi indicati. I resti rinvenuti del più vecchio orso polare data circa 13 000 anni fa (Jóhannes Áskelsson 1938), a dimostrazione che gli orsi polari sono arrivati in Islanda molto prima di essere insediata dall'uomo. Gli annali sono la principale risorsa dei dati storici sulle osservazioni dell'orso polare da cui si evince che mentre sono sporadici gli avvistamenti degli orsi polari nel Medio Evo, diventano più o meno continui dal 18esimo secolo ad oggi, particolarmente dopo l'avvento dei giornali nel 19esimo secolo. Þórir Haraldsson di Akureyri e Einar Vilhjálmsson di Seyðisfjörður hanno numerato gli orsi polari arrivati in Islanda.
     

 

        Come si può vedere, la frequenza degli arrivi degli orsi polari tocca il suo picco massimo durante la seconda metà del 19esimo secolo. Le fluttuazioni annuali sono considerevoli. Si riportano i dati relativi a segni lasciati da orsi arrivati in Islanda: nel 1274 sono 22; nel 1275 sono 27; nel 1621 sono 25; nel 1745 sono 39; nel 1881 sono 73; nel 1918 sono 30; nessun avvistamento in altri anni. La maggior parte dei riferimenti documentati relativi agli orsi polari risale al 19esimo secolo, ma bisogna tenere a mente che mancano dati relativi ai secoli precedenti. A questi si aggiunge l'ultimo avvistamento fatto da me il 3 novembre 2013, al tramonto, presso la laguna glaciale di Jokulsarlon, la laguna del fiume Giallo, che si trova a Sud Est dell'Islanda. Una laguna di profonde acque gelide in cui galleggiano numerosi iceberg dai riflessi azzurri, alcuni dei quali striati da nera sabbia lavica e alte grida di gabbiani, sterne e procellarie. Sembra di stare al polo, invece siamo a Jokulsarlon, lungo la Ring Road, una delle lagune che si trovano ai piedi della calotta glaciale islandese, il Vatnajokull.
   La banchisa è il fattore che influenza maggiormente l'arrivo degli orsi polari in Islanda. Gli avvistamenti degli orsi polari su terra islandese deve essere effettuata tenendo conto della sua distribuzione intorno all'Islanda dai fiordi ad Ovest e lungo la costa a Nord e ad Est fino all'estremo Sudest del Paese. La banchisa si dirige prima verso i fiordi ad Occidente dell'Islanda, poi si disperde verso Est lungo la costa settentrionale. È sorprendente dunque che la maggior parte degli avvistamenti degli orsi polari non avvenga nei fiordi occidentali ma piuttosto a settentrione del Paese: a Skagafjarðarsýsla District ne sono stati avvistati 20; a Eyjafjarðarsýsla District 17; a S-Þingeyjarsýsla District 26 ed a N-Þingeyjarsýsla District 54. Sembra che molti di questi orsi arrivino galleggiando sulla banchisa diretta verso Sud dall'isola Jan Mayen verso la costa Nord-Est dell'Islanda.

         Racconti o leggende sugli orsi bianchi? Sono molte le storie narrate su quelli che arrivano in Islanda. Molti racconti hanno tono folkloristico ed è difficile distinguere tra mito e realtà. Alcune storie sono chiaramente assurde come la storia dell'orso sull'isola di Grímsey che sbattè con così tanta forza la sua zampa sul ghiaccio da far sgorgare una sorgente abbondante d'acqua o quella di un orso che inseguì un uomo sul Lágheiði Moor ma non lo attaccò per una lama elfica che aveva con sé. Quando l'uomo la dette via, l'orso lo attaccò e lo uccise. 

          Una storia simile viene raccontata del villaggio di Kelduhverfi. In 4 o 5 casi sembra che l'orso abbia ucciso delle persone, probabilmente 20. E' famoso anche il racconto di un orso polare che apparve sulla porta del fabbro Jóhann Bessason's Smithy nell'inverno del 1881. La legge sulla caccia agli orsi del 1849 - che permette alle persone di cacciare ed uccidere orsi ovunque si trovino - è rimasta in vigore fino al 1994, sostituita dalla corrente legislazione che protegge gli orsi polari ad eccezione di casi in cui siano pericolosi per la salvezza degli esseri umani e del bestiame sul territorio islandese.
       La legislazione islandese resta piuttosto vaga sull'argomento sebbene sia chiaro che non si può uccidere un orso polare in acqua, se sta nuotando o galleggiando sulla banchisa. L'uccisione di tre orsi polari tra il 2008 ed il 2010 ha destato l'interesse dei mass-media islandesi e stranieri, divenendo la protezione dell'orso polare ed i possibili effetti dei cambiamenti climatici globali, oggetto di dibattito internazionale. D'altra parte, gli orsi polari non possono prosperare in Islanda a causa dell'assenza di ghiacciai eterni ed insufficiente rifornimento di cibo. Nel 2008 gli orsi polari sono arrivati in estate piuttosto che in inverno e gli Islandesi hanno pensato ad un cambiamento climatico in atto. Mentre la frequenza degli arrivi degli orsi polari in Islanda nell'arco degli ultimi 50 anni è la medesima, tra il 1901 ed il 1950 fu pari al doppio, mentre tra il 1851ed il 1900 gli orsi arrivavano due o tre volte l'anno ma il numero resta il medesimo negli ultimi tre secoli, una media di 1o 2 animali l'anno. Dopo gli incidenti avvenuti nel 2008, una Commissione ha fatto delle raccomandazioni da seguire in caso di approdo di orso polare sulla spiaggia islandese. La Commissione è giunta alla conclusione che è meglio uccidere questi animali, basandosi sulle seguenti motivazioni: la salvezza degli esseri umani e del bestiame, la larga popolazione di orsi polari nell'area da cui provengono (NE-Greenland) e l'alto costo del trasporto degli animali nel loro habitat naturale. Si potrebbe aggiungere un quarto fattore come elemento discriminante: le condizioni di salute degli orsi al loro arrivo. E chiedersi se non sarebbe il caso che le autorità locali non assestassero le loro condizioni di salute prima di decidere di abbatterli. Le associazioni per la conservazione e la protezione della vita animale protendono per riportare gli animali nel loro habitat naturale e l'Islanda potrebbe almeno tentare di aiutare a proteggere queste specie in via di estinzione.

 Emanuela Scarponi

 

 

 

 

16-03-2020


                                                                                                                                              Gli Etruschi ed il mare
                                                                                                                Una grande mostra con reperti inediti alla Centrale Montemartini di Roma
                                                                                                                 “Egizi-Etruschi. Da Eugene Berman allo Scarabeo dorato”

        La grandiosità della civiltà egizia si fa leggenda, di racconto in racconto dei marinai che attraversano il Mediterraneo, nell'arco del tempo. Le leggende ed i racconti delle piramidi egizie, delle credenze religiose, delle tradizionali metodologie di mummificazione dei loro defunti fanno il giro del mondo e finiscono per influenzare anche inconsapevolmente la storia e le tradizioni dei popoli del Mediterraneo, culla delle antiche civiltà umane, e forse non solo, oltrepassando lo spazio ed il tempo. Le storie dell'antico Egitto raggiungono anche l'Etruria, che seppure civiltà più tarda nei secoli, conserva elementi propri della civiltà egiziana.
Fenici, Greci e Cartaginesi scambiano prodotti attraverso il Mar Mediterraneo e portano con sé anche tradizioni dei popoli incontrati, raggiungendo l'Etruria, le origini della cui popolazione restano ancora ignote e rappresentano ancora oggi un mistero per gli studiosi.
L'Etruria si estende nelle odierne Regioni italiane della Toscana e del Nord del Lazio. E degli Etruschi restano intatte le città funerarie, con le famose tombe ancora intatte.
Ogni qualvolta ci si accinge ad osservare le tombe etrusche che gli agricoltori di tanto in tanto scoprono arando il terreno, non si può fare a meno di pensare all'antica civiltà egizia. Lo stesso dicasi per le piramidi maya, anch'esse tarde rispetto all'antico Egitto, e con funzioni diverse dalla sepoltura, ad eccezione della meravigliosa piramide di Palenque e del suo re, su cui tante leggende si narrano. Le somiglianze sono tali da ispirare inconsapevolmente la nostra immaginazione...
Gli Etruschi furono sicuramente un popolo di marinai. Tito Livio scrisse in proposito: “La potenza degli Etruschi era così grande, che la fama del nome loro empiva non solo la terra, ma anche il mare in tutta l’estensione dell’Italia, dalle Alpi allo stretto di Messina”. Testimonianze tipiche della civiltà etrusca, come vasi di bucchero e bronzi lavorati, sono venute alla luce in Sardegna, nella Francia meridionale, in Spagna, in Grecia, in Africa settentrionale, in Asia Minore e Cipro e ciò attesta l'esistenza di una importantissima marina mercantile etrusca che rivaleggiava per il dominio del mare con Greci, Cartaginesi e Fenici.
Lo scambio sui mari con tutti questi popoli trasformò lo stile di vita ed aiutò lo sviluppo della società e dell'economia etrusca. Riporto il titolo di una pubblicazione individuata molto interessante a tale riguardo:"Manufatti etruschi e italici nell'Africa settentrionale (IX-II sec. a.c), in «Corollari. Scritti di antichità etrusche e italiche in omaggio all'opera di Giovanni Colonna», a cura di D.F. Maras, Pisa-Roma 2011, ". Ulteriori scoperte recenti arricchiscono la nostra conoscenza della storia passata che ci aiuta a ricomporre il puzzle della esistenza, di cui ancora oggi conosciamo solo alcuni frammenti. Nel 2016 le scoperte di Vulci ci riportano indietro nel tempo nel ripercorrere il tragitto inverso: elementi egizi vengono rinvenuti nelle tombe etrusche. Ne scaturisce una interessantissima mostra: Egizi ed Etruschi, una grande mostra con reperti inediti che ha avuto luogo presso la Centrale Montemartini di Roma.
Tra i più significativi ritrovamenti ci sono: la testa di leone in basalto, il leone in nenfro nella necropoli della Osteria; l'amuleto del Dio Nefertum in faience nella Tomba Castellani, lo Scarabeo dorato di Vulci. La presenza di amuleti egizi, rinvenuti in contesti tombali nelle recentissime campagne di scavo a Vulci, importante centro dell’Etruria meridionale, offre lo spunto per un confronto tra gli abitanti della Valle del Nilo e gli Etruschi, accomunati nella fantasia popolare dallo stesso alone di mistero. La civiltà etrusca, infatti, era aperta agli scambi commerciali e culturali con gli altri popoli che si affacciavano sul Mediterraneo e ne eredita l'essenza, facendole una sua forma d'arte. Lo scarabeo infatti è uno dei simboli più comuni nel mondo egizio, che ricorda l’aspetto del sole al mattino: Khepri, derivante dal verbo kheper, rinascere: è quindi essenzialmente un simbolo di resurrezione e non poteva mancare sulle mummie, posto in corrispondenza del cuore.
L'effettiva decadenza degli Etruschi iniziò nel 474 a.c. sul mare, quando i Greci d'Italia guidati dalla città di Siracusa gli inflissero presso Cuma una sconfitta decisiva, e subito dopo essi persero il controllo del Mar Tirreno. Con la perdita dell'indipendenza politica si concludeva il ciclo di un antico popolo che per secoli aveva primeggiato, per cultura e per ricchezza, nel bacino del Mediterraneo occidentale.

Emanuela Scarponi

 

 

 

 

 


 30-03-2020

 

                                                                                                                                       Grandi esploratori: Lady Florence Dixie


      Lady Florence Dixie era nata nel 1855 e passò la sua infanzia nel castello in Scozia insieme alla sua famiglia.
Sin da giovinetta conduceva una vita spensierata improntata sul permissivismo ed era incoraggiata dal padre in ogni suo movimento.
Le piaceva andare a cavallo, partecipare alle battute di caccia, praticava molti sport: il nuoto, la vela, il tiro con l’arco; amava vestirsi come voleva e vivere in grande libertà, sempre in simbiosi con il fratello gemello James. Questo suo meraviglioso modo di vivere terminò quando sua madre si convertì al Cattolicesimo. Le venne affiancato prima un precettore gesuita e, dopo un periodo in collegio, una governante non molto aggraziata. Allora si dedicò alla letteratura, scrisse racconti ma dopo l’allontanamento del suo gemello e la morte di un altro fratello, tre anni dopo si sposò con Lord Dixie.
Il matrimonio la salvò dal controllo materno e ripensò a quel viaggio tanto agognato nel ritrovare quello Yeti, a cui aveva per anni pensato.
      Lady Florence Dixie aveva letto appunti vari e libri su quello che poi sarebbe diventato “l’abominevole uomo delle nevi“, desiderava ardentemente avere notizie, conoscere questo essere di cui tutti parlavano e che nel primo suo viaggio nelle Ande non era stato possibile trovare.
Lesse i racconti di un altro esploratore, suo connazionale, C.G.Musters, che diceva di aver sentito parlare di un certo Yeti andino chiamato “el trauco“. È una specie di satiro peloso di bassa statura, con in mano un' ascia di pietra e un bastone. Musters così come Darwin non avevano né visto, né creduto a quest’uomo selvatico che secondo i montanari di tutto il mondo viveva nelle alte cime della Ande.
      Si sentiva anche parlare di un “Eldorado”, una mitica città perduta tra quelle cime, ricca di tesori.
La giovane Lady Florence non andava alla ricerca dell’oro, era molto benestante di suo; il suo era un viaggio avventuroso, basato sulla caccia, in linea con il gusto dell’esotico che avevano tanti altri inglesi dell’epoca. Oltre al marito, lady Florence partì con due dei suoi fratelli con la scommessa di trovare lo Yeti e la felicità di poter cacciare e cavalcare tra la pampa.
In quella spedizione volle portare con sé la stessa guida che aveva accompagnato Musters. Si avventurarono per lungo e per largo lungo le Ande occidentali, ma senza alcuna novità. Conobbe ed interrogò genti di razze diverse e di usanze molto lontane dalle sue, come il mangiare carne cruda.
      Capì che gli incroci tra le popolazioni potevano portare solo al peggioramento delle etnie originarie. Cercò di paragonare il mondo andino alle tribù del Nord America, vedeva tra loro molte affinità come l’abitudine di comunicare con segnali di fumo, colorarsi il corpo, credere negli sciamani e negli uomini della medicina. Dopo vari giri in queste zone dovette ricredersi, chiese anche il parere al grande Darwin, che risultò del tutto negativo e pensò allora di trascrivere questi suoi e altrui racconti in due romanzi. In uno di essi lo Yeti delle Ande diventa una specie di King kong, selvaggio ma gentile, che si prende cura di una giovane esploratrice come lei.
Ormai delusa dalle sue ricerche negative in tal senso, torna in Gran Bretagna e , subito dopo, si professa animalista e vegetariana, contraria del tutto alla caccia e alla vivisezione e purtroppo termina di scrivere, colpita da diverse malattie.
Emanuela Scarponi

06-03-2020

                                                                          Le Aurore boreali
                                                                      Le fantastiche luci del Nord

       L’aurora boreale è il fenomeno naturale più spettacolare e bello dei cieli nordici. Nella mitologia romana classica Aurora è la dea dell'alba, mentre boreale è la traduzione latina di Nord.
Nell’emisfero Sud si chiama aurora australe, anche se raramente le aurore possono essere avvistate a latitudine molto bassa, perfino dall’equatore. Per comprendere le aurore dal punto di vista scientifico dobbiamo far riferimento al sole, all’interno del quale una fusione nucleare continuerà a bruciare per almeno altri 4.000 miliardi di anni. Il sole costantemente espelle milioni di tonnellate di particelle cariche di energia che percorrono lo spazio sotto forma di vento solare. Qualche volta, comunque il sole espelle sotto forma di una massiccia eruzione milioni di particelle. Alla velocità di 300/2000 km per secondi, le particelle impiegano da 2 a 4 giorni (viaggiando ad una velocità di 93 milioni di miglia) per raggiungere il pianeta Terra. Le particelle penetrano il campo magnetico della Terra e raggiungono la ionosfera, seguendo le linee dei campi magnetici intorno ai poli. Ad un'altitudine pari a 600/400 miglia le particelle colpiscono il gas presente nella ionosfera assumendo il colore del rosso e trasformandosi in quella che noi conosciamo come aurora boreale.
       Le luci nordiche come suggerisce il nome sono per la maggior parte limitate alle regioni polari e sono molto frequenti nel raggio di 2500 km dal Polo geomagnetico.  Questa zona, conosciuta come zona aurorale, si estende nel Nord della Scandinavia, Islanda, Groenlandia fino al Nord del Canada, dell'Alaska e lungo la costa della Siberia. Nell’emisfero Nord il miglior periodo dell’anno per avvistare l’aurora va da settembre a marzo. Comunque in estate non è possibile vedere l’aurora a causa delle lunghe ore della luce del giorno. Il colore delle aurore corrisponde ai differenti tipi di gas nella ionosfera. Gli atomi di ossigeno producono la luce rossa o verde, in relazione alla latitudine che si trova nella ionosfera. Invece la molecola di azoto produce la luce di colore blu o violetto ma il colore più comune è il verde. Durante una moderata o larga attività dell’aurora che può durare fino a tre ore, la quantità di energia rilasciata è più o meno l’equivalente di una piccola esplosione nucleare. Normalmente la durata di un'aurora è di pochi minuti e si ripete per parecchie volte durante la notte. L’attività più intensa delle aurore si ha durante le ore intorno alla mezzanotte e questo accade quando la parte larga dell’ovale aurorale passa sopra l’osservatore. L’inquinamento ed in particolare le luci di città possono drammaticamente ridurne la visibilità. Per questo bisogna osservare i cieli in campagna.
        Attraverso i secoli ci sono state molte testimonianze di persone che narrano di aver udito l’aurora ma fino ad ora i tentativi di registrazione di eventuali suoni sono falliti per cui la maggior parte degli scienziati sono scettici. Dall’antichità l’aurora boreale ha affascinato l’umanità ed il fenomeno ha caratterizzato in forma notevole la mitologia e il folklore di coloro che vivono alle latitudini nordiche. Le luci del Nord sono state descritte e spiegate magicamente dal popolo Inuit del Nord del Canada e della Groenlandia da varie tribù americane, esploratrici del mondo, e sono state menzionate nell’Antico Testamento. Grandi uomini come Aristotele, Galileo, Descartes, Edmond Halley, Goethe e Benjamin Franklin sono stati affascinati da questo fenomeno notturno del cielo e hanno scritto dei saggi su questo fenomeno. Alcune culture danno il benvenuto a questa luce celeste come augurio di buona fortuna, altri come messaggero di morte imminente. Nel folklore scandinavo questa luce viene spiegata come riflesso dei raggi di sole in un immenso branco di aringhe nel Mare del Nord. Per coloro che si trovano nel Mar Nero invece questa luce è sinonimo di grande presagio per una prosperosa pesca. Nella tradizione agricola svedese l’aurora viene descritta come l’aumento della fertilità della terra. La storia narra che le luci del Nord brillano quando vi sarà abbondanza di semi e promette una ricca mietitura. Nel continente americano gli eschimesi Copper del Nord del Canada pensavano che le aurore fossero gli spiriti responsabili per il tempo buono e per una caccia abbondante; per questo prestavano molto attenzione a non offendere mai le luci celestiali.
        In Cina ed in Giappone le luci del Nord sono state attribuite alla fertilità essendo considerata come predizione per una futura nascita. L’aurora boreale potrebbe essere di aiuto alla donna a partorire. Oggigiorno i giapponesi in viaggio di nozze vanno verso il Nord del Canada con la convinzione che i bambini concepiti con la luce del Nord prospereranno e saranno benedetti dalla buona fortuna. L’aurora è conosciuta per essere fonte d'ispirazione spirituale. In Russia si narra di un monaco che una volta ha udito una voce dal cielo che gli sussurrava di trovare il suo convento. Dalla sua finestra osservò la grande aurora nel cielo del Nord indicando la posizione dove lo avrebbe dovuto costruire. Attraverso i secoli questo monastero ha prodotto grande influenza positiva e grande ricchezza.
         Gli Inuit, popolo dell’artico canadese credevano nel potere curativo delle aurore, e gli sciamani compivano viaggi spirituali attraverso l’aurora per trovare risposte su come curare le persone malate. Tuttavia in molte culture l’aurora boreale è stata associata a situazioni minacciose e terribili. Nell’antica mitologia norvegese i raggi dell’aurora erano percepiti come il riflesso degli scudi della Valchiria quando cavalcava per il cielo portando i guerrieri morti in battaglia nel loro eroico luogo di riposo nel Valhalla.
         A volte, quando l’aurora è grande e si estende ad una latitudine più meridionale, diventa di colore rosso scuro. Nel passato gli abitanti che sono più a Sud d’Europa associavano questo fenomeno con il sangue e la battaglia, vedendolo come presagio di disastro. Prima dell’inizio della Rivoluzione francese gli abitanti di Scozia ed Inghilterra hanno testimoniato di aver udito il suono di una battaglia e di aver visto immagini di grandi eserciti in lotta tra di loro nel cielo.  Il 25 gennaio 1938 sono state registrate eguali drammatiche immagini quando l’Europa stava precipitando nell’altra Guerra mondiale. I Lapis nel Nord della Svezia nascondevano le loro donne dai raggi forti dell’aurora. Per tenere lontani le luci e ridurre il male della forza soprannaturale essi cantavano, nascondendosi nelle loro case, o quando erano all'esterno,  si coprivano per tenersi lontano dalla luce stessa. Come in Giappone così in Alaska il popolo Inuit temeva l’aurora e portava con sé un coltello affilato per sfidare la luce nascondendo il suo bambino per proteggerlo dal suo terribile potere ed invocava protezione, lanciando escrementi ed urine di cani contro l’aurora.
         Il popolo Inuit crede inoltre che gli spiriti tentano di comunicare con i vivi sulla Terra, con il fischio che qualche volta accompagna l’aurora, e a cui dovrebbe corrispondere un sussurro degli uomini. La maggior parte degli aborigeni del Nord sono d’accordo che esaltare e cantare all’aurora sia molto pericoloso e farlo servirà solo a provocare gli spiriti giacché questi lo vedranno come una burla. Gli spiriti adirati potranno scendere sulla Terra dove potranno accecare, paralizzare, decapitare o anche sequestrare i mortali che hanno osato insultarli, e per farli  scomparire è necessario un battito di mani.
         Secondo una credenza popolare della tradizione Inuit, le luci nordiche sono le anime dei morti che giocano sorridenti vigorosamente una partita di calcio, usando il teschio di un tricheco come pallone lanciandolo in modo che le sue zanne si infilano sulla terra ferma. Alcune culture credono invece che il tricheco vivo tenti di incornare i giocatori. In Islanda invece si pensava che se una donna incinta guardava le luci del Nord il suo bambino sarebbe nato strabico. In Groenlandia alcuni Eschimesi pensavano che le luci del Nord fossero lo spirito dei bambini nati morti o assassinati e che l’umore dell'anima di questo spirito si potesse vedere attraverso la formazione ed il movimento dell’aurora. Quando erano felici la luce danzava nel cielo ma quando erano tristi la luce rimaneva fissa; quando offesi, la luce precipitava sulla terra per prevenire la salita delle anime dei nuovi morti. Anche nell’età moderna una teoria molto particolare concerne la causa delle aurore: per esempio, le persone che vivono nel Nord America credono che le luci del Nord siano il riflesso del sole sul ghiaccio polare del Nord, malgrado l’oscurità perpetua dei mesi invernali della latitudine artica. Altra ipotesi è che la luce dell’aurora risulta provenire dai massi di ghiaccio galleggiante che si scontrano nel mare polare. Guardare il cielo in una notte chiara e fredda e vedere questi giganteschi strati di luci che serpeggiano e si intrecciano, danzando e correndo graziosamente attraverso il cielo nordico, ispira magia. Il poeta norvegese Knut Hamsun nel suo poema descrive il fenomeno dell’aurora come una festa celestiale. Per poter comprendere e apprezzare le luci del Nord dobbiamo prendere in considerazione la fisica delle particelle elementari, la mitologia, folklore e superstizione.
        Attraverso i secoli le aurore hanno affascinato l’uomo con meraviglia e paura. Essi hanno sfidato il lato scientifico ed artistico mentre la conoscenza scientifica del XXI secolo ha dato la precisa e fredda spiegazione di questo spettacolare fenomeno. Non dobbiamo mai cessare di meravigliarci di fronte all'affascinate storia del passato, apprezzare la bellezza naturale, la magia dell’aurora boreale e il mistero che l’esperienza cosmica ci offre.
Emanuela Scarponi

 



 26-03-2020


                                                                                                                                                              The wall paintings in southern Africa
         Spread throughout the caves and beneath the shelters of the ‘kopjes’ in most of the southern part of Africa were done by the ancient Khoisan.  The style is similar to that of the prehistoric cave paintings of Africa and Europe, from Tanzania to the Sahara, from the north of Africa to Spain and France. The obvious analogy in form and style is not considered evidence enough to demonstrate an ethnic connection or even a cultural one between them. Today the Khoisan no longer produce paintings of this kind.
There are, however, reports that testify to the production of these paintings during the last century (ELA maybe you should change this to ‘during the 19th century’ the original must have been written pre 2000). The incisions seem to be older. In general they portray animals: gazelles, antelopes, elephants, ostriches. In the Sahara the wildlife painted enabled the paintings to be dated, this isn’t always possible in the south of Africa where the same animals live today.
The stratigraphy of the colours shows that the monochrome paintings precede the two-colour paintings, which precede the polychrome works. The refined reality of the animals can be, at times, surprising.The hunters are depicted either alone or in groups, there are social gatherings and ceremonies with men sitting in a circle.
The human figures are thread-like, but capture the agility of their movements.  It is often possible to recognize the ethnic origin of the figures: the Khoisan are short, yellow, red and brown in colour;  the Bantu are tall and black; the Europeans wear clothes and are armed with rifles.
The pre-Bantu period dates back to before the 1600’s; the European figures date back to the 18th and 19th centuries.
          We don’t need to hypothesize about amazing historical and cultural references when interpreting these representations.
For example, the ‘Sumerian clothes’ of some paintings are not Sumerian at all, but show the way that the inhabitants of the mountains of Lesotho dressed.
In the same way, the unusual figure in the gorge of Tsibab in Namibia, called ‘ The white woman of Brandberg’, is, without doubt, an African man covered in white decorations and beads according to the tradition of many African peoples.
           The explanation that the paintings had a motivation of magic seems plausible, but we must also recognize their style, apart from technical ability, the aesthetic sense of people used to being in touch with nature and with a high degree of social participation.
The settling of the Bantu into southern Africa is relatively recent. It dates back to the first centuries AD.However, the migratory movements, with the formation of new ethnic groups, still had not ended in the 19th century. During continuing studies, many archaeological remains have come to light regarding the most ancient movements, the most impressive and well-known are those in Zimbabwe.
The Bantu, however, pushed on further,  expanding their territories to the southern extremities of Africa mixing with the Khoisan, who , finding themselves in a clear minority, moved northwards.
Emanuela Scarponi


(Le pitture rupestri sparse in tutte le grotte e tra le rocce nella maggior parte dell'Africa australe sono prodotte dagli antichi San. Lo stile è simile a quello delle pitture rupestri preistoriche del resto dell'Africa e dell'Europa, dalla Tanzania al Sahara, dal Nord Africa alla Spagna e Francia. La ovvia analogia nella forma e nello stile non è considerata abbastanza evidente per dimostrare una connessione etnica o persino culturale tra loro. Oggi i Khoisan non producono più pitture di questo tipo.
Vi sono comunque resoconti che testimoniano la produzione di questi dipinti durante l'ultimo secolo. Le incisioni sembrano più antiche. In generale essi riproducono animali: gazzelle, antilopi, elefanti, struzzi. Nel Sahara gli animali selvaggi dipinti permisero di datare le pitture. Ma questo non è sempre possibile nell'Africa australe, dove gli animali sono sempre i medesimi. La stratigrafia del colore mostra che i dipinti monocromi precedono quelli bicromi, e policromi. L'esatta riproduzione degli animali può essere a volte sorprendente così pure le figure umane. I cacciatori sono dipinti o soli o in gruppo, ma catturano l'agilità dei movimenti. Spesso si riconosce l'origine etnica delle figure: i Khoisan sono piccoli, riprodotti con il giallo, rosso e marrone, i Bantu sono alti e neri; gli Europei indossano vestiti e sono armati.
Il periodo pre-Bantu risale ad un periodo anteriore al 1600; le figure europee risalgono ai secoli XVIII e XIX. Non abbiamo bisogno di ipotizzare alcunché circa i riferimenti culturali, storici, quando si interpretano queste rappresentazioni. Per esempio, gli abiti sumeri di alcuni dipinti non sono affatto sumeri ma mostrano il modo in cui gli abitanti delle montagne del Lesotho si vestono. Allo stesso modo, la figura inusuale nella Gole di Tsinab in Namibia, chiamata "La dama bianca di Brandberg", è senza alcun dubbio un uomo africano ricoperto di decorazioni bianche secondo la tradizione di molti popoli africani. La spiegazione per cui i dipinti avessero una motivazione magica sembra plausibile, ma dobbiamo riconoscere lo stile, al di là della abilità tecnica, ed il senso estetico utilizzato dai Khoisan che evidenzia il contatto con la natura e con un alto grado di partecipazione sociale.
La stabilizzazione dei Bantu in Africa australe è abbastanza recente. Risale ai primi secoli prima di Cristo. Comunque i movimenti migratori, con la formazione di nuovi gruppi etnici, non era ancora finita nel 19esimo secolo.
Durante i continui studi, molti resti archeologici sono venuti alla luce in relazione ai più antichi movimenti, i più impressionanti e più conosciuti dei quali sono quelli nello Zimbabwe. I Bantu, comunque, si spinsero in avanti, espandendo i lori territori alle estremità Sud dell'Africa mescolandosi con i Khoisan che, trovandosi in minoranza, andarono verso Nord).


 27-02-2020

 

                                                                                                                                     La marimba, trait d'union tra passato e presente
          In tutti i continenti l'incontro-scontro di civiltà diverse (nel caso specifico occidentali ed africane) ha visto il fiorire di forme di arte e di cultura incredibilmente ricche di elementi variegati ed assolutamente originali. Personalmente mi sono imbattuta nella moderna civiltà degli Indios del Messico, dove la religione cristiana si è sovrapposta alla religione animista (completamente avvolta in elementi naturalistici) degli antichi Maya ripercorrendone abitudini, costumi e credenze, ed introducendo i Santi che hanno preso il posto delle divinità Maya. I ritmi, i princìpi e le tradizioni delle etnie africane fanno da sfondo alla cultura africana moderna, che rivisita le antiche tradizioni animiste autoctone e cristiane assieme. Inconfondibili ritmi africani si mescolano quindi ad una più moderna concezione della musica e della vita africana moderna: un mescolamento che spesso si ritrova negli artisti moderni: musicisti, cantanti e danzatori che ancora sfuggono all'occhio dello studioso europeo. Sotto ai nostri occhi ecco l'incontro tra culture, canti religiosi antichi, propri della tradizione africana, e canti religiosi della moderna cristianità introdotta nel continente dai coloni. È la nuova cultura, quella auspicata da Wole Soyinka che tanto l'ha predicata ed inculcata, e da Nelson Mandela, poi incarnata in cantanti di rango internazionale come Miriam Makeba. Essa si impone come alternativa all'ormai sorpassato movimento della Negritudine di Leopold Sedar Senghor ed Aime Césaire, e soprattutto per gli eventi storici che si sono mano a mano susseguiti fino agli ultimi e recenti accadimenti dei Paesi nordafricani. Ebbene, lo sforzo dell'Africanista è pertanto oggi quello di individuare e cogliere la trasformazione della transizione del linguaggio musicale, nei suoi ritmi, propri della cultura africana contrassegnata dai suoi costanti e crescenti, tamburellanti e sempre più incalzanti e coinvolgenti ritmi in Africa, in particolare sempre strettamente connessi alla danza, che in questo continente assume ancora caratteri rituali ed al contempo di intrattenimento. Famosa è la danza rituale con i suoi ritmi, primi lenti e poi sempre più veloci, tesa al raggiungimento dello stato di incoscienza dell'individuo, che cade quindi in trance ed entra in contatto, secondo la religione animista, con Dio: questo è un fenomeno ancora oggi studiato con grande interesse dagli esperti di Storia delle religioni africane. La marimba, strumento di origine africana, è stata introdotta nell’America centrale dagli schiavi negri e più tardi si diffuse anche negli Stati Uniti e in Europa nell’ambito del jazz e della musica leggera. Il termine “marimba” deriva dal plurale di libimba che, in lingua bantu, indica uno xilofono fatto con tavolette di legno provviste di risonatori.
         Sull’origine della marimba ci sono opinioni contrastanti. P. R. Kirby dà per certa l’origine africana della marimba, mentre altri studiosi sostengono che essa è il risultato dell’involuzione di strumenti più perfezionati di origine orientale. Ma il modello africano possiede caratteristiche che non si riscontrano in quelli dell’Asia orientale. Al Nord del Deserto del Sahara, la marimba è sconosciuta, probabilmente non solo per la mancanza di legno, ma anche per ragioni storiche e culturali. Nel Sud Africa lo strumento più elaborato è lo xilofono con risonatori, chiamato mbila o ambira. In Angola viene tuttora chiamato marimba, mentre nel Congo è noto come pende, e nell’Africa occidentale come balafon. La marimba è stata introdotta in Europa nel XVI secolo e contemporaneamente in Ecuador e nelle Antille, da dove si è diffusa nell’America Centrale e del Sud. Attualmente si può trovare anche in Messico (con il nome locale di zapotecano), in Perù, in Colombia, in Honduras, nel San Salvador ed a Portorico.
           Si ritiene che la marimba a tastiera orizzontale sia stata inventata dagli Indiani Tecomates dello Stato del Chiapas in Messico. Tuttavia, il nome dello strumento fu importato dai Paesi africani perché, già nei primi anni del 1500, il commercio degli schiavi negri avveniva principalmente tra il Senegal, il Camerun e l’America del Sud. Nel Chiapas questo strumento, che talvolta ha un’estensione di 6/7 ottave, può essere suonato contemporaneamente da 7/8 esecutori. Lo strumento attraverso i secoli ha subìto delle considerevoli trasformazioni: in origine era costituito da tavolette di diversa lunghezza ed intonazione, appoggiate su telai a cornice e munite al di sotto di zucche vuote con funzione di risonatori. Nell’America Centrale erano utilizzati come risonatori canne di bambù o tubi di legno chiusi inferiormente. Nelle tradizioni popolari di tutti i Paesi e popolazioni del mondo la danza, così come il canto, rappresentano un momento importante di socializzazione e di celebrazione. Danza e canto, a loro volta, sono intimamente legati all'uso degli strumenti musicali. In Africa, fin dai tempi più remoti, la danza, insieme alle altre espressioni di musicalità dei popoli africani, ha avuto molte funzioni: da quella di accompagnare cerimonie religiose a quella di festeggiare particolari avvenimenti (matrimoni, nascite, cerimonie di iniziazione, feste per il raccolto, conflitti eccetera) ed è stata praticata anche nei villaggi più sperduti e nascosti delle immense foreste o degli altipiani.
           Attualmente vi sono molti complessi africani che trasferiscono anche sui palcoscenici di città di tutto il mondo le proprie esperienze musicali, anche se la tradizione continua, inalterata e genuina, in tutti i Paesi del grande continente africano. La "danza" si sviluppa con una continua articolazione delle 4 bacchette, presentando un ottimo esempio di colpi doppi laterali alternati e di colpi. La sezione successiva invece è costituita da una fuga dove mano destra e sinistra si sovrappongono indipendentemente, presentando soggetto e contro soggetto. Dopo un periodo “molto mosso” in cui la marimba si muove imitando la tecnica a due bacchette dello xilofono, questo tempo si conclude con una ripresa del tema iniziale di danza. Il quarto tempo si intitola “despedida” cioè conclusione. Il tema è proposto dalla mano destra, che si muove spesso con due note in ottava, e si appoggia sulla ritmica costante, tenuta dalla mano sinistra. Il centro di questo tempo è la cadenza: vengono ripresi frammenti di tutto il concerto, ognuno con il proprio particolare aspetto tecnico. Il tempo si conclude con la ripresa del tema iniziale e con note ribattute molto veloci. In conclusione, la marimba nell'Africa australe si pone come trait-d'union tra passato e presente e risulta adatta a riprodurre testi tradizionali animisti e dell'attuale moderna società africana.
Emanuela Scarponi